Black Hole, It Follows e lo Spirito Cannibale. Adolescenza e riti di passaggio: trauma, isolamento e trasformazione nel dialogo tra graphic novel, cinema e conoscenza etnografica

Accursio Graffeo

Ricercatore indipendente


Abstract

This essay analyzes the passage to adulthood in three different art and culture contexts. In the graphic novel Black Hole  a sexually transmitted disease turns the characters into lonely mutants. In the movie It Follows  some teenagers with ‘no-future’ lives are threatened by disturbing figures trying to kill them. Both these works show the lack of adults and youth isolation from the society. Among the Kwakiutl, the Cannibal Spirit kidnaps young boys and take them to the forest where they experience a liminal condition: the rite involves the whole society and the adults play a key role. These social dramas will be used to analyze the weakening of the ritualization related to the transition to adult age in the contemporary world.

Keywords : adolescence; rites of passage; graphic novels; cinema; Native americans


Introduzione

L’adolescenza è un periodo di transizione della vita di un individuo che presenta, in particolar modo nella cultura occidentale, caratteristiche fortemente traumatiche. Attraversare l’adolescenza significa vivere sulla propria pelle esperienze intense, fortemente emotive e altalenanti. Questo momento di passaggio – dalla fanciullezza all’età adulta – ha inizio grazie ad alcuni cambiamenti dal punto di vista biologico che fungeranno da volano per il conseguimento di autonomie e capacità sociali e relazionali di notevole importanza. È proprio durante questo periodo che l’acquisizione del pensiero astratto costituisce la vera e propria rivoluzione capace di cambiare il rapporto con la percezione della realtà dell’individuo [Pellizzari 2003]. È soprattutto l’esperienza traumatica della sessualità, legata ai cambiamenti del proprio corpo, a realizzare quel processo di separazione del soggetto e di costruzione di quel sentimento di unicità che, soprattutto in termini di astrazione, conducono all’elaborazione di una molteplicità di “sé”   possibili.

Si assiste pertanto a un distacco dal proprio corpo fanciullesco e asessuato – verso un nuovo corpo che non è sempre pienamente accettato dall’adolescente [Pietropolli Charmet 2013] – in favore di uno rinnovato, pienamente testimone del tempo che passa e strumento mediante il quale è possibile costruire la propria identità attraverso l’elaborazione di perdite e distacchi importanti, capaci di scalfire il senso di onnipotenza di cui aveva goduto fino a quel momento il soggetto.

È un distacco che investe anche il piano della famiglia, fino ad allora principale sistema di riferimento, ora non più sufficiente a fornire risposte alle nuove istanze dell’individuo/adulto in divenire. Un rifiuto della dipendenza e una forte spinta di emancipazione danno così il via al percorso di differenziazione dalle figure genitoriali. Nuovi vettori di questi movimenti e di allargamento del proprio orizzonte esperienziale sono: il gruppo dei pari e degli amici – in termini di rispecchiamento e riconoscimento – e l’esperienza della coppia amorosa, attraverso cui si scopre la dimensione dell’amore e della sessualità [Di Chio 2018, 115-116].

Il tema dirompente del trauma, come condizione dell’essere in quanto adolescente e adulto in divenire, nel contesto della separazione dal mondo dell’infanzia, si accompagna a un altro elemento centrale nella nostra dissertazione: la solitudine. Una solitudine che giunge in punta di piedi, un po’ sorniona, e che diviene inconsapevolmente condizione ontologica del soggetto giovane.

«Mi tormentava […] un’altra circostanza: precisamente, che nessuno mi somigliasse, e di non assomigliare a nessuno. ‘Io sono uno solo, e loro sono tutti’» [Dostoevskij 2014, 47]. Nel 1864 Dostoevskij fu capace di descrivere, attraverso queste semplici parole, lo stato d’animo e il senso di solitudine insolvibile vissuto da una cospicua quantità di esseri umani. Un’interessante lettura offerta, tra gli altri, da Paolo Nori1, ci consente di allargare la prospettiva consegnataci da queste parole, raggiungendo l’intimo di adolescenti e giovani (perlomeno nell’ambito delle società occidentali e industrializzate), donandoci un punto di vista secondo cui la perdita della dimensione dialogica e relazionale, il senso di distacco e di incompiutezza del sé, si mostrano nella forma traumatica di un periodo di transizione e trasformazione in cui ci si percepisce fondamentalmente soli e distanti dagli altri. Dostoevskij è stato un indiscusso scandagliatore dell’animo umano, ma anche un uomo capace di raccontare quegli aspetti più oscuri e “rischiosi” dello spirito a cui si può guardare solo ascoltando il grido di dolore che se ne percepisce. Uno scrittore che non è mai indietreggiato neppure di fronte alle verità più amare dell’esistenza.

Un periodo così complesso, con i tratti tipici dell’esperienza traumatica, oltre che essere accolto e vissuto su di sé, al punto da esserne travolti, necessità – per forza di cose – di una rappresentazione narrativa capace di “metterne in scena” il trauma. Il giovane si troverà così di fronte ad alcuni processi di simbolizzazione che non è ancora in grado di maneggiare ed elaborare adeguatamente, e sceglierà pertanto l’agito come modalità di evacuazione e meccanismo difensivo di fronte all’esperienza totalizzante che si trova a vivere [Ogden 2009]. Un agito che svolgerà una funzione (di primo acchito) rassicurante con cui si preparerà ad affrontare le fasi successive del suo percorso evolutivo.

Una rappresentazione che richiama inevitabilmente considerazioni e dissertazioni in campo etnografico che investono il tema della performance , che analizzeremo meglio in seguito. Su questo versante inoltre, sembrano emergere per contro esperienze etnografiche (decentrare dal pensiero occidentale) in cui gli aspetti del trauma, dello stress e della condizione di disagio legati all’adolescenza appaiono molto più sfumati, a seguito dell’abbandono di aspetti come individualismo, velocità e intensità, influenzati da un’idea di crescita e produttività costante. Una condizione che spesso priva gli adolescenti europei, e occidentali più in generale, di esperienze dirette di alcuni aspetti dell’esistenza, come nascita, amore o morte, senza la possibilità di mettersi realmente in gioco con i propri tempi e percorsi individuali di crescita [Mead 2007, 6-7].

