Derelict land. Una riflessione sulle fabbriche abbandonate nel territorio biellese
Manuela Vinai
Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione, Università degli Studi di Torino
Abstract
The marks left on the ground by the industrial history are a distinctive feature of the Biella landscape. The nineteenth-century origins of the first wool entrepreneurial adventures produced obsolete structures already in the last century, triggering an initial interest in the recovery and enhancement of “historic factories”. Starting from studies about deindustrialization and the effects of the subsequent process of abandonment, the article examines the need to reflect on the presence of abandoned areas, taking into account not only their heritage but also the repercussions on the lives of the inhabitants. Through the meanings that can be found in artistic productions such as movies or novels, and from the description of the “social ruins” caused by the loss of work, an anthropological research path is traced to give voice to the community and to the “cultural drama” caused by a long period of transition [Dudley 1997].
Keywords : Deindustrialization; Brownfields; Community; Anthropology; Narratives
«Le fabbriche arroccate come castelli sulle colline testimoniano il passato
glorioso di un distretto che ha fatto della trasformazione della lana di pregio
una identità, una filosofia di vita collettiva».
Sono queste le parole scelte per presentare il territorio biellese in un DVD che
ho da tempo nei miei scaffali, ricevuto alla presentazione dei risultati del
progetto europeo che ne aveva finanziato la realizzazione1.
Dalle finestre di casa, a Biella, vedo la ciminiera della ex fabbrica Fila. Per
diversi anni, dopo la chiusura della sede nel 2002, quegli spazi sono rimasti
vuoti, generando l’incredulità di chi ricordava il movimento quotidiano dei suoi impiegati e il via vai dei
clienti dello spaccio aziendale. Quando sono arrivata nel Biellese, nel 2003,
Fila aveva ancora delle attività sul territorio, fuori città, sulla strada Trossi, che chiusero nel giro di pochi anni e, come scrisse nel
2014 un giornalista locale, «la Fila si “sbiellesizzò” progressivamente»2.
Kathryne Marie Dudley in apertura di “The end of the line” scrive: «this book is in many ways a book about my hometown». Nel mio caso si tratta di un territorio in cui sono diventata adulta: sono
arrivata a Biella a 27 anni, ho costruito lì la mia vita lavorativa e familiare. Incidentalmente sono stati anni durissimi
per l’economia tessile locale, difficoltà di cui ho avuto riscontro sia come ricercatrice sociale sia attraverso le
esperienze di conoscenti e amici. «Trying to understand experiences that are at once personal and cultural calls
for a kind of passionate detachment», questo è il monito di Dudley che mi guida durante la ricerca sul campo [Dudley 1994,
xiii]. Un “distacco appassionato” che è stato reso possibile anche da un allontanamento reale, dovuto al trasferimento
a Torino nel 2016 e che mi ha portato alla graduale consapevolezza di voler
avviare una riflessione su quanto avevo vissuto e visto accadere.
La mia etnografia si compone di tanti tasselli fatti di incontri, interviste,
partecipazioni a progetti, eventi e conferenze. Materiali che si inseriscono su
un sedimento di quindici anni di vita condivisa e che, sebbene non elaborati in
forma autoetnografica, rappresentano quegli elementi in grado di connettere
storie personali e dinamiche collettive, nel tentativo di dare significato alle
esperienze [Walley 2013, 165]. Un’eterogeneità di fonti che risponde all’esigenza di andare alla ricerca di quelle sfumature che, come suggerisce Anand
Pandian, svelano un mondo empirico inafferrabile rispetto alla concretezza del “qui e ora” [Pandian 2019]. È l’esperienza a rendere intellegibili i contesti nei quali mi muovo all’interno della società biellese, secondo un approccio per cui fare antropologia è «to put experience into motion as both means and end of investigation: to work
through experience of a field of inquiry and work on the experience of those we
share that inquiry with» [Pandian 2019, 49].
I miei interlocutori sono rappresentanti di una comunità composita, che comprende chiunque condivida l’abitare sul territorio biellese, che si tratti di lavoratori del comparto
tessile, imprenditori, decisori politici o semplicemente residenti. Attraverso
un’eterogeneità di occasioni e forme di dialogo ho condiviso questa indagine con un custode, un’insegnante, un anziano e noto imprenditore, un cineasta, una scrittrice, un
politico, un’assistente sociale, un volontario culturale, un sindacalista, un’operatrice culturale appartenente a una famiglia tessile, uno storico, un
operaio, un fotografo, un operatore sociale. Le loro voci si intersecano, si
contrappongono talvolta, permettendo di far emergere e implementare il
confronto sulle aree dismesse, tema centrale di questo contributo, che sono
parte di uno scenario più ampio relativo alla deindustrializzazione del territorio3. Il Biellese, noto per la produzione di “panni lana” già nell’Ottocento [Ramella 1984] e riconosciuto come “distretto tessile” nel corso del Novecento, si affaccia al nuovo millennio in un alone di
titubanza e in una manciata di anni vede messa in discussione questa duratura
connotazione produttiva e identitaria. I dati mostrano nel primo decennio del
Duemila picchi nei dati delle chiusure delle imprese, del ricorso alla cassa
integrazione straordinaria e dei tassi di disoccupazione.
Il mio posizionamento è quello di una ricercatrice coinvolta proprio negli anni “della crisi” in progetti sul territorio4 e che oggi conferma la sua presenza sul campo, non più su commissione, ma con un intento di riflessività, per mantenere quell’equilibrio tra soggettività e oggettività che renda possibile una restituzione dell’esperienza sul terreno di ricerca [Pozzi, Rimoldi 2022, 63].
Nell’articolo propongo una lettura critica delle narrazioni relative alle aree
dismesse, in primo luogo inserendole nel dibattito internazionale e
interdisciplinare sul tema, per poi rintracciare differenti visioni delle “fabbriche vuote” del territorio e mostrare, attraverso esempi concreti, quali sono state le
scelte fatte per la loro rifunzionalizzazione, spostando infine l’attenzione, nell’ultimo paragrafo, dai ruderi industriali alle conseguenze che essi hanno
prodotto nel tessuto sociale.
Percorrendo la strada che, partendo dalla pianura del Biellese Orientale, dalla
cittadina di Cossato porta ad accedere alla Valle Strona di Mosso il colpo d’occhio è inequivocabile: una sequenza di grandi stabilimenti industriali addossati al
corso del torrente.
