Festa, spazio, territorio
Risonanze territoriali e immaginazione dell’abitare in una festa “paradigmatica”
Festivals, space, territory
Territorial resonances and imagination of inhabiting in a “paradigmatic” festival
Alessandra Broccolini
Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche, Sapienza Università di Roma
Indice
Emblematica o paradigmatica? La festa come “dispositivo” territoriale
Festa, spazio e territorio nel campo antropologico
Su al Monte e ritorno: Marta e la Madonna del Monte
Dentro Marta: riabitare un luogo emblematico attraverso la festa
Abitare il territorio attraverso la festa: campagna e lago come risonanze emblematiche
Abstract
Which is the relationship we can see between festive phenomena and contemporary processes of locality making? And how do festive phenomena speak to us today about the territories they belong to and define forms of inhabiting? In order to answer these questions, the essay seeks to explore the festivity-territory-inhabitation relation through the spatial analysis of a specific ethnographic case, the feast of the Madonna del Monte di Marta (Viterbo, Lazio), broadening the gaze from the inhabited space of the town-city, where the feast is often (but not always) produced in its ceremonial moments, to the entire territory that the feast encompasses and helps to define, both in the construction of a ‘sense of place’ and in the experience and practical action of the same.
Keywords: Festivals; Sense of place; space; territory; small villages.
Emblematica o paradigmatica? La festa come “dispositivo” territoriale
Questo saggio1 ha origine da una domanda alla quale ho provato a rispondere con uno specifico caso etnografico: qual è la relazione che possiamo leggere tra i fenomeni festivi e la costruzione della località? Se per “località” intendiamo un processo di costruzione, attraverso pratiche e immaginazione, dei luoghi, in che modo i fenomeni festivi ci parlano oggi dei territori ai quali appartengono e definiscono le forme dell’abitare?
Per rispondere a questa domanda mi propongo qui di esplorare il nesso festa-spazio, allargando lo sguardo dallo spazio abitato del paese-città, dove la festa spesso si produce nei suoi momenti cerimoniali, all’intero territorio che la festa ricomprende e contribuisce a definire, sia nella costruzione di un “senso dei luoghi” che nell’esperienza degli stessi. Per territorio intendo non solo lo spazio strettamente urbano, ma anche lo spazio di vita allargato agli ambienti extraurbani che caratterizzano le attività peri-domestiche (lavorative e del tempo libero), e l’agire dell’immaginazione dentro quegli spazi e quei luoghi. Territorio, citando Magnaghi «come ambiente di vita umana (che non esiste in natura) che è il prodotto dinamico del processo di coevoluzione di lunga durata fra insediamento umano e ambiente naturale da cui continuamente si genera e si rigenera il territorio come soggetto vivente» [Magnaghi 2013, 47]. Riformulata in altri termini la domanda che mi sono posta è stata quindi: in che modo per gli abitanti di un paese la festa esprime e definisce una relazione con spazi e luoghi di un territorio [Low, Lawrence-Zùñiga 2003], una forma dell’abitare, o un “senso del luogo” [Feld, Basso 1996]?
Il tentativo di dare risposta a queste domande mi ha portato a guardare la festa come un “dispositivo” territoriale, dinamico e fortemente simbolico [Di Méo 2001], che esprime e definisce una dimensione dell’abitare come esperienza, co-costruzione e immaginazione del territorio e in esso di forme di comunità [Torre 2011]. Al di là dei suoi valori religiosi, essa può quindi veicolare problematiche ampie ed evidenziare il “dramma sociale” del vivere nella dimensione-paese, portando alla luce non solo questioni locali, ma anche diverse visioni del mondo. Il termine “dispositivo” ha una provenienza foucaultiana, ma lo adotto con il significato più neutrale che ha dato Gilles Deleuze a questo concetto, intendendo la festa come un apparato «dove noi agiamo e siamo agiti» [Foucault 2001, 299-300; Deleuze 2002, 27-28; Bianchi 2013]. In questo senso i concetti di agency e di spazio diventano fondamentali per leggere la festa nel contemporaneo. L’agency rimanda alla “capacità” umana universale e socio-culturalmente mediata, di agire in modo trasformativo sul mondo (Ahearn 2002). Una capacità che tuttavia si esprime dentro strutture sociali e spazi definiti in forma tale da rendere le due dimensioni «reciprocamente costitutive» [Ahaern 2002, 19]. I fenomeni festivi contemporanei possono essere letti dunque come spazi di azione, interpretazione e immaginazione; spazi fisici, sociali, virtuali, narrativi, simbolici, politici, dove individui e soggetti collettivi agiscono, interpretano e definiscono il territorio, i luoghi, la comunità, il paese e sé stessi come soggetti [De Certeau 2010].
Il nesso festa-spazio-territorio può essere letto anche facendo ricorso al concetto di “risonanza” nella definizione che ne ha dato il sociologo Hartmut Rosa, che la intende come «relazione primaria col mondo», un legame responsivo dove il soggetto e il mondo si toccano reciprocamente e si trasformano contemporaneamente, in cui entrambi i poli sono attivi e parzialmente indipendenti [Rosa 2017, 30]. La risonanza può essere legata all’individualità, ma è anche collettiva; essa è il prodotto e nello stesso tempo produce una forte agency tra territorio e soggetti in termini di co-costruzione della località e quindi dell’abitare. In questo senso la festa può rappresentare uno “spazio di risonanza” che caratterizza l’abitare il territorio nella sua dimensione ecologica e sociale.
Guardare alla festa come spazio di risonanza territoriale sottrae questa ad una lettura prevalentemente culturalista e identitaria, essendo il discorso identitario parte retorica della costruzione della località, ma non esclusivo a questa. In questo senso il territorio può diventare una nuova lente “etica” che ci aiuta a leggere i fenomeni festivi da un punto di vista diverso, che non si risolve nell’identitario culturalista, né in quello “patrimonialista”, oggi nuova frontiera discorsiva a livello locale, pur facendo tesoro delle cornici di senso e delle narrative locali che concorrono alla costruzione della località. Il ritorno ai mondi locali che ha caratterizzato le politiche dell’identità nel terzo millennio [Clifford 2013] ha visto infatti indebolirsi l’enfasi culturalista e la dimensione ideologica (lingua-cultura-territorio) che avevano caratterizzato le rivendicazioni identitarie del secolo scorso, ed ha visto emergere la nozione di ‘patrimonio culturale’, soprattutto nella sua accezione ‘immateriale’, che è divenuta nelle narrative locali una nuova variabile identitaria 2.0 [Padiglione, Broccolini 2016, 4]. In questo scenario il territorio amplia lo sguardo sulla festa chiamando in causa non solo il piano identitarista o patrimonialista, ma gli spazi, i luoghi, l’esperienza fisica e l’immaginazione di questi.
Come caso esemplificativo della relazione festa-spazio-territorio prenderò ad esempio un evento festivo che si svolge nel Lazio, sul lago di Bolsena, la Festa della Madonna del Monte a Marta2; una festa religiosa che definisco allo stesso tempo “emblematica” e paradigmatica. Emblematica perché assume nei discorsi locali una valenza totalizzante nel definire e immaginare una “comunità” territorializzata [Mugnaini 2015; 2023, 15, 198; De Sanctis Ricciardone 1982]. Ma anche “paradigmatica” per il valore esemplare che esprime in tema di abitare, per il rapporto che ha con il territorio, per le relazioni che costruisce o contrappone e le narrazioni che produce sul paese stesso, sull’“essere del posto” e sull’immaginazione del mondo nelle sue attuali trasformazioni. La paradigmaticità della festa di Marta fa assumere a questo caso valenza di modello per leggere altri fenomeni festivi che presentino analoghe caratteristiche di dispositivi per abitare e immaginare il territorio e la comunità3.
Festa, spazio e territorio nel campo antropologico
Per poter guardare alla dimensione spaziale e territoriale della festa è necessario distinguere tra spazio, luogo e territorio, tre concetti che l’antropologia ha attraversato fin dalla sua fondazione e spesso interlacciati nelle diverse letture che sono state proposte delle forme di organizzazione simbolica dello spazio [Scarduelli 1985]. Nelle scienze fisiche e nella filosofia kantiana il concetto di spazio rimanda ad una dimensione geometrica e misurabile, laddove sia la fenomenologia che in seguito l’antropologia ne hanno evidenziato al contrario la natura vissuta e manipolata da parte degli esseri umani [Segaud 2010, 14; Augé 1997; Scarpelli 2012, 219]. Spazio è anche quello delle relazioni (sociali, simboliche, etc.)4, lo spazio virtuale, narrativo, urbano ed extraurbano, pubblico o privato e tutte le altre dimensioni nelle quali l’agire umano si produce. Per luogo si intende invece quello specifico spazio di interazione e significazione, così come è riconosciuto dai soggetti [Magnaghi 2001]. Di scala differente il concetto di territorio, di derivazione geografica ma considerato dall’antropologia come costrutto culturale, oltre che fonte di risorse per il sostentamento umano. Nella sua doppia accezione di realtà ecologica oggettiva e costrutto simbolico, il territorio rimanda allo spazio relazione e di co-costruzione tra attività umane e ambiente naturale, che include spazi e luoghi, abitati e non abitati, dunque quelli del selvatico che sono oggetto di simbolizzazione e significazione. Il territorio è quindi “insieme oggettivamente organizzato e culturalmente inventato” [Bourgeot 1991].
Tra le molte letture che in antropologia sono state proposte fino ad oggi per interpretare i fenomeni festivi storico-demologiche, funzionaliste, strutturaliste, simboliche, semiotiche, processuali, sociali, politiche, etc. [Satta 2007] – la dimensione dello spazio, ma ancor più quella del territorio non hanno ancora trovato una presenza solida e una piena legittimità.
Negli studi demoetnoantropologici italiani sulla festa la dimensione dello spazio è in realtà sempre stata presente perché, sia essa un pellegrinaggio, una festa patronale, mariana, o un carnevale, la festa si colloca sempre in un perimetro spaziale preciso che oggi è anche uno spazio virtuale. Lo stesso Giuseppe Pitrè, che fu tra i primi a scrivere di feste e iniziatore degli studi folklorici in Italia, descrive con dovizia di particolari “spettacoli e feste popolari siciliane” non mancando di collocare queste nei loro spazi urbani [Pitrè 1881]. Spazio e territorio, tuttavia, non hanno mai assunto una dimensione autonoma rispetto ad altre letture e sono rimasti confinati in descrizioni di contesto, oppure limitati agli aspetti simbolici e semiotici degli spazi festivi in quanto “spazi sacri”, ad esempio nell’analisi dei percorsi processionali, del viaggio compiuto nei pellegrinaggi, dei luoghi sacri e degli stessi elementi collocati nel territorio, come monti, fiumi, rocce e altri riferimenti spaziali [Rossi 1986, 75, 120; Lombardi Satriani 2000; Mazzacane 2000].
Questa prospettiva la vediamo soprattutto nello studio delle feste meridionali, in particolare siciliane, dove dagli anni Settanta del Novecento l’interesse si è focalizzato sui complessi itinerari delle processioni della Settimana Santa e di altre festività storiche nel loro carattere simbolico in rapporto al sacro. In questa prospettiva lo “spazio” festivo è stato studiato in relazione allo specifico momento rituale-processionale per via della funzione simbolica, sociale e politica che questo riveste. Scrive infatti Buttitta: «ʻNelle feste la spazialità del sacro è assicurata dalla sacralità dello spazio, cioè dalla sua espansione in tutto l’orizzonte esistenziale attraverso una serie di operazioni rituali. Tra queste, le processioni sono quelle che più d’ogni altra assolvono la funzione di sacralizzare lo spazio’ [Buttitta 1990, 24]. Il sistema complesso di processioni che caratterizzano la Settimana Santa deve dunque essere inteso come forma di rifondazione e di riappropriazione simbolica dello spazio» [Buttitta 2019; cfr. Faeta 1978]. Anche l’indirizzo etnosemiotico [Del Ninno 2007], in dialogo con l’antropologia, ha letto la fenomenologia della cosiddetta religiosità popolare nella forma delle processioni e dei pellegrinaggi, tenendo conto della dimensione dello spazio [Marin 1967; Leone 2002, 2011; cfr. Mazzacane 1985].