Questo nostro viaggio ideale si svolge nei territori nordamericani, tra cui gli Stati Uniti, terra di tradizioni native, di popoli sostituiti e lacerati, terra di innovazioni che hanno invaso e pervaso – in senso positivo e negativo – l’immaginario collettivo europeo e mondiale, e che sono stati a volte incapaci di guardare a se stessi come fonte (e contemporaneamente) rimedio del proprio trauma. Un paese desideroso di mostrare la propria innocenza ma che, al tempo stesso, è stato in grado di licenziare alcune opere artistiche (e della tradizione) adatte a divenire strumento autocritico e riflessivo, con cui mettere a nudo la propria innocenza perduta o dimenticata.

Si procederà in questo elaborato attraverso un percorso comparativo che prenderà in considerazione tre diverse tracce, apparentemente distanti e separate: l’opera di letteratura a fumetti ( graphic novel ) di Charles Burns Black Hole (1995-2004), il film – riduttivamente considerato come appartenente al genere horror  – It Follows di David Robert Mitchell (2014) e infine gli aspetti culturali e simbolici legati alla figura dell’ hamatsa , il danzatore posseduto dallo Spirito Cannibale della cultura kwakiutl , protagonista del rituale di iniziazione e di ingresso nella Società del Cannibale. Un rituale che comportava la transizione da una dimensione a un’altra della vita comunitaria dell’iniziato e una vera e propria trasformazione simbolica della società [Comba, Amateis, 2019, 380]. Un aspetto quest’ultimo fortemente caratterizzato dalla presenza di elementi scenici e scenografici, con rappresentazioni sensazionali volte a impressionare coloro che assistevano alla sequenza del rapimento e del rituale nel suo insieme.

Si vuole così costruire un cammino in grado di prendere le mosse dalle istanze più intime dell’adolescenza, con i tormenti e le incertezze proiettate verso il futuro, per passare poi a ricomprendere tali bisogni all’interno di un carattere sempre più relazionale e sociale: una dimensione in cui l’isolamento e la fuga dalla realtà divengono elementi caratterizzanti. Proveremo quindi a ricucire le componenti traumatiche di questo periodo di transizione all’interno delle trame della cultura, grazie a quegli aspetti di collettivizzazione e di accudimento del contesto di appartenenza, da cui si son sempre più spesso prese le distanze, verso una deriva di perdita di contatto con gli elementi del tempo e della natura e dell’inesorabile avanzamento delle società industrializzate, interconnesse e globali. Un superamento del trauma che dialoga profondamente con il passato, con la sensazione che la polverizzazione di un elemento genitoriale superiore e collettivo, nel seno della società, abbia individualizzato e privatizzato i piani di crescita e ricollocazione di sé nel mondo. Un adulto che manifesta se stesso nell’assordante assenza che tratteggia i contorni di solitudine in cui i protagonisti delle nostre opere sono immersi. Un adulto che partecipa con i giovani coinvolti all’esplicitazione di quel “dramma sociale” che trova una sua sintesi ideale nella dimensione della performance  – ritualizzata e narrata all’interno delle sceneggiature delle due produzioni – e che dal dramma stesso acquisisce significato e linfa vitale [Turner 1993, 178].

Black Hole

Il taglio di un bisturi, un’incisione profonda: sul ventre di una rana durante una lezione di biologia, sulla pianta di un piede, sulla schiena durante una mutazione di pelle, tra le gambe dov’è collocato l’organo genitale femminile. Black Hole  apre in modo diretto, senza lasciare scampo, togliendo immediatamente il fiato, in modo quasi sconvolgente. Sembra raccontarci che non ci lascerà tregua durante tutto il percorso di dissezione di quel periodo avvolgente e totalizzante che è l’adolescenza. La storia si svolge in una Seattle degli anni Settanta che profuma e assomiglia in modo disarmante a quella che sarà negli anni Novanta: una città in cui gli ultimi rigurgiti di ribellione giovanile del movimento grunge  prepareranno il terreno agli anni del disimpegno e della disillusione nei confronti della contemporaneità. Nell’opera di Charles Burns l’adolescenza viene paragonata a una malattia infettiva, un morbo che assale i protagonisti e ne deforma irreparabilmente i corpi. Una malattia che si propaga sessualmente – analogamente a quello che accade, come vedremo, nel caso di It Follows  – quasi a voler precludere ogni afflato di futuro in divenire, e limitandone la ricomprensione esclusivamente in termini deformanti e nefasti. Una malattia da cui si esce vivi oppure si soccombe, un urlo e una lacerazione nel buio, nel nero profondo, la cui eco e il cui riverbero divengono propagazione irrorante dell’essere adulto di ognuno.

