Oltre i margini: comunità, risorse, prospettive
Beyond the margins: communities, resources, perspectives
Laura Bonato, Damiano Cortese, Roberta Clara Zanini
Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne, Università di Torino
Indice
Abstract
Making use of the ethnographic observation that the UR of Turin is carrying out as part of the Prin 2020 project on four localities in the Piedmontese Alps, an attempt will be made to analyse the presence of community planning and awareness of the cultural and social meanings of their actions with a view to producing meaning and culture. While these inland, marginal areas are still characterised by forms of depopulation, this situation can generate new practices for a more balanced and sustainable growth. This is a significant ‘growth potential’ still to be discovered through related strategic elements such as the environment, culture, agriculture, renewable energy and tourism, in order to enable a suitable economic development of local communities through the preservation of agro-cultural landscapes and historical-artistic heritage.
Keywords: marginal areas; depopulation; cultural entrepreneurship; sustainable growth.
Questo saggio1 si articola a partire dalle traiettorie di indagine e dai primi esiti di un intenso lavoro di ricerca condotto nell’ambito del progetto PRIN Abitare i margini, oggi. Etnografie di paesi in Italia2 che, con il coordinamento dell’Università di Perugia, coinvolge cinque unità operative di varie università italiane. L’intento che accomuna le ricerche delle varie unità è condurre un’ampia campagna di indagini etnografiche sul campo, esplicitamente dedicate all’esplorazione e alla comparazione delle pratiche dell’abitare in aree caratterizzate da elementi di marginalità, sul piano territoriale, sociale, economico.
L’Unità di Ricerca dell’Università di Torino, in particolare, sta compiendo la sua ricerca in quattro comunità di alta montagna nelle Alpi occidentali3, da decenni coinvolte in complessi processi sociali e demografici che hanno determinato l’intrecciarsi di fenomeni di sviluppo turistico e con altrettanto interessanti dinamiche di spopolamento, calo demografico e progressiva marginalizzazione. In tali aree, in particolare, si è osservato come si stiano generando nuove pratiche per una crescita più equilibrata e sostenibile che, in alcuni contesti, hanno favorito l’innescarsi di processi virtuosi di sviluppo locale, interessanti rispetto all’impostazione di politiche territoriali per la montagna. Si tratta di una ripresa caratterizzata da modi creativi di porsi ai temi dell’abitare, del fare impresa, all’utilizzo delle risorse locali e alla fruizione ambientale.
Le indagini, sui cui parziali esiti presentiamo qui alcune riflessioni complessive, hanno messo in evidenza che le comunità locali sono i luoghi privilegiati dove osservare operativamente esempi concreti di risposta ai processi di marginalizzazione e dove mettere in evidenza un “potenziale di crescita” rilevante e ancora da scoprire. Elementi come l’ambiente, l’agricoltura, le energie rinnovabili e il turismo si confermano dunque strategici per consentire un idoneo sviluppo economico delle comunità locali anche grazie alla tutela dei paesaggi agrari e dei patrimoni culturali. Nel corso delle prossime pagine, dunque, proveremo ad articolare queste riflessioni intorno a tre parole chiave, ad ognuna delle quali è dedicato un paragrafo, che sostengono l’impianto teorico e metodologico della nostra indagine, ovvero comunità, risorse e prospettive.
Il nome del progetto PRIN a cui questo saggio è dedicato – Abitare i margini, oggi: etnografie di paesi in Italia – è piuttosto evocativo, tanto sul piano teorico, quanto su quello metodologico. Se, come abbiamo anticipato e come vedremo meglio anche nei prossimi paragrafi, il tema centrale del progetto è quello dell’abitare nelle aree marginali, ci preme qui concentrarci più approfonditamente sulla seconda parte del nome, poiché introduce due termini per noi essenziali, ovvero “etnografie” e “paesi”, che costituiscono lo scenario metodologico sul quale si sono fondate le nostre attività di ricerca. Il richiamo esplicito all’etnografia, alla necessità di fare ricorso allo strumento metodologico per eccellenza della pratica antropologica, è particolarmente rilevante per il lavoro condotto dall’unità di ricerca dell’Università di Torino, che ha declinato le proprie indagini in chiave esplicitamente alpina, selezionando come punti di indagine, come si è accennato, quattro comunità di alta quota appartenenti al territorio delle Alpi occidentali italiane. Nei quattro contesti si sono condotte indagini etnografiche in profondità, attraverso missioni sul campo ripetute nel tempo, in modo da poter seguire con continuità le attività agricole nei differenti momenti dell’anno. Durante le discese sul campo si è affiancata all’osservazione partecipante e alla conduzione di interviste agli interlocutori locali anche la realizzazione di focus group con i coltivatori, con l’obiettivo di esplorare tematiche e questioni legate alla dimensione agricola a partire proprio dalle necessità di condivisione emerse dalle comunità stesse.
