Diventare “mappe vive”

Patrimonio istituzionale e patrimonio condiviso in Val Cavallina (BG)

Becoming “living maps”

Institutional heritage and shared heritage in Cavallina Valley (Bergamo-Italy)

Glauco Barboglio

Ricercatore indipendente


Indice

Introduzione: posizionamento e contesto di ricerca

Il Museo della Val Cavallina

Patrimonio istituzionale e patrimonio condiviso

La mappa di comunità di Casazza

I temi: il cambiamento e l’aggregazione

Conclusioni: a chi serve la mappa?

Bibliografia e sitografia


Abstract

This paper discusses the creation of a parish map in Casazza, Italy, that was started to revitalize the struggling Historical-Environmental Museum, spurring debate about local identity. The paper emphasizes the value of participatory approaches in shaping “shared heritage” as opposed to “institutional heritage”, advocating for the local Museum to adopt such approaches. Finally, it explores the role of anthropologists in local contexts, stressing the impact of anthropological methods in community engagement, especially where anthropology is not well known.

Keywords:participatory mapping; heritage; local museum; applied anthropology; Val Cavallina.


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Introduzione: posizionamento e contesto di ricerca

Il presente articolo si presenta come riflessione su un processo di mappatura partecipativa svoltosi tra novembre 2021 e agosto 2023 a Casazza, paese di circa quattromila abitanti a circa 25 km da Bergamo, in Val Cavallina, valle densamente abitata ma periferica nella provincia bergamasca, in quanto meno ricca di attività economiche rispetto alla vicina Val Seriana. La Valle svolge però un importante ruolo di collegamento tra la pianura e la Valle Camonica, cui si congiunge all’altezza di Lovere, all’estremità nord del Lago d’Iseo. La Statale 42 la percorre per intero, proseguendo poi verso il passo del Tonale e da lì verso il Trentino. Casazza si trova quindi su questa via di comunicazione importante ed è il centro principale della media Valle, e qui ha sede il Museo Storico-Ambientale della Val Cavallina (nel testo anche “il Museo”), ente culturale rilevante nella vita del paese e della valle, di cui si dirà meglio nelle prossime pagine. Il presente articolo può essere considerato il resoconto di una “etnografia nativa” [Davies 2012], o ancora meglio “sotto casa” [Mantovani 2016], vista la mia origine valcavallinese e la mia collaborazione di lunga data con il Museo. Ciò ha avuto ricadute positive e negative sulla ricerca: mi ha consentito di andare, per certi versi, a colpo sicuro, coinvolgendo le persone che già sapevo avrebbero accolto favorevolmente la mia proposta di realizzare una mappa di comunità; tuttavia mi ha portato a limitarmi alla cerchia dei miei contatti più diretti, soprattutto quando ho notato che il semplice passaparola sembrava sufficiente ad attirare abbastanza persone e altri metodi di coinvolgimento invece fallivano. Ho ritenuto tuttavia importante fare un lavoro di ricerca-azione come quello qui presentato per i motivi ricordati da Mantovani [2016]: se anche è vero che ci sia un alto rischio, per chi fa antropologia “sotto casa”, di non riuscire a cogliere e mettere in discussione alcune visioni del mondo proprie e locali, d’altro canto essa è particolarmente utile a chi vuole che le proprie ricerche abbiamo un’utilità e una rilevanza pubblica, per «sollevare problemi essenziali per le comunità studiate ed offrire occasioni di dialogo e confronto, se non soluzioni nuove ed alternative ai problemi locali» [Mantovani 2016, 46].

Quanto scritto nelle prossime pagine sul ruolo pubblico dei musei e dell’antropologia vuole essere utile non solamente al dibattito antropologico, ma anche e soprattutto, in un’ottica di vero e proprio attivismo culturale, al contesto di ricerca e al paese di Casazza. È stato il mio essere a tutti gli effetti membro dello staff del Museo che mi ha spinto a chiedermi se lo strumento della mappa di comunità e le metodologie antropologiche avessero applicabilità e utilità nel contesto della Val Cavallina. Penso che il metodo di ascolto e interpretazione della disciplina antropologica possa servire al Museo, stimolandolo a confrontarsi con i saperi locali e, allo stesso tempo, possa spingere gli abitanti di Casazza a ripensare se e come si costituisce una comunità locale, se essa abbia un patrimonio comune e cosa lo componga. Ritengo inoltre che esperimenti come quello riportato qui siano utili alla diffusione del sapere e delle pratiche antropologiche nel più ampio dibattito pubblico.

Presentandomi come antropologo (prima in formazione e poi laureato), in un contesto dove le mappe di comunità e l’antropologia non erano note, ho certamente contribuito a creare attorno alla mia figura un’aura di esperto. Nel corso del tempo ho potuto osservare sul campo i rischi che questo posizionamento portava con sé, in particolar modo quello che «il patrimonio che viene rivitalizzato […] non sia più degli abitanti, ma dell’antropologo stesso» [Zola 2013, 89], perché «gli antropologi […] non possono che essere considerati e considerarsi protagonisti attivi […] degli stessi processi di oggettivazione istituzionalizzazione, reificazione della “cultura” che intendono interpretare» [Palumbo 2006, 371]. In diverse conversazioni informali alcune persone incontrate hanno spesso chiuso considerazioni su temi patrimoniali con frasi sul tenore di: «poi sei tu l’antropologo…», quasi a scaricarsi di ogni responsabilità e attribuendomi un ruolo arbitrale. Questo protagonismo degli antropologi non è necessariamente così negativo, a mio modo di vedere, anzi può dare la possibilità di condividere nel dibattito pubblico quella prospettiva critica che Palumbo stesso [2006] riconosce come uno dei punti di forza della nostra disciplina. La soluzione che ho adottato per evitare il rischio segnalato da Zola [2013] è stata di far sì che ogni discussione e decisione presa dal gruppo di lavoro fosse il più possibile condivisa e partecipata, sollecitando l’espressione di ognuno. Penso, in questo modo, di aver spinto le persone che hanno partecipato al processo a prendersi davvero carico di esso e dei pensieri elaborati collettivamente.