Vengono narrate le vicende di alcuni adolescenti che affrontano le loro normali esistenze, sospesi tra scuola, feste, esperienze sessuali, consumo di droghe, fino al punto in cui alcuni di loro vengono inghiottiti da un oscuro male che ne deforma i corpi, li rende mutanti. Il tema della mutazione dei corpi, della trasformazione – presente costantemente nell’opera – ci porta inevitabilmente a pensare al richiamo cinematografico dell’immaginario di David Cronenberg, che in qualche modo funge da ponte con la successiva opera filmica presa in considerazione. La trasmissione del morbo, l’acquisizione delle deformità e delle mutazioni genetiche, avviene attraverso rapporti sessuali con ragazzi già vittime della malattia. Alcuni di loro cercheranno di celare finché possibile le proprie alterazioni, optando successivamente per l’isolamento domestico oppure per il riparo in boschi o luoghi appartati, onde evitare il disprezzo dei coetanei. Black Hole ci proietta nella vita di Keith, goffo quindicenne infatuato di Chris, apparentemente una studentessa modello, che con lui condivide ansie e incertezze per il futuro. Il successivo incontro tra Keith ed Eliza – una ragazza con una curiosa mutazione che le ha donato un sensuale prolungamento del coccige a forma di coda di lucertola, capace di incorporare con i suoi dipinti la funzione metanarrativa dell’intera opera2 – condurrà i due sulla strada della salvezza attraverso l’amore e una più consapevole e matura relazione. L’abbandono dei luoghi chiusi – del ghetto nel bosco o delle claustrofobiche case – in favore di luoghi aperti, è lo sbocco, lo squarcio nel cielo e nel tempo in grado di disciogliere i grumi emotivi e le incertezze delle esistenze in gioco. Alla fine dell’opera ritroveremo Chris intenta ad immergersi nell’oceano, sotto un cielo nerissimo trapuntato di stelle: è questa la forma di ricerca, solitaria, che la ragazza, al contrario di Keith ed Eliza, ha scelto come risoluzione dei propri dissidi e contrasti interni. Gli altri, coloro che non ce l’hanno fatta, muoiono o rimangono prigionieri, incapaci di varcare la soglia, lo squarcio, il buco [Burns 2005]. Un buco nero che per alcuni soggetti rappresenta in verità il reale abisso in cui si cade dissolvendosi nel nulla, e che rimanda un’idea di morte perlopiù inaccettabile e insopportabile per l’essere umano [Tugendhat 2014, 161].

Charles Burns racconta le vulnerabilità e le inquietudini dei giovani americani costruendo un’opera fitta di simboli e richiami grafici. Il motivo ricorrente: il buco, la fessura, diviene una porta d’accesso a un mondo ignoto, in cui visibile e invisibile – ma anche interno ed esterno – dialogano e si rincorrono in continuazione. Ed è forse proprio un’opera a fumetti, arte dell’invisibile, la più adatta a ricomprendere tutti quegli aspetti dell’impercettibile che fanno parte dell’attività interpretativa a cui è chiamato il lettore per riempire gli spazi tra le vignette, costruendo quei collegamenti che costituiscono la narrazione tra ciò che si vede – il tratto grafico dell’opera – e ciò che il fruitore elabora e sedimenta dentro di sé nello spazio immaginativo [McCloud 1994, 5-9].

Black Hole è un’opera costruita sui contrasti: un bianco e nero netto, privo di sfumature, con sfondi carichi e densi, impenetrabili, e dai contorni marcati. Il volume è inoltre carico di espressioni simboliche: il serpente, la coda, gli orifizi, ecc. Continui richiami sessuali in cui il rimando all’organo femminile avviene tramite un’incisione fatta con un bisturi (sul ventre di una rana) o con una ferita sulla pianta del piede; mentre l’organo maschile viene evocato dalla figura del serpente – uno dei personaggi contrae una mutazione che lo obbliga a una periodica muta della pelle – o attraverso l’immagine della pistola3. I richiami simbolici giocano anch’essi sull’asse della dualità e dell’ambivalenza, mettendo in evidenza aspetti generativi e distruttivi al contempo. Il serpente quindi, simbolo per antonomasia dell’energia, mostra in verità aspetti di polisemia legati al luogo in cui vive. La muta della pelle del serpente simboleggia il periodico rinnovamento, l’abbandono dello stato di vecchiaia. Posto a custodia delle fonti vitali, l’animale conserva, nelle diverse culture quegli aspetti di duplicità: positivo/negativo, costruttivo/distruttivo [Cirlot 2021, 400-405], che lo rendono tramite ideale per veicolare i temi legati alla sessualità, al trauma adolescenziale e alla trasformazione così frequenti in Black Hole .

It Follows

La trama del film It Follows  è nella sostanza piuttosto semplice. La diciannovenne Jay, dopo un rapporto occasionale consumato la notte precedente, si ritrova il giorno successivo legata a una sedia in un edificio abbandonato, forse un parcheggio dismesso. Qui la ragazza apprenderà dal ragazzo con cui aveva trascorso la notte, di aver contratto un misterioso morbo, una strana malattia trasmessa per via sessuale, i cui esiti la tormenteranno nei giorni a venire, in modo inesorabile e irrefrenabile. Questa malattia non produce sintomi fisici bensì metafisici e soprannaturali: chi ne è affetto verrà tormentato fino alla morte da un’entità che la seguirà ovunque. Questa evocazione assumerà di volta in volta forme diverse: individui sconosciuti che lentamente, ma inesorabilmente, continueranno ad avanzare verso di lei, cercando di raggiungerla e ucciderla. Se Jay non riuscirà a trasmettere a sua volta la malattia, attraverso un nuovo rapporto sessuale, rischierà di morire. La ragazza incomincia ad essere così perseguitata da inquietanti figure che lentamente le vanno incontro cercando di afferrarla in ogni momento della giornata. Aiutata da alcuni amici Jay cerca di allontanarsi e fuggire, ma le figure sembrano non demordere e continuano ad inseguirla ovunque. Il gruppo di amici metterà in atto diversi tentavi per eliminare la tetra (e mutevole) figura avanzante, e alcuni di loro ne cadranno vittima. Nonostante uno di questi tentativi sembri andare a buon fine, nel finale del film, alle spalle di Jay e dell’amico Paul, si scorgerà in lontananza un individuo misterioso che li segue, segno forse che la misteriosa malattia non è stata in realtà debellata.

It Follows  è un film dal forte valore estetico e soprattutto dal grande impatto emotivo: la cura della fotografia e l’utilizzo della musica come se si trattasse di un personaggio aggiunto alla trama lo collocano tra le pellicole importanti nel suo genere. Un film che si inserisce sul solco del filone slasher  di alcuni classici degli anni Ottanta ( Venerdì 13 , Il giorno di San Valentino , Halloween , Nightmare ), le cui atmosfere solitarie e desertiche riportano alla mente i lavori di John Carpenter ( Halloween , Fog , La cosa ).