È proprio il concetto di comunità quello su cui intendiamo ora proporre qualche riflessione, poiché costituisce lo snodo teorico che consente di ricomprendere in un unico schema interpretativo tanto l’idea di paese, quanto l’esortazione a praticare l’etnografia. Gli studi di comunità hanno rappresentato per lungo tempo una modalità di ricerca di grande importanza per l’antropologia alpina. A partire da primi pionieristici studi condotti intorno alla metà del Novecento da un nutrito gruppo di studiosi provenienti da università inglesi e americane, e poi successivamente, dagli anni Settanta, da antropologhe e antropologi italiani, si è progressivamente andato consolidando un approccio di indagine che individuava nella comunità lo scenario privilegiato verso cui orientare le proprie ricerche, attraverso affondi etnografici intensivi e di lungo periodo. L’attenzione verso quelli che sono stati classicamente definiti “studi di comunità” ha poi registrato, nel corso degli anni Novanta, una flessione, quando hanno iniziato a diffondersi modalità e pratiche di ricerca più votate all’uso di metodi estensivi e comparativi di raccolta dei dati. Nel corso dell’ultimo decennio, tuttavia, si è via via registrata un’inversione di tendenza, quantomeno nel panorama accademico e scientifico italiano, e l’etnografia intensiva condotta in contesti comunitari di piccole dimensioni sta tornando al centro della pratica antropologica [Viazzo, Zanini 2022].
In linea, dunque, con gli sviluppi più recenti dell’antropologia alpina, le indagini condotte dal gruppo di lavoro dell’Università di Torino hanno individuato nella comunità un setting ideale per osservare le pratiche dell’abitare nelle aree marginali. Tuttavia, è importante sottolineare che, se la dimensione comunitaria rimane un punto di partenza imprescindibile, lo sguardo e il focus della ricerca non si è limitato alla singola comunità, al singolo “paese”, per riprendere il termine che dà nome al nostro progetto. Al contrario, abbiamo ritenuto che fosse necessario ricomprendere nella nostra analisi i più ampi contesti delle valli all’interno delle quali i punti di indagine sono inseriti. Questo ampliamento di sguardo consente, infatti, di indagare le differenti dimensioni dell’abitare cogliendo relazioni e processi che si collocano su vari livelli differenti, ed evitando il rischio che il focus intensivo su una singola località possa tradursi in uno sguardo miope. Prestare attenzione ai differenti livelli scalari si è confermato, dunque, uno strumento metodologico essenziale: come bene aveva messo in evidenza lo storico Jacques Revel [1996], infatti, ricorrere al concetto di scala e soprattutto alla capacità, nell’indagine, di modificare la scala di osservazione operando quelli che ha definito “giochi di scala” consente di non limitare lo sguardo ad un singolo livello ma di muoversi attraverso piani differenti, cogliendo dinamicamente le relazioni che connettono le singole comunità con i contesti territoriali, sociali e politici a cui appartengono.
Si tratta, evidentemente, di relazioni di carattere complesso, spesso ambivalente e ambiguo, non di rado caratterizzate da elementi di conflittualità, tanto sul piano delle rappresentazioni quanto su quello delle politiche e delle pratiche attivate a livello locale. È evidente, in questo senso, l’importanza di muoversi su diversi livelli di scala, poiché attraverso l’etnografia, e in particolare attraverso un’etnografia che “gioca con la scala”, è possibile osservare e comprendere come, a livello micro, nella singola comunità, nei paesi, chi abita le terre alte attivi pratiche che rispondono non solo agli stimoli e alle sfide che contesti complessi come quelli di alta quota pongono ma anche ai vincoli e alle costrizioni che derivano dalle relazioni con le istituzioni e con gli enti sovraordinati.
Lo studio di comunità, l’affondo etnografico su specifiche località e l’attenzione per i più ampi processi in cui queste sono inserite, consente di cogliere i processi di negoziazione che coinvolgono le comunità stesse e l’esistenza di differenti interpretazioni non solo su cosa si possa intendere per abitare la montagna ma anche su specifiche tematiche che emergono dall’indagine. A questo proposito, si è rivelato di particolare utilità euristica il concetto di frame, messo a punto da Ben Orlove e del suo gruppo di lavoro [Orlove et al. 2019]. Seguendo questa prospettiva, con il termine frames possiamo intendere le differenti cornici interpretative attraverso cui attori diversi per posizionamento o ruoli leggono la realtà all’interno della quale si muovono. La nozione di frame è stata introdotta, in particolare, per analizzare le percezioni e le rappresentazioni con cui viene affrontato il cambiamento climatico, e in particolare il ritirarsi dei ghiacciai, in tre comunità di alta quota nelle Alpi, in Nord America e nelle Ande. Le indagini etnografiche condotte da Orlove e dai suoi collaboratori hanno consentito di mettere in luce come le cornici interpretative delle forefront communities, ovvero quelle comunità che vivono immediatamente a ridosso del ghiacciaio, differiscono in modo piuttosto evidente dalle modalità con cui viene descritto, e vissuto, il cambiamento climatico da chi guarda alla montagna da lontano e, non di rado, da chi ha potere di decidere per la montagna e per chi vi abita.