Ho chiesto di poter visitare una di queste fabbriche dismesse e la sensazione più cogente che ho provato, attraversando gli enormi stanzoni perlopiù vuoti, è stata lo stupore. Quel che resta del passato produttivo è un grande spazio che acquisisce via via senso solo grazie al racconto di
Pietro, il custode che mi accompagna, che questo luogo lo ha vissuto: aneddoti
che vanno dalle memorie di un amore tra il padrone e un’operaia, ai commenti di rassegnazione per l’ennesimo furto di quel che di prezioso è ancora contenuto nella struttura (Pietro 25/08/2021, Cossato). Su di me, che
non condivido un’esperienza diretta del lavoro di fabbrica, la visita produce un effetto di
spaesamento, di progressiva scoperta dei resti della pregressa attività industriale: grandi scatole di spole, casse di filato, bidoni metallici,
schedari per i cartellini dei lavoratori, arredi degli uffici. Oggetti di cui
nessuno si occupa, il cui accatastamento disordinato entra in contrasto con i
vasti reparti sgomberati dalle grandi macchine tessili.
«Perché le cattedrali industriali del passato non dovrebbero essere trattate con lo
stesso rispetto dei castelli prussiani?», si chiede Stefan Berger nella sua analisi del processo di patrimonializzazione
della Ruhr [Berger 2021, 38]. Il Biellese non è stato immune dal movimento di messa in valore del patrimonio industriale. Già negli anni Ottanta avevano preso avvio significative attività di recupero e documentazione dell’archeologia tessile, innanzitutto come testimonianza di eccellenza degli opifici
storici presenti sul territorio5. I materiali contenuti in questi archivi registrano date di costruzione delle
imprese tessili in buona parte tra la seconda metà del 1800 e i primi anni del 1900, dando prova dell’effervescenza imprenditoriale di questo territorio a cavallo tra i due secoli.
La documentazione conservata restituisce un ulteriore racconto di abbandoni e di
permanenza di vuoti: dei 230 opifici catalogati 62 risultano dismessi con
accezioni che descrivono l’attuale attività con voci come “nessuna”, “rudere”, “inutilizzato” e “inattivo”. Un processo di dismissione che si è reso visivamente inequivocabile, laddove “smantellato”, “sottoutilizzato” e “vuoto” sono termini che caratterizzano le descrizioni del paesaggio biellese.
Aggettivi utilizzati anche da alcuni miei interlocutori, come Barbara,
assistente sociale in pensione, che mentre passeggiamo mi racconta di come ha
visto, nel corso degli anni, tanti edifici industriali «cadere pezzo per pezzo» (Barbara 22/10/2021, Cossato).
Le riflessioni intorno a questo aspetto sono necessarie proprio in
considerazione dell’inesorabile degrado che caratterizza gli immobili industriali, diventando anche
un tema di confronto politico:
La gestione delle aree dismesse è complessa perché chiama in causa attori privati, curatori fallimentari, eredi distratti. Quindi si tratta di costruire non solo dei tavoli di lavoro molto importanti però anche di rendersi conto che in alcuni casi la demolizione intelligente potrebbe essere la soluzione6 (Paolo 3/11/2021).
Come afferma un politico locale durante un momento di confronto pubblico (Paolo
3/11/2021).
Nell’estate del 2021, durante una conferenza pubblica sul tema del paesaggio7, giunti al momento finale del dibattito, Lidia, insegnante di scuola superiore,
prende la parola per chiedere che effetti può avere sulla popolazione la presenza dei ruderi industriali8 (Lidia 20/08/2021, Mosso), considerando che si era appena esplicitato che “i cattivi paesaggi generano cattivi pensieri”. La risposta non si fa attendere: «il rudere industriale è l’erede del castello. Forse tra cento anni il rudere industriale sarà considerato qualcosa di bello» (Nicolò 20/08/2021, Mosso). L’urgenza di questa affermazione non arriva dallo studioso ospite della serata, ma
da un riconosciuto esponente di una famiglia industriale del territorio.
È possibile leggere in questa dichiarazione quella sorta di “culto delle rovine”, in cui «i valori romantici dotano i luoghi abbandonati di un significato speciale,
estetizzando le macerie in rovina», che ha ispirato per secoli l’immaginazione di élite e classe media [High 2013, 147]. Si tratta di un approccio che è stato rintracciato sia in una parte di ricerca accademica sia in una corrente
di artisti, fotografi e
video makers
che hanno avviato una esplorazione urbana delle aree deindustrializzate come
atto voyeuristico [Garruccio 2016, 57; Strangleman 2013, 24]. Un modo di
rappresentare i luoghi dal passato industriale che ha raccolto forti critiche
nella misura in cui sembra non interessarsi a come questi luoghi fossero in
precedenza o a come vivessero le persone che li popolavano.
Le aree dismesse sono state al centro di un dibattito teorico che mette in
contrapposizione interpretazioni differenti dello spazio, quasi una tensione,
come suggerito da Garruccio, tra visibile/invisibile e udibile/inudibile
[Garruccio 2016, 59]. Nello scheletro di mattoni di una ex fabbrica si può cogliere l’immagine evocativa di desolazione, documentare e celebrare una memoria passata
ed essere al contempo spronati a ricostruire il contesto sociale e culturale
che lo ha caratterizzato e che consente di attualizzarne il senso all’interno di un processo di cambiamento di lungo termine.
Nel 2013 la pubblicazione di un numero monografico dell’
International Labor and Working-Class History
, dal titolo “
Crumbling Cultures: Deindustrialization, Class, and Memory
”, viene proposta come una più ampia riflessione sulle conseguenze culturali e sulle rappresentazioni della
deindustrializzazione [High 2013, 149]. Nei contributi di High e Strangleman
viene sottolineato l’effetto estetizzante di alcuni studi che hanno per oggetto le rovine
industriali. Un’enfasi che se non viene approcciata criticamente produce, secondo gli autori, “nostalgia per le ciminiere”, “necrologi solenni e lutti collettivi” e che può degenerare fino ad una “pornografia delle rovine”. Il monito lanciato è a non lasciare che il racconto degli impianti dismessi ignori le persone che li
hanno abitati, scollegandoli dalla realtà vissuta, cancellando l’eredità della classe operaia [Strangleman 2013, 30].
