Viabilità relazionale: una prospettiva im/mobile delle relazioni nel Gambia transnazionale
Relational viability: an im/mobile perspective on relatedness in transnational Gambia
Paolo Gaibazzi
Dipartimento di Scienze dell’Educazione “G.M. Bertin”, Università di Bologna
Abstract
While anthropologists have long studied how mobility and immobility shape social relationships, this article describes relatedness itself as a form of im/mobility. It draws on ethnographic research among Soninke speakers in the Gambia and in the diaspora who express their relationship to others through images of what could be characterized as “viability”. The conceptual metaphor of viability serves to analyse three aspects of relational im/mobility. Firstly, viability hints at the infrastructural aspects, such as when Soninke speakers imaginekinship as a road or a network of roads connecting and channelling kinsfolk. Secondly, such relational paths are more or less viable, socially, affectively and economically, depending on whether related people travel either collectively or in a scattered fashion, either closer to or away from each other. Thirdly, viability captures the existential aspect of relatedness, for Soninke speakers also perceive others as entering, inhabiting and exiting their own lives and living condition.
Keywords: migration; relatedness; im/mobility; house; Soninke.
Il nesso tra mobilità e relazioni sociali è da lungo tempo oggetto di studio dell’antropologia1. Già una delle opere classiche dell’antropologia europea come Argonauti del Pacifico Occidentale Malinowski [2011] dava importanza a come la mobilità, nella fattispecie il circuito kula nell’arcipelago delle Trobriand, creasse rapporti, rituali e scambi di vario genere tra gli isolani. Pochi anni dopo, nonostante la mobilità suscitasse scarso interesse empirico e teorico in quel periodo, i ricercatori affiliati alla cosiddetta scuola di Manchester studiavano ricomposizioni sociali di migranti provenienti dalle zone rurale dell’Africa australe nelle città e miniere coloniali [Werbner 2020]. I loro studi hanno successivamente inspirato generazioni di antropologi delle migrazioni, che soprattutto dagli anni Novanta hanno descritto come legami familiari e reti sociali non si sgretolassero nella distanza fisica, ma anzi dessero corpo a complesse formazioni transnazionali [Olwig 2007; Coe 2013; Cole, Groes 2016; Lentz, Lobnibe 2022]. Nel frattempo anche nell’antropologia della parentela cominciò a farsi largo una prospettiva attenta ai flussi e scambi che compongono le relazioni [Carsten 2000].
Dagli anni Duemila, una svolta alla mobilità (mobility turn) ha portato a ripensare la società non più come struttura statica ma come formazione mobile [Urry 2000]. Non solo vengono studiate le diverse e interconnesse forme di mobilità e immobilità che caratterizzano in maniera preponderante l’era della globalizzazione. La mobilità diventa anche una lente analitica per guardare ai rapporti sociali e le pratiche culturali. In antropologia, la prospettiva di mobilità ha dato ulteriore impulso alla critica di nozioni stanziali e chiuse di società e cultura iniziata una decade prima, anche grazie agli studi sul transnazionalismo. Al contempo, l’approccio etnografico ha permesso di smorzare i toni celebrativi e spesso eurocentrici che avevano accompagno i primi studi sulla mobilità, mettendo l’accento sulle disuguaglianze prodotte dalla e nella mobilità, e superando così la dicotomia tra mobilità e immobilità [Glick Schiller, Salazar 2013]. Vari studi etnografici hanno dunque mostrato come movimento e stanzialità nelle loro svariate forme si intreccino per sostenere legami, affetti e intimità [Ingold 2000; Boccagni 2016; Pozzi 2020; Groes, Fernandez 2022].
Proseguendo nel solco di questi studi, il presente contributo abbozza una prospettiva complementare di im/mobilità. Non solo analizza come il movimento o meno di persone, sostanze, idee ecc. faccia e disfaccia relazioni, e viceversa; cerca piuttosto di concepire e analizzare la relazionalità stessa in termini di im/mobilità. È una prospettiva analitica ispirata da ricerche etnografiche condotte a varie fasi dal 2006 al 2022 nei villaggi a maggioranza Soninke in Gambia e in alcuni nodi della diaspora urbana e internazionale, in particolare in Angola2. La migrazione e la mobilità umana in genere sono un elemento storico e strutturale nella valle del fiume Gambia e nel Sahel occidentale tutto. Il milieu etno-linguistico Soninke vanta tuttavia una discreta fama regionale per la sua forte vocazione migratoria. Già protagonisti per secoli di importanti reti commerciali che collegavano il Sahel col Senegambia e la Costa di Guinea, dalla metà del secolo scorso i Soninke hanno conosciuto una crescente diversificazione e globalizzazione delle proprie reti migratorie [Manchuelle 1997]. Nei villaggi Soninke, rapportarsi con parenti, amici e conoscenti che studiano, commerciano, lavorano, si curano o curano casa e parenti nei cinque continenti è un fatto normale. Mantenere, riparare o spezzare queste relazioni comporta un lavoro sociale continuo dal quale dipendono sopravvivenza e prestigio per le famiglie al villaggio, e un senso di coesione e continuità per tutti gli interessati [Gaibazzi 2015].
