La mediazione culturale: acrobazie relazionali tra controllo e inclusione sociale

Alessia Fiorillo

Dipartimento di Scienze Politiche, Università degli Studi di Perugia


Abstract

The main question of this essay concerns the role of cultural mediation in hosting practices for migrants. The analysis of mediators’ interviews aims to underline the State approach to management of international flows of people. Despite the institutional preference for control practices, the study of the host system for refugees and asylum seekers shows the key role of third sector and civil society in promoting inclusion projects: building cultural ties is actually desire, project, stubborn determination of social workers and researchers.

Keywords : cultural mediation; hospitality system of migrants; inequalities; third sector; welfare



In alto nella libreria, nascosto tra i manuali di antropologia e i testi destinati alla didattica, si annida L’identità  di Amin Maloouf [1996]. È un regalo, ricevuto negli anni a cavallo tra la formazione universitaria e l’accesso al mondo del lavoro. Le poche parole racchiuse nella dedica, esortano alla leggerezza: «Farsi sempre l’esame d’identità ci serve a non diventare struttura, soprattutto quando si lavora». Nell’Istituto di Antropologia dell’Università di Perugia diretto da Tullio Seppilli, l’identità era al centro della formazione, in un contesto in cui la battaglia per la professionalizzazione era iniziata nel campo dell’educazione e restava inascoltata. Ci confrontavamo con l’identità armata delle guerre etniche e dei genocidi, studiavamo il conflitto tra Utu e Tutsi, analizzato da Remotti [1998], ma il confine di guerra con cui ci saremmo confrontati nel territorio locale era quello della guerra in Kosovo. Giovani antropologi in formazione, insieme a una équipe mista di giuristi, volontari, educatori e giornalisti, muovevamo i primi passi nel mondo adulto, facendo volontariato con Arcisolidarietà. Il terremoto del 1997, con i suoi campi container e i miti locali sull’immigrazione clandestina, fu un terreno di prova per sviluppare la nostra personalità e trasformarla in persona-lavoro [Gorz 2003].

Mentre la formazione al maschile andava contro l’identità sottolineando l’effetto spaesante e vertiginoso dell’alterità, la formazione al femminile si soffermava sulla natura dialogica e relazionale dell’incontro. La ricerca-azione, condotta nelle scuole primarie insieme all’MCE, si orientava verso l’orizzonte plurale delle diversità [Falteri 1995; CIDIS 1994; Giacalone at.al. 1994; Giacalone, Pala 2005], non più lontane ed esotiche ma reali e presenti nei consultori, negli asili-nido e nei reparti di ostetricia e ginecologia [Giacalone 2006]. La biblioteca di Via dell’Aquilone era al centro dell’Istituto, il grande tavolo quadrato accoglieva gli studenti in attesa e i libri, a scaffale, potevano essere consultati in ogni momento. Il settore dedicato alle prime cure [Falteri 2010; Maher 1992] e ai percorsi educativi nella prima infanzia [Favaro G. et.al 2006;] era particolarmente fornito: gli studi sui processi di medicalizzazione della maternità [Ranisio 1998] erano un’ottima base per parlare con le donne migranti e sollevare domande sulle tecniche del corpo nell’allattamento e nelle prime cure [Favaro, Colombo 1993] e sulla solidarietà femminile [Maher 1993]. L’osservazione nei consultori e nei reparti ospedalieri veniva fatta insieme alle mediatrici (Iris, 02-11-2021, on line; Maryam, 26-11-2022, Perugia)1 e metteva in evidenza la diversità degli stili educativi [La Casa di tutti i colori 2002; Moro 2005]. Si faceva attenzione ai nomi dei bambini, avendo cura di rispettare la fonologia e la grafica d’origine, nella convinzione che il processo di ibridazione non può che partire dal riconoscimento del valore dell’altro [Favaro, Fumagalli 2004].

Sostenuto dagli scambi accademici e dalle ricerche condivise, il dibattito sui processi educativi nelle società complesse [Callari Galli 1993; 1996; Pazzagli, Tarabusi 2009] sfociava negli studi sulle seconde generazioni [Falteri, Giacalone 2011]. La pedagogia interculturale faceva il suo ingresso nelle scuole [Favaro, Luatti 2004] e lo studio della diversità [Callari Galli et.al. 1998] era posto alla base della costruzione delle politiche migratorie. In Umbria e in Emilia Romagna le associazioni e le cooperative erano già attori sociali fondamentali [Guerzoni, Riccio 2009; Riccio 2008; Villano-Riccio 2008]: al confine tra stato e mercato, sperimentavano pratiche di innovazione sociale inattuabili nelle maglie strette della burocrazia socio-sanitaria [Fiorillo 2021].

Gli studi sulle migrazioni erano centrati sulle «comunità nazionali» [Ambrosini 2011]: in linea con la concezione moderna dell’idea di Stato, l’identità linguistica trovava nell’appartenenza territoriale il suo corrispettivo «naturale». I mediatori davano corpo e voce alle «culture altre»: feste, cibo, danze, usanze, credenze e riti diventavano occasione di scambio, materiale e immateriale (Maryam, 26-11-2022, Perugia) [CIDIS 2004]. Il metodo autobiografico di Duccio Demetrio incrociava la pedagogia interculturale [Demetrio, Favaro 1997; 2002] mentre la trasformazione dei modelli di genere e di generazione [Parisi 2008] emergeva con i ricongiungimenti familiari, rivelando il carattere negoziale delle identità ibride (Amina, 01-07-2021, Perugia).

In Umbria, nasceva la Fondazione Angelo Celli e l’impegno delle giovani antropologhe era concentrato sulle medicine tradizionali: gli studi sulle mutilazioni genitali femminili [Pellicciari, Flamini 2020; Bagaglia et.al. 2014] erano alla base di interventi di salute pubblica o di educazione nelle scuole [Marchetti 2022]. L’analisi del lavoro sessuale [Pompili 2007] accompagnava le attività di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, realizzate dalle operatrici volontarie dell’Unità di Strada e destinate a diventare una forma contrasto alla violenza delle reti dello sfruttamento e della tratta [Ciconte 2005].