Mettere in relazione gli elementi del contesto sociale e culturale con le
geometrie degli spazi abbandonati è dunque necessario per comprendere il processo di deindustrializzazione ed anche
la contemporaneità del lavoro e della globalizzazione [Strangleman 2013, 34; High 2013, 146].
Uno sforzo interpretativo che può attingere anche dall’analisi delle produzioni artistiche, prendendo in considerazione le
rappresentazioni della deindustrializzazione per quello che possono rivelare su
ciò che il passato significa nel presente [Linkon 2013, 39]. Il contributo di
Linkon nella
special issue
del 2013 si sofferma sulle potenzialità delle opere letterarie, non tanto come prova documentaria di quanto accaduto,
ma come
interpretive evidence
del perché quello che è successo sia utile per comprendere l’oggi [Linkon 2013, 53]. L’autrice tratta di scrittori che usano il paesaggio deindustrializzato come
simbolo o elemento narrativo delle loro opere, con l’obiettivo di fornire un’interpretazione delle esperienze delle persone, traslando l’ambientazione geografica in emozionale. «Through the lens of place» è la direzione suggerita, dando rilevanza alla specificità dei luoghi che hanno attraversato significativi processi di cambiamento e che
continuano a farne esperienza nel presente [Strangleman, Rhodes, Linkon 2013,
20].
Il centro dell’indagine sulla deindustrializzazione diventa allora la comunità che abita questi territori, come essa ne ha interpretato il cambiamento
economico, dalla memoria dell’identità industriale all’esperienza della perdita del lavoro, alla capacità di immaginare le prospettive future.
Le rappresentazioni, siano essi materiali visivi, letteratura o campagne
pubblicitarie, acquisiscono valore interpretativo qualora siano posti in
relazione con le persone e le loro storie.
«Abbandonato come un guscio vuoto», così lo storico, biellese, Gianni Perona descrive la ex Pettinatura Rivetti, a
Biella nei pressi della stazione [Perona 2016, 58].
Negli ultimi decenni del Novecento gli opifici inattivi rappresentavano un
patrimonio culturale custode di una tradizione identitaria che aveva le sue
radici nelle coraggiose avventure imprenditoriali e tecnologiche della fine
dell’Ottocento. Negli anni Ottanta e Novanta si manifestava l’interesse alla salvaguardia dei «resti fisici» del passato industriale attraverso «l’estensione del concetto di bene culturale» [Neiretti, Vachino 1987, 9]. E seppure non mancassero sensibilità relative al contesto sociale corrispondente, si trattava di ricostruire una
sorta di epopea del mondo tessile dove le informazioni relative a imprenditori
e operai servivano a comporre un quadro storico d’insieme9. Tra le motivazioni dell’interesse suscitato da queste iniziative si trova esplicitato che i biellesi «vivono un rapporto quotidiano con la lana e con le fabbriche» [Neiretti, Vachino 1987, 7].
Vent’anni dopo, in un contesto economico radicalmente mutato dal punto di vista della
connotazione produttiva del distretto, altre aree dismesse si aggiungono a quei
primi ruderi, divenendo il segno tangibile delle più recenti vicende del settore industriale laniero. Un processo che è ancora in corso e che porta, nel 2021, Ettore, sindacalista, a rivendicare l’esigenza di una mappatura degli stabilimenti dismessi; un impegno simile al
lavoro di catalogazione degli opifici storici ma con obiettivi nuovi, volti
alla difesa del territorio, alla comprensione del suo impoverimento dal punto
di vista ambientale (Ettore, 21/01/2021)10. Il raccordo con il contesto sociale, auspicato per evitare un effetto di
feticismo dei ruderi, è difficile da rintracciare nelle iniziative di valorizzazione orientate al
patrimonio attuale.
Nel 2010 è stato avviato un ulteriore progetto con l’obiettivo di:
costruire e gestire un portale web che comunichi e condivida il patrimonio
culturale e socio-economico del tessile biellese sia nella sua accezione
storica sia nella sua dimensione contemporanea dando vita a una nuova risorsa
informativa in grado di fornire una visione completa del territorio biellese
dove l’esperienza tessile sia il filo conduttore.
11
La “dimensione contemporanea” viene sì presa in considerazione ma già tradita dalle brevi presentazioni dei rappresentanti degli enti che hanno
aderito all’iniziativa, che ricalcano in buona sostanza i concetti chiave della “novecentesca” impostazione dell’archeologia industriale: orgoglio per il passato tessile, eredità del patrimonio, importanza della produzione di tessuti, recupero e
valorizzazione dei patrimoni storici e culturali legati al tessile biellese12. Il motto “costruire il futuro sulle trame del passato” con cui si apre la pagina di presentazione del sito web, sembra quasi un’ammissione del voler tenere in ombra un presente difficile.
Pur riconoscendo la ricchezza degli interventi proposti dal progetto, nell’analizzarli si percepisce una sorta di omologazione, una tale concordanza di intenti che produce una contrastante sensazione di scetticismo. Oltre trenta enti, dalle grandi imprese agli enti pubblici alle associazioni sindacali dei lavoratori, tutti in accordo, un’unica voce che elogia il “dna tessile” del territorio biellese. Per provare a restituire un’impostazione dialettica a questa narrazione non resta che andare a cercare altre voci, altre fonti che raccontano gli edifici abbandonati, anche nella consapevolezza che «occorre non avere preclusioni verso apporti di estranei alle corporazioni scientifiche e accade- miche, proprio perché, sovente, essi sono riusciti a vedere cose che gli addetti, molte volte per ottundimento, non avevano visto» [Lombardi Satriani 1995, 95].
Così un film o un romanzo possono rappresentare delle etnografie, magari inconsapevoli [Di Nuzzo 2018], in grado di esplorare la realtà, prodotti culturali rappresentativi della società in cui sono concepiti [Marano 2007].