Portando l’esempio dei Silla di Debe3, una famiglia estesa di un villaggio dell’alta valle del Gambia, nelle pagine seguenti descrivo i vari modi nella lingua e gestualità Soninke per esprimere la qualità di queste relazioni diasporiche in termini di im/mobilità. Nella famiglia Silla si parla spesso di membri che si “avvicinano” e “disperdono”. Pur distanti fisicamente e “sparpagliati”, alcuni si stringono a chi rimane, si “prendono la mano e camminano insieme” sulla “via degli antenati”. Oppure la abbandonano, non solo cambiando strada, ma anche “uscendo” dalla vita di coloro che restano al villaggio o in altri paesi.
Utilizzo la metafora concettuale della viabilità per analizzare queste rappresentazioni ed esperienze im/mobili delle relazioni sociali tra i Soninke. Il concetto di “viabilità relazionale” ha tre significati e scopi analitici. In primo luogo, nel suo uso comune, viabilità si riferisce al sistema dei trasporti, in particolare alla rete stradale e ad al traffico. Il termine proviene dal francese viabilité, a sua volta derivato dal tardo latino viabĭlis «praticabile, che permette facile passaggio», da via «via» e viare «andare»4. In un primo senso, dunque, viabilità relazionale serve ad evocare l’immagine di un’infrastruttura delle relazioni fatta per essere percorsa, come la via o sentiero (kille) degli antenati con la quale i Soninke indicano il patrilignaggio e più in generale la trasmissione intergenerazionale.
Il secondo significato di viabilità affianca alla metafora piuttosto statica della rete stradale il senso cinetico e qualitativo di viabilità come percorribilità di tale rete in base alle mutevoli condizioni del traffico. Più che dal vocabolo italiano, l’estensione figurativa di viabilità al piano relazionale è resa dalle parole francesi viable e viabilité (così come dalle inglesi viable e viability)5, che si riferiscono alla percorribilità o praticabilità di relazioni, piani o attività, anche nel senso di sostenibilità delle stesse. Nel contesto gambiano, le relazioni sono secondo questa accezione viabili quando, ad esempio, un migrante rimette del denaro alla sua gente in patria o aiuta economicamente un fratello minore ad emigrare o avviare un’attività commerciale. Stimare la viabilità o percorribilità di una relazione con un data persona implica più che consultare una rete o mappa stradale fissa. Occorre piuttosto valutare di volta in volta se e come è possibile e opportuno avvicinarsi, allontanarsi, deviare, passare da altre persone, e così via. Fatto salvo per la logica algoritmica, l’immagine di un’applicazione o apparecchio di navigazione stradale può evocare meglio questo tipo di, appunto, navigazione relazionale6.
Il terzo senso di viabilità completa i primi due e riguarda il piano affettivo ed esistenziale delle relazioni. Il significato di percorribilità e sostenibilità contenuto nel termine francese viabilité non deriva dal latino via, ma dal vocabolo francese vie, vita, e si riferiva in origine alla capacità di vivere, in particolare alla capacità di sopravvivenza extrauterina dei neonati. La metafora del neonato legato all’utero materno mentre si avvia ad una nuova vita al di fuori di esso ricorda opportunamente l’espressione sunpo do xati, cordone ombelicale e latte. È una nozione chiave della parentela Soninke che simboleggia l’unione e la continuità del patrilignaggio (cordone ombelicale) e le relazioni matrilineari (latte), che fanno dell’individuo un essere sia autonomo che relazionale7. Tra i Soninke esiste senz’altro un’idea di individualità; tuttavia, si riscontra anche un forte senso di «dividualità» [Strathern 1988], ovvero un senso che le persone siano relazioni e non solo che abbiano relazioni. Oltre che da immagini corporee, questo senso di esistenza relazionale viene espressa al meglio da espressioni Soninke come “entrare” e “uscire dagli altri”. In termini di viabilità, le persone possono essere dunque pensate come snodi o crocevia, o forse come stazioni o parcheggi nei quali entrare, sostare e uscire.
A livello concettuale, il concetto di viabilità relazionale vuole aggiungere una prospettiva di im/mobilità a ciò che Janet Carsten [2000] chiama relatedness. Traducibile come «relazionalità parentale» [Grilli 2019, 27], relatedness è una più ampia nozione «volta letteralmente a sottolineare ‘la qualità dell’essere interrelati’» [Consoli 2021, 40]. Relatedness vuole superare la visione statica e biologica di parentela, e dare risalto alla flessibilità e processualità delle relazioni, che come accennato sopra si fanno anche con la mobilità di sostanze (latte materno, cibo, ecc.). Pensare alla relatedness come viabilità vuol dire pensare all’essere interrelati in termini infrastrutturali e materiali, ma anche in termini cinetici. Non è solo un essere ma anche un muoversi verso e da, e un dimorare con o ne’, gli altri, che qualifica le relazionalità nel milieu Soninke.