Qualche anno prima, Piero Coppo, ospite di Tullio Seppilli al teatro Morlacchi, introduceva l’etnopsichiatria francese [Coppo 1998, 2000, 2003, 2007] intervenendo durante una conferenza gremita di studenti, operatori delle cooperative, operatori sanitari e volontari. Tobie Nathan, presentato da Mariella Pandolfi nell’edizione italiana di La follia degli altri [Nathan 1988], identificava i principi dell’etnopsicanalisi [1993]: possessione, oggetti attivi, pratiche di manipolazione del corpo, sistemi di reintegrazione dei pazienti venivano comparati con l’approccio biomedico occidentale [Stenger, Nathan 2004]. Negli stessi anni, Roberto Beneduce, chiamato dal Consorzio Auriga2, reinseriva nell’orizzonte geopolitico internazionale gli interventi con i pazienti stranieri. Il processo di decolonizzazione poneva al centro della riflessione il corpo sofferente dell’immigrato e il sintomo esplodeva come ribellione contro il dominio del colonizzatore [Beneduce 2007]. Franz Fanon, funzionario dell’istituzione psichiatrica coloniale e militante combattente insieme al Fronte di Liberazione Nazionale algerino, era d’ispirazione nella promozione convinta e faticosa di pratiche sperimentali, che faticavano ad essere accettate nell’istituzione psichiatrica pubblica3.

Se la Toscana, la Calabria e il Piemonte sono state la culla dell’etnopsichiatria, a Roma la cura degli altri [Attenasio 2005] era legata a doppio filo con la medicina delle povertà. Migranti, richiedenti asilo e senza fissa dimora accedevano alle strutture della Caritas e venivano curati all’interno dell’Ospedale San Gallicano, oggi INMP4. Salvatore Inglese [2000] guidò la formazione di un gruppo di operatori sociosanitari pubblici. Il Centro Italiano per i Rifugiati (CIR), il centro Astalli e l’UNHCR costituivano una rete operativa con i CSM del Comune di Roma, che rifiutavano sistematicamente di adottare le proposte dell’etnopsichiatria e assumere i mediatori. Altrettanto sistematicamente le giovani antropologhe, oggi protagoniste del processo di professionalizzazione dell’antropologia, ne raccoglievano le sfide, i suggerimenti e i rischi [Castaldo, Segneri 2022].

Nel 2002 usciva l’edizione italiana di La double absence  di Abdelmalek Sayad, un testo fondamentale per gli studi accademici sulle migrazioni. Nel tentativo di mettere in discussione il binomio immigrato-clandestino, frutto infelice del Testo Unico sull’immigrazione (L. 286/1998), il pensiero del sociologo algerino veniva diffuso per riflettere sul legame indissolubile tra immigrazione ed emigrazione. Il cambiamento dei ruoli di genere e la persistenza di orizzonti di senso tradizionali, vissuti in un paese dove l’emigrato non è ancora integrato, mostravano il paradosso della doppia assenza.

Nessuno è padrone del proprio avvenire. Non si è mai visto un avvenire certo in un paese straniero. È come un orologio: gira, gira. Tutto qui. I giorni, i mesi, gli anni… Sei in un paese, trascorri tutta la tua gioventù, ci perdi la salute, quando sei nel vigore [degli anni], lavori, ma non sei a casa tua […]. C’è da diventare pazzi, Alcuni si ammalano, tutti [quanti] noi lo siamo. L’incertezza vale per tutti: non è vivere, tutto quello che incominci a fare, dici che non lo puoi fare, dato che poi, non sai mai cosa può capitare [Sayad 2002, 83-84].

Sayad, attraverso lunghi brani d’intervista, racconta la migrazione algerina come storia esemplare e paradigmatica. Il percorso individuale e collettivo svela l’asimmetria di potere tra paesi ricchi e paesi poveri: la classe contadina algerina, espropriata dei mezzi di produzione, sperimenta per lungo tempo la violenza del rapporto coloniale ma quando si ribella, si scopre inevitabilmente divisa. Il dolore riecheggia nelle storie di famiglia e l’omissione dei soprusi è lo sfondo indicibile che si dipana nell’arco di tre generazioni, in cerca del proprio diritto alla doppia appartenenza come futuro vivibile [Sayad 2002]. La guerra civile rende particolarmente doloroso il processo di decolonizzazione, che riemerge come sintomo nelle vite in transito: prima nei campi di detenzione, poi nelle istituzioni psichiatriche e nelle carceri occidentali [Beneduce 2007].

A partire dal 2010, in Italia, l’effetto perturbante della migrazione, destinata a mettere in discussione la rigidità delle frontiere, induce il Ministero dell’Interno a rafforzare le forme del controllo. Dopo lo scoppio della guerra in Libia, nel giro di cinque anni, il lavoro clinico con i profughi, i rifugiati e i richiedenti asilo esce dai luoghi protetti della clinica e viene demandato a operatori sociali ed educatori, che costruiscono i servizi territoriali consolidando le reti a maglie larghe, tipiche del volontariato. Il regime di frontiera si stabilizza nel territorio nazionale producendo pratiche di «assimilazione prescrittiva» improntate alla «pedagogia morale» dell’intervento umanitario [Vacchiano 2012]. La raccolta delle storie di vita e la produzione della certificazione diventano prassi, ma il riconoscimento dell’etnopsichiatria, certamente tardivo, non è sufficiente a modificare la tendenza dei servizi sociosanitari ad arroccarsi in pratiche burocratiche che impediscono una reale presa in carico. L’emergenza modifica il ruolo conferito alla mediazione culturale, che rimane schiacciata tra il dovere di contribuire alla «verità» [Taliani 2011; Vacchiano 2011] e l’esigenza securitaria delle istituzioni.