Anche gli studi urbanistici, partendo da spazi e forme della città, si sono avvicinati alla dimensione antropologica dello spazio festivo nei centri urbani, individuando nelle processioni un fenomeno importante per esplorare la storia stessa delle città. Ad aprire questo sguardo è stato negli anni Ottanta del Novecento l’urbanista e architetto Enrico Guidoni il quale, sempre nel contesto delle feste siciliane, ha aperto un campo di studio su “processioni e città,” indicando le processioni come fenomeni chiave nella storia urbanistica, per la capacità che queste hanno di farci comprendere il rapporto tra una comunità e il suo territorio, in una prospettiva che è stata soprattutto storica [Guidoni 1980]. Letture più recenti degli spazi festivi e processionali, sempre siciliani, si sono mosse con approccio critico focalizzandosi sull’impregnazione simbolica dello spazio e dell’agire dei corpi nel campo di forze dei poteri e delle gerarchie che le processioni mettono in atto nello spazio processionale, ad esempio nel rapporto tra mafia, religione e Stato; un rapporto che l’etnografia permette di leggere nelle processioni siciliane, dove gli “inchini” delle statue dei santi e lo stesso spazio processionale rivelano l’espressione di codici e pratiche del potere mafioso [Palumbo 2020].
La dimensione simbolica dello spazio processionale viene riconosciuta anche nelle procedure di “patrimonializzazione” delle culture popolari definita dalla catalogazione istituzionale; la troviamo nelle prime schede di catalogo introdotte a fine anni Settanta dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero della Cultura, le schede FKC (Folklore-Cerimonie), dove una delle voci prevedeva l’inserimento della «Pianta dell’ubicazione ed eventualmente del percorso del cerimoniale» [Rossi 1978; Tucci 2018, 102], come anche nelle più recenti schede BDI (Beni Demoetnoantropologici Immateriali), in un campo specifico dedicato ai percorsi delle cerimonie [ICCD 2006].
Interessanti aperture nei confronti delle dinamiche spaziali e territoriali sono venute da specifiche etnografie festive, soprattutto quelle di orientamento antropologico-sociale e dall’antropologia alpina, a partire dal noto lavoro di Robert Hertz del 1913 sul pellegrinaggio per San Besso [Hertz 1913] in Val di Cogne, che esplora la relazione del culto per il santo con la montagna e la dimensione conflittuale nella partecipazione al pellegrinaggio da parte delle diverse comunità che ne prendono parte, diversamente dislocate nella geografia del territorio. Anche nella sua nota etnografia del carnevale di Bagolino nel bresciano, Francesca Cappelletto colloca il carnevale dentro la struttura socio-economica e la conformazione territoriale del paese, tra montagna, pianura, boscaioli e contadini, ed analizza gli scambi cerimoniali carnevaleschi dentro la bipartizione territoriale ed i suoi specifici modelli insediativi [Cappelletto 1995; cfr. Ballacchino 2015, 54].
In tempi più recenti, nel nuovo paradigma patrimoniale dato dalla cornice simbolica e politica del patrimonio culturale immateriale [Dei 2012, 118], ma anche con il crescente interesse per il fenomeno turistico e la valorizzazione culturale dei territori, nell’accezione del terroir [Delfosse, 2011; Bérard, Marchenay 2004], i fenomeni festivi hanno trovato un nuovo spazio nelle politiche locali, di valorizzazione, reinvenzione e manipolazione, che rientra negli attuali processi di patrimonializzazione. Da qui anche nella ricerca antropologica, sempre più attenta negli ultimi anni agli aspetti inventivi [Mugnaini 2023; Dei, Di Pasquale 2017; Broccolini 2004; 2006; 2013; 2015; 2016; cfr. Boissevain 1992], nonché agli aspetti politici della dimensione patrimoniale che caratterizza oggi le feste [Palumbo 2009]5.
L’antropologia che guarda ai processi di patrimonializzazione delle feste contemporanee, più che considerare spazi e territori si è rivolta alla dimensione del terroir, inteso nell’accezione francese come insieme di risorse da valorizzare; il quale territorio/terroir è divenuto oggi centrale nell’immaginazione e nella ri-significazione delle vecchie forme festive e nell’invenzione di nuove feste [Bonato 2020]. Ne sono una espressione paradigmatica le nuove feste dedicate al cibo che si richiamano al territorio [Fournier 2022], in Italia spesso chiamate “sagre” [Tucci 2006; Fontefrancesco 2008; 2020; Broccolini 2022].
Spazio e territorio attraversano dunque diverse prospettive antropologiche nello studio della festa, senza però assumere carattere di centralità. Se vogliamo trovare un approccio alla festa orientato prettamente alla dimensione del territorio e dell’abitare dobbiamo rivolgerci ad altre discipline. Scopriamo così che una connessione tra questi assi è stata individuata in ambito geografico in un interessante lavoro del geografo francese Guy Di Méo, La géographie en fêtes [2001]6 che, in stretto dialogo con l’antropologia, senza dimenticare le sue dimensioni politiche, economiche e sociali, esplora la festa non solo in quanto “intumescenza socio-spaziale” che si svolge in uno spazio-tempo definito, ma soprattutto come un istituto che ci fa comprendere la natura del legame territoriale, perché produce simboli territoriali il cui significato e uso vanno oltre lo svolgimento della festa stessa. In questo senso la festa, scrive Di Méo, «contribuisce a fabbricare una ideologia territoriale localizzata o regionalizzata, a volte nazionale» [Di Méo 2001, 20]. In pratica, essa ci permette di leggere i luoghi e di comprendere il rapporto che una comunità ha con il territorio di riferimento, con il suo spazio e con l’abitare. Di Méo parla infatti di una “trasparenza” della festa [Di Méo 2001, 2] per la sua capacità di rendere visibile ed intellegibile ciò che non è visibile di un territorio, di mostrarci i nodi immaginativi e conflittuali intorno ai quali si esprime la natura del legame che una comunità ha con il suo territorio di riferimento. Ma non solo, perché, come vedremo nel caso che presento, la festa ha anche la capacità di enfatizzare visioni “territoriali” diverse, senso dei luoghi e forme di immaginazione morale. «L’espace de la fête – scrive Di Méo – devient ainsi l’un des espaces-miroirs parmi les plus secrets et sans doute les plus subtils d’une societé qui se fonde (ou se refonde périodiquemente) en le produisant » [Di Méo 2001, 2].
Su al Monte e ritorno: Marta e la Madonna del Monte
Quando si lavora etnograficamente su un evento festivo è consuetudine restituirne una “descrizione” frutto dell’esperienza etnografica. Tuttavia, la “descrizione”, dietro la patina di oggettivismo che porta con sé, nasconde sempre, come è noto, la sua natura interpretativa e le altre innumerevoli possibilità di descrizione. Essa è infatti frutto di un posizionamento esperienziale ed epistemologico del ricercatore che cela la pluralità delle prospettive che si offrono nella restituzione scritta, ma anche i diversi punti di vista che del fenomeno ne restituiscono i partecipanti [Gerholm 1988].
Nel tentativo di articolare una descrizione il più possibile “densa” della festa [Geertz 1987, 39] che faccia dialogare i significati ad essa attribuiti con le mie esigenze interpretative rivolte ad una lettura spaziale e territoriale, propongo di partire da un termine “emico” che ho scelto come titolo del paragrafo, il Monte. Un termine che definisce uno spazio geografico (in realtà un colle) che è diventato nel tempo un luogo sacro (il santuario della Madonna SS. Del Monte), costante riferimento extraurbano rispetto allo spazio abitato. Nel linguaggio vernacolare il riferimento al “monte” (che diventa toponimo) è molto marcato. Su al Monte è un’espressione locale usata per definire un luogo sacro, che condensa elementi storici, rituali, devozionali, religiosi, identitari e memoriali, sia individuali che collettivi. La collocazione del santuario per i martani è un costante riferimento nello spazio. Prendere parte alla festa implica infatti una “salita al monte”. Nello stesso libro degli Inni e Canti in onore della Madonna, i diversi canti che accompagnano la festa fanno tutti riferimento alla salita “al Monte”. Uno di questi è intitolato Veniamo su al Monte e recita: «Veniamo su al Monte/ ai pié di Maria/veniamo a pregar»7.
Marta è un piccolo paese in provincia di Viterbo di 3200 abitanti, il cui territorio è caratterizzato, oltre che da un abitato storico medioevale e da una campagna confinante con la Maremma laziale, soprattutto dal lago di Bolsena, il lago vulcanico più grande d’Europa, oggi Sito di Interesse Comunitario (SIC) per la biodiversità. Il paese vive oggi in parte di un turismo discreto, composto da villeggianti con seconde case e B&B, in parte di un terziario legato al vicino capoluogo Viterbo (con professioni militari e impiegatizie), con una presenza minoritaria ma resistente di pescatori ed una economia legata al commercio del pesce. In passato ha avuto un’economia agricola di tipo familiare legata ad una concessione capillare di terre in piccoli appezzamenti risalente alla fine dell’800 che ha rappresentato una ricchezza diffusa per la popolazione, e una consistente attività di pesca professionale [Quattranni 2019], oggi ancora attiva.
L’abitato ha un centro storico medievale che nella parte più alta del paese culmina con una torre ottagonale del XIII secolo. Questo centro dagli anni Settanta del Novecento si è quasi completamente svuotato di abitanti, i quali per scelta progressivamente sono andati a vivere in case più grandi e comode edificate in quartieri nati in varie fasi, a partire dal secondo dopoguerra. Oggi questo centro è ben conservato, ma è spopolato di residenti. Esso vive soprattutto in estate, con case affittate a villeggianti o di proprietà di romani, e con alcuni eventi estivi, come la Festa della Cannaiola8 che da diversi anni si svolge nel centro storico con musica e degustazioni. È quindi un centro vuoto di residenti ma non abbandonato. Il territorio extraurbano è caratterizzato da una “campagna diffusa” divisa in piccolissime proprietà con appezzamenti che vanno dai 5000 metri ad un ettaro e mezzo, oggi coltivati ad olivo, vigna e orti familiari. Questa piccola proprietà è il risultato di una frammentazione delle terre dei possidenti locali, ma soprattutto delle proprietà ecclesiastiche (terreni della Mensa Vescovile, della Prepositura e della Camera dei Cardinali), le quali dalla fine dell’800 sono state riscattate dal comune e date in concessione ai cittadini in “strisce” di un ettaro/un ettaro e mezzo per poter vivere di agricoltura familiare9. Anche l’Ente Maremma negli anni Cinquanta ha contribuito a questa distribuzione di terre, dando a coloro che ne avevano bisogno, terreni di minore estensione. Questa volta a beneficiarne sono stati anche i pescatori, che sono diventati proprietari di appezzamenti di terra, ibridando l’attività di pesca con quella agricola. Solo in piccola parte queste terre sono state alienate come bene pubblico, diventando private. Il diritto, in quanto “martani”, a ricevere la terra in concessione da parte del comune è probabilmente uno dei fattori alla base di un forte confine identitario, ancora oggi presente in alcune autorappresentazioni, tra chi è martano di famiglia e chi non lo è.