I luoghi desertici di It Follows ci consegnano un gruppo di adolescenti drammaticamente ripiegati su loro stessi, solitari, che hanno perduto ogni impeto di rabbia giovanile, in un dialogo quasi autistico con il proprio sé e con il mondo circostante. Un gruppo di giovani in cui il desiderio di speranza, realizzazione e futuro è niente più che un velo malinconico sugli occhi. Un futuro vuoto che sembra condurre con sé solo la sensazione della fine: una lenta agonia raffigurata dalle figure sinistre che avanzano verso i protagonisti. Un tempo sospeso e senza futuro, traumatizzante, reso tale dagli “adulti di ieri”, dalle precedenti generazioni che hanno smesso di costruirlo. Un tempo in cui il disimpegno, il fallimento degli adulti si riverbera nel mondo dei giovani nella forma di un presente di cui non ci si cura – raffigurato nel film grazie ad ambienti degradati e soggetti a incuria – e di un futuro che appare tetro e povero di speranze. Le aspettative deluse dei protagonisti divengono così quell’ossessione che si trasforma in persecuzione, rappresentata nella dimensione sessuale, normalmente propensa al futuro e generativa (nella forma del nascituro e della vita in potenza), che invece diventa prospettiva di una nuova esistenza che verrebbe al mondo per reiterare le stesse disillusioni, le stesse vuote speranze. Una dimensione sessuale mostruosa e mortale, che ha perso ogni contatto con la speranza rappresentata da una nuova generazione e con la continuità della propria storia, in grado di generare solo mostri capaci di uccidere4.

Tra le mani abbiamo così un gruppo di adolescenti, di adulti in divenire, in preda al tormento, immersi in quel processo di soggettivazione che li vede desiderosi di un incontro con l’altro, e che comporta una presa di distanza, un attacco diretto, una distruzione degli idoli della propria infanzia – che in It Follows appaiono dimenticati in un remoto passato – così da poter operare una migrazione dei propri affetti dal nucleo genitoriale originario, al rapporto di coppia prima e alla dimensione sociale poi. Un movimento in direzione della conquista di un Soggetto, di un interlocutore capace di farsi testimone del proprio percorso di crescita e del proprio essere adulti [Pietropolli Charmet 2018, 47].

Dove sono gli adulti in It Follows ? Quale credibilità e visibilità incarnano?

Gli adulti sono relegati a ruoli marginali, di contorno, quasi impalpabili e inconsistenti: un poliziotto afroamericano, l’infermiera di un ospedale e poco più. Sono adulti lontani, sfocati, quasi trascurati dalla macchina da presa.

Il regista ci consegna un gruppo di giovani spaventati e spaesati, immersi nel trauma adolescenziale e abbandonati a loro stessi, inseguiti da figure pronte a distruggere ogni residua speranza di futuro. Giovani fragili di quella fragilità che è tipica «degli oggetti preziosi, unici, delicati» [Pietropolli Charmet 2008, 104] e che necessitano di essere collocati nella corretta posizione sociale e trattati con le dovute maniere. Quella stessa fragilità che può divenire risorsa importante se inserita in diversi contesti o climi relazionali, in cui i giovani hanno la possibilità di fidarsi dell’interlocutore (adulto) – rappresentato nella sua assenza in It Follows  – mostrando capacità relazionali elevate se all’interno di una relazione investita affettivamente o di fronte a un interlocutore adulto competente, di cui bramano la presenza [ivi, 106].

Adulti lontani, dispersi nelle periferie del soggetto adolescente, che lasciano ragazzi soli, perseguitati da spettri generati dal vuoto di significati trasmesso dalle generazioni precedenti, dall’assenza di uno sguardo che li sappia accogliere e capire, che li sappia amare 5 .

L’ hamatsa  e lo Spirito Cannibale

Il rituale d’inverno costituiva uno dei momenti più importanti tra i Kwakiutl e gli altri gruppi nativi della costa nord-occidentale del Nord America. La stagione invernale – approssimativamente da novembre a marzo – rappresentava il momento dell’anno espressamente dedicato alle celebrazioni religiose. Il periodo cerimoniale prevedeva una gran quantità di danze, feste e scambi rituali (ad esempio il potlatch ); le attività produttive non strettamente connesse alle celebrazioni venivano sospese. La stagione profana dell’anno ( baxus ), caratterizzata da attività lavorative e di sussistenza, cedeva il passo alla stagione sacra ( tsetseqa ). Si assisteva così ad un vero e proprio stravolgimento dell’organizzazione sociale, un rimescolamento dei legami tribali – basati principalmente sui vincoli di parentela e sull’appartenenza a gruppi di discendenza – per lasciare il posto alle relazioni proprie di quel complesso di associazioni che accomunava individui che avevano ricevuto una visione ed erano stati iniziati da uno stesso essere soprannaturale. Gli individui appartenenti ai ceti più alti della società abbandonavano il nome con cui erano noti durante il periodo estivo, e che ne rappresentava prestigio e rango sociale, per assumere una nuova denominazione rituale che li accomunava ai loro pari, anch’essi iniziati dalla stessa entità. Era questo il periodo in cui gli spiriti si avvicinavano ai villaggi per prendere possesso di alcuni giovani, che sarebbero poi diventati membri delle varie società segrete. Tra questi spiriti abbiamo la figura di Bákbakwalanuxsiwe , lo Spirito Cannibale [Comba 2001, 479]. Tra coloro che erano stati da lui iniziati troviamo l’ hamatsa , il “mangiatore di uomini”, danzatore folle pronto a divorare carne umana e qualunque essere fosse capitato a suo tiro. L’impianto della venuta, delle modalità di possessione ad opera dello spirito e la cerimonia tutta, ruotavano attorno al rapimento di alcuni giovani, alla trasmissione di potere – una vera e propria trasformazione interiore e sociale – e ad una riconsegna nell’alveo della società kwakiutl , che provvedeva a liberarlo da quella “sacra follia” da cui era stato infettato. L’assetto della cerimonia presentava aspetti scenici e spettacolari che prevedevano l’uso di costumi, interventi performativi ed effetti speciali che inducono a paragonarlo, per certi versi, a una vera e propria rappresentazione teatrale [Comba 1992, 35-39]. Il rituale appare strutturato secondo la classica suddivisione in tre fasi di Van Gennep [2012, 10-11]: separazione (rottura della quotidianità), margine (esperienza della liminalità) e aggregazione (reintegro in una nuova posizione sociale all’interno della comunità). Un rito di passaggio che interviene in una fase critica della vista degli iniziandi, e della società nel suo complesso, e che comporterà inevitabilmente un cambiamento di status sociale individuale e collettivo.