La mediazione culturale e le interviste ai mediatori

L’excursus della letteratura scientifica, breve e incompleto, accompagna le vite dei mediatori, mostrando la prossimità tra mediazione culturale, antropologia ed etnopsichiatria. Un dialogo non semplice, condotto nei luoghi della formazione, più raramente negli ambiti di intervento. Dal 2015 l’attivazione della mediazione linguistico-culturale è obbligatoria, ma la promessa di stabilizzazione dei mediatori culturali rimane disattesa (Maryam, 26-11-2022, Perugia). L’attacco ai consultori riduce progressivamente gli spazi di attivazione delle mediazioni in condizioni di «normalità». Il processo di inclusione è lento, concentrato sull’educazione ai diritti e alla cittadinanza, ma l’accesso al mercato del lavoro è limitato e inadeguato alle aspettative dei giovani migranti che si percepiscono adulti (focus group n. 2, 17-02-2022, on line; Seydou, 12-04-2022, on line). Nonostante tutto, il racconto corale dei percorsi di vita, restituisce la vitalità di un movimento che, in maniera ostinata e contraria, si muove verso il riconoscimento professionale sia dei mediatori culturali che degli antropologi.

Sullo sfondo del contesto nazionale, l’articolo ricostruisce lo sviluppo delle pratiche di mediazione in Umbria. La ricerca sul campo (2020-2022)5, che prevedeva un’indagine preliminare sulle forme associative dei migranti, è stata spostata on line a causa della pandemia. Le interviste (23, di cui 12 in presenza e 11 on line) sono state condotte seguendo un temario semistrutturato; sono stati coinvolti 5 mediatori, 13 mediatrici e 5 operatrici. Dal momento che tutti i racconti iniziavano con il riferimento alla traduzione linguistico-culturale in sede di Commissione Territoriale, ho ritenuto opportuno contattare le équipe del sistema di accoglienza e le referenti degli Uffici di Cittadinanza. Solo due équipe si sono rese disponibili per la realizzazione dei 2 focus group, in cui state coinvolte 9 persone tra assistenti sociali, operatori sociali, operatori legali e referenti del servizio di avviamento al lavoro.

La selezione delle persone, condizionata dalle tensioni esistenti tra i diversi soggetti attuatori, è avvenuta tramite le associazioni locali. I mediatori che lavorano a Roma sono stati contattati tramite un’associazione storica del settore, con l’obiettivo dichiarato di uscire da una narrativa territoriale sempre più uniformata ai principi della mediazione culturale, trasmessi nei contesti di alta formazione. L’articolo intende dunque riflettere sulle pratiche di mediazione culturale per capire se attualmente producano integrazione oppure, loro malgrado, finiscano per rafforzare i meccanismi di costruzione delle disuguaglianze sociali. Per analizzare la situazione attuale è necessario, tuttavia, prendere in considerazione sia trent’anni di storia della mediazione culturale sia i cambiamenti innescati dalla sequenza di crisi belliche che, a partire dal 2011, hanno coinvolto il Nord Africa, il Medio Oriente e progressivamente l’Africa occidentale e subsahariana.

Il lavoro del mediatore: precariati allo specchio

Nel contesto umbro, appare significativa l’inossidabile storicità dei soggetti che operano nell’ambito dell’immigrazione: Arci e Caritas affiancano il CIDIS, che coordina gli interventi di mediazione culturale dagli anni ’90. Le traiettorie lavorative di mediatori e mediatrici seguono l’andamento della progettazione di rete, mentre la forma del rapporto di lavoro è condizionata dagli esigui finanziamenti messi a disposizione dal servizio pubblico. La novità degli ultimi dieci anni è il ruolo assunto dall’Università per Stranieri di Perugia nell’erogazione dei corsi per i mediatori interculturali. Nonostante l’impegno dichiarato dai funzionari della Regione, le problematiche nell’accesso al mondo del lavoro rimangono largamente irrisolte perché ricalcano le difficoltà delle professioni non riconosciute, che necessitano di leggi regionali per la regolamentazione delle pratiche e delle forme contrattuali. Il racconto dell’esperienza di mediazione è un viaggio nella memoria dei mediatori e delle mediatrici, nelle loro frustrazioni e nei malumori, ma anche nei loro desideri. La richiesta di limitarsi all’interpretariato, sancita dal passaggio legislativo del 20156, è vissuta come svalutazione delle competenze e sorprende perché mostra l’assenza di variazioni rispetto a quanto discusso in tutta Italia per trent’anni insieme a docenti, colleghi e operatori.

È molto limitato il lavoro di mediazione. Cioè, diciamo che questa è la logica dietro questo lavoro: viene presentata la mediatrice come la persona che deve mediare tra due persone che non si capiscono! Ma poi c’è un’altra persona che decide per lui. O magari in consenso con lui, fanno delle cose insieme, dei progetti insieme, ma il mio lavoro finisce una volta che ho spiegato le cose (Leila, 23-03-2021, on line).

Magari in alcune associazioni le persone sono più disponibili, ti chiedono di capire culturalmente la persona; magari sì, capita! Ma non tanto (Jasmine, 16-03-2022, on line)!

Anche se molti intervistati aspirano ad arricchire il proprio lavoro, l’impiego nelle Commissioni Territoriali ha facilitato l’affermarsi dell’interpretariato, funzionale alle procedure di valutazione della richiesta d’asilo. La stessa mediatrice, raccontando l’esperienza all’interno di un progetto europeo di supporto alle donne, descrive la propria capacità di stabilire una relazione significativa, ma sottolinea di non essere stata assunta come mediatrice.

Ho parlato di questo mio ruolo, di verificare i problemi, perché era un lavoro che mi piaceva e anche un lavoro che mi coinvolgeva tanto con le persone. Non era permesso, per il tipo di contratto e per le capacità che avevo, coinvolgermi tanto e andare nel dettaglio; però conoscere già la persona e identificare i problemi è una cosa molto grande. All’inizio avevano preso delle persone del posto, ma poi hanno visto che serve una madrelingua per capire il contesto dei paesi. E infatti mi piace perché lì fai una cosa costruttiva… più grande di quello che è. E invece come mediatore sei usato e poi… dopo no. E io so che ho delle capacità molto più grandi di questo (Jasmine, 16-03-2022, on line).