La festa della Madonna del Monte, o “delle Passate” (conosciuta anche come Barabbàta), è molto nota negli studi di tradizioni popolari ed è oggi una delle feste cosiddette “tradizionali” più note nel Lazio10. È stata osservata fin dal dopoguerra da più generazioni di studiosi11 a cominciare da Paolo Toschi, poi Quirino Galli e Paola De Sanctis Ricciardone, nonché oggetto nel 2009 di una campagna di catalogazione demoetnoantropologica da parte dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione12. Secondo una chiave di lettura classica negli studi folklorici, la Madonna del Monte può essere inclusa tra le feste “primaverili” e propiziatorie [Galli 1988], in quanto si svolge nel mese di maggio e consiste in un “offertorio” (così viene definita dallo stesso Comitato festivo) di prodotti della terra (primizie) e del lago13; ma nasce anche come festa “di categoria”, in quanto i partecipanti alla festa che la mattina del 14 maggio “salgono” al Monte ad offrire i doni alla Madonna sono raggruppati in quelle che in passato erano le principali categorie lavorative del paese: i casenghi, i bifolchi, i villani e i pescatori14. Ciascuno di questi gruppi – composti da soli uomini di tutte le età – dopo l’arrivo al santuario effettua “le Passate”15, tre giri rituali che dal sagrato portano i partecipanti ad attraversare la chiesa, a percorrere l’area sacra del Presbiterio, entrare nel convento e tornare in chiesa per tre volte, lasciando sull’altare le offerte.
La festa è interamente finanziata dalle offerte dei cittadini, senza impiego di risorse da parte del comune. I “Passanti”, come sono chiamati coloro che “passano” per la Madonna, in passato portavano “al Monte” piccole offerte vegetali e animali allestite in forma scenografica, chiamate “fontane” perché avevano bisogno di acqua per rinfrescare le offerte [Tarquini in Berardinetti, 1988, 58; cfr. De Sanctis Ricciardone 1982, 132]. Nel tempo molte di queste “fontane” sono diventate carri di grandi dimensioni mossi da trattori, con allestimenti molto ricchi di prodotti della terra e del lago, ragione questa che ha anche enfatizzato la loro attrattiva turistica. La festa, infatti, è molto presente nell’offerta turistica, ma non si è piegata alle esigenze calendariali del turismo modificando la data di svolgimento in relazione alla presenza dei turisti. Negli ultimi anni, inoltre, da festa “di categoria” essa si è trasformata in una festa “rievocativa”, perché le attività lavorative del passato sono scomparse ed i partecipanti hanno iniziato a non provenire più dal mondo contadino o della pesca. Essa è andata anche incontro negli anni ad un processo di estetizzazione che ne ha esaltato la componente agraria e vegetale [Broccolini 2013], ma in quanto “rappresentazione” del mondo agricolo e lacuale, è diventata anche un grande dispositivo della memoria del lavoro, perché vengono portati in processione un gran numero di antichi strumenti di lavoro della terra (falci, corvelli, zappe, etc.) e del lago (martavelli, reti, etc.), molti dei quali oggi non più in uso. In realtà, già anticamente le diverse categorie portavano in processione questi oggetti di lavoro; ci sono numerosi documenti fotografici risalenti agli anni Trenta/Cinquanta che lo mostrano [Bernardinetti et al. 1988, 33]. Si trattava però di oggetti che erano nell’uso, mentre oggi la loro presenza assume un significato di memoria e di patrimonializzazione del lavoro preindustriale. Per questo motivo la “salita al Monte” da diversi anni viene definita sia dal Comitato festeggiamenti che da diversi partecipanti, un “corteo storico”, una rappresentazione del mondo lavorativo del passato16.
I “passanti”, come si è detto, sono di sesso maschile e appartengono a tutte le fasce d’età, dai neonati, portati in braccio da padri o nonni, ai più anziani, ma per la maggior parte sono giovani e giovanissimi. Sono organizzati in gruppi spontanei che nascono intorno alla preparazione delle fontane. Queste, soprattutto gli allestimenti di maggiori dimensioni, richiedono un progetto articolato, competenze tecniche e una certa conoscenza del territorio17, quindi un lavoro collettivo che ha inizio molto tempo prima della festa. I gruppi sono costituiti da amici spesso della stessa fascia d’età, ma anche da parenti, o forme miste, che possono coinvolgere più generazioni. Si tratta di gruppi che rappresentano una specifica forma di aggregazione che può nascere a scuola, e proseguire per tutta la vita, dall’amicizia tra genitori, dai vincoli di parentela, dalla prossimità di residenza, dal mondo del lavoro, e da molte altre storie personali. Alla base c’è sempre una scelta aggregativa che nel corso della vita può cambiare più volte18.
La Madonna del Monte attira un grande pubblico di osservatori provenienti sia dal circondario che da località più lontane ed è molto fotografata, anche da fotografi internazionali. Ogni anno il Comitato festeggiamenti distribuisce un serie di pass per fotografi e giornalisti affinché possano fare i loro servizi e le transenne che sono state collocate lungo il percorso della “salita” al monte separano il pubblico dai partecipanti. Il Comitato festeggiamenti che organizza la festa è molto attento a gestirne l’immagine nella stampa e sui social e cerca di “conservare” quelli che ritiene siano i suoi caratteri autentici ed originari. Nel fare ciò ha accolto alcune interpretazioni antropologiche sulle origini e natura della festa19 ed ha introdotto dei cambiamenti di tipo estetico-formale, indicando nel Regolamento l’adozione di un abbigliamento festivo “di categoria” che produce una dimensione esplicitamente rievocativa. Interessante è anche il rapporto con la storia e le fonti storiche. La festa è documentata dal ‘500 ma nella forma attuale delle “Passate” (dei 3 giri nel santuario) la sua origine risale all’inizio del XVIII secolo a partire da un conflitto tra la Curia Vescovile e i frati Minimi che abitavano il convento [Bernardinetti et al. 1988, 47; Prugnoli 1998], un evento al quale sono collegate altre vicende ancora oggi discusse localmente.
Un discorso a parte riguarda il diritto di partecipare alla festa come “passante” che definisce una sorta di diritto di cittadinanza rituale. Questo diritto, oltre a fissare una linea sulla base del sesso (possono partecipare solo persone di sesso maschile), definisce anche un’appartenenza alla “località”, quindi un nesso tra festa e abitare. Nel Regolamento istituito dal Comitato Festeggiamenti del 2010 scritto infatti che:
I partecipanti alla “Passata” sono per tradizione secolare, solo di sesso maschile, di origine martana o sposati con una martana e residenti a Marta. Persone non di origini martane, ma residenti a Marta stabilmente, verranno ammessi alla “Passata” dopo 10 anni di residenza continua” (art. 1 Regolamento della Festa della Madonna del Monte).
Il diritto a partecipare alla festa viene quindi disciplinato non solo sulla base di uno jus sanguinis indipendente dalla residenza (“di origini martane”), ma anche sulla base della residenza, con la “correzione” dei dieci anni per coloro che non sono sposati con donne martane. Queste regole di partecipazione e l’enfasi che viene data alle “origini martane” meriterebbero un discorso a parte che non è possibile affrontare ora, ma esprimono, come vedremo (par. 5) una esigenza di mantenere la territorialità della festa e la sua aderenza ad una serie di valori genericamente collocati sotto il cappello della “tradizione”, ma che rappresentano un nodo problematico legato alle trasformazioni radicali intervenute con la modernità nell’abitare e nelle attività produttive.
Il momento festivo si concentra il giorno del 14 maggio e si articola lungo alcuni percorsi fissi nello spazio20, ma esiste un retroscena festivo che copre un arco temporale ben più ampio e spazi privati dove vengono realizzate le fontane, che sono occasioni informali di forte socialità. Oltre alle fasi propriamente liturgiche, i momenti topici della festa, cui corrispondono precisi percorsi e toponimi spaziali, sono: la “sveglia del tamburino”, ovvero l’apertura della festa il 14 maggio con il suono del tamburo che all’alba sveglia il paese compiendo un percorso inverso rispetto alla “salita al Monte” della mattina21; il “corteo storico” che parte dalla passeggiata (il lungolago dove si radunano i gruppi) e arriva al Monte; una merenda che segna un momento di riposo dietro al santuario dopo la fatica della salita; le “passate” vere e proprie, ovvero i tre giri rituali che i gruppi effettuano dentro al santuario con l’investitura dei nuovi signori della categoria e la consegna di una ciambella rituale a tutti i passanti; il ritorno in paese passando per il centro storico (dentro Marta – via Amalasunta), verso la piazza del Comune, dove il parroco impartisce la benedizione ai passanti e agli astanti22. Attraverso una toponomastica festiva la festa esprime quindi una topografia sentimentale che segna l’abitare e impregna l’intero spazio di vita.
Da questa breve descrizione – che si limita ai soli momenti cerimoniali – si evidenziano innanzitutto tre percorsi processionali diversi: quello effettuato dal tamburino, che si svolge interamente nello spazio abitato non toccando lo spazio del santuario; quello del “corteo storico” che dall’abitato va verso l’area sacra e non abitata del santuario, e il percorso del ritorno che dal santuario (luogo sacro) arriva nella piazza comunale (luogo profano), passando dal centro storico del paese (dentro Marta)23 ed eseguendo un percorso diverso rispetto al corteo storico. Questi percorsi non sono rimasti identici nel tempo, ma sono cambiati in rapporto all’espansione che ha avuto l’abitato e all’ingrandirsi dei carri che non hanno potuto più attraversare il centro storico. Questo cambiamento è espresso anche dalla rappresentazione che restituisce il Comitato, quando, nelle pagine del suo sito Internet sottolinea come: «L’espandersi dell’abitato ha visto modificarsi sia il percorso della grande processione del mattino che il giro inverso dell’alba (ferma restando l’esclusione di Via Madonna del Monte e del Santuario) che si sono allungati a est verso il fiume e a ovest verso il Pontone»24.
Lo stesso aggettivo “processionale” che ho utilizzato per definire i tre percorsi richiede una riflessione che apre una questione non solo terminologica. Analizziamo un momento la “salita al monte” domandandoci come la possiamo definire, se una “processione”, o un “pellegrinaggio” [Turner, Turner 1978]. In realtà nessuno dei due termini sembra corrispondere a questo momento, che localmente è infatti definito un “corteo storico”25, una espressione recente nel linguaggio locale [cfr. De Sanctis Ricciardone 1988, 97]26 che è stata introdotta quando sono scomparse le reali attività lavorative di quei contadini, pastori e pescatori (questi ultimi in parte ancora esistenti) che offrivano i loro doni alla Madonna. Con questo mutamento epocale, da “festa di rappresentanza” la Madonna del Monte è diventata “festa di rappresentazione” di categorie lavorative che sono diventate rievocative27. La salita al Monte è diventata così un corteo storico che non esprime più il lavoro reale, ma di quel lavoro è una rievocazione, pur rimanendo intatta la natura di offertorio religioso della festa.
Tuttavia, l’uso locale del termine “corteo” e dell’aggettivo “storico”, si scontra con il fatto che i cortei storici non hanno una dimensione religiosa, ma appartengono generalmente all’ambito delle cosiddette “rievocazioni storiche” [Dei, Di Pasquale 2017], quindi a manifestazioni profane. Abbiamo dunque a che fare con un termine che ha assunto un significato locale, diverso dall’uso consueto, perché definisce un momento rievocativo di attività lavorative, che si svolge dentro una dimensione religiosa, quella di un offertorio che si muove verso un santuario.