A fine 2022, dopo un paio di anni di assenza, visitai di nuovo casa Silla o Silla-kunda8 al villaggio di Debe, nell’Upper River Region del Gambia orientale. Un’abitazione che da oltre cinquant’anni occupava il lato est dell’ampio ka o concessione domestica patrilocale era stata demolita. Restavano i tracciati dei muri di quello storico edificio costruito a cavallo degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, cinque stanze da letto a schiera affacciate su un’imponente veranda. Da diversi anni l’immobile giaceva in uno stato di semi abbandono. Durante l’ultima stagione delle piogge un forte temporale aveva parzialmente scoperchiato il tetto di lamiera, decretandone l’inagibilità. Al suo posto doveva sorgere un caseggiato a schiera composto da tre appartamenti trilocali. Una decina di fratelli agnatici sparsi in vari paesi della diaspora avevano deciso di finanziare il progetto. Durante la mia visita, Demba, il fratello agnatico residente che fu incaricato di seguire i lavori in loco, mi mostrò una pila di mattoni al lato del cantiere che, disse, sarebbe partito a breve. «Quando Baba [un fratello agnatico residente in Canada e tesoriere del progetto] manda soldi, io compro cemento e sabbia, e facciamo i mattoni» (Demba 18/11/2022, Debe). Come tanti uomini della sua generazione (anni Settanta/Ottanta), Demba aveva imparato a fare mattoni lavorando come manovale nei cantieri della città. «Ora però», aggiunse, «Baba ha detto di aspettare: i soldi non son molti in questo momento» (ibid.).
Ero già stato aggiornato a proposito da Mohamed, uno dei fratelli agnatici più anziani, prima di raggiungere Debe. Mohamed era l’iniziatore e coordinatore del progetto. Lo incontrai nel suo solito luogo di ritrovo di amici lungo una strada principale di Serekunda, l’area urbana che si estende lungo la costa atlantica. Mi mostrò i disegni dell’architetto sul suo telefonino, e mi parlò con entusiasmo di come era nato il progetto. Ogni volta che lui o altri familiari visitavano Debe, spiegò, dovevano alloggiare da parenti. Presso la loro casa ancestrale non c’erano stanze libere e non volevano mettere in difficoltà i loro familiari. Ciò generava imbarazzo, o meglio vergogna (yaagu), per tutti quanti: per i familiari che non riuscivano a ottemperare al loro dovere di dare ospitalità, per gli altri parenti ospitanti che non volevano evidenziare tale mancanza offrendo ospitalità al loro posto, e per gli ospiti che chiedevano ospitalità altrove invece che a casa propria.
Il danno provocato dal temporale alla casa ancestrale gli fece rompere gli indugi. Mohamed cominciò a fare telefonate ai fratelli nella diaspora, e ben presto un gruppo WhatsApp fu creato. Da qui nacque il progetto e poi un sistema di quote di partecipazione da pagare a rate. Pagata la prima rata, e avviati la progettazione ed il cantiere, ora si stava aspettando la seconda. Un paio di membri avevano già rinunciato, ma Mohamed rimaneva ottimista: «Diamoci la mano», disse stringendosi la mano sinistra con la destra, «e andiamo avanti insieme!» (Mohamed 12/11/2022, Serekunda), forse ripetendo uno degli slogan morali che aveva utilizzato per persuadere altri fratelli e sorelle a unirsi al progetto.
Coloro che contribuivano al progetto immobiliare erano dislocati in vari paesi: Canada, Belgio, Svezia, Inghilterra, Italia, Mozambico, e ovviamente in città, a Serekunda. Incamminare tutti sulla stessa strada non era cosa facile: questo era il primo investimento immobiliare da decenni che i membri nella diaspora intraprendevano, e per di più collettivamente. Solo Ousmane, fratello di Demba ed anch’egli un membro del progetto collettivo, aveva recentemente costruito una grande casa per la propria sezione o «lato» (bange) e unità familiare (dimbaya o kore) della più ampia concessione domestica (ka). Il progetto collettivo suscitò dunque sorpresa e approvazione. Certo le esigenze infrastrutturali ed economiche del ka ancestrale erano svariate, e forse dare un tetto a coloro che visitavano Debe solo saltuariamente non era tra gli investimenti prioritari per coloro che vi abitavano in maniera continuativa. Ma tutto sommato la novità fu applaudita come una speranzosa unità ritrovata. «Si avvicinino [a noi]» (i wa tintoono) commentò ad esempio Hawa, moglie di Papa, l’unico altro fratello agnatico oltre a Demba ad essere rimasto a Silla-kunda, a presidiare l’altra sezione.