In Umbria, la mediazione culturale oltrepassa la traduzione linguistica solo nei contesti educativi, come testimonia il racconto di un mediatore coinvolto nel progetto di accoglienza in famiglia dei MNSA. Alle sue parole fanno eco quelle della mediatrice che lavora nella Regione Lazio, in una comunità per minori.

All’interno di un’altra associazione ho iniziato non come mediatore linguistico culturale ma come operatore sociale, in un progetto di seconda accoglienza per nuclei familiari provenienti da diverse nazioni, soprattutto africani. Successivamente ho iniziato a ricoprire il ruolo di mediatore linguistico-culturale all’interno di un centro per MNSA. E lì ho cambiato la mia mansione: da mediatore culturale sono diventato mediatore linguistico-culturale di lingua araba. Non c’è stato un cambiamento ufficiale. È proprio una cosa decisa e condivisa internamente. Diciamo che la mia figura è un po’ trasversale, quindi posso lavorare in entrambi i campi; con le esperienze che ho e le competenze linguistiche, non è per niente difficile (Nadia, 12-04-2022, on line).

Un altro fattore di criticità, su cui si discute da trent’anni, è la difficoltà di costruire la relazione nei tempi brevi dell’emergenza: se manca la possibilità di uno spazio narrativo, la mediazione risulta inefficace. Solo la mediatrice più esperta, che lavora in contesti urbani, riesce a negoziare i tempi degli incontri (Jasmine, 16-03-2022, on line). Il passaggio dalla relazione breve, costruita nel momento critico, alla relazione di lungo respiro passa necessariamente attraverso la stabilizzazione del lavoro. Le forme di inquadramento contrattuale svelano dunque il mandato istituzionale e mostrano come l’intero sistema di accoglienza serva a determinare una migrazione circolare, dettata dalle esigenze del mercato del lavoro, strutturalmente condizionato dalle logiche di profitto imposte dalle multinazionali [Gjergji 2016]. I percorsi sono altamente differenziati e ricalcano la stratificazione sociale dettata dalla tipologia di lavoro svolto: nella UE, è esemplare l’istituzione della Carta Blu per i professionisti specializzati ad alto reddito. Il pensiero di Stato che struttura la migrazione circolare non ha bisogno della mediazione intesa come costruzione della relazione, ma necessita di funzionari che selezionano i lavoratori a basso costo. La mediazione diventa uno strumento di assimilazione, allineato al processo di securizzazione dei confini esterni e delle frontiere interne. La subordinazione al sistema di controllo diventa un obiettivo programmatico, come risulta evidente dalle parole della giovane mediatrice, laureata all’Università per Stranieri:

Con loro abbiamo lavorato […] in partenariato per rendere la mediazione sempre più strutturale; non una cosa così, estemporanea, in emergenza, ma una strategia dell’Ente […]. La Questura e anche la Prefettura sono diventate organismi, enti pubblici in cui da un lato c’è un’accoglienza diversa rispetto all’utenza straniera e dall’altro lato anche il mediatore, spesso anch’esso migrante, è parte dell’équipe. Non è più una figura che arriva al servizio, lo attraversa ed esce; ma si ferma nel servizio, per un briefing, debriefing… con i poliziotti, con il vice-questore, con l’ufficiale prefettizio, con la dirigente d’area… E questo per noi è un grande risultato, perché veicola anche un messaggio positivo, di integrazione, di persone che hanno fatto della mediazione una professione! Quindi non la mediazione spontanea, che spesso è ancora molto utilizzata (Amira, 12-05-2021, Perugia).

A livello locale, le cooperative fanno da filtro nella gestione degli inserimenti lavorativi; a livello sovranazionale, l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM) e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) strutturano il sistema di selezione della forza lavoro [Gjergji 2016]. L’idoneità al lavoro determina la possibilità di soggiorno in un contesto che non garantisce né la conquista della dignità della persona né l’accesso alla mobilità sociale. L’analisi di Iside Gjergji appare ancora più pertinente se si considera che tutti gli intervistati hanno parlato della difficoltà di rendere la mediazione una professione stabile e funzionale alla piena realizzazione dei desideri di vita. Se pensiamo che lo Stato considera il fenomeno migratorio come un insieme di problematiche da gestire attraverso le decisioni politiche [Sayad 2002] e gli strumenti giuridico-amministrativi [Gjergji 2013], è evidente che la legge sulla qualifica professionale mira a produrre un mediatore che arriva a chiamata, inventa «soluzioni immediate» e incarna «colui che risolve i problemi» in condizioni di emergenza (Leila, 23-03-2022, on line).

Purtroppo non c’è un riconoscimento vero e proprio da parte delle istituzioni della figura del mediatore linguistico-culturale. Purtroppo non tutte le istituzioni hanno chiaro che si tratta di una figura professionale come le altre! Spesso viene anche svalutata, sminuita la sua professionalità. Non gli vengono riconosciute le sue competenze (Nadia, 12-04-2022, on line).

Dal nostro punto di vista… teniamo… sempre a professare che le istituzioni non devono vedere il mediatore come un atto compensativo a basso costo. Cioè, delego al mediatore le risposte, il dare la risposta. Il mediatore affianca, sostiene, supporta, non si sostituisce, non interferisce; nel senso che non è lui/lei che deve dare le risposte. E questo è un lavoro quotidiano con gli enti. Molti ormai lo hanno assorbito. Lei chiedeva: «Ma come, ancora oggi»? Molti lo hanno assorbito, altri no (Maria, 12-05-2021, Perugia).

Il processo di professionalizzazione7 non garantisce la costruzione di un sistema di reclutamento equo, contribuisce invece a strutturare competenze diffuse impossibili da stabilizzare senza altri titoli di studio. Mentre il concetto di cultura assume una forma sempre più stereotipata e sibillina, le parole degli intervistati più giovani restituiscono il linguaggio della formazione piuttosto che la conoscenza profonda dei contesti d’origine. Il racconto dell’esperienza emerge solo nel caso dei più anziani, nelle loro parole però traspare la delusione per una stabilizzazione incompiuta, il risentimento per le promesse non mantenute e la stanchezza per i cronici malintesi con le istituzioni locali. Il racconto personale oscilla tra il rimpianto e la necessità di sviluppare nuove competenze.