Il film documentario
Come fossili cristallizzati nel tempo,
realizzato nel 2001 su idea di un cineasta biellese, si apre con questi titoli
in sovrimpressione: «Nella provincia di Biella, culla dell’industria laniera italiana, è davvero considerevole la concentrazione di edifici industriali dismessi,
rimossi dalla memoria collettiva»13. Le immagini mescolano filmati d’archivio, che mostrano operai e operaie al lavoro, alle riprese dei capannoni
deserti, che ripropongono scenari simili a quelli che ho visto in prima persona
durante la mia visita alla fabbrica dismessa. Le descrizioni che accompagnano
questi fotogrammi sono: «assenza di corpi, di vita, di movimento. Forme senza contenuto. Vuoti a perdere». Poi la camera torna in un contesto di azienda attiva e attuale, aggiungendo i
suoni reali della produzione manifatturiera tessile e una nuova descrizione: «una moderna tessitura: rumori assordanti, pochi operai sparsi». Un montaggio che sclerotizza il racconto e che restituisce un senso di
inquietudine. Certamente si coglie il tentativo di associare ai luoghi le
vicende delle persone, di sommare, come si trattasse di livelli grafici, lo
spazio e la vita, le storie che lo hanno attraversato. «La fabbrica era luogo di fatiche, ma anche di incontri, di contatti umani. La
domenica si ballava e si giocava a carte: operai, capi reparto, padroni» è la didascalia ad una scena che riprende degli anziani in una sala da ballo che
danzano sulle note di “Tu sei quello”. Un’altra sovrapposizione propone dei pensionati, operai di ieri, filmati negli
spazi dei capannoni dismessi di oggi.
Al minuto 25 i testi sembrano sottintendere una denuncia: «Ancora scheletri di fabbriche. Ancora muri, pilastri, ruggine, testimoni muti
eppure scomodi»; un’accusa a cui fa seguito un sondaggio tra le corsie di un supermercato per
raccogliere le opinioni più varie sulla destinazione auspicabile per le aree dismesse. Si può leggere dunque il tentativo di agganciare la vita delle persone ai luoghi della
dismissione, di far emergere il contesto sociale a cui il cambiamento del
processo industriale si accompagna.
Gli ultimi fotogrammi del film sono riservati ad un fermo-immagine panoramico
sulla città di Biella, con queste parole a far da didascalia: «Prospettive di fuga. Oltre le valli desolate, oltre la terra di nessuno, oltre
la derelict land».
La sensazione di desolazione che resta dopo i 40 minuti di visione del film è molto simile a quella suscitata dalla lettura del romanzo
Marina Bellezza
di Silvia Avallone. Lo sceneggiatore del film e la scrittrice del libro hanno in
comune l’essere nati e cresciuti nel Biellese. Come scrive Sherry Lee Linkon nella sua analisi della
deindustrialization literature
: «we must take their representation seriuosly, not for what they show about the
past but for what they reveal about what the past means in the present» (2013, 39). Si tratta di contributi utili perché coloro che li hanno prodotti sono stati testimoni degli anni delle chiusure
degli stabilimenti e le loro famiglie e comunità hanno vissuto sia il lavoro industriale sia il disorientamento causato dalla
deindustrializzazione.
I protagonisti del romanzo di Avallone sono totalmente immersi nel paesaggio “derelitto” del Biellese, che non viene mai lasciato solo sottinteso ma anzi ben
specificato nei nomi dei paesi e delle strade che ne vedono svolgersi le
vicende. La connessione tra passato e futuro è la tensione che percorre l’intero racconto, la necessità di affrancarsi dalle storie delle generazioni precedenti (siano esse di
apparente successo, come nel caso dell’avvocato ex sindaco del capoluogo, o di detonante perdizione, come nel caso di
personaggi alcolizzati e ludopatici) è il filo conduttore del romanzo. I due protagonisti lottano per liberarsi dall’incorporazione della desolazione del luogo in cui sono cresciuti, un paesaggio
che l’autrice descrive a più riprese in questi termini:
La logora ossatura dei lanifici, spenti da decenni, correva lungo gli argini per chilometri e chilometri, fino a diroccare nei boschi. Quasi niente era rimasto.
Era un luogo morente.
Aree dimenticate di fabbriche derelitte, inselvatichite dai rampicanti, e centri commerciali mai finiti di costruire.
Relitti industriali del secolo scorso.
Scheletri di lanifici, magazzini mai finiti di costruire, discount, casolari, mobilifici chiusi per fallimento, tutto arenato ai piedi delle Alpi, in balia della luce e del vento, alla deriva.
Farsi una passeggiata nel centro storico della città e toccarne con mano il deserto, i negozi chiusi, la desolazione di un’epoca irrimediabilmente sull’orlo della fine.
Adesso li vedeva anche lei, i capannoni abbandonati, i lanifici divelti e i cantieri fermi da anni. Finalmente si accorgeva di come tutto fosse morto, arrugginito e spento rispetto a come lo ricordava da bambina.
La fila dei lanifici fatiscenti lungo l’argine del torrente
Nell’analisi dei testi degli scrittori della
Rust Belt
americana, il paesaggio deindustrializzato è un elemento narrativo utilizzato per costruire storie che riguardano la
memoria, i luoghi e la complessa relazione tra passato e presente che modella
le scelte e le prospettive dei personaggi [Linkon 2013, 40]. Un’impostazione che si ritrova in Avallone e che anche nella chiusura del romanzo
trova un’indissolubile connessione tra le vicende del Biellese e quelle dei protagonisti:
«Voleva recuperare i ruderi, le vecchie case di pietra, i lanifici abbandonati, e
infondere a questi luoghi nuova vita. Iniziare un nuovo corso. Lei voleva
aggiustare le cose».
Il contributo fornito dall’analisi di queste fonti è quello di mostrare una prospettiva differente. Sono documenti che consentono di
dare voce a chi ha vissuto la trasformazione del territorio assorbendone il
declino, introiettando la desolazione delle rovine che andavano via via
caratterizzando il paesaggio.
Ribadendo quanto suggerisce Linkon: «Like all representations, these texts are valuable not as documentary evidence
of what happened but as interpretative evidence of why what happened matters
today» [Linkon 2013, 53].
A partire dagli anni Novanta, anche sulla spinta delle riflessioni dei già citati convegni di archeologia industriale, sono state realizzate nel Biellese
diverse iniziative di valorizzazione e rifunzionalizzazione del patrimonio
industriale dismesso. Di che interventi si è trattato? Quale è stata la direzione scelta per la riqualificazione? Il libro fotografico “Fabbriche, uno sguardo al futuro” [Antonaci 2006] presenta alcuni casi di riqualificazione che sono emblematici
per mostrare il processo di conservazione e adattamento a una nuova
destinazione di questi spazi.