Possiamo allora definire la “salita al monte” una processione? Forse no perché, se nelle processioni, comunemente «un simulacro della trascendenza, insieme con i fedeli che lo trasportano, “esplora” lo spazio profano» [Leone 2011, 362], nella “salita al monte” non ci sono statue, busti, o effigi consacrate che attraversano uno spazio profano, anche se sulle fontane sono collocate sempre immagini della Madonna del Monte. E tuttavia la “salita” al monte conserva della processione la presenza di un pubblico esterno che osserva, quindi una dimensione sociale. In questo senso la salita al monte è una processione sui generis, che amplia il significato stesso di questo termine. Lo stesso si può dire del pellegrinaggio, una forma rituale dove «i fedeli attraversano un ambiente profano al fine di raggiungere uno spazio sacro, dove solitamente risiede un simulacro della trascendenza» [Leone 2011, 362]. Secondo questa definizione la “salita al monte”, in analogia con altri pellegrinaggi che comportano una ascesa verso il luogo sacro, può essere definito un pellegrinaggio. Ma anche qui il termine appare poco appropriato perché il pellegrinaggio comporta sempre un “viaggio”, un muoversi verso ambienti extraurbani, viaggio che in questo caso non è evidente, pur essendoci una ascesa28. La difficoltà a fare rientrare questo momento in una precisa categoria cerimoniale (una manifestazione religiosa che si fonde con un corteo storico sacralizzato con un pellegrinaggio che diventa processione) mostra quanto sia difficile ridurre le categorie “etiche” alla complessità degli spazi locali, con la loro geografia e la loro storia culturale.
Dentro Marta: riabitare un luogo emblematico attraverso la festa
Muovendoci dagli spazi cerimoniali della festa al territorio più ampio, urbano ed extraurbano, incontriamo tre luoghi specifici con i quali la festa si rapporta: il centro storico di Marta – dentro Marta- luogo di memorie e di cambiamenti fondamentali che hanno attraversato il paese; il lago, bene comune che Marta divide con altri sette comuni; e la campagna, spazio di prossimità e di attività quotidiane che si frammenta in una molteplicità di luoghi “privati” periurbani ed extraurbani. Questi tre luoghi rappresentano quelli che chiamerei degli “assi di risonanza”, che caratterizzano l’abitare il territorio nella sua dimensione ecologica e sociale. Risonanza intesa come relazione a due sensi tra il soggetto e il mondo in cui entrambi i poli sono attivi e parzialmente indipendenti [Rosa 2017, 30]. Insieme al santuario (il Monte, luogo sacro), il centro storico, il lago e la campagna rappresentano dunque per gli abitanti dei riferimenti sentimentali nello spazio, luoghi che producono “risonanza” morale, affettiva e senso del luogo. Ma rappresentano anche nodi emblematici che la festa porta alla luce ciclicamente, ogni anno.
“Dentro Marta” è una espressione molto usata dai martani per definire il centro storico, anche se l’abitato medievale è composto da tante zone storiche (via Amalasunta, la Gavettona, Castello, Gurgo Bello, il Fossaccio, Lago Tomao, etc.). Negli ultimi cinquant’anni, come già detto, da qui c’è stata una progressiva fuoriuscita degli abitanti che si sono trasferiti in quartieri nuovi, con strade più ampie e case più comode rispetto agli spazi angusti del centro. Guadagnare spazio fisico nella casa è andato però a discapito della vita sociale, che si è svuotata progressivamente delle relazioni di vicinato più strette che esistevano nel vecchio centro29. Questo cambiamento viene raccontato dalle generazioni più adulte come una perdita epocale che ha fatto diventare dentro Marta un luogo emblematico.
Mario e Giuseppe sono due amici martani che si conoscono fin dall’infanzia, classe 1952. Uno vive a Marta in una palazzina degli anni Ottanta all’ingresso del paese, l’altro per ragioni familiari vive a Bolsena, che dista una ventina di chilometri da Marta; uno è commerciante di pesce, l’altro pescatore di professione. Entrambi hanno vissuto la loro infanzia dentro Marta ed entrambi “passano” da quando erano bambini per la Madonna del Monte come pescatori. Li accompagno in una passeggiata nel centro storico in un pomeriggio di giugno per farmi raccontare il paese della loro memoria e per conoscere il loro sguardo attuale su questo luogo rispetto ai cambiamenti intervenuti nell’abitare. Il racconto itinerante che viene fuori, in un paese molto curato, ma disabitato e silenzioso, restituisce un passato di relazioni denso, una vera e propria mappa abitativa e relazionale che si esprime nel continuo reiterare la frase “qui ci abitava…”; una mappa dalla quale ritornano in vita tutti gli abitanti con i loro soprannomi, le loro storie, i personaggi, i pescatori, gli artigiani, i contadini, le attività (forni, bettole, cantine, botteghe), gli aneddoti, le leggende, i segni del quotidiano impressi nell’abitato e non ultimo la presenza forte della festa il 14 maggio, con il ritorno dal Monte dentro la via principale del centro, via Amalasunta.
Mario: Prima qui fino agli anni Sessanta era tutto abitato. Poi con l’andare del tempo, coi suoi risparmi ognuno s’è costruito la sua casetta e se ne sono andati tutti fuori dal paese. È stato il boom economico, come in tutto il mondo. Perché qui bagno nun c’era, nun c’era gnente. […] Le case erano fredde, gli infissi nun c’erano, i topi che ti correvano sopra il controsoffitto. Era una vita…lasciamo perdere. Poi negli anni Settanta c’è stato lo spopolamento dei martani e questa gente che veniva da fori, co’ quattro soldi l’hanno comprate le case. […] Oggi sono case per l’estate comprate da queste gente de fori che vengono solamente all’estate, altrimenti è disabitato; in inverno non c’è nessuno; ci saranno al massimo cento famije […].Quello che è cambiato è che adesso è bellissimo; prima era un macello, tutto avvallato; adesso è bello.
Giuseppe: Quanno passavi pe’ le vie, che smettevi de lavorà, a pranzo, la musica, la radio, le fije che strillavano. Adesso non senti più gnente; non c’abita più nessuno. L’hanno ripulito, è carino. All’inizio i martani non vedevano ll’ora de venne; poi l’hanno capita; quanno che se so’ resi conto de quello che avevano fatto, era tardi.
Mario: Io questo cambiamento lo vivo male, […] ogni tanto vengo qui la sera co’ mia moglie a passeggià, a vedé i posti, i ricordi, me piace. E pure l’altre martane ce vengono; la nostalgia c’è, perché più vai avanti co’ gli anni, più senti la nostalgia. […]ce so’ stati pure martani che hanno ricomprato la stessa casa30.
Anche se le vicende del centro storico di Marta sono comuni a quelle dei centri storici di tanti paesi italiani, dentro Marta rappresenta oggi un nodo emblematico per l’abitare il paese. Luogo di vita sociale perduta, di memoria di socialità e di un passato in cui l’abitare era segnato da condizioni economiche difficili, dentro Marta è oggi un luogo esteticamente bello, ben curato, ma molto, troppo, silenzioso, abitato stagionalmente da altri, principalmente da le romane.
Come entra allora la festa in queste trasformazioni intervenute nel centro storico? Per comprendere come e perché dentro Marta sia divenuto un luogo emblematico della festa dobbiamo vedere l’intreccio che lega uno dei percorsi della festa – il ritorno dei “passanti” dal santuario al paese – alle trasformazioni che questa ha subìto nell’ultimo mezzo secolo dentro mutamenti globali che hanno aperto le feste ad una dimensione spettacolare ed estetica. Fino agli anni Settanta, quando le “fontane” – le offerte del lavoro portate al santuario – erano di piccole dimensioni e portate a mano, tutti i “passanti”, dopo i tre giri rituali, dal santuario tornavano in piazza passando per via Amalasunta, una lunga strada molto stretta che rappresentava il cuore del centro storico e, dove viveva la maggior parte delle famiglie di pescatori31. Le fontane venivano realizzate a misura delle dimensioni di via Amalasunta, in modo che potessero passare lungo il suo percorso stretto. Questo momento di ritorno della festa dentro il paese era molto sentito. Dopo gli “evviva Maria” davanti all’altare e le offerte alla Madonna, ci si allontanava dal luogo sacro per tornare alla vita profana, passando dentro lo spazio abitato del paese. Era un momento che segnava una sorta di ritorno eroico in paese – così viene raccontato – di uomini e ragazzi stanchi dopo la fatica della mattina e le esultanti “passate”. Momento topico di questo ritorno lungo via Amalasunta era il gettito del fiore giallo del “maggio” (ginestra) e delle rose che dalle finestre delle case le donne lanciavano sui “passanti”; donne che in questo momento avevano la loro visibilità pubblica in una festa ritualmente maschile. Gettare il maggio sui passanti era un gesto che esprimeva una sorta di linguaggio delle relazioni attraverso i fiori, perché – così vene raccontato pressoché da tutti – ogni donna gettava i fiori, oltre che sui parenti, soprattutto sull’uomo del quale voleva attirare l’attenzione. La presenza del maggio e delle rose, con i loro colori giallo e rosa, caratterizzava il paesaggio visivo del ritorno dal Monte, con un vero e proprio tappeto di petali che veniva lasciato lungo la strada che quasi rendeva difficile camminare. Don Liberato Tarquini, parroco di Marta fino al 1953, in uno scritto del 1936 così descrive questo ritorno:
Dopo la S. Messa Solenne, le suddette categorie effettueranno le tradizionali “Passate”. Quindi, ritornando al paese, passando per un percorso diverso da quello seguito per l’andata, cioè, attraversando il paese medievale, ove dalle finestre gaie giovanette gettano fiori, quasi a segno di congratulazioni e di omaggio per tutto il corteo, si raggiungerà la Piazza…[Tarquini, in Berardinetti et al. 1988, 34]32.
Negli anni Settanta, la modernità, con la sua tendenza alla spettacolarizzazione e alla gigantizzazione estetica dei rituali religiosi, ha visto crescere le dimensioni dei carri, che hanno iniziato ad essere costruiti sui pianali dei trattori che si andavano diffondendo in campagna, diventando così troppo grandi per passare lungo i vicoli stretti del centro. Ciò ha comportato una frattura nel percorso di ritorno perché chi aveva i carri grandi (progressivamente quasi tutti i gruppi di passanti), per poter arrivare in piazza e ricevere la benedizione, ha iniziato a dover percorrere il lungolago parallelo a Via Amalasunta non potendo più passare per dentro Marta. Oggi, infatti, il percorso di ritorno si sdoppia perché chi deve riportare in paese il carro è costretto a passare per il lungolago, mentre chi partecipa alla festa con carri piccoli, continua a passare lungo via Amalasunta.
Questa frattura ha coinciso, tuttavia, anche con l’inizio dello spopolamento del centro storico, il quale svuotandosi di abitanti ha impoverito la forza emozionale che il ritorno dal Monte esprimeva, indebolendone la risonanza sociale. È stato un processo lento che si è intersecato con i mutamenti di percorso della festa e del quale gli abitanti hanno preso coscienza progressivamente. In una pubblicazione locale sulla festa del 1988 di taglio storico-memoriale, veniva riportata una mappa dei percorsi di andata e di ritorno, che mostra l’allungamento del ritorno lungo le vie più ampie di via Verentana e del lungolago e viene segnalato lo sdoppiamento di percorso dovuto alle aumentate dimensioni dei carri [Berardinetti et al. 1988, 145-146; 164]. Tuttavia, in quegli anni lo svuotamento del centro era ancora in atto e il turismo non aveva ancora preso il sopravvento rispetto all’abitare nel paese. Infatti, il più recente regolamento della festa ad opera del Comitato lascia trasparire la frattura intervenuta nel percorso, quando si ribadisce che il ritorno debba passare per il centro storico, ma che: «Le fontane che per le loro dimensioni non riescono a percorrere il centro storico, proseguiranno per viale Marconi […], fino a giungere anch’esse in piazza Umberto I». Per poi specificare: «È buona usanza che alcuni rappresentanti delle Fontane più grandi seguano il percorso dentro il centro storico, transitando lungo via Amalasunta…» (art. 29)33, come a voler ricucire la frattura mantenendo comunque il corteo dentro l’abitato storico del paese. Corteo che tuttavia, oggi con la presenza dei carri grandi e lo svuotamento del centro storico, non riesce più ad avere una relazione di “risonanza” con il luogo.