Di seguito presenterò rapidamente le vicende del Museo Storico-Ambientale della Val Cavallina. Poi, discuterò delle diverse concezioni di patrimonio culturale utili a comprendere il contesto di azione del Museo. Il fulcro dell’articolo invece prevede la presentazione e discussione della mappa di comunità elaborata a Casazza e dei temi emersi dalla sua creazione. Infine, presento una sezione conclusiva riguardo le prospettive future del progetto e alcune riflessioni sul perché quanto avvenuto a Casazza possa essere utile ben oltre il contesto locale.

Il Museo della Val Cavallina

L’associazione culturale Opinione e Promozione, attiva a Casazza, propose a Giovanni (67 anni)2, insegnante, studioso e autore di molti testi sulla storia del territorio, di curare un allestimento museale con alcuni resti di una collezione di oggetti della vita quotidiana dei contadini dell’antica Cavellas romana, denominazione del villaggio ritrovato alla luce degli scavi archeologici del periodo 1987-1992; lui accettò, con l’intenzione però di creare «una raccolta che avesse qualche interesse antropologico, nel senso che si riferiva solo alla Val Cavallina e cercava di evidenziare anche le differenze eventualmente rispetto ad altri territori» [Giovanni, 27/10/2021, Casazza].

Il Museo Storico-Ambientale della Val Cavallina venne inaugurato nel 2003 nei locali al piano terra di Palazzo Bettoni, edificio storico del centro di Casazza. Esso è organizzato in quattro sale, ognuna dedicata a un elemento ambientale (geologia, acqua, vegetali, animali) per analizzare il rapporto tra l’uomo e questi elementi. In ogni sala gli argomenti sono affrontati attraverso elementi testuali e oggetti vari (sementi, utensili del lavoro contadino o dell’industria della seta, abiti e così via). Giovanni sottolinea come l’intento sia sempre stato quello di andare contro le narrazioni nostalgiche e idilliache del passato contadino che a suo modo di vedere sono invece presenti in altri tentativi simili in Valle o altrove [Giovanni, 27/10/2021, Casazza]. Altro principio guida è quello del superamento del particolarismo e del campanilismo, ed è per questo che il Museo è “della Val Cavallina”. Luca (61 anni), da sempre collaboratore attivo nelle attività del Museo, attualmente membro del CdA, è molto chiaro al riguardo: «da sempre si chiama Associazione Museo Val Cavallina, non Associazione Museo Casazza. […] fin dall’inizio, fin dai contenuti progettuali doveva essere un ecomuseo, doveva essere un museo di valle» [Luca, 3/11/2021, Trescore Balneario]. Il Museo si trova fortuitamente a Casazza, per due ragioni: la presenza dell’allora assessore alla cultura, molto interessato al progetto; la disponibilità dell’Ente Asilo di cedere in comodato d’uso gli spazi espositivi.

Nei primi anni il Museo vide una grande attività, con eventi in tutta la Valle, animato anche da alcuni giovani, e sostenuto dai fondi della Comunità Montana della Val Cavallina (10mila euro l’anno). È però nella divulgazione e pubblicazione che la vocazione del Museo di essere stimolo di riflessioni utili per il territorio si esprime al meglio, secondo Giovanni: «il problema è come riuscire a sposare una questione eminentemente locale, dell’ambiente, del territorio, delle sue trasformazioni, con questi fenomeni più generali» [27/10/2021, Casazza]. Alla domanda se il Museo abbia anche un ruolo politico nel contesto valligiano Giovanni risponde convintamente di sì: «all’interno del territorio [il Museo] ha cercato di favorire la riflessione su queste cose, portando contributi, scrivendo storie, facendo mostre, facendo incontri... però forse questo non ottiene l’esito che ci si aspettava» [27/10/2021, Casazza]. Luca conferma la sensazione di essere in una situazione di isolamento e scontro con altre componenti sociali e politiche della valle:

Cioè il nostro obiettivo è sempre stato: salvaguardiamo l’identità del territorio, che è costituita dall’ambiente, è costituita dalla cultura locale - ma bisogna conoscerla, bisogna cercarla, bisogna individuarla […]. Quindi la fatica è stata muoverci in questo mondo qui, un mondo che per certi versi giustamente andava alla ricerca della valorizzazione di quello che è la storia di un territorio, e nel contempo poi quando la trovavi questa storia diceva che era quater plòch3Quater plòch sto piffero: siamo questa cosa qua, e dobbiamo continuare a lavorarci, consapevoli che nel nostro contesto politico, sociale e economico […] devi essere bravo anche a coinvolgere, bravo a conquistare, bravo a chiedere alla politica di riconoscere queste istanze e di sostenerle, in un momento storico che è andato nella direzione opposta [Luca, 3/11/2021, Trescore Balneario].