Il nuovo edificio a Silla-kunda rappresentava dunque non solo un immobile in senso stretto, ma un simbolo di mobilità relazionale. Rappresentava materialmente la ritrovata unità famigliare resa possibile sia da una convergenza centripeta verso la casa ancestrale di persone e risorse disperse nel mondo, sia da un percorso o movimento da loro intrapreso collettivamente. La casa si presta bene come lente analitica dei processi relazionali e domestici [Lévi-Strauss 1983; Carsten, Hugh-Jones 1995; Lloyd, Vasta 2017; Domenici 2019; Pozzi, Grassi 2021]. Nelle pagine seguenti continuerò ad utilizzarla per mettere a fuoco la viabilità relazionale che fa e disfa il ka, a livello materiale, infrastrutturale e di im/mobilità [Grimaldi 2019], ma anche più in generale a livello affettivo, morale ed esistenziale.
Quando conobbi i Silla nel 2006, il senso di dispersione o sparpagliamento (sanke) era in effetti forte. Un pomeriggio sedevo con Haji sulla recinzione del ka, chiacchierando del più e del meno. A quel tempo Haji, fratello minore di Papa e uno degli Silla più giovani della sua generazione, aveva vent’anni scarsi e la vita piena di progetti. Voleva viaggiare e darsi da fare per la sua famiglia. Voleva rimediare a ciò che non era stato fatto da chi lo aveva preceduto:
I nostri viaggiatori, eh, da quanti anni sono fuori [altrove]? Quanti viaggiatori abbiamo qui [in questo ka], eh? E guarda, guarda queste case: siamo poveri! Ecco perché, vedi, ecco perché non posso restare qui così [con le mani in mano]. Devo andare fuori [emigrare] e darmi da fare. Se vado all’estero – la ilaha illa! – questo ka non rimarrà così. No, no, no! Lo renderò bello, ci costruirò una casa per mia madre (Haji 19/2/2007, Debe).
Haji indicò uno spazio vuoto nell’angolo più lontano del cortile tra una tipica abitazione circolare col tetto di paglia e una delle due vecchie case di cemento e fango costruite tra la fine degli anni Sessanta e Settanta dai fratelli agnatici di suo padre Ibrahim, defunti da tempo. Uno era il padre di Ousmane e Demba, e aveva guadagnato qualche soldo come commerciante di diamanti in Guinea Conakry. L’altro era un commerciante di stoffe in Senegal, e aveva eretto l’edificio che nel 2022 sarebbe poi stato abbattuto. Già nel 2006 quest’edificio mostrava segni evidenti di decadimento. La recente imbiancatura aveva malcelato la facciata logora. Il tetto era un patchwork di lamiere ondulate nuove e arrugginite che offriva un riparo incerto durante le piogge torrenziali. Sul retro della casa, un paio di profonde crepe o solchi correvano lungo le pareti di mattoni di fango e paglia corrosi dall’acqua piovana. Il decadimento si notava tuttavia in tutto il ka. Haji ed io eravamo seduti sull’unico tratto di recinzione fatto di mattoni di cemento che separava il recinto degli animali dal cortile interno. Il resto della recinzione consisteva in vecchi pali di legno e bastoni, mentre in alcune parti non c’era alcuna recinzione: insolito e imbarazzante per gli standard del villaggio.
Haji mi fece cenno col mento di dare un’occhiata alla casa dei vicini. Era uno ka più edificati e brulicanti di vita del villaggio, in netto contrasto con il Silla-kunda. Ville imponenti affollavano la concessione domestica, tanto che il cortile interno era ormai ridotto al minimo. Gli edifici erano sormontati da belle gronde decorative e le grondaie scaricavano l’acqua piovana lontano dalle pareti dai colori vivaci. Pannelli solari fornivano corrente alla famiglia ancor prima che l’elettrificazione raggiungesse il villaggio qualche mese dopo, e poi la tenevano illuminata di notte, quando la fornitura elettrica veniva interrotta. Come nel ka di Haji, numerosi uomini avevano lasciato Debe per lavorare, commerciare o studiare all’estero. Eppure avevano contribuito alla prosperità del loro ka in questo modo così esteticamente evidente. Haji si voltò verso di me e, uncinando gli indici delle mani, disse: «Sono così. Si tengono stretti l’un l’altro» (i wa ragana me yi siri).
Ciò che condannava la concessione domestica di Haji alla povertà era stata chiaramente la mancanza di investimenti da parte della maggior parte dei suoi membri espatriati. Un tempo questa era una famiglia grande e importante, fondata da uno dei primi abitanti del villaggio più di un secolo prima. Sebbene negli anni alcuni dei discendenti si dislocarono e fondarono altre concessioni «figlie» (kanlenme) a Debe e nei villaggi limitrofi, il ka ancestrale continuò a crescere, tanto che fu diviso in quattro sezioni. Nel 2006/7, il ka era ancora grande e spazioso, ma appariva spettralmente vuoto. Vi abitavano solo dieci persone e le quattro sezioni si erano ridotte a due: quella dell’unità familiare di Haji, Papa e loro padre Ibrahim, e quella di Demba. Il resto dei membri maschi in vita – una quindicina solo contando i migranti di prima generazione – viveva all’estero o in città.