Le fabbriche proposte, significativamente definite “silenti”, sono cinque lanifici (Maurizio Sella, Trombetta, Pria, Rivetti, Zignone) e una
filatura (Biellese).
Il lanificio Maurizio Sella, dichiarato “Monumento Nazionale” nel 1988, è sede della Fondazione Sella, che vede nelle attività archivistiche il fulcro della nuova destinazione14.
È l’arte invece il segno della nuova vitalità del lanificio Trombetta, come efficacemente evidenziato dal nuovo nome della
struttura: Cittadellarte – Fondazione Pistoletto.
Poco più a monte del torrente Cervo è collocato il terzo esempio di riqualificazione di spazi industriali: il
lanificio Pria. L’interno della struttura è dedicato a spazi espositivi, ma già dall’esterno si esplicita la valorizzazione in senso artistico attraverso l’installazione dei pinguini blu della Cracking Art, memoria del ponte delle
Signore che collegava i corpi di fabbrica sulle due sponde del torrente.
Per gli ex lanifici Rivetti, l’ingresso monumentale apre invece ad un cortile sul quale oggi si affacciano
edifici destinati a terziario e residenze.
Il percorso offerto dal libro di Antonaci conduce a questo punto appena fuori
dai confini della città di Biella. Il caso della Filatura Biellese, fabbrica innovativa dei primi del
Novecento sia per localizzazione che per tipologia costruttiva, è però un esempio di progettualità non realizzata: il Momart – Museo di Arte Moderna e Contemporanea ipotizzato già dal 2004 non si è sinora concretizzato.
Ultimo esempio di rifunzionalizzazione di una fabbrica silente
è il lanificio Zignone situato nelle montagne della Valsessera, zona orientale
della provincia di Biella. La struttura oggi è conosciuta come “Fabbrica della ruota”, nome che le viene dalla grande ruota metallica che caratterizzava il sistema
teledinamico. L’ex opificio è sede dell’associazione DocBi, cellula ecomuseale e Centro di Documentazione dell’Industria Tessile, promotrice di varie iniziative finalizzate alla messa in
valore del territorio15.
I sei esempi appena descritti sono testimoni dei notevoli interventi di
riattivazione degli spazi lasciati vuoti dalla precedente avventura
industriale. Il concetto ribadito dalle parole scelte per l’apertura della mostra fotografica è: «gli edifici industriali continuano ad offrire il loro contributo per lo sviluppo
del territorio: non producono più soltanto tessuti, ma idee, ricerca, cultura e creatività» (Giovanni 2006, Pray)16. Questo processo di riqualificazione si pone dunque in continuità con gli intenti dei convegni organizzati sul tema dell’archeologia industriale e con il già citato progetto del Centro rete biellese. Una condivisione di intenti che vede
questa cordata di enti collaborare anche nella gestione di eventi, di cui il
convegno “Strategie di rigenerazione del patrimonio industriale” del 2017 è un ulteriore, e più recente, esempio17. La sintesi della due giorni, svoltasi proprio a Cittadellarte e Fondazione
Sella, riprende i temi affrontati dalle nuove “storie” delle fabbriche silenti e li amplia fornendo quattro chiavi di interpretazione
della rigenerazione del patrimonio industriale:
Heritage telling
,
Creative factory
,
Temporary use
,
Business model
. Si punta pertanto a mantenere il legame fra la storia dell’impresa e il territorio; a far sì che “i vuoti” diventino progressivamente luoghi per la produzione di conoscenza, servizi,
tempo libero, residenza; a costruire le condizioni affinché “i ruderi” costituiscano laboratori per nuove attività, offrendo opportunità di business a nuove realtà imprenditoriali. Una narrazione che si conferma non lasciare spazio alla
desolazione, opponendosi strenuamente ad una lettura di declino dell’epoca industriale. Tornando indietro al 2006, la presentazione della mostra
fotografica dedicata alle “fabbriche silenti” si chiudeva con questa dichiarazione del presidente dell’associazione culturale:
A Biella non c’è un museo del tessile perché fortunatamente il tessile non è ancora musealizzato. Se notate i musei del tessile ci sono dove il tessile non c’è più: a Chieri c’è un museo del tessile e non c’è più il tessile, a Busto Arsizio è lo stesso. Speriamo che a Biella non ci sia questa necessità, perlomeno per qualche decennio speriamo di non aver bisogno del museo del tessile (Giovanni 2006, Pray).
Le aree dismesse del Biellese sembrano dunque rappresentare, per un insieme di
attori del mondo industriale e culturale, un ventaglio di possibilità per orientare il futuro, mantenendo una “visione di eccellenza” che pervade il territorio e i
brand
18.
Matteo è un fotografo biellese che ha ideato il blog
Vuotiaperdere,
dedicato ai luoghi abbandonati19. In un post, attingendo da testimonianze reali e informazioni veritiere, ci
racconta la storia fittizia di Franco, operaio di una ditta tessile al tempo
dell’alluvione del 1968. Attraverso le parole di un ipotetico diario corredato di
fotografie, queste sì reali, di ieri e di oggi, Franco ci parla della fabbrica abbandonata, perché mai più riaperta dopo l’evento alluvionale, condividendo con il lettore l’amara consapevolezza che «qui nel Biellese non c’è più molto da costruire se tanto non c’è più lavoro».
Nel racconto, seppur immaginario, di Franco quello che emerge è la fine del lavoro di fabbrica. Ciò che gli edifici rimasti vuoti dopo la chiusura degli impianti industriali
possono rappresentare è proprio l’assenza di lavoro. La rifunzionalizzazione delle strutture dell’archeologia industriale, di cui abbiamo presentato alcuni esempi eccellenti,
tace le conseguenze delle tante chiusure del comparto tessile. Negli stessi
anni che hanno visto svilupparsi la riflessione sull’utilizzo delle aree dismesse, a cui ho fatto riferimento nei paragrafi
precedenti, il sistema economico produttivo del Biellese viveva un cambiamento
significativo, che sintetizzo attraverso alcuni stralci dai resoconti annuali
dell’Osservatorio Regionale del Mercato del Lavoro del Piemonte20.