Le mediatrici più giovani sono consapevoli che la Laurea in Servizio Sociale può diventare un’opportunità (Amina, 01-07-2021, Perugia; Leila, 20-03-2021, on line), ma l’acquisizione del titolo universitario è un desiderio da conciliare con la vita familiare e il lavoro. Il titolo accademico è visto come strumento indispensabile perché assegna un ruolo, legittima la relazione d’aiuto e conferisce potere negoziale nell’attivazione delle risorse del welfare. In assenza di un titolo accademico e di un contratto stabile, la qualifica professionale paradossalmente porta all’impoverimento delle competenze e al restringimento del margine d’azione.

Purtroppo nel mondo della mediazione quello che è più facile da ottenere, si ottiene. Cioè, se quella signora in quel momento è disponibile perché gli do qualche spicciolo in cambio, [la chiamo] (Amina, 01-07-2021, Perugia)!

In alcuni casi mi chiamano direttamente dalle associazioni: c’hanno la lista delle mediatrici che lavorano per loro; c’hanno un breve contratto – di tre mesi o di sei mesi – che vengono sempre chiamate e pagano sempre all’ora. Invece in alcuni casi c’è un ufficio di mediazione e queste società fanno da tramite: chiamano noi, che ne so, per andare alla Commissione. In quel caso fanno da tramite, pagano all’ora, ma molto meno rispetto a quando ci chiamano direttamente le associazioni. Adesso da poco, un anno così, il Comune prevede anche mediazioni, ma si appoggia sempre su queste società e associazioni (Jasmine, 16-03-2022, on line).

Se analizziamo i racconti dal punto di vista del diritto al lavoro, è evidente che le forme di contratto utilizzate non contribuiscono alla riduzione delle disuguaglianze. La mediazione è un’opportunità che non permette di sopravvivere (Nadia, 12-04-2022, on line), è un lavoro accettato in attesa di occasioni migliori (Sara, 23-03-2022, on line); la capacità di mediare con le istituzioni, le amministrazioni e i servizi sociali è utile per «aiutare gli amici» (Hasan, 05-04-2022, on line). Durante gli incontri ho provato un certo imbarazzo nell’apprendere che la proposta di stabilizzazione fosse la costruzione di un lavoro autonomo. La prestazione a chiamata non permette di sostenere i costi di una partita IVA, ancorché forfettaria, e rende difficile considerare la mediazione un lavoro che attribuisce dignità alla persona e riduce le disuguaglianze. Consapevole dell’oscillazione dei progetti, spesso subordinati all’avvicendarsi dei decisori politici, è con una certa fatica che sono riuscita a mantenere la neutralità professionale nel raccogliere le speranze dei futuri mediatori, destinati ad affacciarsi al mondo delle professioni non riconosciute.

Tra le professioni non regolamentate da un contratto nazionale, la problematica delle modalità di assunzione è ben presente agli antropologi, che hanno avviato un percorso collettivo finalizzato al riconoscimento della figura professionale [Severi 2022]. La trasformazione della ricerca in pratiche operative è affrontata nell’ambito dell’antropologia applicata e restituisce le difficoltà del lavoro d’équipe in assenza di un riconoscimento formale ma anche le potenzialità degli strumenti e delle metodologie adottate [Bonetti 2018; Castaldo, Segneri 2022; Portis 2022]. Affidare l’emancipazione delle persone al lavoro precario e non riconosciuto significa ridurre il diritto del lavoro alla formazione continua, con l’esito paradossale di legittimare il carattere intermittente dell’impiego e aumentare la disoccupazione.

Se il lavoro è un diritto negato, le interviste romane richiamano l’attenzione su un altro diritto fondamentale: «una casa, un tetto» (Sara, 23-03-2022, on line). Nelle realtà urbane il problema dell’alloggio è spesso risolto con l’occupazione di stabili in disuso o con la sperimentazione di pratiche di co-housing [Marabello, Riccio 2020; Vinai 2022]. Nelle realtà più piccole, l’accesso ai diritti è oggetto di una progettazione partecipativa dei servizi, che innesca pratiche di contrasto al razzismo, ai pregiudizi e alle discriminazioni (focus group n. 2, 17-02-202, on line). In entrambi i casi, la lotta per la sopravvivenza e il conflitto sociale si trasformano nella costruzione di luoghi interstiziali dove l’accesso alla vita nel paese di accoglienza è rinchiuso in un limbo che sospende le possibilità di integrazione, determinando traiettorie individuali socialmente gerarchizzate [Gjergji 2013].

Il sistema di accoglienza: negazione o estensione del diritto?

Di fronte alla violazione sistematica dei diritti [Di Cesare 2017], condurre una ricerca sulla mediazione culturale obbliga a quell’esercizio complesso, che implica il disvelamento del pensiero di Stato attraverso la descrizione degli strumenti di gestione del fenomeno migratorio [Sayad 1999]. Il concetto di «mediazione di sistema» e l’entusiasmo ingenuo nell’educare le istituzioni ad un uso corretto del dispositivo (Maria, 12-05-2021, Perugia), spiega il senso profondo del processo di istituzionalizzazione della figura professionale e ratifica la rinuncia del servizio pubblico alla costruzione di un dialogo interculturale. Il percorso si ancora alla trasmissione dell’idea di rispetto delle regole e dimentica (o rinnega?) il confronto con le diversità. L’inserimento del mediatore, descritto come una presenza fissa anche se l’assunzione non è mai stata testimoniata, conferma l’uso della mediazione in un’ottica di gestione del rapporto tra Stato e migrante. Il mediatore culturale non è considerato una risorsa necessaria in équipe: «spesso, usano il mediatore come pronto soccorso! Chiamano quando c’è un problema, non è una condivisione perché… è una comunicazione verticale» (Seydou, 12-04-2022, on line). L’organizzazione dei servizi per gli stranieri è sempre più orientata verso il modello inglese di integrazione, che implica la formazione degli operatori locali ma non l’assunzione di professionisti stranieri8.