Il tentativo di combattere il particolarismo dei singoli comuni della Valle, di essere un centro di stimolo per l’intero territorio sembra per certi versi fallito, in particolare da quando nel 2013 sono venuti a mancare i fondi della Comunità Montana della Val Cavallina, dissoltasi nella più grande Comunità dei Laghi Bergamaschi. La conseguente crisi costringe il Museo a diminuire le proprie attività e per certi versi il proprio raggio d’azione, concentrandosi su Casazza, soprattutto da quando ha preso in gestione il sito archeologico di Cavellas nel 2013. Come detto, esso era venuto alla luce nella prima metà degli anni ’90, quando in centro al paese si stava costruendo un supermercato. La Soprintendenza – considerandola l’unica soluzione utile a proteggere il sito e i reperti – aveva deciso di autorizzare la continuazione dei lavori di costruzione, coprendo così il sito, che divenne una sorta di salone sotterraneo, con una superficie di circa 1000 mq. Il sito è stato aperto alle visite nel 2015, sotto al supermercato, in una particolarissima soluzione che unisce due interessi diversi: quello dell’esercizio commerciale e quello dell’istituzione culturale. Questo ha portato a dare sempre più peso alle attività legate a Cavellas – anche grazie a un ricambio del personale, con l’inclusione di alcune archeologhe – tant’è che oggi il museo è noto come Museo Cavellas. Dopo la sofferta chiusura dovuta alla pandemia da COVID-19, dal 2021 in poi vi è stata la ripresa, dopo oltre vent’anni, delle attività di scavo e studio nel sito di Cavellas: archeologi e studenti dell’Università Cattolica di Milano hanno condotto tre campagne di scavo, che hanno portato alla luce nuove abitazioni e oggetti di vario tipo [Foffa 2023].

Insomma il Museo vive da dieci anni una fase di crisi, affrontata sì reinventandosi e allargando l’opera nel settore archeologico, ma allo stesso tempo acuita dalla situazione pandemica e da una difficoltà nel mantenere uno staff (interamente composto da volontari) che sia continuativamente legato ad esso. Al senso di fallimento, che Giovanni e Luca imputano principalmente a un contesto sociale e politico poco capace di recepire certi stimoli e riflessioni, si devono aggiungere le improvvise dimissioni del Presidente dell’Associazione che formalmente gestisce il Museo, avvenute a fine 2021 per motivi personali e, a gennaio 2023, quelle di Giovanni dalla posizione di direttore, con l’intenzione di stimolare il Museo a prendere nuove direzioni e riflettere sul proprio ruolo sociale all’interno della Val Cavallina e sull’utilità del patrimonio.

Patrimonio istituzionale e patrimonio condiviso

Peter Davis definisce il termine “patrimonio” «scivoloso e ambiguo» e «più spesso utilizzato che compreso» [2011, 14]. Nato nel contesto della Rivoluzione Francese in ambito politico per rinforzare l’identità nazionale attorno alle belle arti [Lattanzi 2021], il patrimonio oggi appare onnipresente, tanto da poter includere qualsiasi cosa [Harrison 2020]. Cercando una definizione, è opinione comune tra gli studiosi che non abbiamo a che fare con un oggetto specifico o con una particolare ideologia politica, ma con «un insieme di atteggiamenti e relazioni con il passato» [Harrison 2020, 16] o un «movimento di appropriazione del passato, […] per esercitare un controllo sociale sul tempo» [Lattanzi 2021, 53]. Il patrimonio è quindi una categoria culturale utilizzata per dare senso delle relazioni tra presente e passato in una fase storica vissuta come in continuo e veloce mutamento [Harrison 2020]; questa categoria consente agli elementi del patrimonio di essere «distinti dal “quotidiano” e conservati per il loro valore» [Harrison 2020, 17].

Rodney Harrison [2020] fa una distinzione tra due tipi differenti di patrimonio, che chiama “ufficiale” e “non ufficiale”. Il primo è costituito da tutti quegli elementi che sono inclusi per legge nel patrimonio dagli Stati o da Istituzioni internazionali, il secondo comprende invece tutto ciò che viene riconosciuto da individui o comunità come patrimonio. La differenza tra le due tipologie di patrimonio sta, secondo Harrison, interamente nel riconoscimento legale del patrimonio ufficiale, cosa che quindi non impedisce che in alcuni casi uno stesso elemento può avere riconoscimento ufficiale ma essere anche parte del patrimonio non ufficiale di un qualche gruppo sociale, che vi attribuisce un valore particolare [Harrison 2020]. Il patrimonio ha in sé quindi una fortissima componente valoriale e culturale; è importante avere chiaro che il patrimonio cambi nella sua definizione, essendo culturalmente definito e quindi inevitabilmente legato ai mutamenti storici e culturali [Bonato 2008; Davis 2011]. È interessante quindi per l’antropologia capire quali siano i punti di contatto e di frizione tra le concezioni valoriali ufficiali e non ufficiali del patrimonio, in un’impostazione affine a quella proposta da Dei [2018] secondo cui queste visioni del patrimonio non siano antitetiche ed autoescludenti ma convivano e si intreccino nella vita di ognuna di noi. In questo articolo propongo di sostituire a “ufficiale” e “non ufficiale” i termini “istituzionale” e “condiviso”, perché il campo di Casazza ha mostrato come la costruzione di un patrimonio non ufficiale sia più efficace quando è frutto di un lavoro condiviso dal basso (più o meno consapevole), mentre quello ufficiale appare legato ad istituzioni politiche e culturali ben definite agli occhi degli attori sociali (amministrazioni pubbliche, musei, università), che non hanno sempre quella capacità legislativa di cui parla Harrison, ma sono comunque abbastanza autorevoli da definire il patrimonio.