2010: “La provincia di Biella vede, negli ultimi anni, una trasformazione del proprio tessuto economico. Dal carattere spiccatamente industriale che ancora all’inizio degli anni Duemila caratterizzava il territorio, si passa ora ad una prevalenza dei servizi che, nel 2002, operano un sorpasso sul settore secondario”.
2012: “La situazione di Torino e di Biella, i due luoghi per definizione della crisi
industriale, resta critica, ma senza denotare ulteriori scivolate verso il
basso, forse perché la recessione vi ha già operato in profondità, lasciando meno margini di caduta. E dove, specie a Biella, si individua un
rallentamento dei flussi ordinari, con una netta caduta sia delle assunzioni
(-13%) che delle cessazioni (-8,2%) [...]”
2013: “Evidenziano in generale una tenuta, da leggersi positivamente nel quadro
presente, le province di Biella e del Verbano-Cusio-Ossola, dove l’occupazione industriale continua a cadere, ma è compensata da un aumento dei posti di lavoro nei servizi .”
2015-2016: il Biellese è inserito in un gruppo di aree delle province piemontesi che si situano “in posizione intermedia, variamente graduata, soggetta ad oscillazioni annuali”.
La descrizione statistica di questa trasformazione è specificata anche dal numero delle imprese tessili nella provincia, che è passato da circa 1300 sul finire degli anni Novanta a 700 in chiusura degli
anni Dieci del Duemila, e soprattutto portando l’attenzione sulla diminuzione degli addetti del settore tessile, che sono passati
da circa 30.000 a poco più di 10.000 nel 202021. Numeri che hanno cambiato la fisionomia economica e sociale del territorio
nell’arco di una ventina d’anni.
Se dal punto di vista degli industriali si è trattato di un cambiamento rilevante a livello di filiera e che ha spinto verso
esigenze di delocalizzazione - usando le parole di Duccio, imprenditore
tessile, «oggi quello che resta è la fascia un po’ più alta e un po’ più fantasiosa» (Duccio 4/4/2022, Masserano)22- dal punto di vista dei lavoratori ha significato la perdita della sicurezza
economica e lo sgretolarsi dei riferimenti sociali.
Per Ettore, che rappresenta la Camera del Lavoro, «non cogliere la forza impattante della riduzione dei posti di lavoro porta al
rischio di non intercettare i veri cambiamenti in atto» (Ettore 31/03/2021, Biella)23. Una riflessione che testimonia della grande fatica che il territorio biellese
ha fatto, e sta facendo, ad occuparsi delle ricadute a livello sociale.
Where have all the workers gone?
24 Quali strategie sono state messe in atto per far fronte ad un orizzonte
lavorativo che si presentava infausto? La prima risposta è arrivata dagli ammortizzatori sociali che hanno frenato le conseguenze
immediate sul fronte dell’impoverimento reddituale e che si è intersecata con una spinta verso il riorientamento professionale. Sono stati
gli anni dei servizi per le “politiche attive del lavoro”: come scrivere un cv, come prepararsi per un colloquio di lavoro, l’importanza di seguire corsi di formazione25.
Nella mia esperienza professionale sono stata anche un’operatrice dello Sportello Unico Socio Sanitario del Biellese Orientale e nella
relazione annuale del 2016, trovo questo appunto: «Un’altra percentuale che merita una riflessione è quella relativa a “Lavoro/Formazione” (16%). Spesso la domanda rivolta alle operatrici è quella di fornire un lavoro»26. Il servizio sociale si confrontava in quegli anni con la necessità di considerare una nuova tipologia di utenti, una fascia di cittadini che si
trovava ad affrontare un percorso di impoverimento dovuto alla difficoltà di trovare una nuova occupazione. Gli ex lavoratori del tessile sperimentavano
così la frustrazione di un ricollocamento in settori che, pur non avendo nulla a che
fare con le loro precedenti esperienze, offrivano maggiori garanzie di
occupabilità27. Michele, che in quegli anni era un operatore dei servizi sociali, mi dice: «la gente cercava lavoro e li sballottavi da un posto all’altro. Mille uffici, mille iniziative, ma nessuna che risolveva il problema» (Michele 25/02/2022, Biella).
L’intenzione di “non musealizzare” l’esperienza tessile trovava un riflesso nell’attitudine mostrata dalle famiglie biellesi a non rinunciare allo stile di
consumo che il precedente sistema economico concedeva. Tra i risultati più evidenti di questo atteggiamento vi sono i dati registrati dell’aumento dell’indebitamento e delle procedure di sfratto28. Sotto la spinta di motivazioni differenti il territorio si è dunque mosso nella direzione di un occultamento delle pesanti trasformazioni
che si stavano verificando.
Ancora nel 2020 il sindaco di Biella ha rilasciato questa dichiarazione:
Non dobbiamo nasconderci che stiamo vivendo un periodo, oramai troppo lungo, con tassi di disoccupazione mai visti in questi territori e dobbiamo dunque spingere verso una nuova imprenditorialità, che abbia valori rispettosi dell’ambiente, al fine di diventare un vero e proprio modello nel mondo, come è stato già nel passato. Noi viviamo in un’area fantastica, a ridosso delle Alpi, con la presenza di numerose vallate montane e collinari che rende il territorio locale di grande pregio naturale e paesaggistico, territorio che dobbiamo tutelare e che, se opportunamente curato e valorizzato, potrà diventare la culla di questo nuovo modo di intraprendere e lavorare (Sindaco di Biella, 2020) 29 .
Parole che dapprincipio aprono ad una presa di coscienza della fragilità del tessuto sociale, ma che subito rientrano nei binari di una comunicazione
dell’eccellenza e di una atavica etica del lavoro.
Lucie Morisset, studiosa di
Urban Heritage
, afferma: «Se la deindustrializzazione è una ferita non è nascondendola che si risolve… nemmeno nascondendola sotto un albero»30. Quello biellese non è un caso isolato, le strategie per rilanciare i territori in chiave di
sostenibilità, per una loro riqualificazione in chiave
green
, sono presenti in numerosi studi effettuati anche in altri centri ex
industriali31. Non si vuole qui intendere che non si tratti di proposte legittime, se ne
sottolinea nondimeno la necessaria non esclusività, a rischio di un occultamento delle dinamiche sociali legate alla
deindustrializzazione. Peraltro il tema della sostenibilità in senso ampio può aprire al confronto sulle prospettive future del territorio, ad esempio nel
tentativo di tenere conto delle opinioni delle giovani generazioni. Yonka Erkan, esperta di
Industrial Heritage
, durante un intervento al convegno “Industrial culture for future” pone questa domanda: «How can younger generations relate to narratives of industrial heritage and keep
them relevant and vital in the midst of a globalized world and changing
economy?»32. Una risposta che già all’interno del consesso trova una direzione nel panel “Industrial museums as engines of the future”, con la presentazione di esempi che rimandano alla più ampia esperienza dei “musei di società” francesi33.