L’enfasi posta sui diritti costituzionali ribadisce la scelta di accettare solo coloro che aderiscono alle proposte dello Stato, anche in presenza di diseguaglianze da cui è impossibile affrancarsi. Se si applica lo stesso approccio di analisi al sistema di seconda accoglienza è più facile comprendere il potere di assimilazione conferito oggi alle pratiche di mediazione. In Umbria, la seconda accoglienza mira al rispetto della dignità della persona e promuove la solidarietà sociale, politica ed economica. Tuttavia, le pratiche studiate mostrano inquietanti zone grigie, dove la violenza istituzionale impedisce di costruire relazioni paritarie fondate sull’ascolto. C’è dunque qualcosa che sfugge all’analisi e si annida nelle scelte degli operatori delle istituzioni pubbliche [Giacalone 2016], oltre che nel pensiero di Stato.

In una zona periferica del capoluogo, dove il razzismo è riscontrabile nel quotidiano, solo la società civile si è mobilitata con l’obiettivo di ridurre la tensione. Nel quartiere «dove c’era l’ostello dei migranti; c’era un problema perché quattrocento persone avevano firmato un documento chiedendo al Comune di cacciare i migranti ospitati. Vista questa situazione, degli italiani si sono alzati per dire no» (Moussa, 11-11-2022, Perugia). I servizi sociali, al contrario, si sono tenuti a distanza dal conflitto e dall’utenza. Il recupero del discorso pubblico sui diritti fondamentali è indice, dunque, di una svolta operativa che mira all’edificazione di un orizzonte cognitivo e valoriale che nega le sue stesse contraddizioni. Il concetto di inviolabilità della persona, ricontestualizzato in un paradigma educativo che infantilizza i migranti (focus group 1, 21-01-2022, on line), mira a condizionarne il comportamento. La costruzione della convivenza, tuttavia, inizia solo con il rifiuto del mandato di controllo fisico del corpo del migrante.

C’è stata una fase legislativa in cui volevano che anche noi operatori [dell’accoglienza diffusa] fossimo tipo ufficiali, cioè che controllassimo quasi costantemente se i ragazzi dormivano nelle strutture. C’è stata una fase in cui ci volevano far diventare responsabili anche di questo. Penso che si siano ribellati tutti gli operatori d’Italia a questa cosa, che poi non è mai stata ufficialmente presa in considerazione. Nei CAS è diverso perché effettivamente i ragazzi tutti i giorni firmano (focus group n. 2, 17-02-202, on line).

Gli operatori del terzo settore, i mediatori e i ricercatori lavorano ricucendo fratture e riempiendo i vuoti istituzionali nel tentativo di potenziare relazioni capaci di contrastare discriminazioni e disuguaglianze. Le distorsioni, le incongruenze e le contraddizioni prodotte dal sistema di accoglienza producono forme di violenza di Stato, riscontrabili nei numerosi studi etnografici condotti dagli antropologi [Biffi 2022; Gallotti 2018; Pitzalis 2022; Sanò 2022; Signorini 2021; Vacchiano 2005]. Le forze dispiegate dal basso risultano insufficienti a contrastare pratiche di accoglienza il cui obiettivo principale, implicito e imposto dal Ministero dell’Interno, è la selezione di lavoratori utili e temporanei. Le pratiche solidali e inclusive vengono progressivamente ristrette alla valorizzazione dei diritti costituzionali e il rapporto dialogico diventa fortemente asimmetrico.

L’estrema diversità dei percorsi narrati nelle interviste mostra l’incidenza della traiettoria di vita personale nell’acquisizione delle competenze. Il livello di istruzione, la posizione lavorativa, l’approfondimento della cultura d’origine non costituiscono più un bagaglio di esperienza acquisito in un passato più o meno lontano, ma vanno di pari passo con la formazione professionale. L’assimilazione del sistema giuridico-amministrativo italiano diventa condizione preliminare per svolgere il lavoro di mediazione (Amina, 01-07-2021, Perugia). All’interno del sistema di accoglienza, i ragazzi diventano mediatori e trasmettono competenze burocratico-amministrative ai neoarrivati. Al centro dei loro racconti ci sono l’idea di famiglia, i ruoli di genere, la percezione e l’esercizio dell’autorità. La trasmissione generazionale   è al centro dei racconti (Moussa, 11-11-2021, Perugia) mentre il riferimento alla famiglia rimanda alla negoziazione quotidiana dello stile di vita (Amina, 01-07-2021, Perugia) e all’acquisizione di nuovi modelli di femminilità e mascolinità (Terese, 04-04-2022, Perugia). A trent’anni dalle prime ondate migratorie, le istituzioni pubbliche percepiscono ancora la mediazione culturale come un intervento strumentale, mentre la mediazione che aspira ad incarnare la costruzione di ponti tra due culture [Luatti 2011] è desiderio, progetto, caparbia testardaggine di operatori formati che combattono battaglie quotidiane contro le pratiche adottate nella maggior parte dei servizi sociali [Tosi Cambini 2022]. La mediazione culturale, oggi, è diventata un luogo di resistenza, dove la soluzione delle difficoltà quotidiane nel garantire l’accesso ai diritti [Taliani 2019] è sempre più spesso affidata a operatori e militanti che non rinunciano a considerare il rispetto della diversità e della vita umana come un valore.

Bibliografia

Ambrosini M. 2011, Sociologia delle migrazioni , Bologna: il Mulino.

Attenasio L. Casadei F., Inglese S., Ugolini O. 2005, La cura degli altri. Seminari di etnopsichiatria , Roma: Armando.

Bagaglia C., Flamini S., Pellicciari M., Polcri C. 2014, Mutilazioni genitali e salute riproduttiva della donna immigrata in Umbria , Perugia: Regione Umbria.