Riflettere su queste differenti interpretazioni, sui frames con cui le comunità si relazionano con i territori marginali in cui vivono, porta necessariamente a interrogarsi sulla composizione delle comunità stesse. Il territorio alpino è stato per lungo tempo attraversato da movimenti migratori, in entrata e in uscita, che hanno profondamente modificato la composizione delle popolazioni montane, e tuttora il dinamismo demografico delle Alpi è una tematica su cui si concentrano molti studi antropologici [Viazzo, Zanini 2022]. Molti di questi lavori si articolavano a partire da una domanda in qualche modo generativa – di chi sono le Alpi? – da cui a cascata si è sviluppata una serie di questioni connesse: da chi sono composte le comunità alpine? Chi sono i montanari e che cosa vuol dire abitare la montagna? Le indagini etnografiche e le riflessioni antropologiche che ne sono derivate hanno mostrato un panorama complesso, eterogeneo, multiforme, dal quale tuttavia sembra emergere in modo limpido l’importanza di ricorrere a un concetto chiave, classico non solo per la tradizione antropologica in generale ma per l’ambito alpino in particolare [Rosenberg 1988], ovvero quello di negoziazione [Membretti, Viazzo 2017].
Se, come accennato, i processi di negoziazione e di relazione, non di rado conflittuale, con le istituzioni scalarmente sovraordinate sono emersi chiaramente dalle indagini etnografiche, è nondimeno molto interessante osservare come queste stesse negoziazioni incidano profondamente sulle dinamiche micro-locali, interne alla comunità. Concentrarsi etnograficamente sui “paesi”, infatti, significa non solamente avere la possibilità di esperire concretamente l’aspetto della dimensione, evidentemente di piccola scala, del centro abitato, ma anche di osservare le modalità attraverso cui si esprime la relazione sentimentale comunitaria, fatta di prossimità reciproca e di intimità culturale [Herzfeld 1997; Clemente 2021], che connette gli abitanti e li pone in relazione fra di loro e con l’ambiente. In questo senso, le relazioni di vicinato, di cura del territorio, di attenzione, talvolta di conflitto e frizione sono elementi centrali su cui si è concentrata la ricerca e che hanno consentito di mettere in evidenza aspetti talvolta inattesi delle comunità con cui abbiamo lavorato.
In particolare, si sono rivelati etnograficamente essenziali i focus group organizzati in ognuno dei paesi in cui si è condotta la ricerca, con l’obiettivo di raccogliere i bisogni, le criticità rilevate, le istanze di confronto e riconoscimento espresse dagli interlocutori locali. Le testimonianze raccolte nel corso di un incontro organizzato a Morgex nel novembre del 2022 hanno mostrato molto bene come le pratiche tradizionali di cura e coltivazione del territorio collidano talvolta con le norme che regolano queste attività sul piano amministrativo e legale. Ci riferiamo, in particolare, ai problemi burocratici dovuti all’incompatibilità tra le modalità di gestione collettiva attivate localmente e i vincoli del diritto del lavoro. Come hanno sottolineato i nostri interlocutori, le maggiori criticità nascono in relazione all’istituto di quella che, in Valle d’Aosta, viene chiamata corvée, che tradizionalmente prevede che ogni soggetto coinvolto in pratiche collettive fornisca una parte di manodopera gratuita per la gestione comune delle vigne. Questa pratica, per quanto consolidata e storicamente attestata nella regione, non è giuridicamente inquadrata dalla normativa sul lavoro e risulta quindi molto problematica. Nonostante questa ambiguità, tutte le consuetudini di reciprocità nella cura, nella manutenzione della terra e nella gestione della viticoltura, per quanto burocraticamente informali, sono molto sentite e forti a livello sociale e comunitario locale.