Le narrazioni sulle aree dismesse del Biellese spostano lo sguardo dell’osservatore da un panorama connotato da potenziali castelli, che pone l’accento su una visione di eccellenza, a una prospettiva desolante di “gusci vuoti”, segni di abbandono e di perdita di senso.
Come nella ricerca condotta da Kathryn Marie Dudley dove la «Rust belt America is not a static landscape of slag heaps and desolate
smokestacks. It is a cultural drama of communities in transition and ordinary
people struggling to find a place for the past in the present» [1997, xi], così anche la popolazione che vive nel Biellese cerca di conciliare l’esperienza quotidiana dei luoghi simbolo di una sorta di
derelict land
alla narrazione dell’orgoglio per il proprio “dna tessile”.
L’esortazione degli studiosi della deindustrializzazione a non lasciare il
racconto degli impianti dismessi senza la voce degli operai che li hanno
vissuti, va accolto nell’analisi del presente, affrontando i mutamenti contemporanei, dando rilevanza a
coloro che oggi abitano il territorio, che con i vuoti si confrontano
quotidianamente34.
L’antropologo ben si presta a svolgere questo ruolo all’interno di una comunità, pensando il tempo presente con una prospettiva che tenga conto delle dinamiche
storiche [Rimoldi 2017], ma anche degli effetti sulla vita quotidiana di
trasformazioni economiche globali [D’Aloisio 2017, 80].
È partendo dalle “rovine fisiche” che si avvia la riflessione sulle “rovine sociali”, anche con la consapevolezza delle ripercussioni che focalizzarsi sulle
perdite, e dunque «thinking of ourselves as broken», può avere sul lungo periodo [Tuck 2009, 409]. Scegliere di attribuire “sovranità” alla comunità, adottando un approccio di ricerca che sia orientato a capire quali siano i
desideri delle persone, come interpretino le aree dismesse, quali destinazioni
ne auspichino, è la strada da percorrere per comporre un quadro più veritiero dell’identità di un territorio35.
Un percorso che richiede l’apertura alle voci più disparate, attraverso uno sforzo di immaginazione antropologica volta a
comprendere “lo strano nuovo mondo” in cui abitiamo [Pandian 2019, Tsing 2015]. Un blog, un romanzo, un film, un
libro, una mostra sono elementi che ci permettono di cogliere le crepe di una
narrazione incline ad assecondare il modello industrialista, portando in
superficie lo spaesamento dovuto allo scarto tra le promesse dei mecenati
locali e il senso di precarizzazione dovuto ai nuovi scenari del mercato del
lavoro [Molé 2010]. Il tentativo è quello di indagare i nuovi sviluppi di una società che si trasforma, accogliendo le suggestioni a non travisare le indicazioni
gramsciane concentrando lo studio su quelle “concezioni del mondo e della vita” che stanno sparendo, ma anzi seguendo l’invito ad affrontare i mutamenti contemporanei [Dei 2008].
Per questo la riflessione sulle aree dismesse si conferma utile, perché rende esplicite le contraddizioni tra le narrazioni delle élites e il vissuto quotidiano degli abitanti. I capannoni abbandonati sono essi
stessi una prova tangibile dell’eredità industriale ma sono al contempo emblema del vuoto che lasciano in termini di
identità culturale, simbolo di una condizione di liminalità tra il non essere più e il non essere ancora [Capello 2020].
È anche questo il compito di “un’antropologa in provincia”, come già in altra sede mi è parso opportuno definirmi [Vinai 2020, 13], farsi portatrice dell’effetto di riflessività della pratica etnografica [Fassin 2017, 8] mantenendo l’equilibrio tra soggettività e oggettività del ricercatore coinvolto all’interno del suo terreno di ricerca [Pozzi, Rimoldi 2022, 63].
Lidia non è l’unica a chiedersi quali siano gli effetti dei ruderi industriali nella vita
degli abitanti; io stessa mentre scrivo queste pagine sento i rumori di una
nuova ristrutturazione avviata negli spazi ancora vuoti della ex Fila. Solo la
ciminiera è il segno di “qualcosa di bello” che è rimasto, quel pezzo di castello che vedo dalle finestre di casa.
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1 “Dentro il cambiamento. L’industria tessile e della moda raccontata dai protagonisti”, DVD realizzato del progetto Equal – Tessuto locale, 2007.
2 L’articolo della testata locale Newsbiella ha per titolo “Fila: orgoglio coreano, rimpianto biellese” ed è disponibile a questo link: https://www.newsbiella.it/2014/02/18/leggi-notizia/argomenti/attualita-1/articolo/fila-orgoglio-coreano-rimpianto-biellese.html
3 Restituisco in questo articolo un approfondimento sul tema delle aree dismesse, attingendo dai materiali di una ricerca sistematica sulla deindustrializzazione nel Biellese, che comprende note di campo, interviste e analisi di documenti svolte in un arco di tempo di circa tre anni. Ho scelto di utilizzare nomi fittizi per i miei interlocutori; non cito esplicitamente i nomi di politici o imprenditori noti, laddove abbia ritenuto la precisazione non utile ai fini della disamina proposta nell’articolo, soffermandomi sul significato e sulle conseguenze delle dichiarazioni che propongo. Fornisco d’altro canto riferimenti diretti alle fonti utilizzate in modo che il lettore abbia la possibilità di accedere in prima persona al materiale.
4 Per indicazioni più specifiche sia sul mercato del lavoro biellese sia relative alle mie esperienze professionali rimando al paragrafo “Edifici vuoti: simboli della perdita del lavoro”.