Beneduce R. 2007, Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura , Roma: Carocci.

Bonetti R. 2018 (ed.), Pratiche di collaborazione e co-apprendimento come setting di trasformazione e progettazione sociale , in «Antropologia Pubblica» 4(2).

Castaldo M. e Segneri M.C. 2022, Antropologhe in cors(i)a. La professione dell’antropologo medico nella sanità pubblica italiana , Ogliastro Cilento: Licosia Contaminazioni

Callari Galli M. 1993, Antropologia culturale e processi educativi , Firenze: La Nuova Italia.

- 1996, Lo spazio dell’incontro. Percorsi nella complessità , Roma: Meltemi.

Callari Galli M. et.al. 1998, Pensare la diversità. Per un’educazione alla complessità umana , Roma: Meltemi.

Ciconte E. 2005, I flussi e le rotte della tratta dall’Est Europa , Fusignano (RA): Grafiche Morandi.

CIDIS 1994, La foresta della diversità. Quali percorsi per attraversarla , Perugia: Cidis.

Coppo, P. 1998, Etnopsicoterapie , «I Fogli di Oriss», 10: 41-61.

- 2000, Politiche e derive dell’etnopsichiatria. Note a margine di una polemica francese , «I Fogli di Oriss», 13/14: 119-140.

- 2003, Tra psiche e culture. Elementi di etnopsichiatria , Torino: Bollati Boringhieri.

- 2007, Negoziare con il male. Stregoneria e controstregoneria dogon , Torino: Bollati Boringhieri.

Demetrio D., Favaro G. (eds) 1997, Bambini stranieri a scuola. Accoglienza e didattica interculturale nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare , Firenze: La Nuova Italia.

- 2002, Didattica interculturale. Nuovi sguardi, competenze, percorsi , Milano: FrancoAngeli.

Falteri P. (ed.) 1995, Andata & Ritorni. Percorsi formativi interculturali: pensare le differenze ed entrare in contatto con l’altro , Roma: MCE.

- 2010, Maternità e cure allevanti: soggettività femminile e criticità delle prime fasi del ciclo di vita in donne autoctone e straniere , Report, Perugia: Regione Umbria.

Falteri P., Giacalone F. 2011, Migranti involontari. Giovani ‘stranieri’ tra percorsi urbani e aule scolastiche , Perugia: Morlacchi.

Favaro G., Colombo T. 1993, I bambini della nostalgia , Milano: Mondadori.

Favaro G., Fumagalli M. (eds) 2004, Capirsi diversi. Idee e pratiche di mediazione interculturale

Favaro G., Luatti L. (eds.) 2004, Intercultura dalla A alla Z , Milano: FrancoAngeli.

Favaro G., Mantovani S., Musatti T. (eds) 2006, Nello stesso nido , Milano: FrancoAngeli.

Fiorillo 2021, Dono e Desiderio. L’associazionismo tra volontariato e lavoro , Verona: Ombre Corte.

Foot J. 2014, La «Repubblica dei Matti». Franco Basaglia e la psichiatria radicale, 1961-1978 , Milano: Feltrinelli.

Gallotti C., Il lavoro di accoglienza con donne migranti: criticità, risorse e possibilità. Resoconto etnografico di un laboratorio di idee con operatrici e operatori , Regione Emilia-Romagna: Centro Donna Giustizia e ASP-Centro Servizi alla Persona di Ferrara.

Giacalone F. 2016,  Il razzismo istituzionale attraverso storie di discriminazione: pratiche e linguaggi razzisti , in «Voci» XIII, 82-106.

- 2006, Bismillah. Saperi e pratiche del corpo nella tradizione marocchina , Perugia: Gramma.

Giacalone et.al. (1994), L’identità sospesa. Essere stranieri nella scuola elementare , Firenze: Arnaud.

Giacalone F., Pala L. 2005, Un quartiere multiculturale. Generazioni, lingue, luoghi, identità , Milano: FrancoAngeli.

Gjergji I. 2013, Circolari amministrative e immigrazione , Milano: Frango Angeli.

- 2016, Sulla governance delle migrazioni. Sociologia dell’underworld del comando globale , Milano: Franco Angeli.

Gorz A., L’immatériel. Connaissance, valeur et capital , Paris: Galilée.

Guerzoni G., Riccio B. 2009, Giovani in cerca di cittadinanza. I figli dell’immigrazione tra scuola e associazionismo: sguardi antropologici , Rimini: Guaraldi.

Inglese S. 2000, Dalla psicopatologia delle migrazioni all’etnopsichiatria , in «I Fogli di Oriss» 13/14, 200: 141-158.

Luatti L. 2011, Mediatori atleti dell’incontro. Luoghi, modi e nodi della mediazione culturale , Brescia: Vannini.

Maalouf A. 1998, L’identità , Milano: Bompiani.

Maher V. 1992, Il latte materno. I condizionamenti culturali di un comportamento , Torino: Resenberg&Sellier.

- 1993, Il potere della complicità: conflitti e legami delle donne nordafricane , Torino: Rosenberg&Sellier.

Marabello S., Riccio B. (ed.) 2020, Spazi di convivialità? Convivere e co-abitare con migranti in Italia , in Antropologia Pubblica 6 (2).

Marchetti M. 2022,  Fabbricare imperfette opportunità. Antropologia e servizi socio-sanitari: verso l’integrazione di una prospettiva disciplinare per ripensare le prassi nei processi di salute, malattia e cura e il ruolo dell’antropologo negli spazi sanitari , in Castaldo M., Segneri C. 2022, Antropologhe in cors(i)a. La professione dell’antropologo medico nella sanità pubblica italiana , Ogliastro Cilento: Licosia, 89-102.

Moro M.R. 2005,  Bambini di qui venuti da altrove. Saggio di transcultura , Milano: Franco Angeli.

Nathan T. 1986, La follia degli altri. Saggi di etnopsichiatria , Ponte delle Grazie.

- 1996, Principi di etnopsicanalisi , Torino: Bollati Boringhieri.