Il Museo Storico-Ambientale della Val Cavallina, a mio giudizio, si muove in modo interessante sulla linea tra questi due patrimoni, tendendo però più verso quello istituzionale. Da un lato mostra il patrimonio archeologico, studiato e definito dall’autorità scientifico-istituzionale degli archeologi; dall’altro, come molti musei etnografici porta nelle sale oggetti e vicende (quelli della vita dei contadini) che nella tradizione museologica ufficiale sono stati lungamente visti come “troppo quotidiani” e quindi non degni di essere esposti – sono quegli elementi che Fabio Dei [2018] definisce interstiziali. Si nota nelle sale del Museo quel processo di istituzionalizzazione di pratiche ed oggetti di cui parla Dei: si «trasformano oggetti privi di valore […] in Beni culturali formalizzati, repertoriati, schedati, istituzionalmente riconosciuti» [2018, 215]. In questo senso sono importanti le parole di Giovanni sul tentativo di impostare un museo con un “qualche interesse antropologico”: è la disciplina storico-demologica che stabilisce quali oggetti e pratiche siano da raccontare e come. Questo rischia di portare ad una cristallizzazione e fossilizzazione del patrimonio, nonché ad una maggiore difficoltà di integrazione di nuovi elementi nel “catalogo” del patrimonio [Dei 2018, De Varine 2005]. È contro questo rischio e in una direzione simile a quello che Dei definisce «ripiegamento verso la società civile […] in un dialogo più stretto con le pratiche “spontanee”» [2018, 221-222], che è nata l’idea di una mappa di comunità a Casazza, alla ricerca di un patrimonio condiviso, appunto, definito secondo discussioni e riflessioni collettive. La definizione di un patrimonio condiviso può partire solo da coloro che abitano un territorio, che lo vivono, non importa da quanto tempo. La mia impressione era che questo non accadesse più molto in un Museo costretto dalla sua crisi a ridurre le sue attività; era quindi necessario portare il Museo a “ripiegarsi” verso il mondo esterno.

La mappa di comunità di Casazza

Perché un ente museale possa “ripiegarsi” verso la società civile esterna ad esso e includere i saperi che questa porta con sé, è necessario condurre quello che De Varine [2005] chiama «censimento partecipativo», che consiste nell’«ascoltare gli abitanti e di chiedere loro di indicare quello che considerano essere il patrimonio culturale della comunità, fornendo il maggior numero di informazioni in proposito» [De Varine 2005, 38]. Un obiettivo praticamente identico hanno le parish maps dell’associazione inglese Common Ground: mappare le piccole località della campagna inglese e il loro patrimonio, la loro storia: «stiamo tentando di concentrarci sulle comunità locali, l’arena più piccola in cui prende forma la vita sociale, […] che implica persone e luoghi allo stesso tempo, perché siano mantenute le radici» [Clifford, Maggi e Murtas 2006, 3-4]. Queste mappe, chiamate in italiano “mappe di comunità”, sono create con le persone abitanti nel territorio oggetto di studio, e sono fondamentali per loro per riprendere il controllo di un territorio e a mettere in discussione rappresentazioni pregresse del mondo [Clifford, Maggi e Murtas, 2006].

La creazione di queste mappe è un ottimo strumento per la ricerca antropologica per raccogliere e osservare le prospettive degli abitanti di un luogo, impostando una ricerca «dialogica, critica riflessiva» in cui il ricercatore «non formula domande, propone un lavoro da fare insieme, “inventa oggetti” insieme ai suoi informatori, li “costruisce” insieme a loro» [Esposito 2016, 5]; allo stesso tempo riconosce agli informatori il ruolo fondamentale di detentori di una conoscenza che sia davvero “loro” e territorializzata e consente un processo di empowerment della comunità verso il proprio patrimonio e territorio [Clifford, Maggi e Murtas 2006; Bonato 2008; Bonato 2016]. Al proprio meglio le mappature partecipative sono in grado di attivare un dialogo costruttivo tra gli individui per definire il proprio patrimonio comune, attraverso «dinamiche di creazione di senso di appartenenza e di confidenza reciproca, di acquisizione di competenze e di creazione di leadership» [Clifford, Maggi e Murtas ٢٠٠٦, ٧٢]. Ritengo che risultati simili si siano visti nel lavoro portato avanti per quasi due anni a Casazza, che si inserisce tra l’altro in una stagione prolifica per le mappature partecipative nel bergamasco, su tutte quella condotta da Chiara Brambilla e CSV Bergamo nella primavera del 2020 in vari ambiti della provincia [Brambilla 2022; CSV Bergamo 2022].

A inizio estate 2021 ho proposto la creazione di una mappa di comunità al Museo, raccogliendo subito l’interesse e la curiosità di Giovanni, e velocemente si è scelto di realizzarla a Casazza. Negli stessi mesi avevo parlato del mio progetto con Stefano (23 anni), giovane laureato in Storia con una tesi sui garibaldini della Val Cavallina, consigliere comunale di Casazza, che si è mostrato sin dall’inizio interessato e disponibile ad aiutarmi a rivolgermi a persone o enti che volessero partecipare. Grazie a lui sono potuto entrare in contatto con alcune associazioni locali e i Comitati di Frazione, gruppi semi-formali di cittadini che si occupano di organizzare attività per ogni zona del paese. Dai secondi ho ottenuto una buona risposta, e sono stato invitato ad una riunione di uno di questi; dalle associazioni non sono riuscito invece, in questa prima fase ad avere molte risposte. Oltre a Stefano ho contattato persone che già conoscevo in paese; in particolare sono stati di grande aiuto Lucia (64 anni), Roberto (62 anni) e Marco (56 anni), coinvolti a vario titolo nell’Amministrazione Comunale o nel Museo. Il progetto è stato anche promosso da Giuseppe, responsabile della comunicazione social della Biblioteca, con una serie di post, per tutta la durata del progetto; grazie a tutte queste persone e al loro passaparola ho avuto vari incontri informali con diversi casazzesi, fino all’organizzazione del primo incontro ufficiale per lavorare alla mappatura il 3 novembre 2021.