Un esempio piuttosto efficace della capacità dell’etnografia di far emergere traiettorie inaspettate e aspetti inediti delle comunità è dato dai primi esiti delle indagini condotte a Formazza, in alta Valle Ossola. Dialogare con gli abitanti intorno al tema della coltivazione, frequentare i campi, osservare nel loro modificarsi stagionale le attività di cura dei terreni consente di indagare il tema dell’abitare sul piano demografico, sociale, economico ma soprattutto ambientale, territoriale e politico, mettendo in luce le strategie e le relazioni “di frontiera” che le comunità intessono con l’ambiente che le ospita e con i suoi abitanti, anche e soprattutto quando si tratta di abitanti “non umani”, come i cervi, che nel caso di Formazza rappresentano un elemento di grave criticità per le attività agricole, e la cui numerosità richiede l’adozione di strategie di contenimento. Un breve stralcio del diario di campo di una delle autrici di questo articolo restituisce efficacemente come questa relazione conflittuale modifichi il paesaggio:
Ieri sera, camminando in una via laterale della frazione capoluogo, ho notato un grosso orto, molto curato anche se ormai quasi spoglio. Resisteva giusto un qualche cavolo. La cosa che mi ha colpito è stata però la recinzione che contornava l’appezzamento: una vera e propria fortificazione in rete metallica rigida, molto alta, direi quasi due metri. Non avevo idea di quali fossero le ragioni di una così evidente necessità di protezione; quindi, questa mattina ho chiesto a F.M., che mi ha spiegato come siano protezioni contro i cervi: gli ungulati sfondano le reti più leggere, e saltano quelle troppo basse, devastando gli orti e i campi. Sono necessarie reti elettrosaldate, molto costose, ma resistenti, per provare a evitare che i cervi pasteggino con le verdure degli orti, e talvolta anche queste non sono sufficienti. Mi ha colpito molto come quello che a me sembrava qualcosa di assolutamente inconsueto e imprevisto, sia in realtà, per chi abita qui, uno scenario certamente fonte di preoccupazione, ma ormai del tutto consueto e ordinario (diario di campo, 12 novembre 2022).
A livello teorico ed epistemologico l’antropologia ha ormai da tempo adottato una cornice interpretativa all’interno della quale l’essere umano è entangled con altri attori non umani [Krauß 2018], e anche nel nostro caso l’indagine etnografica ha fatto emergere una molteplicità di situazioni e rappresentazioni in cui il rapporto e soprattutto la convivenza fra uomo e animale si sono mostrate in tutta la loro complessità e, non di rado, difficoltà. Questo, però, ha contribuito a mostrare anche come la risposta agli interrogativi a cui si è fatto accenno poco sopra – di chi sono le montagne? Chi sono gli abitanti delle terre alte? – sia ancora più complessa di quanto ci si potesse aspettare e richieda dunque di riflettere con profondità e rigore su come il delicato rapporto fra comunità e risorse rappresenti un nodo centrale per il futuro delle terre alte.
Se il tema delle risorse, in generale, ha acquisito rilevanza crescente, sin dal secondo dopoguerra, nell’ambito del dibattito sulle aree interne, esso ha assunto un peso ancor più notevole per ciò che concerne le zone montane. Queste, infatti, incarnano in modo lampante il concetto di marginalità per via del posizionamento geografico, della distanza dall’offerta di servizi essenziali – salute, istruzione, accessibilità –, delle caratteristiche territoriali e della condizione socioeconomica peculiare che le segna, a cui si sono uniti, nel tempo, dissesto idrogeologico, calo demografico e del numero di residenti, abbandono del territorio e del suo patrimonio, perdita di attività economiche e dunque ulteriore contrazione di servizi locali [Cuccu 2017; Miur 2013]. Tali fattori hanno determinato effetti negativi e generato un divario incrementale, portando a una complessità che richiede equilibri adattivi e collaborativi, in cui le risorse – e le comunità che vi sono legate a doppio filo – sono punti cruciali. Il peculiare scenario delle aree alpine le ha rese oggetto di indagine dalla prospettiva teorica dei common goods [Haller et al. 2021; Acheson 2011; Ostrom 1990], nel cui solco si è tentato di individuare bilanciamenti basati su soluzioni, direttrici e regole funzionali alle molteplici sfaccettature e fragilità sistemiche, alla ricerca di una composita stabilità nell’interazione tra uomo e natura e di armonia interna tra le differenti componenti e i variegati interessi collettivi.
La complessità e l’articolazione – di certo i tratti di maggiore interesse – dello studio delle terre alte sono date dagli equilibri territoriali, che rivelano la propria debolezza esattamente nella combinazione di risorse – naturali, economiche e sociali – che rendono sostenibile – o non sostenibile – la continuità della presenza umana nei luoghi osservati. Le montagne confermano in modo plastico la naturalità della triple bottom line [Elkington 1997], per cui solamente la proporzione tra tutte le componenti – ambiente, economia, società – della sostenibilità rende realmente durevole una condizione. La collocazione in un ecosistema o la presenza di risorse naturali, da sola, infatti, non è condizione sufficiente per la presenza umana, qualora questa non abbia modo di sostentarsi, per esempio nel caso in cui i fattori produttivi locali, il loro impiego e la loro trasformazione non siano più allineati alle esigenze dei residenti o ai bisogni del loro mercato di riferimento. Al tempo stesso, senza la componente umana, assottigliata per via dello spopolamento – tipicamente collegato alla ricerca di diverse, nuove, talvolta solo apparentemente più vantaggiose, opportunità di reddito –, anche lo spazio subisce un deterioramento, concatenato all’assenza di cura delle aree. Le risorse territoriali stesse si contraggono o si alterano, evidenziando la connessione sistemica e la fondamentale esigenza di coerenza tra le componenti e, al contempo, il bisogno di logica coevoluzione. La conservazione della comunità, garantita da attività generatrici di risorse, è requisito per il mantenimento della risorsa naturale, in una coesistenza inscindibile, fondata su un continuo assestamento.
