Corpi in fuga tra pratiche di accoglienza, questioni di genere e processi di soggettivazione

Fleeing bodies among reception practices, gender issues and processes of subjectivation

Eugenio Zito

Dipartimento di Scienze Sociali, Università degli Studi di Napoli Federico II



Indice

Bibliografia


Abstract

The article introduces a monographic section on to the theme of the complex intertwining of wars, gender and health in the experience of asylum seekers and refugees, starting from some ideas that emerged in a dedicated thematic session carried out as part of the 4th National Congress of the Italian Society of Medical Anthropology (SIAM). In the text, after having underlined the importance of an anthropological analysis of contemporary wars, the author focuses, according to a critical and gender perspective, and starting from the discussion on the ethnographies that make up the monograph, on the problems, including those of health, of people fleeing war conflicts and violence, wounded in the body and traumatized, on which global welfare policies are exercised, with a specific focus on women.

Keywords: body; gender; war; refuge; health.


Questa sezione monografica intitolata “Guerre, genere e salute. Etnografie tra richiedenti asilo e rifugiati” che mi accingo a introdurre nasce originariamente dal lavoro pensato e svolto con Gianfranca Ranisio1 nell’organizzazione della Sessione “L’altro lato della guerra: corpi, genere e salute nell’esperienza di profughi, rifugiati e richiedenti asilo”, presentata al 4° Convegno Nazionale della Società Italiana di Antropologia Medica (SIAM) “Fini del mondo, fine dei mondi. Re-immaginare le comunità”, tenutosi a Napoli nel 2023, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II e con il patrocinio della Fondazione Alessandro e Tullio Seppilli. In tale Sessione tematica è stato dato ampio spazio a molti interventi che non solo trattassero da diverse angolature le questioni scelte, ma che sollecitassero anche, attivamente, un vivace dibattito antropologico e riflessioni critiche specifiche intorno ad esse. In questa parte monografica di EtnoAntropologia sono inseriti cinque contributi elaborati a partire da alcune delle relazioni presentate, e quindi dalle questioni principali e dai temi emersi al Convegno. Tali contributi etnografici possono rendere conto solo parzialmente dell’ampiezza delle problematiche introdotte e della ricchezza della discussione successiva su un ambito come quello relativo all’intreccio tra guerre, genere e salute nell’esperienza di richiedenti asilo e rifugiati.

Per cominciare è utile sottolineare che ai fini di un’analisi antropologica relativa all’impatto di una guerra e alle sue durature implicazioni diventa necessario mettere al centro le vittime con le loro storie, i corpi danneggiati e le vulnerabilità [Butler 2018], ma anche, per i sopravvissuti, la necessità di fuga dai luoghi di conflitto, spesso unica possibile alternativa, considerando innanzitutto le perdite, il dolore e la distruzione che ne consegue. Propaganda bellica e retorica militare lavorano, invece, per nascondere e strumentalizzare il dolore attraverso quelle che Butler [2009] definisce Frames of War, cornici che vanno decostruite per capire in profondità tale esperienza e valutarne gli effetti transgenerazionali, non solo in termini di danni economici, ma anche di produzione di una cultura dell’odio e di conseguenze sulla salute collettiva. Infatti la ricostruzione di strutture e servizi sanitari distrutti da guerre può richiedere molti anni prima di ritornare ai precedenti livelli di funzionamento, con la conseguenza di danneggiare in modo irreparabile la salute futura delle persone che vivono in un’area colpita da eventi bellici. I conflitti armati smettono di “uccidere” molto tempo dopo l’effettivo momento della loro conclusione [Fateh-Moghadam 2023], perché l’esperienza stessa della guerra, nella sua pervasività, comporta ingenti implicazioni a lungo termine sulle persone colpite e sui relativi contesti. Si tratta di considerare un complesso insieme di fenomeni che dagli esiti sulla salute fisica e psicologica [Beneduce 2008, 2010] per l’uso delle armi, arriva alla malnutrizione e diffusione di virus e batteri con possibili epidemie, e include la sospensione delle cure di base e preventive, l’inquinamento, la sicurezza dei territori, fino all’uso strutturale della violenza [Re 2024].

