I margini d’Italia, un altro futuro:
tra progettazione partecipata e rigenerazione culturale
The margins of Italy, another future: between participatory planning and cultural regeneration
Laura Bonato
Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne, Università di Torino
I contributi contenuti in questa sezione sono il parziale esito dei percorsi di ricerca avviati nell’ambito del progetto PRIN 2020, teso a documentare strategie innovative e di avanguardia dell’abitare prodotte in luoghi marginali, considerati spazi dove esplorare il presente e possibili scenari futuri. La ricerca etnografica, situata e intensiva, coinvolge cinque Unità di Ricerca – Università degli Studi di Perugia, Università degli Studi della Basilicata, Sapienza Università di Roma, Università degli Studi di Siena e Università degli Studi di Torino – e interessa 21 paesi di differenti aree d’Italia (nord, centro, sud e isole).
In linea con la tendenza degli ultimi anni dell’antropologia ad indagare la crescente assegnazione di valore ad aree interne, marginali e in abbandono, il PRIN Abitare i margini, oggi. Etnografie di paesi d’Italia si focalizza su luoghi di vita periferici e di piccole dimensioni, perché mostrano di essere contesti di sviluppo di nuove strategie di resilienza. È a queste zone che oggi è possibile guardare per elaborare strategie e interventi di riterritorializzazione che passano attraverso la cultura, motore di traino del cambiamento, verso la creazione di nuove forme dell’abitare che abbiano intrinseco il concetto di sostenibilità.
La letteratura scientifica concordemente individua nel secondo dopoguerra i prodromi della marginalità territoriale nel nostro Paese. Gli anni ’50 del secolo scorso coincidono con un profondo cambiamento del rapporto tra popolazione e territorio: i processi di industrializzazione e di urbanizzazione sconvolgono un paradigma storico-culturale, generando il decadimento delle condizioni economiche, sociali e culturali delle campagne e una fuga massiccia dai campi verso le aree industriali e urbane; inoltre disgregano le vecchie comunità locali e trasformano i loro modi di vita e di lavoro. E se fino a quel momento le campagne erano state produttive aree essenziali e in stretto rapporto con centri urbani di riferimento, questi cambiamenti determinano il venir meno di tale stato di continuità. Le città crescono e le aree rurali (zone collinari e montuose, campagne e paesi) affrontano – e patiscono – un significativo calo demografico, unitamente ad un modello di sviluppo che avvantaggia poli industriali e commerciali. Nelle località in cui la popolazione diminuisce gravemente scompaiono attività locali, figure professionali che possedevano competenze specifiche per l’economia agrosilvopastorale ma anche un processo di inculturazione che riguardava conoscenze e saperi di natura orale che avevano caratterizzato fino ad allora la società contadina. Anche la manutenzione del paesaggio naturale risulta compromessa: aumenta il rischio e la portata di dissesti idrogeologici – le cui conseguenze interessano anche le zone limitrofe – e il rimboschimento, quando si verifica spontaneamente, cioè occupando terreni precedentemente coltivati o pascoli abbandonati, genera notevoli problematiche ambientali1; si aggiunge inoltre il degrado infrastrutturale del patrimonio edilizio e un’inevitabile prolificazione di rovine.
L’abitabilità nelle aree interne è compromessa da oggettive difficoltà: l’impianto infrastrutturale e dei trasporti, il livello di welfare sociosanitario e scolastico. Alla fragilità demografica si unisce una sommessa voce di rappresentanza, con conseguente debole eco delle istanze comunitarie.
Se pur si definiscono per essere prive o povere di servizi, in condizioni di abbandono, nelle aree marginali è possibile rinnovare processi di responsabilità e cura dell’ambiente. Questi luoghi si propongono come una fucina di idee e azioni che comprendono rigenerazione dei territori, ripopolazione, sperimentazione di nuove forme di insediamento, nonostante nell’immaginario comune sia tuttora radicata l’idea di una cultura locale autoctona e quasi immobile. In realtà si rilevano ininterrottamente interazione, collaborazione e scambi tra le comunità locali con il contesto più ampio e con la città. E non a caso negli ultimi anni si registra un punto di svolta, una sorta di “rinascita” che vede l’interruzione di alcuni stereotipi e il verificarsi di un inatteso ritorno di interesse per la vita in queste zone, unitamente ad un importante cambiamento demografico e sociale con l’arrivo di nuovi abitanti, che determinano cambiamento e diventano promotori di resilienza tra le comunità locali2. Nelle aree marginali è possibile realizzare nuovi progetti di vita e queste zone si caricano così di nuovi significati che superano le azioni mirate al mero tornaconto economico, come quelle finalizzate al turismo stagionale di massa e alla mercificazione dei territori. Questo rinnovato rapporto tra gli abitanti e i territori a margine si delinea come una pratica che merita di essere indagata quale esempio di strategie politiche territoriali effettivamente orientate al bisogno degli abitanti, in cui la sfida più interessante è rappresentata dalla possibilità di intervento e dialogo tra differenti saperi disciplinari3.
1 Si segnalano, ad esempio, incendi o malattie parassitarie che possono diventare difficilmente gestibili a causa della fitta densità forestale; perdita dei prati d’altura per il pascolo; scomparsa dei terreni idonei alla coltivazione; crollo degli alberi durante le bufere; cambiamento dell’habitat e conseguente incremento della fauna selvatica, con possibili danni alle attività agricole e pastorali nella ricerca di cibo. Al contrario, il disboscamento pianificato ha effetti benefici, come il rallentamento dell’erosione del terreno, la ricostituzione della biodiversità, la riduzione dell’effetto serra.
2 Si consideri che non sempre i nuovi arrivi hanno un impatto positivo sulla comunità: in alcuni casi sono percepiti come una minaccia alla coesione sociale e alle identità territoriali.
3 In questa direzione sembra muoversi la Strategia Nazionale per le Aree Interne, una politica basata su un approccio place-based e di co-progettazione e che sovverte il modo di fare politiche di sviluppo locale: la sinergia Stato-Regione-territorio ha permesso di individuare aree-pilota colpite da fragilità demografica e crisi della rappresentanza politica.