- 2017, Les âmes errantes , Paris : L’iconoclaste.

Nathan T., Stengers I. 1996, Medici e stregoni , Torino: Bollati Boringhieri.

Pazzagli I., Tarabusi F. 2009, Un doppio sguardo. Etnografia delle interazioni tra servizi e adolescenti di origine straniera , Rimini: Guaraldi.

Parisi R. 2008, Attraversare confini, ricostruire appartenenze. Un’etnografia delle donne italo-marocchine , Milano: Aquilegia.

Pellicciari M., Flamini S., Modificazioni genitali, diritto di asilo e pratiche di cittadinanza. Note antropologiche su un’esperienza di mediazione nei servizi , in «DADA», 2.

Pitzalis S., Eterocronia dell’emergenza migranti: tempo dell’attesa e tempo frenetico nel sistema d’asilo/accoglienza italiano , «Antropologia» 9(2): 123-140.

Pompili R. 2007, Biopolitiche, sex workers e spazio urbano. Una ricerca etnografica a Perugia, Tesi di Dottorato in Metodologie e tecniche della ricerca etnoantropologica, Università degli Studi di Siena.

Portis L. 2022, Promuovere la salute: una sfida per l’antropologia professionale , in Castaldo M., Segneri C. 2022, Antropologhe in cors(i)a. La professione dell’antropologo medico nella sanità pubblica italiana , Ogliastro Cilento: Licosia, 54-79.

Ranisio G. 1998, Venire al mondo. Credenze, pratiche, rituali del parto , Roma: Meltemi.

Remotti F. 1996, Contro l’identità , Bari: Laterza.

Riccio B. 2008, Politiche, associazioni e interazioni urbane. Percorsi di ricerca antropologica sulle migrazioni contemporanee , Rimini: Guaraldi.

Rimboldi, Pozzi 2022, Pensare un’antropologia del welfare. Etnografie dello stato sociale in Italia ,

Roma: Meltemi.

Sanò G. 2022, Welfare locali, percorsi di mobilità e autonomia di persone migranti. Etnografie del Mezzogiorno d’Italia , in Rimboldi L., Pozzi G. 2022, Pensare un’antropologia del welfare . Etnografie dello stato sociale in Italia , Roma: Meltemi, 105-127.

Sayad A. 1999, Immigration et pensée d’État , « Actes de la recherche en sciences sociales », 129.  

- 2002, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato , Raffaello Cortina, Milano.

Severi I. 2022, Fuori dalla città incantata , in Castaldo M., Segneri C. 2022, Antropologhe in cors(i)a. La professione dell’antropologo medico nella sanità pubblica italiana , Ogliastro Cilento: Licosia, 7-15.

Signorini V. 2021, Il diritto d’asilo sta morendo? Storia dell’accoglienza in Italia , Milano: Franco Angeli.

Tarabusi F. 2019 (ed.), Senso condiviso: sapere antropologico e altre expertise professionali , «Antropologia Pubblica», 5(1)2019.

Taliani S. 2011, Il passato credibile e il corpo impudico. Storia, violenza e trauma nelle biografie di donne africane richiedenti asilo in Italia , Lares, LXXVII, 1:135-158.

- 2019, Il tempo della disobbedienza. Per un’antropologia della parentela nella migrazione , Ombre Corte, Verona.

Tosi Cambini S. 2022, «Ci dovrebbe essere qualcuno che lo fa di lavoro». Pratiche per la vita vs Razionalità burocratica , in Rimboldi L., Pozzi G. 2022, Pensare un’antropologia del welfare . Etnografie dello stato sociale in Italia , Roma: Meltemi, 183-205.

Vacchiano F. 2005, Cittadini sospesi: violenza e istituzioni nell’esperienza dei richiedenti asilo in Italia , in «Antropologia», 5: 85-101.

- 2011, Discipline della scarsità e del sospetto: rifugiati e accoglienza nel regime di frontiera , in «Lares», Anno LXXVII n. 1: 181-198.

Villano P., Riccio B. 2008, Culture e mediazioni , Bologna: Il Mulino.

Vinai M. 2022, Oltre lo sportello, etnografia di un servizio per l’inserimento abitativo nella provincia di Biella , in Rimboldi L., Pozzi G. 2022, Pensare un’antropologia del welfare . Etnografie dello stato sociale in Italia , Roma: Meltemi, 133-160.


1  Nel rispetto del DGPR (EU) 2016/679, le persone intervistate sono indicate con nomi convenzionali.

2  Il convegno «Salute Mentale e Immigrazione» si è tenuto il 12 ottobre 2002 presso l’Unità di Convivenza Le Fattorie, edificio del Parco Santa Margherita che ospitava il manicomio chiuso da Carlo Manuali [Foot 2014].

3   www.centrosagara.it ; www.associazionefanon.it .

4   www.INMP.it  .

5  L’articolo presenta i risultati della ricerca che ho condotto come assegnista nell’ambito del progetto «Il ruolo delle associazioni dei migranti nelle pratiche di inclusione sociale e nelle mediazione culturale e giuridica», realizzato con il Centro Studi Legalità e Partecipazione (LEPA) del Dipartimento di Scienze Politiche (DISP) dell’Università di Perugia.

6  Cfr. https://temi.camera.it/leg18/post/il_decreto_legislativo_n__142_del_2015__cd__decreto_accoglienza_.html.

7  Cfr. Ministero dell’Interno-UE 2014, Dossier di sintesi. La figura del mediatore interculturale: contributi per il suo inserimento nel sistema nazionale di certificazione delle competenze , Gruppo di Lavoro sulla Mediazione interculturale https://www.integrazionemigranti.gov.it/AnteprimaPDF.aspx?id=1588 .

8  Cfr. La qualifica del Mediatore Interculturale.   Contributi per il suo inserimento nel futuro sistema nazionale di certificazione delle competenze. Dossier di sintesi 2014 , consultabile on line: https://www.integrazionemigranti.gov.it/AnteprimaPDF.aspx?id=588.