Tutto ciò appare ancora più drammatico se si considera che le guerre contemporanee, attive in diverse parti del mondo, si configurano, sempre più, come senza regole, perché coinvolgono pesantemente i civili, con alcune specificità connesse, per esempio, all’uso di sofisticate tecnologie e dei social media [Gordon, Perugini 2020]. In questo modo la massiccia diffusione di dettagliate e strazianti immagini dei conflitti in corso ci riporta ad ampie distruzioni di spazi urbani e infrastrutture varie, con particolare riguardo per quelle deputate alla vita, entro complesse dinamiche biopolitiche e necropolitiche in cui si intrecciano forme di violenza strutturale con altre reattive. Si assiste così, frequentemente, come nel caso delle vicine guerre in corso tra Russia-Ucraina e Israele-Palestina, ma anche dei tanti altri sanguinosi conflitti più lontani in America Latina, Asia e Africa, a stragi umane e alla distruzione di città, con il danneggiamento di abitazioni, servizi e infrastrutture sociali, ma anche di ospedali e strutture sanitarie, con costi elevati sulla socialità e la salute di chi sopravvive, e con conseguenze sull’ambiente. A complicare il quadro si aggiunge il problema della violenza “etnica” [Fabietti 2013] e quello di guerre percepite e definite “primitive” e “tribali” [Jourdan 2010], dunque depoliticizzate e naturalizzate [Van Aken 2005], per le quali pure si assiste a uno spaventoso aumento di vittime civili e di distruzioni varie, con il conseguente massiccio esodo di tanti esseri umani sopravvissuti.

Le guerre contemporanee, infatti, tra le numerose e varie tragiche conseguenze, hanno anche quella di creare un’umanità in fuga, ferita nel corpo e traumatizzata, spesso privata della propria soggettività, sulla quale si eserciteranno le politiche assistenziali globali [Fassin 2007, 2011; Fassin, Pandolfi 2010]. Le categorie di richiedenti asilo e rifugiati sono così oggetto di “cura” e “controllo” da parte degli interventi umanitari e delle politiche nazionali e sovranazionali [Pinelli 2019; Sorgoni 2022]. Privati della propria voce [Pinelli 2013] ed espropriati di una piena dimensione storica, politica e sociale, i rifugiati, ridotti a “mera vita fisica” [Fassin 2005], “nuda vita” [Agamben 1995; Benjamin 2010], diventano “corpi da salvare” nella loro sofferenza fisica attraverso l’aiuto umanitario [Van Aken 2005]. Inoltre nella prospettiva biopolitica [Fassin 2001; Foucault 2015], quella relativa all’analisi dell’ambito di vita sul quale si esercita il controllo del potere, la guerra è strumento di ordine sociale, meccanismo che provoca rotture e stabilisce relazioni di potere diseguali. Il potere politico, in quest’ottica, ha il ruolo di iscrivere il rapporto di forze nelle istituzioni, nelle diseguaglianze economiche e chiaramente nei corpi dell’umanità coinvolta. Il paradosso è che il “paradigma dell’umanitario” [Barnett, Weiss 2008], nel suo tentativo di riconoscere gli altri in fuga, attraverso le categorie dell’assistenza e dell’aiuto, conduce spesso a un mancato loro effettivo riconoscimento, invece, in qualità di donne e uomini, riducendoli, nell’ambito di specifiche “relazioni d’aiuto”, genericamente a umanità da “salvare” e “segregare” nei campi. D’altro canto, come è stato evidenziato,

la questione dell’aiuto e delle sue forme di potere rimanda anche ai tentativi di civilizzazione e medicalizzazione dell’altro durante l’esperienza coloniale, alla storia della pianificazione, allo sviluppo come missione pedagogica e di restauro auto-evidente e universale di un’“umanità” moderna» [Van Aken 2005, 8].