Giuseppe ricorda con emozione il ritorno dal Monte quando il paese viveva ancora dento Marta e anche lui giudica criticamente le attuali dimensioni mastodontiche dei carri:
Quando si imboccava Via Amalasunta, da lì cominciava il bello, perché le pescatore eravamo quasi tutte de lì […]. Co’ sti carrettini, stracchi morti, eravamo tutte fijacce, co’ sta ciammella, pareva chissà che c’avevano dato. […]. Ce se contava a passà dentro Marta, quello era il meglio momento. T’alzavi su’, vedevi ‘sta pioggia de fiori che cascavano, quelle che te chiamavano. Poi quanno passavo sotto casa mia, le mi’ sorelle, tutte lì e me tiravano il maggio. Da quando imboccavi via Amalasunta, erano tutti fiori, alzavi la capoccia e vedevi solo che fiori, qualsiasi categoria, ma quando passavano i pescatori de più perché eravamo tutte pescatori me llì. Era una bellezza, c’era venti centimetri de fiori per terra. Adesso è tutto cambiato perché passi de là [da fuori]. Il centro storico è stato disabitato. Dentro Marta, a Via Amalasunta non c’è più nessuno, tutti romani. Le passate so’ diventate più grosse, prima erano tutte piccolette,a misura de vicolette; quello è il bello. Oggi quelli piccoli ce passano ancora. Io ce so’ passato sempre; magari staccavo una cosa dal carro e passavo dentro Marta. Oggi quelli grossi passano sul lungolago. I cavalli passano dentro. Quello è il percorso della Madonna del Monte. Ma era bello, alzavi la capoccia e vedevi la famiglia, le tu’ parente, l’amici là sopra. Oggi è una tristezza perché non c’è più nessuno. Un po’ di maggio lo buttano, ma poca roba, qualcuno che è rimasto. Passare dentro Marta è un’altra emozione; dentro è più bello. Secondo me il comitato dovrebbe da’ ‘na controllata a sti carri, dovrebbero farli un po’ più piccoli, perché non servono. Tu vai su pe’ fa’ un dono alla Madonna; o vai co’ un carrettino, o vai co’ un capagno, gli porti la robba, non è uguale ? Che c’entrano quelle trattore grosse ? Pe’ fa’ vedé che hai fatto un lavorone, si, belli per carità. Ma per me non c’hanno significato. Quello è un carro di carnevale, per me. Per me la festa era bella dentro, la sentivi di più34.
Le parole di Giuseppe sono simili alle parole di molti vecchi abitanti del paese, i quali oggi sono molto più consapevoli rispetto al passato dello svuotamento del centro e della fine di un modo di abitare comunitario. Le sue parole esprimono una memoria amara, una emozione nella quale il cambiamento forzato intervenuto nel percorso della festa, causato dall’introduzione di carri grandi, ha coinciso con un evento ancora più doloroso, lo spopolamento del centro storico che ha svuotato questo momento festivo della sua risonanza sociale. Ed è un cambiamento vissuto oggi come una sorta di lutto non ancora elaborato. Per questa ragione la festa produce continui dibattiti, dentro e fuori il Comitato, circa la necessità di abolire i carri di grandi dimensioni, di abolire la loro “modernità” (la presenza dei trattori) per “tornare” alle offerte sobrie dei contadini e fare rivivere il centro con una maggiore presenza festiva, come se questo ipotetico ritorno del centro storico nella festa possa ricucire una ferita abitativa, la quale benché sia stata frutto di scelte volontarie motivate da mutate esigenze nell’abitare, è vissuta con una sorta di senso di colpa, ma anche come conseguenza e deriva di una modernità entropica alla quale non ci si può opporre, se non attraverso una festa che da un lato rinnova il dolore abitativo e sociale di una “armonia perduta”, dall’altro tenta di ricucire la frattura del tempo. Oggi passare dentro Marta di ritorno dalla festa permette, secondo molti, di riappropriarsi di uno spazio abitativo che viene percepito come appartenente ad altri (le romane), permette di ricucire uno strappo abitativo e sociale che viene avvertito affettivamente anche da quelle generazioni che non hanno abitato nel centro storico del paese. I più giovani, infatti, anche se non hanno abitato direttamente nel centro, questo luogo lo hanno vissuto andando a trovare parenti, nonni, zii, o amici che ancora ci vivevano.
La festa ricuce quindi un legame con l’abitare lo spazio urbano e con un senso del luogo, ma nello stesso tempo rinnova un dolore dell’abitare, perché ricorda che un tempo si viveva tutti “dentro” un ventre protettivo che oggi è vissuto sporadicamente, non è più una comunità. La festa diventa così un momento emblematico che apre questioni più ampie, di critica ad esempio nei confronti di una modernità entropica che ha impoverito la socialità, ma anche di riflessione critica, come vedremo, intorno a modelli di vita non sostenibili e all’abbandono delle attività primarie, esprimendo in alcuni il bisogno di un diverso rapporto con l’ambiente, la terra, la campagna e con il lago, che la festa in qualche modo conserverebbe nei suoi significati originari, oggi quasi del tutto perduti.
Abitare il territorio attraverso la festa: campagna e lago come risonanze emblematiche
Allarghiamo ora lo sguardo e dallo spazio abitato muoviamoci verso il territorio di riferimento del paese martano e soprattutto torniamo alla domanda iniziale: in che modo i fenomeni festivi ci parlano oggi dei territori ai quali appartengono e definiscono le forme dell’abitare? Per rispondere a questa domanda attraverso il caso paradigmatico che ho scelto, dobbiamo muoverci dallo spazio cerimoniale della festa all’intero territorio che la festa ricomprende e contribuisce ad immaginare, sia nel definire un “senso dei luoghi” che nell’esperienza degli stessi e nella forma dell’abitare [Low, Lawrence-Zùñiga 2003; Feld, Basso 1996]. Il caso martano è infatti paradigmatico, non solo per il legame territoriale che la festa esprime, ma anche per i nodi problematici che fa emergere in rapporto al territorio e alle trasformazioni – locali e globali – intervenute in esso, non ultimo nell’immaginazione di questo.
Per esplorare il legame territoriale che la festa esprime nella sua complessità attuale dobbiamo partire da un termine che è stato usato quasi ininterrottamente negli anni per definire la festa, sia dal mondo degli studi che nel linguaggio locale. Già nel 1892 Teodorico Ruspantini parlava della festa come di una “offerta” di primizie da parte di agricoltori e pastori alla dea etrusca Pale [Ruspantini 1892, 17], evidenziando un legame con il mondo precristiano. Dopo di lui nel 1936 anche Liberato Tarquini ha definito la festa come una “offerta di frutti” [Tarquini, in Berardinetti et al. 1988, 33], mentre ne Le origini del teatro italiano Paolo Toschi negli anni Cinquanta sottolineava la natura di offertorio primaverile della Madonna del Monte e il suo legame con influenze precristiane35. Toschi in realtà colloca la Barabbata tra i riti satirico drammatici inserendola in un capitolo dedicato alla Morte di Carnevale [cfr. Kezich 2015, 404-408]. Tuttavia, negli anni successivi nelle fonti locali, al di là delle diverse teorie sulle origini della festa, prevarrà la lettura dell’“offertorio”36. A tutt’oggi sul sito del Comitato la festa viene definita una offerta di propiziazione e di ringraziamento di prodotti della terra e del lago rivolta alla Madonna37. Non viene mai definita una semplice processione verso un santuario mariano o un pellegrinaggio, ma in tutte le rappresentazioni che sono state date della festa – locali e non – viene sottolineato come carattere fondativo quello di essere un’offerta di ringraziamento per il prodotto del lavoro. E come tale essa si connette, dal punto di vista sia simbolico che concreto all’universo produttivo locale e quindi al legame che la festa ha con il territorio nella sua vocazione produttiva.
La dimensione produttiva e territoriale che la festa esprime attraverso l’offertorio chiama in causa la campagna con le attività agropastorali e il lago con le attività di pesca. Queste due dimensioni, nonostante i cambiamenti profondi intervenuti in questi mondi, continuano oggi ad essere presenti nella festa con le offerte primiziali e le “fontane”, ma in un modo che non è più diretta espressione di quei mondi, ma ne è una sua rievocazione, esprimendo in questo modo nodi problematici profondi che vanno a toccare i mutamenti epocali intervenuti con la modernità.
Per poter leggere il rapporto che la festa ha con l’abitare il territorio può essere utile avvalersi di due chiavi di lettura, quella della discontinuità e quella della continuità che la festa esprime oggi nei confronti della campagna e del lago rispetto al passato. Queste due dimensioni ci portano a leggere la festa nella sua dimensione transcronica, ma vanno messe in relazione con altri due piani di lettura, quello dell’esperienza concreta di territorio che la festa produce nei suoi partecipanti e quello della rappresentazione della festa come immaginazione di un territorio e di un’appartenenza locale.
Cercherò di spiegarmi meglio nelle pagine che seguono. Al di là delle complesse vicende storiche che l’hanno caratterizzata, la festa della Madonna del Monte, almeno fin dal XVI secolo, esprime il rapporto diretto che i partecipanti avevano con il mondo, agricolo e lacuale e le offerte ne erano una testimonianza concreta. Contadini, pastori e pescatori portavano alla Madonna i prodotti del lavoro che svolgevano nelle campagne e al lago. I documenti fotografici più antichi, che risalgono agli anni Trenta del Novecento, mostrano che le offerte erano spesso semplici, ma non per questo meno significative sul piano simbolico: singoli prodotti vegetali [Berardinetti et al. 1988, 78], fasci di grano, rami di vite e di olivo, ortaggi, riproduzioni miniaturizzate di orti; carrettini portati a mano da una singola persona. Le stesse “fontane” erano piccoli “trionfi” della natura e del mondo agricolo trascinati da due/tre persone ed esprimevano un rapporto diretto e quasi “personale” che i partecipanti avevano con il mondo agricolo e la terra. Allo stesso modo, i pescatori portavano in offerta i pesci più grandi (lucci, carpe, etc.) pescati la notte precedente, legandoli a pertiche di legno insieme agli attrezzi di pesca, oppure addobbando anche loro piccoli carrettini. Al di là delle varianti, date dalla fantasia e dalle disponibilità economiche reali, essere “passante” significava condurre una precisa attività lavorativa.
A partire dagli anni Settanta/Ottanta, quei mondi hanno iniziato a cambiare, quello agricolo più rapidamente della pesca professionale. Insieme allo svuotamento del centro storico e alla sua conversione turistica, la campagna ha iniziato a non essere più fonte di sostentamento primario, e sono nate nuove professioni nel settore terziario, impiegatizio, e nel commercio, soprattutto del pesce. Questi cambiamenti hanno indebolito il settore produttivo primario e si sono riflesse nella festa facendo diventare l’offertorio non più espressione diretta di categorie produttive, ma una sua rappresentazione, tanto da far dire ad un mio interlocutore che oggi i passanti sono diventati “figuranti” di quei mondi che vogliono rappresentare, e la salita al Monte viene definita localmente un “corteo storico”. Inoltre, a partire dagli anni Ottanta, il paese ha visto arrivare, per ragioni lavorative, non ultimo per la presenza del capoluogo viterbese, numerose famiglie provenienti da altri territori, anche dal meridione, le quali non avevano e non hanno un legame diretto con quei mondi agricoli e lacuali che la festa esprimeva in origine.