In totale, tra novembre 2021 e luglio 2023, si sono tenute quindici riunioni, della durata di circa due ore, inizialmente a scadenza bisettimanale, mentre in una fase successiva anche con lunghe pause dettate dalle vacanze estive o problematiche esterne. Questi incontri hanno coinvolto in totale ventiquattro persone, cinque donne e diciannove uomini, di diverse fasce di età, ma abbastanza presto si è creato un gruppo più affiatato, di circa dieci persone, composto da un lato da giovani di età compresa tra i 17 e i 23 anni, dall’altro da pensionati di diverse età. Gli incontri si svolgevano con modalità simili a quelle di un focus group, anche se in maniera libera e orizzontale. Io, agendo da facilitatore, ho spesso lasciato che la conversazione tra i partecipanti fluisse, soprattutto nei primi incontri, durante i quali la raccolta di memorie, storie e racconti sul paese era l’obiettivo principale. In una prima fase è stato di grande supporto l’utilizzo di una carta ad alta precisione del territorio di Casazza, fornitami dall’impiegato dell’Ufficio Tecnico del Comune. Su questa carta, appesa al centro del cerchio di discussione o su un tavolo, si segnava ogni elemento che fosse rilevante per raccontare qualcosa del paese; chiunque poteva intervenire su questa mappa, aggiungendo informazioni, correggendo, pasticciando.

Tra gennaio e marzo del 2022 tutti gli elementi raccolti sulla carta tecnica sono sembrati sufficienti per cominciare ad operare una selezione e categorizzazione; ho invitato il gruppo a lavorare su fogli bianchi [img.1] per elaborare delle mappe tematiche. Inizialmente queste erano cinque, ma sono state poi ridotte a tre, sui seguenti temi: natura e cultura, lavoro, aggregazione. Nell’estate del 2022 si è tenuta una prima presentazione provvisoria del lavoro alla cittadinanza di Casazza, che ha portato all’entrata nel gruppo di lavoro di nuove persone, tra cui un consigliere di minoranza (con grande stupore di Stefano che non si aspettava di vederlo così appassionato del progetto). È stato dato quindi il compito di elaborare graficamente queste mappe, sempre dopo una discussione di gruppo, a Martina (23 anni), giovane studentessa di urbanistica con competenze di grafica e disegno, finché purtroppo non ci si è resi conto che i suoi impegni le impedivano di dedicarcisi a dovere. I contatti con l’Amministrazione Comunale hanno consentito di convincere quest’ultima a finanziare il progetto, non solo per quanto riguardasse la stampa ma anche per il compenso di una persona che curasse l’aspetto grafico. Questa persona è stata individuata in SER, nome d’arte di un fumettista e grafico bergamasco con precedenti esperienze in progetti partecipativi. Le riunioni di elaborazione grafica si sono tenute tra aprile e giugno 2023, sempre in maniera partecipativa: SER, ascoltando e discutendo con il gruppo di lavoro proponeva diverse opzioni grafiche, cercando di capire quali soddisfacessero al meglio la visione collettiva. Il risultato finale, esposto nelle immagini allegate, è una particolarissima sintesi tra i racconti dei casazzesi e l’elaborazione fumettistica di SER, che include anche fotografie d’archivio, alcune illustrazioni di FP, alcuni acquarelli gentilmente forniti da un artista locale e diverse didascalie elaborate dal gruppo di lavoro [Le tre mappe, img.2-4]. Il risultato finale è un pieghevole che al primo impatto ricorda le mappe dei sentieri di montagna, così come desiderato dal gruppo. La mappa è stata presentata in un evento pubblico il 9 agosto 2023, dove è avvenuta una prima distribuzione.

I temi: il cambiamento e l’aggregazione

Perché Casazza è un po’ un paese strano, anche per la storia, cioè io marcherei tanto la storia dei due paesi divisi che si sono uniti perché se abiti a Casazza e non sai niente di Casazza non te ne rendi conto, ma in realtà è più facile pensare che manca una piazza centrale, che ci sono i due centri storici divisi. E perché la chiesa è al centro? Cioè io queste cose, ne parlerei di queste cose [Diego, 18 anni, incontro del 12/02/2022, Casazza].

Andrea (71 anni): […] un luogo condiviso diciamo da un po’ tutta la popolazione non c’è.

Roberto: È la chiesa...

Giuseppe: Ma neanche la chiesa, perché la chiesa... […]

Diego: C’è la divisione dei banchi!

Andrea: C’era l’entrata dei Molini e l’entrata di Mologno... non era una regola forzata, però era una tradizione... […]

Diego: Io lo dico: non mi son mai seduto dalla parte dei Molini! [incontro del 3/11/21, Casazza].

Questi due estratti esprimono, in maniera più o meno sottile, i due temi principali emersi dal lungo percorso di riflessione sulla storia e sul patrimonio condiviso a Casazza: i forti mutamenti avvenuti nel corso di pochi decenni – noti a chi li ha vissuti ma quasi invisibili ai più giovani – e il problema dell’aggregazione interna. Casazza è nato nel 1927 dall’unione dei due Comuni di Mologno e Molini di Colognola, che condividevano però da secoli la chiesa parrocchiale. I due paesi erano posti ai lati della valle, separati da una piana in cui si trovavano: il torrente Cherio, la strada principale, la chiesa parrocchiale e un piccolo abitato, noto come Casassa per via di un vecchio edificio contadino, abbattuto nel secondo dopoguerra. E sempre nei decenni dopo la guerra il paesaggio cambia drasticamente: i campi che dividono i due abitati lasciano spazio a strade, case e capannoni industriali:

cioè stiamo facendo una cosa in cui l’arco della memoria va attorno ai sessanta - settant’anni, a cose che esistevano attorno a un raggio, a un ehm in un ambito temporale di questo tipo qua, o no? Cioè, l’avessimo fatta nel 1820 una roba del genere, i ricordi sarebbero stati più o meno uguali a quelli di cento anni prima perché l’urbanizzazione che è venuta avanti proprio negli ultimi settant’anni ha sostanzialmente, non modificato, ha stravolto veramente tante cose! [Giuseppe, incontro del 12/02/2022, Casazza].