Ciò riporta all’interrogativo “di chi sono le montagne?”, dal momento che lo stato di salute ambientale delle terre alte influisce sul benessere e sulla sicurezza dei territori a valle, come numerosi fatti di cronaca di grande risonanza, per via delle conseguenze catastrofiche, evidenziano ormai da qualche anno. Barbera e De Rossi [2021] si sono misurati con la separazione e dicotomia montagna-città – di certo uno degli aspetti più evidenti di dualità per il lettore contemporaneo – e, in particolare, con il necessario superamento delle stesse, proponendo il concetto di «metromontagna», che guarda ai gradi di connessione, più che di separazione, tra le due zone e le due concezioni di spazio e di vita. In una più ampia accezione, con la prospettiva del common good, il bene comune-terre alte acquista rilevanza anche per le terre “altre”, sottolineando come il confine tra queste sia sempre più labile e come agli interessi particolari dei differenti territori si debba necessariamente sostituire una visione comune e condivisa. La delimitazione, ovvero la chiara demarcazione, è concetto centrale della teoria dei beni comuni che, tuttavia, nel caso del “margine” e dei “margini” a cui guardiamo, assume un senso ancor più distintivo e di largo interesse: la distanza, il confinamento, la divisione non può determinare un allontanamento del problema e una separazione di interessi. Al contrario, le terre alte devono essere il focus verso il quale rivolgere l’attenzione, in quanto indicatore capace di anticipare la lettura dello stato di salute sistemico. Il “bene” – la condizione ottimale – di un common è argomento anche per altre aree, poiché solo uno scenario di salute complessiva garantisce tutto l’ecosistema che, in quanto tale, non si ferma a divisioni tipicamente antropiche o di carattere ammnistrativo.
In questo senso, vanno riletti i rapporti – anche di negoziazione – che consentono il mantenimento di condizioni di sostenibilità per le aree alpine e, di conseguenza, per le comunità locali. Queste, infatti, hanno un ruolo centrale nella difesa del patrimonio naturale che, senza la loro presenza, rischia di essere abbandonato, fino al deterioramento o, comunque, di non essere gestito in modo adeguato, con conseguenze che vanno ben oltre le aree alpine. Diviene allora centrale, oltre alla direttrice ecologica e in vista di quella comunitaria, l’accezione economica, per definizione tesa alla gestione delle risorse per la generazione di risultati incrementali che garantiscano una condizione di sostentamento e di benessere. Naturalmente è imprescindibile il risvolto etico nell’amministrazione dei mezzi, anche perché questo – al di là delle ovvie implicazioni morali – si connette a doppio filo con l’aspetto strategico [Cortese 2022]: il consumo delle risorse fino all’esaurimento ne annulla il potenziale economico, rendendo manifesta l’insostenibilità – da ogni punto di vista – di un simile orientamento. Ecco perché occorre indirizzare la prospettiva economica verso la creazione di valore [Porter, Kramer 2011], come concetto più esteso e di maggiore impatto rispetto a quello – tipicamente più individuale, a beneficio di un numero ristretto di soggetti – di ricchezza. I nuovi modelli di business, che nelle aree alpine si osservano e si studiano per comprenderne i fattori costituenti, le combinazioni e il grado di replicabilità e di adattamento potenziali [Cantino, Cortese 2022], devono essere un attivatore – o un ri-attivatore – delle risorse che porti a opportunità nuove, concrete e capaci di innescare connessioni e filiere al di là di modelli e letture obsolete e antieconomiche dei territori.
La visione da adottare rispetto al common montano deve pertanto considerare nel senso più ampio il concetto di portatori di interesse, di stakeholder [Parmar et al. 2010; Freeman 1984], cioè tutti i soggetti – comunità locali, istituzioni, politica, attori economici, turisti, fruitori – che sono legati alla situazione dei territori alpini, in una prospettiva allargata e di inclusione, nella certezza che l’interesse per tali aree è collettivo e si configura sempre più come tema attuale e urgente. Un contributo del fondatore della Stakeholder Theory [Freeman et al. 2018] vede nell’empowerment una via privilegiata per la gestione dei beni comuni, soprattutto in situazioni di crisi: la crescita di potere, basata sulla consapevolezza del ruolo degli attori che ruotano attorno al common, è basilare per comprendere come conservare, innescare o rivitalizzare le risorse a disposizione. Solo in questo modo è possibile cogliere che il territorio, con il suo patrimonio locale, non può prescindere dalla coscienza dei diversi portatori di interesse rispetto al proprio compito e alla centralità di una relazione di collaborazione. La connessione equilibrata, fattiva e cooperativa tra stakeholder è la direzione da individuare e, anche dal punto di vista di una lettura e di una prospettiva da creare e trasmettere, è la risorsa capitale [Barney 2018; Freeman et al. 2021], imprescindibile, per garantire la durevolezza del bene comune.