Questo cambiamento epocale ha avuto diverse conseguenze che hanno prodotto una discontinuità rispetto al passato. La prima di queste è stato l’aumento delle dimensioni dei carri che hanno iniziato a diventare più “spettacolari”, con vere e proprie scenografie non più connesse al lavoro, quindi all’offerta, come per esempio, riproduzioni miniaturizzate del santuario ricoperte di legumi, scritte scenografiche, riproduzione di libri sacri, etc. Ma ancor di più, i prodotti dell’offertorio, grano, frutta, cereali, hanno iniziato a non provenire più dal lavoro dei “passanti”, ma ad essere acquistati nei supermercati. Mentre in passato i contadini avevano sviluppato delle tecniche specifiche per conservare i frutti in modo da poterli offrire freschi alla Madonna nel mese di maggio (riuscivano, per esempio, a conservare i rami dell’olivo con i frutti freschi o l’uva fresca della vigna), oggi l’uva viene acquistata nei supermercati, che nel mese di maggio viene dalla Nuova Zelanda. Anche gli addobbi fatti con ginestre, felci e bosso, tutte piante reperibili nelle campagne, che in passato venivano raccolte nei giorni precedenti, col tempo sono stati integrati (ma non sostituiti) con fiori acquistati, come gerbere o rose. Lo stesso vale per il resto della frutta, dei legumi e per le fascine del grano (le gregne) che hanno iniziato ad essere acquistate per rievocare il mondo contadino, venendo meno alla loro funzione di offerta primiziale alla Madonna. Da offertori, i carri sono quindi diventate scenografie rievocative. Questa frattura rispetto al passato ha iniziato ad essere percepita localmente come una sorta di trauma, conseguenza di una modernità che sempre più allontana gli esseri umani dal lavoro diretto con la terra, riflettendosi nei cambiamenti intervenuti nella festa. Lo stesso si può dire degli oggetti di lavoro che in grande quantità vengono portati “al Monte” il 14 maggio. Falci, corvelli, proteggi-dita, vanghe, zappe, in passato erano reali oggetti di lavoro, ma oggi non lo sono più e sono diventati rievocativi, tanto che si è parlato della festa come un “museo itinerante” della civiltà contadina [De Sanctis Ricciardone 1982, 178; Berardinetti et al. 1988, 16].
Per questa ragione, alla fine degli anni Ottanta – quando i mutamenti nel mondo agricolo sono apparsi irreversibili, il comitato festeggiamenti ha introdotto un cambiamento nell’abbigliamento dei “passanti”, i quali nel frattempo avevano iniziato a partecipare alla festa con vestiti “moderni”, i ragazzi con scarpe da ginnastica firmate, magliette con loghi di brand noti, etc. Il nuovo abbigliamento ha così introdotto (e potremmo dire inventato) un abito folkloristico per ciascuna categoria. Da questo momento tutti i passanti non hanno potuto più indossare abiti di loro scelta, ma hanno dovuto conformarsi ad un abbigliamento “di categoria”. Lo stesso è stato per le fontane, per le quali il comitato ha vietato l’uso di materiali “moderni”, come plastiche o polistirolo, ma ha autorizzato solo materiali vegetali, cercando di disciplinare anche le scenografie che sono state re-indirizzate verso una “rappresentazione” delle offerte38. Non tutti i partecipanti alla festa però si sono adattati a queste regole e ogni anno si verificano casi di “infrazione”, ma in generale possiamo dire che la discontinuità con il mondo agricolo del passato si è riflessa nell’immaginazione di quei mondi attraverso regole che si rifanno ad una estetica arcaizzante del mondo agricolo, rievocando un passato preindustriale.
Nonostante queste discontinuità, la festa tuttavia presenta anche uno scenario fatto di continuità e di esperienza diretta, non più di un mondo “contadino” che ora può solo essere rievocato, ma di quel territorio che continua ad esistere intorno al paese, fatto di lago, di selvatico e di piccoli appezzamenti di terra coltivati a vite, olivo, orto, che rappresentano una continuità con il passato e una forma ibrida di produzione familiare di piccola scala molto diffusa a Marta. Se la campagna non è più la fonte di sostentamento primario, di fatto quasi tutte le famiglie che si definiscono “martane”, si riconoscono nel privilegio ricevuto in passato di avere in concessione una striscia di terra da coltivare, la quale ancora oggi, in larga misura, viene custodita gelosamente. Questo dato mostra una continuità che si esprime nella festa, innanzitutto, nell’esperienza fisica della campagna e del territorio che ancora è necessario fare per preparare le passate. Alcuni fiori e piante usati per decorare le fontane vengono sempre cercati nel territorio circostante, ed è una ricerca che vede spesso impegnati i ragazzi più giovani guidati dagli anziani, i quali insegnano ai giovani dove trovare il maggio, le felci, il bosso. Il grano oggi può essere acquistato già pronto per fare addobbi decorativi, ma può anche essere preso da amici o parenti che nella loro terra possono seminare una porzione di terreno a grano, da usare specificamente per la festa. Grano che verrà conservato al buio in inverno, come si faceva una volta, in modo da poterlo utilizzare l’anno successivo per l’addobbo. La stessa ideazione delle fontane, ogni anno diverse, costringe ad immaginare il mondo agricolo e ad esprimerlo in una poetica festiva. La loro realizzazione, soprattutto quando si tratta di carri grandi, richiede spazi che si trovano solo in campagna, in capannoni agricoli di proprietà di “passanti”, ma anche di amici o parenti che li mettono a disposizione per realizzare le strutture festive. Questo uso della campagna per la festa è un fenomeno tutto contemporaneo, perché è andato di pari passo con la crescita delle dimensioni dei carri. Più questi si sono ingranditi, più è stato necessario cercare spazi fuori dell’abitato per poterli realizzare e ciò ancora una volta ha mantenuto in connessione i partecipanti con il territorio circostante. Il carro, con la sua poetica rievocativa e memoriale, costringe anche a conservare gli oggetti del lavoro contadino che appartenevano ai nonni, ai genitori, o che vengono prestati per la festa; costringe a dare a questi oggetti un nuovo significato memoriale e familiare, restituendo loro una funzione contemporanea.
Un discorso a parte meriterebbe anche l’universo dei saperi manuali che la realizzazione dei carri richiede, con competenze di fabbri, falegnami, elettricisti, idraulici, competenze spesso familiari, apprese nell’universo dei saper fare locali. Nella loro grandezza attuale i carri sono infatti molto “moderni” perché richiedono l’uso di trattori, di pompe idrauliche, muletti o di altre macchine di uso industriale. Tutto ciò richiede una conoscenza del mondo agricolo e artigianale, e presume una rete di relazioni dentro questi mondi, così come una loro immaginazione. Alla discontinuità e alla frattura del tempo si intersecano quindi anche una continuità ed un’esperienza del territorio.
Per l’emblematicità che si esprime attraverso la sua apparente staticità folklorizzante, la festa produce quindi continui dibattiti intorno al mondo agricolo del passato, ai suoi cambiamenti, facendo discutere su cosa si dovrebbe far, o si sta facendo, per tornare ai prodotti del territorio. Sono questioni che coinvolgono soprattutto i componenti del comitato festeggiamenti, i quali vivono la festa ed i suoi nodi emblematici come una responsabilità nei confronti della comunità e dei suoi valori fondanti.
Lo stesso si può dire del rapporto con il lago. I pescatori di professione nella festa sono oggi ridotti ad un numero molto esiguo; tuttavia, tra i “passanti” pescatori molti, anche i giovanissimi, hanno parenti che esercitano, o esercitavano il mestiere del lago, oppure hanno amici nello stesso gruppo che sono nipoti o figli di pescatori, o commercianti di pesce. Anche per loro vale lo stesso discorso fatto per il mondo agricolo: la ricerca di materiali che vengono dal territorio circostante, soprattutto del pesce che va pescato la notte prima della festa per le “fontane”, una ricerca che costringe a relazionarsi con questo mondo ricorrendo all’aiuto di parenti o amici adulti, anche quando per i giovanissimi, questo mondo non è più parte dell’esperienza39. Il lago è comunque nel quotidiano ed è vissuto da tutti in continuità con l’abitare; è parte del tempo libero, o di piccole attività lavorative, soprattutto in estate. E anche i carri dei pescatori esprimono una poetica del mondo della pesca, attraverso allestimenti di oggetti (reti, artavelli, pertiche, etc.) che esprimono una continuità con quei mondi.
Attraverso i carri festivi si esprime, quindi, un universo immaginativo dell’“essere del posto”, dando così risposta ad un desiderio di continuità con il passato. Ma i carri fanno venire alla luce anche le fratture che la modernità ha prodotto con questo passato, con un territorio e con un mondo che abitava i luoghi ma che si è inabissato; fratture che la festa vuole ricomporre ricucendo il lutto della perdita attraverso la ritualizzazione di una memoria. Lo stesso abbigliamento festivo “folklorico” introdotto negli anni Ottanta, al di là del suo essere un’invenzione non realistica di un mondo lavorativo del passato, comporta una esperienza di “mascheramento” rievocativo che viene vissuta dai partecipanti come un momento di ricomposizione di una frattura e di ricongiungimento con i propri antenati. La sua invenzione – l’abbigliamento del contadino con scarpe grosse, camicia bianca e fazzoletto a quadretti e del pescatore, con pantaloni azzurri, camicia bianca e stivali di gomma o piedi scalzi40 – benché non filologica, esprime un bisogno di rievocare un mondo temporalmente vicino che si è inabissato. Non è un caso quindi che la festa sia sentita come esclusiva di un essere “martano”, così come definito anche dal regolamento che abbiamo visto in precedenza, il quale ammette alla festa in primis coloro che hanno “origini martane” ed in secondo luogo coloro che hanno con il paese una relazione definita dall’abitare (la residenza).
Disvelamenti: una nota etnografica per concludere
Per lungo tempo in antropologia, prima della “svolta riflessiva” che ha dato centralità al ruolo delle soggettività nel conoscere antropologico [Geertz 1987, 3-30; Clifford, Marcus 1997], all’esperienza etnografica frutto della ricerca sul campo veniva riservato uno spazio solo nelle pagine iniziali di restituzione, che spesso prendeva la forma di una cornice teorico-metodologica alla quale si aggiungevano delle note di esperienza personale sul campo. Ancora oggi, al di là dei diversi posizionamenti teorici, almeno per una parte dell’antropologia italiana non è usuale adottare una postura riflessiva leggibile negli esiti della ricerca. In questo saggio ho voluto sovvertire l’ordine della restituzione, concludendo il testo – anziché aprirlo – con una nota etnografica che incide sulle stesse conclusioni alle quali ho tentato di pervenire in questo saggio. Ho fatto questa scelta forse inusuale perché l’etnografia è per me una pratica critico-riflessiva, che spesso ha finito per intersecarsi con la mia vita, con le opinioni che ho sviluppato sui diversi campi della conoscenza e con l’engagement che ho avuto nei territori, diventando così una forma di autoetnografia. E poiché in questo caso specifico, l’osservazione etnografica del contesto festivo non solo ha svelato a poco a poco, dati, informazioni, storie e scenari, ma ha anche prodotto in me stessa un ripensamento del contesto che stavo osservando, di ciò ho ritenuto di doverne dare conto a conclusione della scrittura, perché tale è stato l’iter di questo processo.