La dispersione iniziò negli anni Sessanta, quando la migrazione dall’Alto Gambia verso altri Paesi dell’Africa occidentale si era intensificata. Ibrahim visse in diversi paesi dell’Africa occidentale e centrale prima di tornare a Serekunda a metà degli anni Ottanta. Quando l’unico sua padre agnatico rimasto a Silla-kunda morì a metà degli anni Novanta, Ibrahim tornò al villaggio per sostituirlo come leader del ka. Portò con sé la terza moglie e i suoi quattro figli, tra cui Papa e Haji. Gli altri suoi venticinque figli rimasero all’estero, nella casa che Ibrahim aveva costruito in città o nei villaggi d’origine delle madri. Come se non bastasse, nessuno dei fratelli agnatici di Ibrahim seguì il suo esempio. Quelli che tornarono dall’estero si stabilirono nelle aree urbane e lì crebbero le loro famiglie.
La dispersione in sé non era il problema. La casa dei vicini degli Silla era un esempio lampante del fatto che la dispersione può essere una risorsa [Ma Mung 1999]. Come indica il commento di Haji, la distanza fisica non impedisce a migranti e residenti di rimanere strettamente vicini sul piano relazionale. In altre parole, la migrazione come tipo di dispersione centrifuga è praticabile o viabile quando produce un movimento centripeto sul piano relazionale, e quindi socioeconomico, alimentando scambi e cura reciproca [Whitehouse 2012].
È quando è accompagnata dalla disconnessione che la dispersione genera a lungo andare problemi infrastrutturali di viabilità. La migrazione è vissuta in questo caso come una forza frammentante e atomizzante che allontana le persone l’una dall’altra. Come dicono i locali, le persone che vivono questa situazione si sparpagliano l’una dall’altra (i sanke me yi). È a questo degrado infrastrutturale che Haji voleva porre rimedio, emigrando a sua volta, ma per riaprire quelle vie di comunicazioni che dalla diaspora portano soldi, attenzioni e investimenti immobiliari al ka paterno.
Sarebbe impossibile raccontare nel dettaglio tutte le storie che avevano negli anni reso il Silla-kunda un sistema viario esteso a livello intercontinentale ma poco percorribile. Molti a Silla-kunda riassumevano questa lunga storia con il termine telenbalaaxu, che letteralmente significa “non andare dritto”, spesso accompagnato da un gesto della mano a disegnare slalom o zig-zag nell’aria. In senso figurato, telenbalaaxu significa divergenza, come due persone che non riescono a incontrarsi su un punto comune. Telenbalaaxu può anche significare ambiguità, come una persona che non segue la stessa linea con coerenza.
Vari slalom e divergenze avevano interessato le relazioni fraterne già quando Ibrahim era giovane. Con la progressiva morte dei loro padri, molti dei fratelli agnatici di Ibrahim si stabilirono progressivamente in città o all’estero, o lo fecero i loro figli una volta che i loro padri e madri al villaggio passavano a miglior vita. Mohammed, il coordinatore del progetto, era uno di loro: si sentiva legato al Silla-kunda ancestrale, ma il suo ka era in città. Ma l’incomprensione era evidente anche nella stessa famiglia di Ibrahim che pure era presente a Debe. Sebbene fosse un rimpatriato di successo e un patriarca con numerose mogli e figli, molti di questi avevano preso la propria strada. Delle diverse mogli che aveva sposato (e anche divorziato), solo la madre di Haji e Papa lo aveva seguito al villaggio quando era diventato il capo della famiglia ancestrale. Due delle sue mogli erano morte nel frattempo, mentre l’altra rimasta in vita era tornata al suo villaggio d’origine: un chiaro segno di animosità coniugale, che si diceva avesse fatto deviare anche i figli. Tra questi vi era Baba, il tesoriere del progetto del 2022, che, come uno dei primogeniti di Ibrahim, avrebbe dovuto assumersi la responsabilità finanziaria dell’intera famiglia quando il padre si ritirò a Debe, e che invece inviava denaro solo di rado. Nel 2006/7 e per diversi anni successivi, solo Ousmane, che apparteneva all’altra sezione del ka, inviava denaro regolarmente per il sostentamento. Verso la fine del primo decennio del Ventunesimo secolo, il livello di dispersione centrifuga a casa Silla era considerevole per gli standard del villaggio. Così come lo era il grado di frammentazione nella famiglia di Ibrahim.