Occorre allora formare e informare, creare conoscenza – capitale risorsa, per quanto intangibile – per sensibilizzare rispetto alla questione delle terre alte. La responsabilità e la parte principale sono naturalmente in capo alla comunità locale, alla cellula di società che abita l’area e che rappresenta il più ovvio e logico dei portatori di interesse che, tuttavia, non può essere considerata a sé, isolata, poiché connessa a un ben più ampio tessuto. Le risorse, in definitiva, sono legate alla comunità, che da un lato ne è custode per sé e per la più grande armonia generale e dall’altro ne è strettamente dipendente. Per entrambi i motivi ha il compito insostituibile di chiave di volta: senza la componente sociale, senza la coscienza della centralità delle reti relazionali, senza coloro che continuano ad “abitare i margini”, viene meno il perno della sostenibilità locale e si scardinano i pilastri della durevolezza di questi territori, che trascina con sé il più generale sbilanciamento dei territori di prossimità e, per estensione, di tutto l’ecosistema.
Comunità, patrimonio e paesaggio sono gli elementi con cui si devono confrontare le progettazioni di intervento che riguardano le aree decentrate, interne, marginali e in abbandono, le quali si presentano come contesti di sviluppo di nuove strategie di resilienza. Da qualche anno si registra una crescente assegnazione di valore a questi territori in termini di rigenerazione, ripopolamento, cura dell’ambiente, sperimentazione di nuove forme dell’abitare. Si tratta sostanzialmente di spazi “vuoti” da potenziare, sviluppare, rendere produttivi con processi creativi responsabili e sostenibili e per i quali la cultura diventa la risorsa imprescindibile.
In più occasioni ho avuto modo di ritornare su quel massivo processo di deterritorializzazione, conseguenza dell’esodo dalle campagne e della fuga massiccia dai campi verso le aree industriali e urbane che inizia negli anni Cinquanta del secolo scorso, che innesca un lento ma inesorabile processo di degrado ambientale, sociale ed economico e un inevitabile e profondo cambiamento del rapporto tra popolazione e territorio, una rottura degli equilibri esistenti tra i luoghi e chi li abita [Magnaghi, 2020]. I piccoli centri iniziano a svuotarsi, in alcuni casi fino all’abbandono completo, in altri il degrado è parziale e vi restano per lo più abitanti anziani, incapaci di sostenere l’economia locale. Per cercare di invertire la rotta di tale processo di depauperamento nel 2003 in Italia si approva un disegno di legge [legge Realacci–Bocchino n.1942]4 che negli anni attiva molti progetti orientati verso lo sviluppo delle risorse inutilizzate presenti sul territorio e la valorizzazione delle potenzialità del territorio stesso, nel rispetto di esigenze e caratteristiche del contesto considerato e soprattutto in un’ottica di sostenibilità ambientale. Questa prospettiva si presenta particolarmente complessa «in località […] demograficamente povere e caratterizzate da popolazione prevalentemente anziana e ancor più l’affermazione ed il radicamento dei drasticamente nuovi modelli comportamentali e di rapporto con l’ambiente che caratterizzano l’operare nel quadro della sostenibilità» [Bravo 2017: 39].
Ma è soprattutto nelle aree ritenute marginali che si rende possibile elaborare strategie e interventi di riterritorializzazione che filtrano attraverso la cultura, qui intesa come strumento di un percorso accrescitivo, che genera stimoli e riflessioni che possono contribuire alla costruzione di una collettività più consapevole e come recupero e riattivazione di saperi e saper fare della tradizione locale, e che si concretizza nella rivitalizzazione di economie a base territoriale e nella crescita di sistemi di piccola impresa i quali valorizzano quanto proviene dalle culture produttive, che si misurano poi e si riverberano nella cultura dell’abitare.
Indubbiamente potenziale generatrice di difficoltà e contrasti dal punto di vista etnico, identitario, linguistico, economico, ambientale, questa rinnovata centralità del locale obbliga ad un ripensamento del ruolo del territorio, della sua cura e della sua valorizzazione [Magnaghi 2020], perché la progettazione culturale deve individuare e rendere fruibili i “beni comuni” attraverso una gestione condivisa tra amministratori locali e abitanti, così da valorizzare il patrimonio locale attraverso interventi generativi e partecipativi. Allo stesso tempo deve prendere avvio da un’oculata governance del territorio, fondata sulle risorse potenziali delle persone e dei luoghi e sulla valorizzazione di questi ultimi, sull’incisività delle loro peculiarità. Può essere allora utile riprendere il concetto di iconema – meglio un insieme di iconemi – che rappresenta l’impronta di un territorio, i caratteri distintivi del paesaggio, ma anche l’organizzazione e la maniera degli attori sociali di ordinarsi in esso, in cui la popolazione locale si riconosce e che sono importanti per la costruzione del suo senso di appartenenza e del significato stesso di paesaggio [Turri 1998]. Un progetto potrà risultare quindi più proficuo nella misura in cui farà riferimento al paesaggio e ai suoi iconemi.