Questo cambiamento è collegato ad un generale arricchimento della popolazione, non più costretta ad emigrare o contrabbandare grappa4, ma anche ad un cambio di utilizzo degli spazi già esistenti. Secondo i casazzesi più anziani, Mologno e Colognola avevano le loro piazze, ma queste hanno perso totalmente la loro funzione sociale di luogo di ritrovo, così come sono scomparse le vecchie osterie o altri luoghi tipici dell’aggregazione. I più giovani lamentano invece di non avere altri luoghi di incontro se non l’oratorio o un pub lungo la strada principale. Manca, agli occhi del gruppo di lavoro, una piazza. Questa mancanza risulta tanto più grave perché nella zona centrale del paese, tra Chiesa, poste, oratorio e Municipio esisterebbe uno spazio abbastanza grande da diventare una vera e propria piazza, ma la viabilità e alcuni ostacoli (il sagrato della chiesa è recintato) rendono nei fatti inutilizzabile questo spazio, che diventa una semplice zona di transito. Nelle riunioni e sulla mappa questo luogo è stato chiamato scherzosamente “La Piazza Che Non C’è”.

La necessità di raccontare il cambiamento è stata un punto difficile per la realizzazione grafica della mappa: un primo progetto ipotizzava l’utilizzo di due mappe sovrapponibili, una del passato e una del presente, ma la soluzione finale è stata quella di accostare elementi e storia del presente e del passato e di dare questi ultimi una colorazione ocra, accostata idealmente alle pergamene e quindi con un sapore “antico”. Anche la copertina [img.5], un’elaborazione di un quadro e una fotografia della stessa strada a un secolo di distanza, rende la riflessione sulla compresenza di passato e presente nelle riflessioni del progetto. La mappa serve alle generazioni più anziane per ricordare il passato e stimolare quindi nuove memorie, ma allo stesso tempo vuole essere utile alle generazioni più giovani per indagare quelle stesse memorie:

Tommaso (70 anni): Eh, perché il futuro è quello, noi stiamo qui a spiegare la storia, com’era, va beh io non sono proprio vecchio, e anche se non son nato a Casazza, però i ragazzi sui libri studiano che cosa? E invece, magari, il loro paese che non l’hanno mai visto crescere, sarebbe un modo per... capisci cosa intendo?

Riccardo (30 anni): D’altro canto però, metti che vi trovate su a casa voi di cinquant’anni, e apri la cartina sulla base, dove c’è solo il simbolino del bar su a Colognola, che io non ho mai visto, e lì comincia tutta la storia di racconto senza magari scrivere nulla di cosa sia, che però il ragazzo magari vorrebbe leggere, o meglio vorrebbe capire cos’era quello [incontro del 12/02/2022, Casazza].

Conclusioni: a chi serve la mappa?

La mappa serve, secondo i casazzesi che hanno preso parte alla lavorazione, a stimolare riflessioni sulla storia del paese, ed è soprattutto diretta ai compaesani. Quello che colpisce è come le riflessioni fatte dal gruppo di lavoro coincidano con quelle fatte da Bonato [2008] sul ruolo della memoria nella formazione dell’individualità collettiva e individuale: solo nella condivisione e ridiscussione condivisa di questa memoria si può creare un’identità locale. Allo stesso modo, è sorprendente che la necessità di tenere vivo il lavoro di mappatura e di riflessione sul paese sia un sentimento che fa eco alle parole di Bonato, secondo cui le mappe di comunità possono essere l’inizio di «un percorso laborioso che mette in discussione pregiudizi e valori precostituiti con l’obiettivo di dar vita a nuove modalità di convivenza sullo stesso territorio» [Bonato 2008, 13]. Il desiderio è che portando la mappa fuori dal gruppo di lavoro arrivino «aggiornamenti, affondi, precisazioni, che magari qualcuno ricorda qualcos’altro e si va nel tempo a creare» [Andrea, incontro del 12/02/2022, Casazza]; questo atteggiamento è condiviso dal gruppo, e la speranza è quella di ricevere reazioni anche forti e possibilmente critiche del lavoro fatto.

Dopo la pausa estiva del 2023 ho proposto al gruppo di tenere un ulteriore incontro per riflettere insieme sulle fasi successive di distribuzione della mappa ed eventualmente su come emendarla. Dopo due anni la convinzione che la mappa non possa mai finire è ancora forte, e anzi il desiderio è ora quello di portarla davvero fuori dal gruppo di lavoro, per sapere cosa ne pensino le altre persone. È stata avanzata l’idea di organizzare incontri con alcune associazioni del paese, per presentare loro il progetto e avviare un confronto:

Andrea: Non è sufficiente che noi la distribuiamo […] non raggiunge lo scopo che ci eravamo prefissati all’inizio, cioè che [la mappa] diventi un momento di riflessione e poi di rielaborazione ulteriore. […]

Roberto: Sarebbe interessante sapere che emozioni suscita in una persona che non è del paese, o in un giovane che non ha partecipato a questo gruppo, o in un vecchio [...] in questo senso non lo considero un lavoro finito, [ride] ma anzi un inizio diverso! Soprattutto se i luoghi che noi abbiamo identificato come importanti, che costituiscono degli elementi della mappa... sono significativi per davvero? […] Dentro al nostro gruppo la mappa ha preso vita e ha trovato un percorso, una mappatura, [ride] però da sola non parla! A meno che non constatiamo che se la si consegna a questo, quello e quell’altro emergono dei dati che la rendono parlante, ma questo dobbiamo ancora verificarlo. […]

Stefano: [presentare la mappa alle associazioni] può essere un modo per diventare noi delle “mappe vive” […] portando le stesse idee fuori dal nostro gruppo, la stessa mappa [focus group del 8/11/2023, Casazza].