In un primo passaggio avveniva la convocazione dell’assemblea, ad opera di un soggetto adulto che intendeva celebrare la cerimonia d’inverno in favore, ad esempio, del proprio figlio. Informata la società di danza presso cui si voleva che il giovane venisse affiliato, veniva riunita la tribù guidata dagli anziani e annunciato l’inizio di una nuova stagione cerimoniale. Si assisteva quindi a un periodo di preparazione rituale, fatto di rinunce e proibizioni comportamentali. A questo punto gli iniziati sparivano dal villaggio, gli spiriti erano ormai nel mondo dell’uomo ed erano penetrati all’interno degli spazi abitati dalla tribù. I giovani erano stati rapiti dagli spiriti e portati nella foresta; una volta avvertita la tribù del rapimento, la successiva assemblea convocata segnava il vero e proprio inizio dell’ingaggio rituale [Boas 1966, 189].

La scomparsa degli iniziati avveniva sovente in modalità spettacolare, impressionante e con toni drammatici: forti rumori che scuotono la capanna dove si trova l’iniziato, il giovane che si agita in preda a spasmi come posseduto da uno spirito misterioso, il giovane che scompare e i suoi indumenti e ornamenti rituali in cedro che vengono ritrovati sporchi di sangue. Il giovane rapito veniva portato nella foresta, dove sarebbe rimasto a vivere per un certo periodo. Nelle culture della costa nord-occidentale la rappresentazione rituale e la sua spettacolarizzazione rivestivano un’enorme importanza. Le maschere utilizzate avevano spesso dimensioni e aspetto impressionanti, erano composte da parti mobili, presentavano meccanismi manovrati da un sistema di fili che ne consentivano l’apertura e il mutamento delle forme. I popoli di quest’area avevano una particolare abilità nel mettere in scena drammatizzazioni capaci di utilizzare veri e propri effetti speciali, illusionistici e grandiosi, grazie all’utilizzo di trucchi e complicate apparecchiature tecniche [Drucker 1963, 163-164]. Un’attenzione agli aspetti scenografici e di maggiore impatto emotivo che trasformavano questi rituali in vere e proprie rappresentazioni simili a “spettacoli” o performance . L’impiego di aiutanti, nascosti tra le travi del soffitto, era fondamentale per inscenare il rapimento degli iniziati. Costoro potevano manovrare fili invisibili, permettendo così agli sciamani e ai danzatori di ostentare poteri magici straordinari. Il rapimento degli iniziati rappresentava il momento cruciale e più spettacolare di tutto il rituale.

Trascorso un periodo di isolamento nella foresta, l’iniziato hamatsa  tornava al villaggio in preda a uno stato di estasi violenta, dimenandosi continuamente e aggredendo chiunque gli si parasse innanzi. Secondo alcune testimonianze, a questo punto, uno schiavo veniva ucciso in modo che potesse essere mangiato dall’ hamatsa  [Boas 1897, 439-442], mentre secondo altre fonti sembra che l’iniziato facesse rientro dalla foresta portando con sé un cadavere, fornitogli probabilmente sottraendolo a qualche sepoltura. Il danzatore hamatsa , il “cannibale”, si muoveva al ritmo di tamburi e strumenti. Successivamente si ritirava in una stanza considerata l’abitazione dello spirito cannibale Bákbakwalanuxsiwe , per poi fuoriuscire attraverso un’apertura che rappresentava simbolicamente la bocca dello spirito, in una sorta di nuova nascita. Il ritorno dal periodo di isolamento dell’iniziato avveniva in preda al furore estatico. Un furore che veniva pacificato solo attraverso l’intervento di alcuni anziani della Società del Cannibale e grazie a una forma di esorcismo attraverso bastoncini e ornamenti di corteccia di cedro, in grado di quietare il danzatore, che a quel punto era in grado di proseguire in maniera mansueta, essendo oramai purificato, la propria danza in qualità di membro effettivo e socialmente approvato della Società del Cannibale [Padfield 1991].

Sia che i Kwakiutl avessero l’abitudine di uccidere uno schiavo, da offrire come cibo per l’ hamatsa  [Boas 1897, 439-440], oppure che usassero dissotterrare un cadavere appositamente per l’uso [ivi, 441-442], è comunque provato che il danzatore “folle” si avventasse su qualcuno dei presenti mordendogli il braccio e facendolo sanguinare. La persona ferita si prestava volontariamente ad essere morsa dal danzatore, dietro successivo indennizzo e ricompensa da parte degli organizzatori della cerimonia. Queste scene di cannibalismo, così come gli apporti scenografici che intervenivano durante la fase del rapimento e le elaborate maschere, ricche di espedienti tecnici che le rendevano mobili e cangianti, riflettevano il carattere e il talento fortemente drammatico dei popoli della costa nord-occidentale. Un carattere e un’attenzione al dramma volti a tessere un rapporto di interrelazione tra le aspettative e i bisogni di rappresentazione del gruppo e le capacità di un individuo, lo sciamano, sul quale andavano ad incanalarsi il consenso sociale e il ruolo di mediatore e pacificatore delle tensioni fisiche e simboliche della tribù. Uno spettacolo sì, ma anche molto di più: lo sciamano non solo imitava e riproduceva determinati accadimenti, egli li viveva su di sé in tutta la loro forza e violenza [Lévi-Strauss 2015, 249]. Egli fungeva così da tramite, da mediatore (adulto), riconosciuto e legittimato dal resto della società, nella formazione rituale dei giovani della tribù, attraverso un percorso che rappresentava in forma drammatica e traumatica la transizione dalla fanciullezza alla maturità.