Va da sé che pratiche di innovazione a sfondo culturale e processi creativi migliorativi non possono rinunciare al confronto con la popolazione locale che ha e fa esperienza dei luoghi. Come accennato nel primo paragrafo di questo contributo, la comunità rivendica il proprio ruolo circa il destino dei territori e mostra una ritrovata vocazione all’attivismo: sostiene azioni comuni di sviluppo e progetti di ricerca; si inserisce nella rete di assistenza territoriale e nei comitati per la gestione di risorse ambientali; promuove momenti di socialità; tutela e salvaguarda il patrimonio culturale. In questa – che pare - una inedita dimensione innovativa, la comunità sembra ribadire il suo legame con il territorio e a riferirsi ad una fondamentale e coinvolgente modalità di aggregazione degli individui. È soprattutto il modo di produzione di cultura che si discosta dalle pratiche tradizionali della sua conservazione e valorizzazione: aspetti della memoria locale, elementi della quotidianità e la ritualità del passato sono – e sono stati – scelti, rivitalizzati e posti al centro di una creazione di valore con il preciso obiettivo di veicolare per loro tramite la specificità locale, di trasmettere all’esterno della comunità un’immagine di unicità della culturale locale.
Ovviamente l’eterogeneità dei contesti marginali non consente di applicare ovunque le stesse modalità di intervento. Per elaborare progetti efficaci e meglio orientare la loro applicazione, cogliendo il suggerimento della SNAI (Strategia Nazionale per le Aree Interne), si potrebbero innanzitutto indagare le opportunità dei residenti di esercitare a pieno i propri diritti di cittadinanza (www.agenziacoesione.gov.it/strategia-nazionale-aree-interne/) e quindi prendere atto delle “mancanze” in termini di accesso alla cultura e ai servizi essenziali, che di fatto definiscono la marginalità dei luoghi. Ribadisco che proprio in questi scenari, in questi spazi “vuoti” è possibile impostare politiche territoriali opportune, effettivamente orientate ai reali bisogni degli abitanti, e che promuovono modi creativi di porsi nei confronti del luogo per quanto riguarda l’abitare, il fare impresa, l’utilizzo delle risorse locali e la fruizione ambientale, che rappresentano opportunità di sviluppo migliorativo. Questi “vuoti”, come ormai sappiamo [Viazzo, Zanini 2014], sono essenziali, «come può, infatti, una società programmare il proprio presente e progettare il proprio futuro senza avere degli spazi sulla cui disponibilità a poter contare per nuove prospettive, nuove opportunità, nuovi usi?» [Scaramellini 2016: 34]. Già circa vent’anni fa Cognard [2006] osservava che il fenomeno dello spopolamento paradossalmente origina circostanze feconde, i presupposti per attuare pratiche innovative, favorendo altresì – grazie alla “disponibilità” di vuoti demografici e sociali – il ripopolamento e il rilancio economico. In questo interstizio di agency culturale convivono in maniera quasi illogica abbandono e recupero, impoverimento e creatività: sottolinea Remotti che «la creatività presuppone distruttività: i soggetti non avrebbero modo di esprimere la creatività, se lacerazioni abbastanza consistenti non determinassero uno spazio disponibile» [2011: 292].
Senza entrare nel merito del dibattito relativo alla retorica dei borghi5, intorno ai quali si è sviluppata un’enfasi che insiste sui valori genuini che mantengono e trasmettono, sulla sostenibilità ambientale, economica e socio-culturale che perseguono, è opportuno però essere consapevoli che le potenzialità e la virtualità dei piccoli centri si realizzano attraverso la riqualificazione e la rigenerazione, la tutela culturale e paesaggistica e la loro valorizzazione. Una feconda progettazione culturale impone di soppesare le ricadute esterne positive per la comunità e di tenere sotto controllo i costanti e – a volte improvvisi – cambiamenti ed eventuali emergenze territoriali, prevedendone i rischi. Una pericolosa incognita è strettamente legata al fascino e all’eccessiva attrazione esercitata dal turismo in questi siti, molti dei quali negli ultimi anni hanno promosso quelli di tipo sostenibile, responsabile, nature-based, ecologico, alternativo che, oltre a non generare ricadute negative, influiscono positivamente sul benessere locale e naturale, sulla dimensione lavorativa, sulle condizioni di vita, e prevedono il coinvolgimento attivo delle comunità. Ma attivare pratiche sostenibili significa confrontarsi con le macrostrategie a livello sovranazionale e le decisioni esercitate a livello individuale [Sbardella 2019]. E poi c’è la questione relativa alle responsabilità locali: molto acutamente Simonicca evidenziato che la nozione di “località” non può essere sempre intesa come sinonimo di garanzia di equità sociale o di salvaguardia ambientale, alcune comunità sono «sorde ai problemi ecologici» oppure semplicemente dirette verso un’ottica di produttivismo, danneggiando l’ambiente circostante: «il timone conoscitivo e di governance del turismo va continuamente aggiornato e non trova soluzioni lineari» [2013: 6]. Le criticità relative alla messa in atto di pratiche di turismo sostenibili possono essere schematicamente riassunte come segue: non si ha garanzia che i turisti che si autodefiniscono responsabili siano effettivamente consapevoli di ciò che è sostenibile; c’è una contraddizione tra il messaggio che teoricamente veicolano le esperienze di viaggio sostenibili e ciò che queste di fatto sono, cioè permanenze di breve durata e che non consentono concretamente il contatto con le comunità locali, se non per un breve lasso temporale; chi o che cosa stabilisce come è possibile fruire correttamente dell’esperienza turistica?