Un grado di conflitto e frammentazione interessava la maggior parte delle famiglie di Debe. Nell’area culturale Mande, che comprende i gruppi di lingua Soninke e si estende dal Mali orientale fino alla Costa d’Avorio, la cooperazione e il conflitto sono riassunti in due concetti di parentela in opposizione dialettica tra loro: “essere figlio della madre” (Soninke: maremmaaxu) ed “essere figlio del padre” (faabaremmaaxu) [Bird, Kendall 1980, 14-6; Razy 2007b, 73; Kea 2013, 109-10]. La rivalità tra le mogli di Ibrahim è un esempio paradigmatico di questa dinamica, in cui la solidarietà tra i figli di una stessa madre contrasta con la competizione tra le coorti delle diverse mogli. Entro certi limiti, il comportamento agonistico tra i figli è un incentivo al successo, che genera anche migrazione alla ricerca di opportunità. La situazione immobiliare di Silla-kunda a metà anni Duemila evidenziava al contrario un eccesso di conflittualità. I percorsi relazionali che portavano al ka ancestrale venivano, se non interrotti, almeno disertati, causando a loro volta il dirottamento di flussi materiali verso altri nuclei e luoghi della famiglia diasporica.
Entrare, stare e uscire dalle vite altrui
Oltre che alla percorribilità e sostenibilità socio-economica, la dispersione a Silla-kunda riguarda l’esistenza stessa secondo la terza accezione del termine viabilità. In primo luogo, garantire la sussistenza della famiglia (biraado) è un obiettivo primario di qualsiasi attività economica come l’emigrazione, non solo in termini nutrizionali, ma anche in termini di riproduzione sociale. La sussistenza serve a far sì che la concessione domestica e quindi il patrilignaggio possano continuare a vivere come una comunità con un’ascendenza e un destino condivisi. Per usare un’altra metafora cinetica locale, permette alle nuove generazioni di continuare a percorrere “il sentiero [kille] dei nostri padri [nel senso di avi]” [vedi anche Kea 2013, 109]. Per questa proiezione è quindi fondamentale che le persone continuino a muoversi insieme, nel senso di muoversi con e verso gli altri.
In secondo luogo, e di conseguenza, la viabilità relazionale risulta compromessa quando c’è una separazione e allontanamento di vite che dovrebbero essere mutualmente convergenti. Si dice spesso che in tal caso i migranti “hanno dimenticato da dove vengono” o “sono usciti dalla povertà”. Così come la sussistenza, la povertà (misikinaaxu) e la difficoltà o sofferenza (tanpiye) sono una condizione tanto esistenziale quanto economica. In ambito rurale, la conoscenza diretta e incorporata della “sofferenza” ha un carattere costitutivo e pedagogico. Serve a formare persone connesse e convergenti. I ragazzi maschi, in particolare, devono sperimentare la durezza del lavoro agricolo e della vita rurale per essere pronti ad affrontare le sfide della vita (migratoria), senza dimenticare chi sono e da dove vengono [Spittler, Bourdillon 2012; Gaibazzi 2015, 74-80]. Così, se da un lato la generazione attuale di migranti a casa Silla non era riusciti ad alleviare la povertà del loro ka ancestrale, dall’altro si erano distaccati dalla condizione di vita quotidiana marcata della “sofferenza” rurale.
È qui che si sovrappongono i significati di abitazione come infrastruttura fisica e come modalità esperienziale di dimorare in uno spazio (relazionale). Oltre che il lavoro agricolo, Haji era cresciuto condividendo spazi, cibo e altre attività con gli altri membri del ka. La prossimità fisica era stata fondamentale per avvicinarlo agli altri. Per contro, vivendo nel ka aveva imparato a percepire la presenza e l’assenza dei familiari lontani attraverso le loro attenzioni o noncuranza rispetto alla condizione di coloro che erano rimasti a Debe. Man mano che molti dei suoi fratelli agnatici emigrati si allontanavano da lui e dalla sua condizione di vita, la loro presenza si trasformava progressivamente in un’assenza.
Più che una condizione statica, l’assenza è descritta come un moto relazionale ed esistenziale. Poco dopo il nostro incontro sulla recinzione, Haji mi raccontò un aneddoto per dimostrare ulteriormente che i suoi parenti “bogu in wa”, sono usciti da me (o dalla mia vita). Nel 2006, mentre si avvicinava la festa musulmana di Tobaski (Eid al Adha), Haji prese in prestito un telefono cellulare, comprò credito telefonico, e chiamò Issa, uno dei suo fratelli più grandi, che abitava in Belgio da più di vent’anni. A quell’epoca una chiamata internazionale aveva un costo non indifferente. Issa, come Baba, era figlio della moglie che abitava altrove e aveva apparentemente messo i loro figli contro Ibrahim e le altre mogli. Haji chiese un aiuto finanziario per comprare un nuovo vestito della festa:
[Issa] mi ha detto che le agenzie di trasferimento di denaro erano chiuse a causa del periodo natalizio, e che il Belgio è un Paese cristiano [nel 2006 Tobaski cadeva il 31 dicembre] ...Avevo chiesto un prestito per fare quella telefonata. Tutti i miei amici, i loro fratelli all’estero avevano mandato loro dei soldi e avevano vestiti e scarpe nuove e scintillanti. Io avevo solo i miei vecchi vestiti e le mie vecchie scarpe (Haji 27/2/2007).