Al momento della scrittura (inizio 2024) la mappa ha iniziato a essere distribuita attraverso la biblioteca del paese e alcuni di questi incontri con i Comitati di Frazione e le associazioni si sono effettivamente tenuti. L’osservazione, così come la distribuzione della mappa, è quindi ancora incompleta e in attesa di “aggiornamenti, affondi, precisazioni”, per citare Andrea. Tuttavia ritengo che si possano trarre alcune importanti conclusioni su quanto avvenuto a Casazza, proprio grazie alle parole delle persone coinvolte.

Le conversazioni avute duranti gli incontri mostrano un alto livello di consapevolezza sulla forza dello strumento della mappa partecipativa tra coloro che hanno collaborato alla sua creazione, ma questa esperienza ha avuto successo nello stimolare il Museo della Val Cavallina a «ripiegarsi verso la società civile» nel senso auspicato da Dei [2018] e come mi auspicavo io stesso? Ho avuto in questi anni conversazioni informali con Giovanni e con il nuovo direttore Marco: entrambi sono molto colpiti dal lavoro, il secondo ha deciso di dare spazio alla mappa anche sul sito ufficiale del Museo appena sarà tecnicamente possibile. È inoltre da segnalare che nella fase di transizione tra le due direzioni si è tenuta, nella primavera del 2023, una serie di incontri partecipati intitolata MuseON, utile a raccogliere tra i collaboratori del Museo idee su come rilanciare e reinventare l’istituzione. L’intento era che quanto uscito da quegli incontri venisse poi sottoposto al CdA. Sono stato invitato e ho partecipato molto volentieri a un paio di queste riunioni, portando non solo l’esperienza della mappa di comunità ma anche le riflessioni sul patrimonio esposte brevemente in queste pagine. Parlando con le persone coinvolte e con il nuovo direttore, i risultati di quegli incontri sono andati dispersi e non se ne è più parlato; rimane quindi un grosso punto di domanda sull’utilizzo effettivo di pratiche partecipative nella programmazione museale. Il Museo vive ora una fase di ricerca di fondi, tornando a dialogare con le amministrazioni locali dell’intera Val Cavallina, tentando quindi di uscire dal recinto casazzese. I risultati di questi dialoghi sono ancora incerti e in divenire.

L’esperienza di Casazza però non è utile solamente a chi ha partecipato, al Museo o allo sviluppo di tecniche di ricerca locali; a mio avviso questa ricerca, per quanto acerba e ancora in via di svolgimento, si pone come di interesse all’intera disciplina antropologica. Ritengo che le riflessioni di de Varine [2005] e di Clifford, Maggi e Murtas [2006] sull’importanza del patrimonio e della storia locali per uno sviluppo sostenibile sollevino questioni decisive per qualsiasi contesto, e forse lo sono maggiormente in quelli moderni in cui viviamo [Mantovani, 2016]; penso quindi che portare questi temi nel dibattito interno di un piccolo paese della provincia bergamasca (dove quasi nessuna delle persone incontrate sapeva cosa fosse l’antropologia), possa essere un buon modo per sperimentare quanto un antropologo possa avere un ruolo pubblico, se le sue riflessioni e i suoi stimoli diventino davvero «un pretesto per mantenere vivo […] un legame forte tra le comunità […] e l’ambiente in cui si trovano a vivere […] e per pensare ad alternative e ad altri futuri possibili» [Mantovani 2016, 61]. Se davvero l’approccio critico dell’antropologia aiuta ad esplicitare i conflitti attorno alla definizione del patrimonio, smantellando la convinzione che esista un’armonia e una condivisione totale [Palumbo 2006], è mia profonda convinzione che il campo valcavallinese mostri l’utilità pubblica di questo approccio. In una situazione in cui la principale istituzione culturale di Valle vive una profonda crisi economica e di prestigio, con anche conflitti politici profondi (come raccontato da Giovanni e Luca), l’apertura ad approcci partecipativi ed orizzontali può essere prolifica nel superamento di certe «poetiche tipiche degli ordini discorsivi che […], attraverso forme di oggettivazione culturale, mirano alla definizione di piani collettivi d’identificazione» [Palumbo 2006, 373]. Utilizzare lo sguardo critico per immettere nel dibattito pubblico locale il concetto che il patrimonio sia definito collettivamente, anche in modo conflittuale (ricordo la polemica sui quater plòch di cui parlava Luca più su), a mio avviso è utilissimo per rendere davvero collettiva questa definizione, accettando le diverse prospettive e identificazioni individuali o delle diverse forze locali.

Questi pensieri forse a Casazza sono stati solo abbozzati nel lavoro alla mappa di comunità, ma la speranza è quella di aver piantato un primo seme e di poterne raccogliere i frutti quanto prima; frutti che potranno essere di maggiore interesse se creati collettivamente e in stretto dialogo con interlocutori locali, in una vera e propria etnografia collaborativa [Rappaport 2008]. È fondamentale dare risalto alle conoscenze e teorizzazioni degli interlocutori sulla propria stessa cultura e società, pratica certamente non estranea all’antropologia dei beni culturali, sempre più coinvolta con comunità «attive nel rivendicare nuove e più autonome forme di presa di cura (e di ricerca) dei propri patrimoni culturali» [Broccolini 2021, 5]. L’esperienza di Casazza dimostra infine come il metodo antropologico possa davvero essere trasformativo nei territori dove operiamo, grazie a quel carattere “trasgressivo” che porta l’antropologia a innestarsi «sull’effervescenza del contemporaneo» e stimolare un «andare oltre – la trasgressione appunto – [che] rappresenta un continuo processo di “superamento” dell’esistente» [Pozzi e Ceschi 2019]. Non resta che vedere cos’altro succederà in Val Cavallina nei prossimi anni.