Conosco Marta e la festa della Madonna del Monte dal 1990, quando come studente in antropologia dell’Università Sapienza di Roma, con un gruppo di studenti osservammo la festa documentandola visivamente sotto la guida di Diego Carpitella e del laboratorio di antropologia visiva, che in quegli anni aveva realizzato. Nel corso degli anni ho continuato ad osservare la festa saltuariamente, anche in virtù della sua vicinanza con la mia città di residenza, Roma. Solo nel 2009 ho avuto l’occasione di effettuare una documentazione sistematica della festa nell’ambito di un progetto di documentazione e catalogazione etnoantropologica promosso dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione41 del Ministero della Cultura. A partire da quel momento l’area del lago di Bolsena, con le sue feste, si è innestata stabilmente nel mio quotidiano attraverso vicende personali che sono proseguite nel tempo; vicende che mi hanno portato a vivere da pendolare tra Roma e il lago. Ancora nel 2012 e nel 2015 ho proseguito sul campo di Marta con due progetti d’Ateneo Sapienza, questa volta non finalizzati ad una “documentazione” etnoantropologica della festa, ma ad un progetto partecipativo sugli inventari dei patrimoni immateriali, che voleva realizzare un inventario costruito direttamente dai protagonisti della festa42. Questo progetto mi ha dato modo di intrattenere con essi numerose conversazioni che mi hanno fatto comprendere meglio immaginari, conflittualità e retroscena che solo un lavoro partecipativo avrebbe potuto svelare, perché ha impegnato i miei interlocutori a discutere e a confrontarsi intorno alla molteplicità dei loro punti di vista. Ancora nel 2021 Marta e la sua festa li ho inclusi nel progetto PRIN sull’abitare, del quale questo contributo rappresenta uno degli esiti, con la convinzione che la festa (e le feste in generale) rappresentasse un interessante osservatorio per comprendere i processi di immaginazione dei luoghi e alcune dinamiche dell’abitare. Allargando la prospettiva dalla festa all’abitare e al territorio questo nuovo impegno etnografico mi ha permesso di mettere meglio a fuoco le questioni emerse nel progetto precedente. Negli anni ho poi spesso portato gli studenti dei miei corsi ad osservare la festa, convinta che fosse un buon osservatorio per leggere alcuni nodi problematici delle feste contemporanee, fino al lavoro sul campo condotto nel 2023 con gli studenti della Scuola di specializzazione in beni demoetnoantropologici della Sapienza, con la partecipazione dell’amico e collega Laurent Sébastien Fournier. Per ragioni non lavorative, ma personali, ho vissuto la festa anche da “interna”, essendo la mia vita legata da circa quindici anni all’area del lago di Bolsena.
Ho riassunto questo percorso relativo al mio rapporto con la festa martana perché attraverso i dialoghi avuti con gli interlocutori, i cambiamenti di ruolo che hanno accompagnato la mia formazione (da studente a docente) e i mutamenti nel rapporto che ho avuto con la festa (dalla documentazione, alla catalogazione, passando per un progetto partecipativo e poi una etnografia più classica, fino al coinvolgimento personale) ho visto modificare il mio punto di vista su di essa. Dopo essermi avvicinata alla festa con un primo sguardo di fascinazione folklorica legato al mio essere studente negli anni Novanta, al quale ha fatto seguito una fase di documentazione catalografica legata ai patrimoni immateriali, ho avuto la possibilità di entrare nel vivo della dinamica festiva con il lavoro partecipato e in seguito di allargare lo sguardo alle dinamiche territoriali. In questa seconda fase di lavoro, più matura, sono emersi i nodi problematici che ho ripreso in questo contributo, che mi hanno portato a riposizionare lo sguardo che avevo sulla festa.
Per diversi anni, da quando mi sono avvicinata alla Madonna del Monte, ho avuto uno sguardo critico nei confronti della folklorizzazione della festa compiuta dal Comitato che ha imposto delle regole nell’abbigliamento “di categoria” e nella realizzazione delle fontane. Avendo uno sguardo dinamico e processuale sulle feste, vedevo l’azione di folklorizzazione operata dal Comitato come una forzatura rispetto alla creatività dei gruppi e alla loro libertà agentiva di interpretare l’“offertorio” dentro i cambiamenti intervenuti nella modernità; interessante dal punto di vista antropologico, ma rischiosa per la vitalità della festa. Ritenevo che queste scelte portassero ad una cristallizzazione della forma festiva – come è in parte avvenuto – che ne avrebbe imbrigliato il senso più articolato e dinamico. Riguardando le registrazioni dei tavoli partecipativi realizzati nel 2012 e nel 2015 con alcuni componenti del comitato e portatori attivi, rileggo oggi le mie posizioni di allora e il mio tentativo, in virtù di una expertise antropologica, di convincerli della necessità di non irrigidire la festa con posizioni arcaizzanti. Di fronte alle loro critiche di cosa la festa fosse diventata, non più aderente alla natura “tradizionale” dell’offertorio frutto di un rapporto diretto con la terra, di fronte al loro tentativo di non farla scivolare in una “sagra” di paese o in una sfilata di carri carnevaleschi, e di fronte al loro continuo tentativo di far comprendere agli altri “passanti” quale fosse il suo significato “originario” (ovviamente mi opponevo all’idea che ci fosse un senso “originario” nella festa), rispondevo criticando i divieti e le norme (il divieto di usare plastiche e sponsor sui carri, l’introduzione di un abbigliamento folk, etc.), non aderenti al mutamento dei tempi. In quegli anni non avevo una visione territoriale della festa, ma guardavo soprattutto ai suoi aspetti rituali e cerimoniali. Lentamente, dialogando con gli interlocutori, mi sono invece resa conto che dietro le scelte del comitato si nascondeva un grido di dolore, il bisogno di non perdere un legame territoriale, un senso profondo, non solo della festa ma degli stessi luoghi. Ed ho ricollocato il loro agire normativo in una visione territorialista, come frutto di un bisogno tutto contemporaneo di ricucire la frattura del tempo causata dalla crisi delle attività produttive primarie. Nel maggio 2015, nel corso di un animato tavolo partecipativo (rigorosamente documentato), ho rivisto il mio cambiamento di prospettiva ed ho allora compreso il tentativo continuo, forse disperato fatto dal Comitato, di ricucire attraverso la festa la frattura del tempo per ricatturare un senso profondo dei luoghi. Ho visto l’amarezza espressa da alcuni che non riuscivano a rassegnarsi al cambiamento, che non era solo un cambiamento esteriore, al quale opporsi per ragioni puramente nostalgiche, ma esprimeva un “nodo” di fondo irrisolto. Ed ho compreso come, al di là delle emozioni personali, la festa fosse diventata oggi un dispositivo di risonanza territoriale e di immaginazione per riabitare il paese, ma anche capace di mettere a nudo i diversi nodi emblematici che nelle pagine precedenti ho cercato di evidenziare. In primis il problema della perdita dell’autosufficienza alimentare con il declino dei saperi agricoli legati alla terra, la crisi profonda della pesca professionale, ma anche della “comunità” martana del passato, del centro storico e la sua turisticizzazione, la pervasività della cultura del tempo libero, la mancata trasmissione intergenerazionale e più in generale il declino di un rapporto diretto (non solo produttivo, ma anche simbolico) con il territorio.
Questi “nodi” non sono certamente nuovi, o risultato dell’esplosione della cultura globale negli immaginari collettivi odierni, ma si profilavano già agli albori della tarda modernità e sono ben esemplificati da una considerazione che il medico e scrittore ferrarese Corrado Tumiati già faceva nel 1935 individuando il nodo problematico della festa martana nel cambiamento di valori legato al rapporto con la terra e il suo transitare in una modernità che negli anni Trenta ancora non si era ancora palesata in modo esplicito, ma della quale si avvertivano le anticipazioni. Scriveva Tumiati:
Il rito rustico delle “passate” che ho veduto in questi giorni è rimasto abbastanza fedele alle sue origini. È una festa campestre e religiosa, una sacra rappresentazione tutta di popolo, senza estetiche di registi, costumi teatrali o comitati turistici. Il privilegio di conservarne il più possibile la spontaneità e la freschezza spetta a un piccolo paese lacustre che ha il nome evangelico di Marta […]. Stranissima festa. Per quanto tempo ci sarà consentito d’ammirarla? Saprà, il nostro secolo ingordo, conservarla rozza e disinteressata? Ne dubito. Non è facile agli uomini di oggi stupirsi ancora della terra, stimarla dono e miracolo [Tumiati, 19 maggio 1935, in Berardinetti et al. 1988, 217].
Il vento della guerra che di lì a poco avrebbe soffiato con le sue distruzioni, con la ricostruzione modernista del dopoguerra, con il boom demografico, edilizio, tecnologico, la crisi ambientale e le successive fratture del tempo, avrebbero fatto il resto.
Img. 1. Marta (VT). Fontana dei Villani (2024), foto A. Broccolini
Img. 2. Marta (VT). L’offertorio per la Madonna SS. del Monte (2024), foto di A. Broccolini
Img. 3. Marta (VT). Il ritorno dei bifolchi dentro Marta (2024), foto di Broccolini
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1 Il testo che propongo è frutto parziale di una ricerca che rientra nel PRIN 2020 “Abitare i margini oggi. Etnografie di paesi in Italia”. Il lavoro è portato avanti da 5 università italiane (Perugia capofila, Siena, Torino, Basilicata e Sapienza-Roma).
2 Per il supporto fornito nella ricerca, ringrazio soprattutto Maria Irene Fedeli, appassionata e competente studiosa della storia di Marta, che con cura e pazienza mi ha fornito il sostegno necessario per la ricerca. Ringrazio, inoltre, anche i componenti del Comitato festeggiamenti Madonna SS. Del Monte, Francesco Tarquini, Biagio Peroni e Aldo Ronca e tutta la collettività martana.
3 Un discorso a parte, che non potrò trattare in questo contributo, è quello dello spazio virtuale della festa, dato dalla presenza stabile degli eventi festivi nella rete e nei gruppi social dedicati. Una “deterritorializzazione” che ha mostrato il ruolo giocato dai social media nel quotidiano [Bausinger 2008; Miller 2016; Hine 2015; Dalsgaard 2016], nella costruzione immaginativa del territorio e della stessa comunità [cfr. Ballacchino 2015, 276]. Per questa ragione, la festa in rete non sarà l’oggetto di questo saggio e meriterà una analisi a sé stante.
4 La categoria dello spazio è emersa in antropologia a partire dalla scuola francese, come studio delle classificazioni indigene, in particolare dell’organizzazione e delle relazioni sociali come modello delle rappresentazioni spaziali [Durkheim, Mauss 1901; Durkheim 1912; Lévi-Strauss 1958].
5 Di recente una lettura spaziale della festa è stata proposta in Italia ancora una volta dagli urbanisti, in una ricerca promossa dall’Istituto Calzabini dell’Università Federico II di Napoli [Colletta, De Toro, Girard ٢٠٠٠] con lo studio dei percorsi processionali dei carnevali nei centri storici della Campania.
6 Ringrazio l’amico e collega Laurent Sébastien Fournier per avermi segnalato questo autore.
7 Per altri canti: http://www.madonnadelmonte.it/la-festa/lepassate/inni-e-canti.html (cons. 30.05.2024).
8 La Cannaiola è un vino ricavato dal vitigno locale del Cannaiolo nero, che nel 1996 ha ottenuto la denominazione DOC.
9 Le fonti storiche relative al riscatto delle terre dalla proprietà ecclesiastica sono conservate presso la Biblioteca degli Ardenti di Viterbo (temporaneamente chiusa) nelle Sentenze della Giunta d’Arbitri emesse alla fine del XIX secolo dal Tribunale di Viterbo per l’affrancazione dei beni immobili della Reverenda Camera dei Cardinali. Ringrazio Maria Irene Fedeli per le informazioni relative a questa fase della storia recente del paese frutto di ricerche d’archivio che non sono state ancora pubblicate [cfr. De Sanctis Ricciardone 1982, 45].
