Rifiuti tossici e scorie umane

Estrattivismo minerario in Sudafrica e futuro dell’antropocene

Mariaelena De Stefano

Dipartimento SARAS, Sapienza Università di Roma


Gabrielle Hecht, Residual Governance: How South Africa Foretells Planetary Futures, Duke University Press, Durham 2023, pp. 1-288, ISBN: 978-1-4780-2494-1.


In Sudafrica, nel Nordest del Paese, c’è una piccola regione chiamata Gauteng, un termine che in lingua Sesotho indica “il luogo dell’oro”. Non stupisce che sia la regione più ricca dell’intera nazione. Circondata da colline – e per questo anche definita Rand, dall’abbreviazione del lemma “Witwatersrand”, il nome che designa le piccole alture che contornano la barriera aurifera –, Gauteng è lo sfondo geologico, ecologico e umano della complessa ricerca che Gabrielle Hecht riporta in Residual Governance: How South Africa Foretells Planetary Futures, edito nel 2023 da Duke University Press (Durham, NC).

Con sapiente maestria, la storica e antropologa, oggi docente all’Università di Stanford, ci guida in un viaggio feroce, dal ritmo serrato, alla scoperta degli scarti e dei rifiuti di un’economia estrattivista incosciente, perseguita al fine di depredare il territorio delle sue risorse, lasciando in cambio pericolosi vuoti. Per Hecht, l’estrazione mineraria in Sudafrica è un esempio di governance residuale, da cui il titolo del libro, uno degli strumenti più raffinati a servizio del moderno capitalismo razziale, e dell’antropocene, di cui è un detonatore.

Per capire perché i modelli di governance residuale sono al punto importanti da poter influire sul futuro del pianeta, l’autrice invita il lettore ad uno squisito esercizio ontologico: si parta dalla materia, e cioè dai residui della lunga attività mineraria che ha interessato il Sudafrica in generale, e l’area della Rand nello specifico. La storia di questo territorio è profondamente segnata dalla caccia all’oro, condotta dalle potenze coloniali attraverso lo sfruttamento sistematico della popolazione locale. Presentata come motore di un presunto progresso, essa ha invece consolidato rapporti di dominio, generando ripercussioni profonde e durature; emblematico è il caso della guerra anglo-boera, un conflitto che, oltre a determinare gravi sofferenze per la popolazione nera, ha ostacolato i processi di emancipazione politica e soggettivazione degli abitanti autoctoni [Nasson 2010]. Si stima che le miniere di Gauteng abbiano prodotto più di un terzo di tutto l’oro mai estratto al mondo; com’è noto, il procedimento di separazione dell’oro dalla roccia è lungo e impegnativo, conosce diverse tecniche, le quali implicano l’esposizione dei lavoratori al biossido di silicio, al mercurio, al cianuro, alle polveri radioattive e alle acque acide, piene di metalli pesanti come arsenico e cadmio. Queste scorie dannose, anche a distanza di anni dalla conclusione delle procedure di estrazione dell’oro, continuano a mietere vittime e feriti. È per tale ragione che Hecht rinviene, in questi materiali di scarto, non solo la loro connotazione materiale, primaria, ma ne individua l’essenza: esse sono «manifestazioni attive di capitalismo razziale e colonialismo tossico» [Field, Picard 2024, 757].