Ciò che amareggiò Haji non fu solo la delusione per il mancato regalo. Fu anche qualcosa di più del fallimento da parte di Issa nel mostrare empatia, indipendentemente dalla sua intenzione reale di mandare o meno del denaro. Ad un livello più elementare, Issa non andò incontro a Haji, non ritornò per così dire ad abitare la sua stessa condizione di vita segnata da sofferenza, ma anche di potenziale unione. Issa diventò per così dire una strada impercorribile per Haji, sia dal punto di vista economico che relazionale e soggettivo. Issa dimostrò di aver dimenticato (mungu) la presenza del fratello minore nella propria vita, “uscendo” da lui.
Per diversi anni, la viabilità relazionale di casa Silla continuò a degradarsi in tutti i suoi aspetti. Nel corso della seconda decade del Ventunesimo secolo, tutti gli anziani della concessione domestica passarono a miglior vita. Subito dopo la morte di Ibrahim vi furono ulteriori frizioni tra coorti delle mogli e ciò sembrò causare un nuovo allontanamento. La morte di due donne anziane rimosse un’ulteriore ancora morale per quei figli nella diaspora che ancora mandavano soldi e regali. Diversi giovani uomini partirono, compreso Haji, che prima provò la fortuna in paesi limitrofi e poi si stabilì in città. A metà degli anni Dieci, solo Demba e Papa, ora divenuti uomini sulla quarantina, rimasero a presidiare il ka, uno per sezione, insieme alle loro mogli e figli, e quelli di Ousmane. Talvolta si aggiungeva qualche ospite, nipote o sorella in visita o in collisione col marito9.
Negli ultimi anni la situazione è sensibilmente migliorata. Nel 2019, Ousmane prima recintò il perimetro della concessione e poi, come già accennato, ultimò una grande casa al posto di quella eretta cinquant’anni prima dal padre, di fianco a quella demolita nel 2022. Nell’altra sezione, un figlio di una moglie deceduta di Ibrahim che aveva consolidato la propria situazione lavorativa in Svezia prese a sostenere più o meno regolarmente la concessione familiare, nonostante la sua unità domestica fosse ora a Serekunda. Saltuariamente anche altri fratelli mandavano beni di sussistenza e qualche regalo.
Nonostante i segnali positivi, il progetto collettivo avviato da Mohamed, uno di coloro che da tempo non contribuiva più al budget di casa Silla, fu una sorpresa per molti, me compreso. Tra i contribuenti vi erano altri fratelli, come Issa, che dal punto di vista di chi era rimasto a Debe si erano ormai stabilmente insediati altrove e avevano “lasciato” o addirittura ripudiato la casa ancestrale. È difficile stabilire con certezza cosa abbia catalizzato questa inversione di rotta. Interpellati telefonicamente o di persona, molti aderenti al progetto si affidarono alla versione proposta sopra da Mohamed: era necessario evitare l’imbarazzo di chiedere ospitalità altrove durante le visite e, a parer di altri interlocutori esterni, forse anche la vergogna di aver lasciato andare in malora il ka ancestrale. Ciò che è soprattutto interessante notare, tuttavia, è che nel 2022 un senso di rinnovata viabilità relazionale sembrava diffondersi a Silla-kunda. Oltre a Mohamed, altri usavano parole come “avvicinarsi gli uni agli altri”, “prendersi per mano” e “camminare insieme” per descrivere ed elogiare il progetto edilizio. «Prima molti dei nostri si erano persi (sanke)», commentò un giorno Demba, il referente locale, «ma poi l’hanno capita. Sono ritornati, hanno capito che è meglio che ci teniamo stretti e continuiamo a camminare sul sentiero dei nostri padri» (Demba 22/11/2022, Debe).
Ho voluto utilizzare il progetto immobiliare e le altre abitazioni della concessione familiare Silla di Debe come una lente per analizzare il modo in cui le relazioni di parentela vengano “fatte” [McKinnon 2016] in maniera dinamica. Non mancano certo tra i Soninke nozioni essenzializzate e fisse dell’ “essere” in relazione (ibid.), come ad esempio la consanguineità. Dare corpo – anche letteralmente – alle relazioni implica tuttavia pratiche e processi quotidiane di relatedness [Carsten 2000]. Oltre al fatto che il sangue debba essere fisicamente trasmesso e che non sia necessariamente una sostanza vitale stabile [Bledsoe 2002; Fairhead, Leach, Small 2006], i legami di parentela tra i Soninke vengono costruiti e negoziati attraverso altre sostanze e scambi, dall’allattamento, al cibo, alle cure, alla convivialità, alla coabitazione, appunto, sotto lo stesso tetto [Razy 2007b]. Ecco, dunque, che erigere un’abitazione è un modo di consolidare o ricostruire relazioni, tanto più se si tratta come in questo caso di un’abitazione che ne sostituisce materialmente e simbolicamente una costruita da un uomo della generazione precedente, e che negli anni era piuttosto diventata un significante di degrado familiare. Il progetto immobiliare iniziato nel 2022 a Silla-kunda rappresentava agli occhi di molti dei suoi membri la materializzazione di una ritrovata convergenza dopo anni di dispersione e abbandono. Rigenerava parte del ka, lo proiettava nel futuro insieme al resto del lignaggio.