Conclusioni

Abbiamo preso in considerazione l’aspetto del trauma da un punto di vista funzionale e strutturale all’interno del percorso di crescita di un individuo, inquadrandolo nella cornice di quel periodo fondamentale della vita di ogni soggetto, noto con il nome di “adolescenza”. Un progressivo allontanamento dal mondo dell’infanzia e un graduale avvicinamento alle disillusioni dell’età adulta. Le opere artistiche prese in considerazione – Black Hole  e It Follows  – hanno tracciato un sentiero piuttosto preciso, anche in termini di superamento del trauma. Entrambe giocano sulla sensazione di vuoto, solitudine e desolazione, attraverso cui è possibile oltrepassare lo scoglio del turbamento esclusivamente “in assenza”. Si palesa così davanti al nostro sguardo il “grande assente” di entrambe le vicende: l’adulto e il suo mondo, inconsistente e avvolto nel disincanto. Un grande assente che è generatore di conflitto e tutt’altro che accomodante, un adulto con il quale è possibile un’operazione di riconciliazione prevalentemente secondo una modalità interiore, intima e individuale, che è al tempo stesso proiezione di una dimensione da esperire soprattutto in termini sociali.

Una condizione che i giovani protagonisti delle nostre vicende vivono su di sé in termini di (auto)antropo-poiesi, operando quell’azione di costruzione dell’uomo che è, oltre che culturale, anche spiccatamente sociale e relazionale. La fuoriuscita dall’età puberale e il passaggio all’età adulta rappresentano una delle tante rinascite – successive a quella biologica originale – che contribuiscono alla costruzione dell’essere umano, a partire dall’essere originario incompleto [Remotti 2013, 33-41]. I personaggi delle due opere si trovano drammaticamente immersi in quella condizione, comune a molti coetanei contemporanei, che li vede soli – circondati dal silenzio assordante degli adulti (assenti) – nella gestione della dimensione di crescita e di proiezione verso il futuro. Sono soli, senza un adeguato sostegno da parte di quella componente della società che avrebbe dovuto raccoglierli e accompagnarli, sancendone e ritualizzandone l’avvenuta “rinascita” nel mondo degli adulti. Una transizione in cui pubertà   fisiologica e pubertà   sociale, quest’ultima ritualizzata [Van Gennep 2012, 57-61], appaiono sovrapposte, senza soluzione di continuità e supporto da parte dell’elemento della collettività. Una sorta di carenza rituale che getta l’individuo tra gli ingranaggi del tempo che fluisce inesorabile, privandolo dei dovuti sostegni dati dalla collettività – tra cui gli adulti di stretto riferimento – e dismettendo quella dimensione pubblica delle ritualizzazioni e dei passaggi di crescita che porta ad inficiarne il reale potere, proiettando il tutto sempre più nella sfera del privato [Segalen 2002, 50].

Questo aspetto della ritualizzazione e della cura di cui si fa carico una società, e con essa il mondo degli adulti, è il nucleo centrale del rituale kwakiutl  legato alla figura dello Spirito Cannibale. Una rappresentazione volutamente ed enfaticamente drammatizzata, in termini traumatizzanti e sconvolgenti, al punto da trasformare l’iniziato in un danzatore cannibale, di modo che egli possa affrontare l’esperienza di crescita attraverso il tramite terapeutico dell’ingaggio sociale e della responsabilità collettiva. Viene “messa in scena” in questo caso la funzione di soggettivazione della società e della cultura, che si prende cura dello sviluppo dei propri individui, in quanto presidio vigile nei confronti dell’individualismo e del senso di vuoto. Un’enfatizzazione del valore collettivo della crescita personale e sociale, che mutua un forte senso di appartenenza e di proiezione verso il futuro.

È interessante notare come il tema dell’isolamento nel rituale dello Spirito Cannibale, durante il quale l’iniziato viene descritto come «un essere selvaggio, inquietante e mostruoso che viveva al margine del mondo» [Comba, Amateis, 2019, 453], sembri mostrare i tratti di un presidio e di un “controllo” della dimensione sociale debole e assente. Sebbene in questa fase l’iniziato si collochi (anche fisicamente) al di fuori della comunità, l’abbandono di ogni caratteristica umana conserva fortemente le peculiarità del suo futuro rientro e della sua ricollocazione nell’ambito sociale. L’isolamento pertanto vissuto dall’iniziato hamatsa  assume caratteristiche differenti dalla solitudine e dal senso di estraneazione dei protagonisti di Black Hole e It Follows , vicende quest’ultime in cui sembra essere invece evaporata ogni forma di presidio da parte del mondo adulto e ogni velleità di una ricollocazione dei giovani nell’alveo della società, descritta come priva di un futuro palpabile.

Dal punto di vista delle arti visive, il genere horror  è in grado di fornire all’adolescente una cornice rappresentativa che contiene a “distanza di sicurezza” gli effetti traumatici dei cambiamenti esistenziali che sta vivendo, fornendo così l’occasione di un rispecchiamento intimo ed emotivo. Il gruppo dei pari rappresenta un importante contenitore transizionale che prende il posto dell’accudimento dato dall’ambiente familiare, promuovendo così crescita, autonomia e separazione. Al contempo il gruppo dei pari si può connotare anche nella forma di quel «rifugio della mente» [Steiner 1993] in grado di offrire un ambiente sicuro e protetto, all’interno del quale poter trovare riparo dagli aspetti traumatici legati alla crescita.

Il consumo di horror , di immagini violente e spaventose, intrepretato come   un bisogno di ricerca di emozioni forti ed eccitanti [Sparks 2016, 81], piuttosto che interessato ad assistere alla violazione dell’esperienza quotidiana e di alcune norme socialmente accettate [McCauley 1998], connota la fruizione di questi film alla stregua di “riti di passaggio” per adolescenti. Così come le fiabe preparerebbero in sostanza all’ansia della separazione, i film horror  lo farebbero in merito all’ansia della riproduzione, una dimensione sessuale peraltro centrale nelle due opere prese in considerazione in questo elaborato. Non sarebbero quindi solo fonte di brividi, emozioni e paura, ma anche e soprattutto veri e propri contributi identitari legati alla sessualità [Twitchell 1985].