A rendere possibile la massiccia produzione dell’oro in Sudafrica, infatti, sono state le dinamiche del colonialismo; un primo colonialismo, razzista, perpetrato dagli ingenieri delle miniere americane all’indomani della scoperta della ricchezza dei giacimenti africani, ha permesso la creazione della base dell’infrastruttura mineraria, la manodopera nera, efficiente e disciplinata dalla continua repressione. Le politiche dell’apartheid hanno poi consolidato lo sfruttamento, mentre il Paese entrava a pieno regime nel nuovo sistema economico, quello capitalistico, con gli investimenti della Banca Mondiale, a partire dal 1948. L’opera infrastrutturale andava completandosi, sulla base di un solido contratto sociale: quello razziale. Residual Governance è un testo che sfida l’impalcatura ideologica alla base della democrazia occidentale, solo idealmente riferentesi al concetto rousseauiano di contratto sociale. Ispirandosi al filosofo Charles Mills, Hecht rimarca che più che impostare relazioni di uguaglianza, la società mira a stipulare un permanente «contratto razziale, grazie al quale è stato possibile costituire le relazioni di potere che reiterano la supremazia globale bianca» [Hecht 2023, 4], come durante l’apatheid. Perpetuando disuguaglianza, la società si rispecchia nel sistema economico entro cui vive e sopravvive, perché, come Cedric Robinson concluderà nel 1983, tutto il capitalismo è capitalismo razziale. Come struttura socio-economica pervasiva il capitalismo richiede rapporti di potere sbilanciati, e il razzismo dà man forte nel presentarsi come ideologia necropolitica, che fonda il suo successo e la sua diffusione globale nel sangue delle sue vittime [Kirk 2024]. La violenza infrastrutturale del capitalismo razziale è al punto embedded da devastare non solo interi sistemi umani, ma anche ambientali. Nella lucida analisi di Hecht, il sistema economico capitalistico neoliberale [Klein 2007] ha una responsabilità nelle forme di ecocidio che viviamo quotidianamente nel contesto di un’epoca, l’antropocene [Missiroli 2022] che conosce una crisi ambientale che ci ingloba e ci sovrasta. Anche al di fuori della cornice storica dell’apartheid, altri fattori hanno prolungato forme diverse di razializzazione, non più solo umane, anche ambientali. Sono stati creati, allora, numerosi altri scarti, e tutti necessitano di essere in qualche modo smaltiti. Ma come? Servono strategie che garantiscano la riuscita dell’obiettivo, e l’autrice di Residual Governance ci ricorda che la loro natura dovrà essere tecnica e al contempo politica, ovvero imbrigliata di nozioni per specialisti di tecnologie sofisticate e contenuto politico grezzo, in grado di trattare una materia viva, dinamica. La governance tecnopolitica nelle democrazie neoliberali risulta particolarmente insidiosa perché combina un crescente sviluppo tecnico con una sempre più limitata comprensione di tali processi da parte della maggioranza della popolazione. Questa disconnessione aumenta la probabilità di soggiogamento a logiche di un sistema complesso e opaco, percepito come inaccessibile e incontrollabile. Come strumento di potere, la governance tecnopolitica dei rifiuti, siano essi materiali o sociali (caso, quest’ultimo, nel quale la governance è definibile come tecno-bio-politica [Lipp, Maasen 2019]), appartiene all’ombra, è volutamente offuscata, proprio per questo fattore di inafferrabilità esperito dai più. Per contrasto, il programma che Hecht intende perseguire nel suo volume è chiarissimo, quasi lapidario e, antropologicamente affascinante:

Leggendo, incontrerai persone che vivono accanto alle discariche minerarie e respirano polveri tossiche: persone che sono sopravvissute all’apartheid solo per ritrovarsi a vivere tra i suoi detriti infrastrutturali. Le seguirai mentre rivendicano il diritto alla salute, a una casa e a un mezzo di sostentamento. Scoprirai le conoscenze scientifiche, amministrative e corporee di cui hanno avuto bisogno per difendere con efficacia condizioni più giuste. Traccerai le alleanze tra attivisti, leader comunitari, esperti e altri soggetti che hanno cercato di rendere queste conoscenze strumenti d’azione [Hecht 2023, 7].

Non definizioni brillanti, bensì storie di vita, di territori e di abitanti che, per la loro rilevanza, fanno intuire l’andamento del nostro futuro, qualora continuassimo a ignorare la portata della crisi epocale, non solo ambientale, in cui siamo immersi. Hecht trasmette questo messaggio combinando narrazione e mezzi visivi: immagini, mappe e fotografie di artisti locali si intrecciano al testo, trasformando il lettore da semplice osservatore a esploratore consapevole, dotato degli strumenti per comprendere ed entrare in relazione con questi paesaggi. Per la brillantezza della scrittura, lo spessore delle tematiche affrontate e l’ingaggio con forme artistiche che precedono e ampliano la dimensione narrativa, Residual Governance è un libro di cui il mondo europeo ha un disperato bisogno. A testimoniarlo, l’interesse crescente di studiosi che scelgono di ingaggiare ricerche accademiche ma prim’ancora politiche, raccogliendo in territori remoti – spazialmente o culturalmente – i frammenti del futuro che ci attende [Benegiano 2021; D’Angelo 2021; Perazzo 2023]. È auspicabile quanto prima una traduzione del libro in italiano, che ne preservi l’immediatezza e la trasparenza rispetto all’originale.