La metafora concettuale di viabilità relazionale aggiunge una prospettiva cinetica al “fare” parentela e relazione. L’analogia costruttivista delle relazioni non basta infatti a cogliere il senso dinamico, insieme a quello infrastrutturale, della parentela e degli spazi domestici a Silla-kunda. Questi non sono solamente raffigurate come edifici, tanto meno come altre entità fisse, per esempio di tipo arboreo come un albero, o tecnico, come un diagramma genealogico. La discendenza viene piuttosto rappresentata come un via o sentiero (kille) che, per quanto possa essere pensato come fissa, è una via di comunicazione che collega persone tra le generazioni e nelle generazioni. È un sentiero fatto per essere percorso collettivamente, e che si fa percorrendolo. Percorrerlo insieme comporta più di un’azione di solidarietà meccanica in cui i parenti già naturalmente vicini si mettono in moto. Implica piuttosto un continuo avvicinamento, nonché un tenersi vicini, prendendosi per mano, per evitare che ognuno prenda strade diverse e si disperda.
Parlare di viabilità mi ha permesso soprattutto di evidenziare il carattere im/mobile delle nozioni ed esperienze di relatedness [Carsten 2000] tra i Soninke. Diversi studi sulla parentela e la relatedness nella migrazione, Soninke o meno, hanno giustamente rivolto attenzione alla circolazione locale e traslocale di sostanze, come il cibo e il denaro [Drotbohm 2012; Zharkevich 2019; Carsten 2020], o di persone stesse, come i bambini che circolano tra diaspora e madrepatria [Razy 2007a; Whitehouse 2009; Bledsoe, Sow 2011]. Come dimostra l’episodio tra Haji e Issa, tuttavia, non è solo il flusso di denaro ad indicare la viabilità, nel senso percorribilità e sostenibilità socio-economica, della loro relazione fraterna. È anche il percepire le persone, che siano fisicamente vicine o lontane, come dimoranti, convergenti o abbandonanti rispetto a sé e alla propria condizione di vita. Il concetto di viabilità relazionale tenta quindi non solo di descrivere ciò che circola tra persone e luoghi, ma anche il senso di entrare e uscire dalla vita degli altri, di esistenze vicendevolmente attraversate, convergenti o divergenti [cfr. Sahlins 2011]. Tenta, in altre parole, di apportare una prospettiva analitica aggiuntiva alla relatedness, la quale descriva le rappresentazioni, percezioni ed esperienze delle relazioni stesse in termini di im/mobilità.
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1 Si ringrazia Giulia Consoli ed i revisori anonimi della rivista per i preziosi commenti su versioni precedenti dell’articolo.
2 La ricerca è stata finanziata da: Università di Milano-Bicocca con la Fondazione Unidea; Missione Etnologica in Bénin e Africa Occidentale; Ministero Tedesco dell’Istruzione e della Ricerca (BMBF, codice di finanziamento: 01UG0713); Consiglio tedesco per la ricerca (DFG) attraverso un progetto Heisenberg (n. 439753334); Unione Europea – NextGenerationEU attraverso il Ministero dell’Università e della Ricerca, programma PNRR - Missione 4 Componente 2 Investimento 1.1 “Fondo per il Programma Nazionale di Ricerca e Progetti di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN)” (codice progetto: P2022JPN7B).
3 Utilizzo pseudonimi per tutti le persone ed i luoghi menzionati in questo articolo, ad eccezione dei centri abitati più grandi come Serekunda o Banjul.
4 Vocabolario Treccani online, <www.treccani.it> (22/3/2024).
5 Oxford Online Dictionary <oed.com> (25/11/2024).
6 Viabilità si avvicina al concetto di “navigazione sociale” [Vigh 2009] ma si focalizza sulle relazioni personali.
7 Sunpo do xati evoca inoltre la dialettica di interdipendenza e autonomia tra le generazioni riscontrabile in tutta l’Africa [Alber, Van der Geest, Reynolds-Whyte 2008]. Non sorprende infine che sia una comune metafora di coesione sociale al di là della parentela.
8 Kunda è un suffisso di molte lingue Mande per indicare, contestualmente, un insediamento di, come la concessione domestica dei Silla, o una città come ad esempio Serekunda, l’agglomerato urbano sulla costa atlantica.
9 Come accennato, un conflitto coniugale vede spesso il ritorno di una donna sposata dal ka del marito.