Per quanto alcune interpretazioni “classiche” del genere horror  non possano essere del tutto applicabili alla complessità che la modernità e il genere stesso hanno assunto, possono comunque tornare utili ai fini del nostro ragionamento, se non in un’ottica di analogia, perlomeno con una stretta correlazione con alcune caratteristiche presenti nei rituali iniziatici. Alcuni temi ricorrenti come una certa enfasi sul tempo degli inizi, la presenza di richiami alla religione, le figure mostruose, il tema del sangue e del terrore, l’idea di un ciclo di morte e rinascita, una conoscenza esoterica rivelata, sono parte anche integrante di diversi rituali iniziatici [Evans 1975, 125-128]. La presenza di esseri soprannaturali, anche divini, spesso responsabili delle fasi di transizione e trasformazione, accomunano tali opere al rito. In questo quadro, e in funzione interpretativa, non è fondamentale che tali figure – esseri celesti o demoniaci, piuttosto che antenati o altre figure mitiche – compaiano sempre in primo piano o che vengano direttamente presentificate durante un rito. È importante piuttosto, anche per la rispettiva tribù, ciò che essi effettivamente rappresentano, ossia il mondo delle realtà trascendenti e sacre [Eliade 2020, 38].

Trasformazione, come importante momento iniziatico e di ingresso nella società, e distacco, come ad esempio quello del fanciullo dalla madre (eventualmente a seguito del rapimento di un mostro), a segnare l’iniziazione puberale del giovane, appartengono tanto alla dimensione del rito di passaggio, quanto alla dimensione artistica delle opere dell’orrore.

Alcuni di questi lavori si dimostrano capaci di raccogliere alcune istanze giovanili, in virtù del bisogno insoddisfatto di ritualità e accompagnamento nei passaggi critici della crescita di cui sono investiti i giovani nelle società contemporanee, soprattutto occidentali. Istante capaci di confluire anche nella forma di esperienze di fruizione – in particolar modo delle opere cinematografiche – che possono essere accomunate all’esperienza onirica. Come ci ricorda poi Ingold [2019, 74], parlando degli Ojibwa, il mondo dei sogni e quello del mito esistono solo in continuità con il mondo reale e della veglia, arrivando di fatto a non operare alcuna distinzione tra le due sfere dell’esistenza.

In entrambe le opere il genere horror  sembra mettere in scena il trapasso generazionale dell’adolescenza, in quanto espressione della fragilità umana, secondo i termini del concetto freudiano di perturbante   ( Unheimliche ). Un perturbante che descrive una sensazione di spaesamento e straniamento dovuto a un qualcosa che in precedenza era familiare nella vita psichica fin dai tempi remoti (sotto forma di credenze superate o rimosse che sopravvivono nei primitivi e, soprattutto, nei bambini) e che, grazie al processo di rimozione, è stato reso un elemento estraneo dal soggetto [Freud 1979, 101-102]. Pertanto, «ci troviamo esposti a un effetto perturbante quando il confine tra fantasia e realtà si fa sottile» [Freud 1991, 297] e «attribuiamo una qualità ‘perturbante’ alle impressioni che tendono a confermare l’onnipotenza dei pensieri e il modo di pensare animistico in generale, anche se nel nostro giudizio ci siamo già distolti da esse» [Freud 1980, 92]. L’assottigliamento delle zone di confine tra le dimensioni del reale e della fantasia, ma anche tra la quotidianità e tra l’insorgere del dramma sociale, aumentano l’impronta critica e auto-riflessiva dei rituali di iniziazione, delle pellicole cinematografiche o dei libri a fumetti, fino a creare quella zona liminale in cui emergono i valori più profondi di una società [Turner 1993, 189]. Il rituale dello Spirito del Cannibale lo costruisce nel tempo della trasformazioni dei giovani in cannibali, Black Hole e It Follows  divenendo essi stessi veri e propri fenomeni liminali [ivi, 81], in quanto portatori di un tempo sospeso e rarefatto, in cui apparentemente non è dato sapere che cosa sia accaduto prima e che cosa accadrà poi, e lasciando alla mercé dell’immaginazione – la nostra in quanto fruitori e partecipi della performance culturale – la ricollocazione del dramma sociale attraverso le azioni riparatrici e la reintegrazione del gruppo sociale. Se la liminalità rappresenta un prodotto di un processo rituale, ogni qualvolta questo fattore emerge possiamo dire di non essere distanti dal rito stesso e dai gesti ad esso connessi. Una prospettiva che ci fa pensare che la produzione di media culturali e la loro fruizione siano da considerare forme liminali [Coman 2008, 96]. Secondo un’ulteriore lettura possiamo pertanto interpretare la visione dei media e delle performance (a cui rimandano) come veri e proprie manifestazioni rituali capaci di generare intervalli liminali, tensione e conflitti [ivi, 101].

Appare però piuttosto semplice identificare gli elementi di rottura e quelli del dramma sociale in quell’assenza delle figure adulte così evidente nelle due opere. Se in parte in Black Hole  alcuni personaggi riescono a trovare autonomamente delle forme di riparazione e reintegrazione (esclusivamente nella struttura autoreferenziale del gruppo adolescenziale), questo aspetto, presente in modo impeccabile nel rito dello Spirito Cannibale, sembra del tutto assente in It Follows (con l’apparente ritorno delle figure inquietanti alla fine del film), al punto che si ha la sensazione che la vera fase di riparazione e reintegro del film siano piuttosto un monito ad agire in termini di responsabilità nei confronti della società. Un monito che invita a fare della riflessività performativa la condizione in cui il gruppo socioculturale (assente o presente in parte nel film), torni a interrogare se stesso, i propri simboli, le proprie relazioni, i propri significati e così via, a vantaggio di quei soggetti desiderosi di poter costruire – grazie a una guida, come accade tra i Kwakiutl – un proprio “io” pubblico [Turner 1993, 79].