Img. 1. Febbraio 2022, lavoro sulle prime bozze della mappa di comunità (fotografia scattata dall’autore)

Img. 2. Mappa tematica “Natura e Cultura”

Img. 3. Mappa tematica “Lavoro”

Img. 4. Mappa tematica “Luoghi di Aggregazione”. Si noti il particolare della “Piazza Che Non C’è”

Img. 5. Copertina della Mappa di Comunità. La frase “Ogni luogo significa qualcosa per qualcuno” è una rielaborazione di una frase trovata in un testo dell’associazione Common Ground (https://www.commonground.org.uk/parish-maps/)

Bibliografia e sitografia

Bonato L. 2008, Portatori e imprenditori di cultura per una lettura ‘a memoria’ del territorio, in Bonato L. (ed.) 2008, Portatori di cultura e costruttori di memorie, Alessandria: Edizioni dell’Orso, 1-25.

–– 2016, Pratiche partecipative per una mappa dei saperi e della sostenibilità del territorio, in Porcellana V. e Stefani S. (ed.) 2106, Processi partecipativi ed etnografia collaborativa nelle Alpi e altrove, Alessandria: Edizioni dell’Orso, 41-60.

Brambilla C. 2022, #lagentilezzaticontagia. Sperimentazioni antropologiche e public engagement tra formazione, ricerca-azione e sviluppo territoriale, «Antropologia Pubblica», 8 (1): 183-204.

Broccolini A. 2021, Applicare, usare.... o condividere l’antropologia? Per un’antropologia pubblica dei patrimoni culturali, «Antropologia Pubblica», 7 (1): 2-9.

Clifford S., Maggi M., Murtas D. 2006, Genius Loci. Perché, quando e come realizzare una mappa di comunità, Torino: IRES Piemonte.

CSV Bergamo 2022, La gentilezza ti contagia. Appunti per sostenere la partecipazione nelle comunità, https://www.csvlombardia.it/wp-content/uploads/2022/04/Gentilezza_web.pdf [26/11/2024].

Davies C. A. 2012, Reflexive ethnography: A guide to researching selves and others, London: Routledge.

Davis P. 2011, Ecomuseums, a sense of place, London: Continuum.

De Varine H. 2005, Le radici del futuro. Il patrimonio culturale al servizio dello sviluppo locale, Bologna: CLUEB.

Dei F. 2018, Cultura popolare in Italia: da Gramsci all’Unesco, Bologna: Il mulino.

Esposito V. 2016, Cartografie implicite e mappe di comunità: per una diversa classificazione dei Beni culturali, «EtnoAntropologia», 4 (1): 47-56.

Foffa D. 2023, Area archeologica Cavellas, nuova campagna: si cercano i resti di una casa, «L’Eco di Bergamo», 4 settembre 2023, http//:www.ecodibergamo.it/stories/premium/valle-cavallina/area-archeologica-cavellas-nuova-campagna-si-cercano-resti-casa-o_1645907_11/ [26/11/2024].

Harrison R. 2020, Il patrimonio culturale. Un approccio critico, Milano-Torino: Pearson.

Lattanzi V. 2021, Musei e Antropologia. Storia, esperienze, prospettive, Roma: Carocci.

Mantovani L. 2016, L’antropologia sotto casa. Spunti per una riflessione sul ruolo pubblico dell’antropologo in un contesto rurale bolognese, in Landi N. e Severi I. (ed.) 2016, Going Public. Percorsi di antropologia pubblica in Italia, Università di Bologna: 43-64.

Palumbo B. 2006, L’Unesco e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia orientale, Roma: Meltemi.

Pozzi G., Ceschi S. 2019, L’antropologia applicata tra “tecniche di mercato” e “pratiche politiche”. Riflessioni sui migranti, Migrantour e Noi, «Antropologia Pubblica», 5 (2): 127-144.

Rappaport J. 2008, Beyond Participant Observation: Collaborative Ethnography as Theoretical Innovation, «Collaborative Anthropologies», n.1: 1-31.

Reina G. 2014, L’ecomuseo fra territorio e comunità, in Reina G. (ed.) 2014, Gli Ecomusei. Una risorsa per il futuro, Padova, Marsilio: 20-88.

Rudelli A. 2003, La mia Valle. Poesie, Museo della Val Cavallina, Casazza.

Zola L. 2013, Il ruolo problematico dell’antropologo nella rivitalizzazione del patrimonio locale, in Bonato L. e Viazzo P. P. (ed.), Antropologia e beni culturali nelle Alpi. Studiare, valorizzare, restituire, Alessandria: Edizioni dell’Orso: 83-92.

<https://www.commonground.org.uk/parish-maps/> [26/11/2024].


  1. 1 Traduzione dal bergamasco: “Tre minuti sono pochi/per parlare del mio paese/giusto il tempo di poter dire/che per me è un paradiso”, La Casaccia, in La mia Valle di Anna Rudelli.

  2. 2 I nomi delle persone intervistate e coinvolte in vari modi sono stati sostituiti da pseudonimi per tutelarne la privacy. La loro età è da riferire al 2021, il periodo dello svolgimento delle interviste.

  3. 3 “Quattro sassi” in dialetto bergamasco. Il riferimento qui è alla frase di un politico locale che, alla vista dei resti archeologici di Cavellas, li avrebbe definiti, appunto, “quattro sassi”.

  4. 4 Secondo quanto raccontato dai casazzesi queste erano le due principali fonti di guadagno nei decenni immediatamente dopo la Seconda Guerra Mondiale.