5 Il DocBi Centro Studi Biellesi è stato promotore di un lavoro di schedatura degli opifici storici e sostenitore di successive ricerche e pubblicazioni di archeologia industriale. Si veda www.docbi.it
6 Appunti dal webinar “Vado a vivere in montagna” organizzato dalla Camera del Lavoro di Biella, https://www.facebook.com/watch/live/?ref=watch_permalink&v=2938937319752730
7 I venerdì letterari 2021: Annibale Salsa, “Il paesaggio culturale delle Alpi dal basso medioevo all’età moderna e contemporanea”, 20 agosto 2021, Valdilana, Mosso, piazzetta delle Granaglie.
8 Lidia è un’insegnante che avevo già conosciuto durante gli incontri organizzati nel febbraio 2020 per il Valdilana Festival https://www.comune.valdilana.bi.it/Home/DettaglioNews/IDNEWS/130845
9 Esempi di questo orientamento sono la mostra “La lana e le pietre” del 1986 e la giornata di studio “I luoghi dell’Industria biellese fra memoria e progetto” del 1992.
10 La proposta di una “mappatura degli stabilimenti industriali abbandonati” è emersa durante uno degli incontri per la realizzazione dell’Osservatorio territoriale del Biellese, note di campo, 21/01/2021.
11 https://www.archivitessili.biella.it/gli-obiettivi/
12 Interviste accessibili al seguente link: https://www.archivitessili.biella.it/perche-a-biella/
13 L. Pastore, M. Pellegrini, Come fossili cristallizzati nel tempo , 2001, Stefilm international/ Legovideo/ VideoAstolfoSullaLuna in collaborazione con RaiSat/Regione Piemonte.
14 Dal 2014 la struttura ospita anche un incubatore di startup, offrendo servizi che vanno dal coworking alla formazione, puntando sull’innovazione digitale.
15 Lo stesso libro fotografico è il catalogo di una mostra allestita proprio alla Fabbrica della Ruota nell’autunno del 2006.
16 Intervento di presentazione alla mostra scaricabile qui: https://www.facebook.com/watch/?v=1142463306224006
17 Per un approfondimento ai contenuti del convegno: http://www.saveindustrialheritage.org/strategie-rigenerazione-biella/
18 Un’impostazione non dissimile da altre città post-industriali, come il caso di Boston descritto da Cathy Stanton con un fiorire di «creative business incubator and coworking space» [Stanton 2017, 164].
19 Si tratta di un blog che propone scatti da tutto il Piemonte ma, per la provenienza biellese del suo ideatore, propone molti spunti su questo territorio: https://vuotiaperdereblog.com/
20 ORML Regione Piemonte, vari anni. Riprendo in questa analisi alcune delle riflessioni che ho svolto come ricercatrice indipendente, essendomi occupata per diversi anni di Osservabiella, un osservatorio sociale del territorio biellese.
21 Dati ricavati dalla Camera di Commercio di Biella e dagli Osservatori Statistici Inps.
22 Per un confronto sul tema della delocalizzazione si vedano i lavori di Veronica Redini [Redini 2008; 2019]. Per un’analisi delle ripercussione sui piccoli imprenditori si veda G. Loperfido 2020.
23 Dichiarazione raccolta durante una riunione dell’Osservatorio territorio del Biellese, note di campo, 31/03/2021.
24 Cfr. C. Bonfiglioli 2019 e il video Where have all the workers gone? disponibile al link http://www.chiarabonfiglioli.net/ .
25 Dinamiche descritte anche da Carlo Capello [Capello 2017; 2020].
26 Ho lavorato allo Sportello Unico Socio Sanitario dal 2009 al 2016 e ho raccolto molte esperienze di questo tipo durante gli anni, nonostante il servizio non fosse precipuamente rivolto al tema del lavoro.
27 Il caso delle iscrizioni ai corsi per Operatori Socio Sanitari (OSS) è stato uno dei più emblematici.
28 I dati relativi agli sfratti sono ricavati dall’Osservatorio del mercato immobiliare dell’Agenzia del Territorio e quelli sull’indebitamento dall’indagine annuale della CGIA di Mestre.
29 https://www.comune.biella.it/news/presentazione-palazzo-oropa-della-fondazione-san-domenico
30 Dichiarazione raccolta durante la tavola rotonda “Greening” del 15/01/2021 sul tema della deindustrializzazione, Progetto DéPOT – Deindustrialization and the politics of our times, https://twitter.com/deindustrialpol
31 Dall’abstract di presentazione dell’incontro sul tema Greening del gruppo DéPOT: «This workshop considers the ways that deindustrialization gets entangled with the language of environmentalism in different contexts, including how deindustrialized areas get “regenerated,” former industrial buildings “recycled,” and new-build manufacturing gets located on “greenfield sites”».
32 Intervento dal titolo “Youth in the Narratives of Industrial Culture: Past Roles and Future Responsibilities” durante il convegno “Industrial culture for future”, 4 novembre 2021, https://futur21.de/en/conference
33 Per una disamina delle caratteristiche del “musèe de société” si rimanda a N. Drouguet, L’inconfort du conservateur face au musée “indiscipliné”: la mise en exposition dans le musée de société , THEMA, La revue des Musées de la civilisation, 4:11-22, 2016.
34 Dal punto di vista di una valorizzazione della memoria della vita operaia va segnalato che tra il 1990 e il 2002 il Centro di documentazione della Camera del Lavoro di Biella ha realizzato la raccolta di 73 storie di vita di lavoratrici in fabbriche biellesi tra gli anni Dieci e Sessanta del Novecento. Nel volume In greggio e in fino. Storie di vita di operaie tessili nel biellese 1910-1960 si trovano pubblicate alcune di queste interviste. In quell’occasione Luciana Benigno, che aveva svolto il prezioso intervento editoriale sul materiale raccolto, incoraggiava ad affrontare l’analisi del presente: «Com’è oggi il Biellese, chi ha preso il posto di queste donne e di questi uomini? Forse varrebbe la pena di scoprirlo».
35 Un contributo senz’altro utile di “mappatura dal basso” potrebbe essere rappresentato dalla costruzione di mappe di comunità ( parish maps ) in quanto strumento in grado di evidenziare «la maniera in cui gli abitanti percepiscono e attribuiscono valore al loro territorio, alle sue memorie, alle sue trasformazioni, alla sua realtà attuale e a come vorrebbero che fosse in futuro» [Bonato in Esposito 2016, 54].