Black Hole e It Follows  sono opere “perturbanti” e “liminali” che, varcando i confini tracciati dall’esperienza del trauma, parlano del desiderio di comunità, della “sete” di relazioni e socialità, di amore, del desiderio di uguaglianza e di accettazione delle diversità.

La funzione terapeutica offerta da Black Hole  e It Follows , è tale prevalentemente “in assenza”, consapevoli che stiamo parlando di opere (a loro volta) “terapeutiche”: per gli autori e per il lettore. Una funzione terapeutica che trova la sua ideale collocazione nelle caratteristiche che entrambe le opere assumono di “dramma sociale”, al pari di quanto accade anche per il rituale kwakiutl , che si manifesta nei termini della rottura di una norma, con uno stato di crisi, attraverso un’interruzione del quotidiano capace di creare un punto di svolta rispetto alla normale struttura socioculturale presente. Una frattura che può essere riparata, quando possibile, attraverso un meccanismo compensativo che assuma la forma di un’azione ritualizzata [Turner 1986, 167]. Black Hole e It Follows vivono la loro funzione di drammi sociali e di performance  culturali – capaci di trarre significato e forza dal dramma che rappresentano – su di un duplice livello: da un lato la rottura col mondo degli adulti di cui sono vittima i protagonisti (e di cui non ci è dato sapere né di un prima, né di un dopo), dall’altro nell’essenza dello loro status di opere performative, che «giocano con i fattori della cultura, raccogliendoli in combinazioni di carattere sperimentale, talvolta casuali, grotteschi, improbabili, sorprendenti, sconvolgenti» [ivi, 80], proprio come fanno «i membri di una tribù quando fabbricano maschere, si travestono da mostri, ammucchiano simboli rituali disparati, invertono o fanno la parodia della realtà profana nei miti e nelle leggende popolari» [ivi, 79]. Un aspetto questo condiviso anche dal rituale dello Spirito Cannibale, e dove le categorie classiche della suddivisione dei riti di Van Gennep appare ancora valida. Le due opere artistiche sembrano apparentemente sfuggire a quest’ultima suddivisione, se non nella loro dinamica di sospensione del tempo, in cui nessuno ha modo di sapere perché gli adulti siano “svaniti” dai due mondi e in quale insenatura del proprio animo si siano rifugiati. In un percorso di riconciliazione con le strutture della performance  e del rito kwakiutl  le due opere ci invitano a rilanciare processi generativi carichi di nuovi significati, in grado di soppiantare la retorica dell’assenza dei riferimenti sociali, per incentivare una presa di coscienza fattiva e reale in seno alle società di cui parlano, pena la distruzione di quel sogno di futuro incarnato dai giovani.

L’assenza di cui parlano è quella del senso di responsabilità dell’adulto e della società, disincantata, disillusa, in cui i riti   di   passaggio hanno perso di intensità e forza, hanno ceduto il proprio riconoscimento pubblico e soffrono della caduta del rapporto asimmetrico tra generazioni [Favole 2014, 7]. Generazioni confuse che vedono la figura paterna – in particolare – mutata, svuotata di potere sociale, in un rapporto paritario e simmetrico con i figli, e indefinitamente desiderosa di essere riconosciuta come giovane (per sempre). L’adolescenza finisce col diventare un periodo labile e breve che proietta il soggetto nel tempo indefinito di una liminalità prolungata, all’interno della categoria del “giovane adulto”, ricompreso nell’ambito di una vita famigliare “stirata” e allungata, a sua volta, indefinitamente [Aime, Pietropolli Charmet 2014, 114-136].

Si è testimoni del depotenziamento dei riti d’iniziazione, della perdita del loro riconoscimento pubblico, della vaporizzazione dei mutamenti ontologici dell’individuo e della capacità di questi momenti di passaggio di attuare una qualsivoglia forma di rigenerazione spirituale e interiore [ivi, 99].

È questo imprigionamento all’interno di un tempo indefinito e sospeso, oppure l’inganno di una società egualitaria – rappresentata nella simmetria delle relazioni intergenerazionali – che in realtà preclude le reali posizioni di potere ai giovani – consegnandoli alle ritualità della società del consumo, in un eterno presente – a costituire la vera forma di orrore, traumatico e traumatizzante. È questo orrore che le opere artistiche in grado di metterlo in scena, sembrano raccogliere come eredità di quei rituali di passaggio capaci di sottrarre la dimensione di crescita del giovane alla sfera del privato, riconsegnandola a un senso di responsabilità collettivo, che è in sé un vettore di pacificazione dei rapporti di comunanza e tolleranza tra gli individui di una società.

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1  Cfr. Paolo Nori, Terra: ‘L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij’, la lezione di Paolo Nori , https://video.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/libri-come-terra-l-incredibile-vita-di-fedor-m-dostoevskij-la-lezione-di-paolo-nori/410505/411211 , pubblicato il 13 marzo 2022, (data di accesso: 16 marzo 2022).

2  Cfr. Davide Garassino, “Black Hole” di Charles Burns: l’adolescenza nuda , «Lo Spazio Bianco», https://www.lospaziobianco.it/Black-Hole , pubblicato il 19 gennaio 2008 [aggiornato il 22 settembre 2020] (data di accesso: 12 maggio 2022).

3  Cfr. Andrea Fiamma, “Black Hole”, luci e ombre dell’adolescenza , «Fumettologica», https://fumettologica.it/2020/04/black-hole-charles-burns-fumetto  , pubblicato l’8 aprile 2020 (data di accesso: 12 maggio 2022).

4  Cfr. Angelo Moroni, It Follows, di David Robert Mitchell (2014) , «Ulteriorità Precedente», https://psicheetechne.blogspot.com/2015/05/it-follows-di-david-robert-mitchell-2014.html , pubblicato il 9 maggio 2015 (data di accesso: 22 maggio 2022).

5   Ibid.