Affinché il turismo nelle aree qui di nostro interesse sia realmente sostenibile è fondamentale il coinvolgimento diretto della popolazione locale, consapevole delle proprie esigenze, come pure delle proprie potenzialità, che concorre alla realizzazione di una gestione sostenibile dell’ambiente e delle risorse naturali, favorendo così lo sviluppo locale, e garantendosi dei benefici. Direttive significative in tal senso possono provenire dal community-based tourism, concetto nato nei paesi del sud del mondo allo scopo di incentivare la partecipazione degli abitanti del posto, troppo spesso esclusi dai grandi tour operator stranieri nella gestione del loro territorio e nella progettazione turistica. È possibile rendere operativo tale modello in territori a noi prossimi affinché diventino destinazioni turistiche responsabili e sostenibili, in quanto:
1) problematiche locali hanno un’influenza diretta sull’esperienza turistica (comunità locali che beneficiano dell’attività turistica sono maggiormente ben disposte nei confronti dei turisti); 2) l’immagine dell’offerta turistica è basata su asset locali valorizzabili grazie alla collaborazione tra gli attori della comunità; 3) il coinvolgimento degli attori pubblici consente di proteggere l’ambiente naturale e la cultura del territorio come specifico prodotto turistico, incoraggiando al contempo maggiori redditi connessi all’attività turistica; 4) l’implementazione dello sviluppo socio-economico della comunità contribuisce alla sostenibilità e al supporto dei progetti turistici stessi su un più lungo periodo. [Spillare 2019: 68].
La ricerca di nuovi approcci sostenibili deve quindi concretizzarsi certamente nella salvaguardia ambientale e degli ecosistemi ma anche nella difesa del patrimonio storico-culturale, perché i territori sono custodi di valori culturali che diventano un elemento attrattivo significativo: tradizioni, feste, piatti tipici. Il turismo nelle aree interne deve quindi «essere considerato non solo come un’impresa che produce e distribuisce ricchezza, ma anche come canale fondamentale per mantenere viva e trasmettere la tradizione culturale» [Maeran 2019: 694].
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1 Gli autori hanno elaborato in comune l’articolazione del testo, del quale condividono la responsabilità e la stesura della sezione introduttiva. Per quanto concerne invece la stesura delle sezioni successive, a Roberta Clara Zanini va attribuito il paragrafo 1, a Damiano Cortese il 2, a Laura Bonato il 3.
2 Il progetto Prin – Abitare i margini oggi. Etnografia di paesi in Italia (codice 2020EXKCY7, P.I. Daniele Parbuono) vede coinvolte le unità operative dell’Università degli Studi di Perugia, dell’Università degli Studi di Torino, dell’Università degli Studi di Siena, della Sapienza Università di Roma e dell’Università degli Studi della Basilicata.
3 Si tratta delle località piemontesi di Formazza (Valle Ossola, VCO), Salbertrand (Valle Susa, TO), Sant’Anna di Valdieri (Valle Gesso, CN) e della valdostana Morgex.
4 La legge prevedeva “Misure per il sostegno e la valorizzazione dei comuni con popolazione pari o inferiore a 5000 abitanti”, che comprendevano agevolazioni economiche e fiscali, incentivi per il recupero del patrimonio edilizio e l’avvio di attività commerciali, per la scuola e la formazione. I progetti avviati in tale ambito sono – e sono stati finalizzati alla valorizzazione e al recupero di borghi e frazioni attraverso la creazione di una rete di realtà turistico-residenziali e distretti produttivi, il recupero dei patrimoni storico-architettonici e ambientali e la riattivazione delle dinamiche socioeconomiche, da realizzarsi in collaborazione con le istituzioni locali.
5 La questione è criticamente argomentata nel testo Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi (2022), curato da Barbera, Cersosimo e De Rossi.