Il testo di Hecht si compone di cinque capitoli, tutti intrinsecamente connessi l’uno all’altro, come evidente poi dalla brillante introduzione (The Racial Contract is Technopolitical) e dalle conclusioni (Living in a Future Way Ahead of Our Time). You Can See Apartheid from Space è l’evocativo titolo del primo capitolo del testo, il cui compito è avvicinarci all’oggetto della ricerca, presentandone prima i limiti territoriali, poi le fisionomie degli abitanti, i minatori del popolo degli Zama zamas, «coloro che rischiano tutto per sopravvivere» [Hecht 2023, 22]. A far da sfondo è sempre la violenza dell’estrazione dell’oro, minerale dalla genealogia astrale, immersa in un’atmosfera di magismo, inutile alla sopravvivenza umana eppure ricercato come simbolo di assoluta ricchezza. Seguono poi quattro capitoli, tutti tesi ad esplorare «different forms of residue and the wicked problems they create for people, most acutely for Black and poor people living in the waste» [Jacobs 2024, 2]. I wicked problems, problemi complessi, difficili o impossibili da risolvere a causa della loro natura interconnessa e multidimensionale, palesano la loro insidiosità a contatto con diverse superfici: nel secondo capitolo (The Hollow Land) con l’acqua, o meglio con l’assenza d’acqua che caratterizza Johannesburg dal momento che il suo bacino idrico maggiore, il Witwatersrand, è stato seccato dalla crisi ecologica e il volume delle acque acide, risultato di più di cento anni di estrazione mineraria, incurante del pericolo ambientale, ha reso impossibile il rifornimento autonomo della città. Nel terzo capitolo (The Inside-Out Rand), invece, è l’aria la superficie a presentare, nella polvere, il resoconto dell’inquinamento massivo prodotto dall’uso di sostanze chimiche necessarie alla distruzione della roccia e della sabbia che celano l’oro. L’immagine delle alte montagne coperte di giallo, magnetismo per artisti, fotografi e narratori, acquista un senso nuovo alla luce del tasso di mortalità prodotto da quelle polveri colorate, e permette a prodotti creativi come le fotografie di trasformarsi in documenti storici, atti d’accusa al danno procurato. South Africa’s Chernobyl, il quarto capitolo, trasporta il lettore nell’epicentro tecnopolitico del problema dei residui radioattivi del Rand, a lungo sottovalutati dalle agenzie di regolamentazione, dai responsabili della loro governance. Come per il precedente Being Nuclear: Africans and the Global Uranium Trade, scritto da Hecht nel 2012, il focus è microstorico [Gewald 2024], riguarda l’impotenza della comunità sociale, costretta ad assistere al ritardo della propria salvezza, fino a che i rimandi fra i vari attori, locali e internazionali, della governance ne ha reso impossibile l’attuazione, in qualsiasi forma. Nell’ultimo capitolo (Land Mines), l’autrice prova a mostrare come qualsiasi soluzione aggiuntiva, come le riforme di pianificazione urbana e di bonifica del territorio, procrastinate per un tempo lunghissimo, appaiano opalescenti dinanzi al disastro che si consuma e continua a consumare il territorio.

Residual Governance non è un manuale dalle soluzioni facili. Con merito e consapevolezza, Gabrielle Hecht si allontana decisamente dal proposito di rifornire le già strapiene biblioteche accademiche dell’«ennesimo tentativo di condurre una ricerca collaborativa con le comunità direttamente colpite dall’ingiustizia sociale e dalla violenza ambientale» [D’Angelo 2024, 491-492] e riconosce, invece, con grande franchezza, che la conoscenza, da sola, non è sufficiente a generare cambiamento, a promuovere interventi riparatori. Dunque, che fare? Avvicinare la materia trattata, senza aver timore del coinvolgimento emotivo, umanizzare dove altri – decisori, politici, burocrati, tecnici – disumanizzano, non restare calmi, solo per poter continuare come sempre, problematizzare invece, immaginare e lottare per il futuro che arriverà.

Bibliografia

Benegiamo M. 2021, La terra dentro il capitale. Conflitti, crisi ecologica e sviluppo nel delta del Senegal, Napoli: Orthotes.

D’Angelo L. 2024, Residual Governance: How South Africa Foretells Planetary Futures by Gabrielle Hecht (review), «Africa: The Journal of the International African Institute», 94 (3): 491-493.

D’Angelo L., Massaro L. 2021, Mining ‘Waste’. Repurposing Residues in Artisanal and Small-Scale Gold Mining, «Etnofoor», ٣٣ (٢): ١٣-٣٩.

D’Angelo L., Pijpers R. J. 2022, The Anthropology of Resource Extraction, Londra: Routledge.

Field T-L., Picard M.H. 2024, Book Reviews, «The European Journal of International Law», 35 (3): 755-762.

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Missiroli P. 2022, Teorica critica dell’antropocene. Vivere dopo la terra, vivere nella terra, Milano: Mimesis.

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Perazzo C. 2023, In comune. Nessi per un’antropologia ecologica, Roma: Castelvecchi.