10 Sulle origini del nome Barabbata [Ruspantini, 1892, 18] si sono succedute diverse interpretazioni [Perali, 1939; Toschi 1976 [1955], 326; cfr. De Sanctis Ricciardone 1982, 123; Berardinetti et al. 1988, 64]. Si tratta di una denominazione che, benché molto diffusa anche localmente, oggi non viene accettata né dal comitato festeggiamenti, né da molti partecipanti alla festa.
11 Sulla festa esiste un’ampia letteratura di ambito etnoantropologico. Nel secondo dopoguerra è stata osservata da Paolo Toschi, che la colloca tra le feste primaverili satiriche ne Le origini del teatro italiano [Toschi 1976, 326-333; Berardinetti et al. 1988, 117] e poi studiata negli anni Settanta/Ottanta da Quirino Galli [1982], da Paola De Sanctis Ricciardone [1982] che ha dedicato alla festa una dettagliata etnografia e da Martine Boiteux [1984]; più di recente da Caforio [2005] e Kezich [2015, 404-408]. Sulla festa un breve quanto sprezzante testo dal titolo Barabba e il cittadino lo ha scritto anche Clara Gallini [2001] che rivolge uno sguardo “etnografico” alle relazioni tra il cerimoniale festivo e la sfera politico-istituzionale.
12 Nel 2009/2010 l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD - Ministero della Cultura) ha prodotto una campagna di catalogazione della festa con schede BDI nell’ambito del Progetto Paci - Dieta Mediterranea, realizzata dalla sottoscritta insieme a Katia Ballacchino sotto la direzione scientifica di Roberta Tucci e il coordinamento di ricerca di Elisabetta Simeoni.
13 Vedi par. 3, nota 21 e par. 5, nota 37.
14 In passato i casenghi erano coloro che sorvegliavano il lavoro dei campi per conto dei proprietari terrieri, mentre i bifolchi erano coloro che in campagna accudivano il bestiame impiegato per i lavori agricoli e si occupavano dell’aratura.
15 Da qui il nome di “Festa delle Passate” [Bernardinetti, et al. 1988].
16 «Alle nove il Corteo storico inizia il tradizionale percorso che attraversa tutto il paese per giungere al santuario della Madonna del Monte. È costituito, nell’ordine, dalle categorie dei Casenghi, dei Bifolchi, dei Villani e dei Pescatori; ad esse seguono la banda musicale, i Ceri, il clero, le autorità civili con il gonfalone, il popolo», http://www.madonnadelmonte.it/la-festa/lepassate.html (cons. 10.07.24); cfr. http://www.meteomarta.altervista.org/portale/festa-madonna-del-monte-barabbata-festa-delle-passate-marta-vt (cons. 10.07.24). [cfr. De Sanctis 1982, 157; 1988].
17 Vedi paragrafo 5.
18 La dimensione aggregativa, amicale o familiare, dei “passanti” è molto articolata e non può essere trattata in questo lavoro.
19 Il Comitato festeggiamenti Madonna SS.ma del Monte, è nato nel secondo dopoguerra per organizzare la festa, ma dal 2010 si è trasformato in associazione no profit. Come si legge dal sito, esso: «Conserva ancora oggi il suo obiettivo primario, ma si prefigge anche l’intento di recuperare le tradizioni storiche e gli aspetti antropologici legati alla festa, promuovendo ricerche di archivio, studi specialistici e pubblicazioni che facciano conoscere e apprezzare quella che a Marta è ‘la nostra festa’» (http://www.madonnadelmonte.it/il-comitato-festeggiamenti/il-comitato.html). Il Comitato ha assunto una lettura frazeriana della festa e in parte la lettura del Toschi: «La festa della Madonna del Monte, o Festa delle Passate, affonda le sue radici nei riti arcaici di offerta delle primizie primaverili su cui si sono innestati elementi di religiosità popolare. […] è possibile rintracciare [nelle origini della festa], nella mescolanza di elementi sacri e profani, i riti etruschi della fecondità e del ciclo delle stagioni e le celebrazioni in onore delle dee Maia, Cerere e Feronia dee dell’abbondanza, delle messi, della primavera, delle primizie, dei raccolti. Da vari decenni gli studiosi di folklore hanno cercato di chiarire le origini, gli aspetti antropologici e culturali di questa festa assai complessa nei suoi significati storici, gestuali, rituali, espressivi, linguistici, sociali» http://www.madonnadelmonte.it/la-festa/la-storia.html (cons. 10.07.24).
20 La formalizzazione della festa e dei suoi percorsi è evidenziata dalle fonti locali (es. www. http://www.meteomarta.altervista.org/portale/festa-madonna-del-monte-barabbata-festa-delle-passate-marta-vt) (cons. 10.07.2024).
21 Anche sugli aspetti spaziali dei percorsi processionali il Comitato ha accolto e reinterpretato le letture antropologiche proposte dagli studiosi del passato. Sul percorso effettuato dal tamburino, ad esempio, leggiamo nel sito: «Nel percorso mattutino del tamburino si ravvisano due aspetti diversi: uno più diretto, di natura pratico-funzionale, legato alla tradizione, e uno più profondo, di natura simbolica, da inquadrare in un’ottica etnoantropologica. Il primo aspetto ci testimonia l’“esigenza”, assolta dal tamburino nel corso dei secoli, di “dare la sveglia al paese” in modo festoso […]. Più complesso il secondo aspetto, per chiarire il quale bisogna far riferimento agli studi e alle pubblicazioni di folkloristi e antropologi (Paolo Toschi, Quirino Galli, Paola De Sanctis Ricciardone, Antonella Caforio) che hanno […] fatto un’ampia disamina dei vari aspetti e delle varie componenti della festa. Essenziale, per comprendere la simbologia del “giro del mattino”, è il concetto di “spazio e tempo”. […] Il giro compiuto all’alba, in senso inverso rispetto al percorso della grande sfilata del mattino, serve a “sacralizzare” all’interno del paese lo “spazio della festa”. Da questo percorso mattutino viene lasciata fuori, di proposito, l’area sacra del santuario, in quanto spazio in cui si raggiungerà il culmine della festa dopo l’ascesa della processione» (http://www.madonnadelmonte.it/la-festa/lepassate/il-tamburino.html - cons. 10.07.24).
22 Una descrizione etnografica delle fasi cerimoniali della festa è contenuta in De Sanctis Ricciardone [1982 ,49ss].
23 Vedi paragrafo 4.
24 http://www.madonnadelmonte.it/la-festa/lepassate/il-tamburino.html (cons. 25.07.24).
25 http://www.madonnadelmonte.it/la-festa/lepassate.html (cons. 25.07.24).
26 Nel 1936 Liberato Tarquini, parroco di Marta, già definiva “storico” il corteo che ascende al monte il 14 maggio [Tarquini 1936, in Berardinetti 1988, 33], ma per ragioni diverse rispetto a quelle “moderne”. Con l’Unità d’Italia, infatti, e fino al 1916, alle categorie antiche di passanti (casenghi, bifolchi, villani e pescatori) erano stati aggiunti gli artigiani, fino a quando non furono ripristinate le sole categorie “storiche” ed è in questo senso che Tarquini usa questo aggettivo [Tarquini 1936, in Berardinetti et al. 1988, 57-58].
27 Il passaggio da una rappresentanza delle categorie produttive alla loro “rappresentazione” causato dal mutare delle attività lavorative, lo ha a lungo sottolineato sia negli scritti che nelle conversazioni che ho avuto con lui negli anni Angelo Prugnoli, detto La Nciolla, profondo conoscitore e studioso della festa [Prugnoli 1998, 3; intervista 30.05.2015].
28 Il percorso che dal lungolago porta al Santuario della Madonna SS. Del Monte è di circa 1.200 metri.
29 Le vicende che hanno interessato il centro storico di Marta sono comuni a quelle di quasi tutti i centri storici dei paesi italiani, che a partire dagli anni Settanta/Ottanta del Novecento si sono progressivamente svuotati dei vecchi residenti. Nel caso di Marta questa trasformazione è legata alla realtà storica ed economica del paese, rispetto soprattutto al turismo e per la sua complessità non può essere trattata in questo saggio.
30 Intervista 26.06.24
31 Prima di questa data i passanti tornavano in piazza scendendo da Via Madonna del Monte, via Tripoli, Via La Barchetta e prendevano via Amalasunta.
32 Ancora negli anni Settanta il gettito del maggio caratterizzava fortemente il percorso di ritorno dentro il centro storico del paese. Paola De Sanctis Ricciardone descrivendo il giorno della festa, osservata nel 1979, scrive: «Si ridiscende il Monte e si arriva nelle stradine di Marta vecchia. L’elemento dominante in questo ritorno è il gettito più intenso, quasi continuo, del maggio (fiori di ginestra) dai balconi e dalle finestre addobbate che si affacciano sul percorso» [De Sanctis Ricciardone 1982, 75].
33 http://www.madonnadelmonte.it/il-comitato-festeggiamenti/regolamento-della-festa.html (cons. 30.05.24).
34 Intervista 11.08.24.
35 «La data (idi di maggio), le offerte dei prodotti della terra e del lago alla Madonna, le forme con cui anticamente queste passate si eseguivano e altri numerosi elementi che si rivelano a un attento osservatore, ci assicurano trattarsi di una festa cristiana sostituitasi a una precedente pagana» [Toschi 1976, 327].
36 Sulle origini della festa e sui cambiamenti intervenuti nel corso dei secoli, fino agli anni Trenta, vedi Tarquini 1936 [in Berardinetti et al. 1988]; fino agli anni Ottanta, De Sanctis Ricciardone [1982].
37 «La festa della Madonna del Monte, o Festa delle Passate, affonda le sue radici nei riti arcaici di offerta delle primizie primaverili su cui si sono innestati elementi di religiosità popolare. Le origini della festa sfumano nella leggenda e nei “miti di fondazione”, ma è possibile rintracciare, nella mescolanza di elementi sacri e profani, i riti etruschi della fecondità e del ciclo delle stagioni e le celebrazioni in onore delle dee Maia, Cerere e Feronia dee dell’abbondanza, delle messi, della primavera, delle primizie, dei raccolti» (http://www.madonnadelmonte.it/la-festa/la-storia.html cons. 10.09.2024).
38 http://www.madonnadelmonte.it/il-comitato-festeggiamenti/regolamento-della-festa.html (cons. 10.09.24).
39 Anche i racconti sulla preparazione delle passate e sulla ricerca del pesce, molto diffusi tra i passanti, rappresentano un campo interessante per comprendere il rapporto che i partecipanti hanno dello spazio extraurbano, in questo caso il lago, ma lo stesso dicasi del rapporto con la campagna per i villani e bifolchi. Questi racconti spesso esprimono il carattere quasi “eroico” dell’essere passanti nei giorni immediatamente precedenti alla festa, dove la ricerca spasmodica dei materiali diventa parte dell’esperienza stessa della festa e si sedimenta in ricordi che vengono reiterati nel tempo sotto forma di narrazioni. In particolare, per la categoria dei pescatori questa ricerca ha a che fare con l’ambito del selvatico (il lago, il pesce) e a volte vede al centro dei racconti l’infrazione delle regole, forme più o meno velate di bracconaggio ed incontri con le forze dell’ordine, le quali in occasione della festa mostrerebbero una particolare clemenza chiudendo un occhio nei confronti delle infrazioni.
40 Lo stesso vale per l’abbigliamento delle altre categorie di casenghi e bifolchi.
41 Vedi nota 12.
42 Per una panoramica del lavoro e per alcune considerazioni sugli esiti, vedi: Broccolini 2017; Ballacchino 2017.