Il pieno riconoscimento delle altre e degli altri costituisce invece un elemento imprescindibile, considerando che il corpo è un’“arena politica” [Pandolfi 2003], è “il teatro simbolico delle violenze globalizzate” [Appadurai 1999], «mentre i diritti umani sempre più invocati appartengono a questi corpi, ma non ai soggetti di questi corpi» [Van Aken 2005, 10].

A rendere ancora più complesso il quadro appare utile ricordare che i corpi di richiedenti asilo e rifugiati, da “governare” secondo le politiche umanitarie, sono anche portatori di un tempo complesso e dilatato, in parte fermi in un passato da cui non riescono a distaccarsi e che ha determinato quello che sono nel presente, allo stesso tempo bisognosi di proiettarsi in un futuro nuovo, dotati di una loro agency [Beneduce, Taliani 2021a, 2021b], nonostante le ferite e le vulnerabilità. La guerra ha modificato profondamente l’esperienza di se stessi, e in molti casi ha distrutto la loro relazione con il mondo, ha modificato i loro sistemi di appartenenza, ha colpito variamente la loro salute fisica e psichica [Beneduce 2008, 2010], segnando, spesso in modo altamente traumatico e indelebile, il loro corpo. Alcuni hanno alle spalle una storia sanitaria, acuita dalle difficoltà degli itinerari intrapresi, che si caratterizza per una frammentazione nei percorsi di cura, una dispersione dei suoi processi e che si differenzia a seconda del genere e dell’età, mostrando tutta la sua complessità e drammaticità proprio nei luoghi di arrivo. Altri hanno bisogno di interventi sanitari per riparare alle numerose e varie violenze e deprivazioni subite nei contesti di provenienza, ma, spesso, anche in quelli di transito e approdo.

In questo ambito, quella delle donne rifugiate, per esempio, rientra pienamente nella condizione prima enunciata di “vita da salvare” [Pinelli 2019]. A partire dalle riflessioni sulla prospettiva biopolitica è importante analizzare criticamente come l’intervento umanitario si rivolga verso categorie considerate particolarmente “vulnerabili”. Le donne, come ampiamente mostrato dalla critica femminista, rientrano in un immaginario che le rappresenta come soggetti fragili e da proteggere, in particolare se in stato di gravidanza o con bambini al seguito. Infatti, nei programmi degli interventi umanitari significativa rilevanza è rivolta alle pratiche di cura e assistenza alla maternità e all’infanzia o più in generale alla salute femminile. Tuttavia, queste pratiche, che si accompagnano a processi di etnicizzazione e talvolta razzializzazione delle migranti [Quagliariello 2021], si basano anche su forme di controllo secondo una prassi di pervasività, in particolare quando a chiedere asilo sono donne provenienti dal Sud del mondo, vittime di conflitti dimenticati e considerate in posizione di subalternità culturale.

Il genere, dunque, svolge un ruolo decisivo nella comprensione dei processi attraverso cui i rifugiati vengono “creati”, così come le relazioni diverse che donne e uomini hanno con lo Stato e le istituzioni, con lo spazio pubblico dei Paesi di provenienza, transito e approdo, e come tale costituisce ancora un’utile chiave per un’antropologia critica. Secondo Pinelli [2017, 2019] fondamentale risulta innanzitutto la possibilità di riflettere attentamente sullo scarto che c’è fra la rappresentazione delle richiedenti asilo come “vittime perfette”, figure destoricizzate e viste come impotenti, fragili e sofferenti e il loro riconoscimento, invece, come “corpo politico” di donne reali considerate nella loro piena dimensione sociale. Per autrici come Harrell-Bond, Voutira [1992] e Malkki [1995a, 1995b, 1996], ai fini di un’adeguata decostruzione critica, è stato necessario partire dalla Convenzione di Ginevra (1951) per mettere in evidenza come esperienze di donne e strutture di genere non erano state considerate [Strathern 1985; Indra 1985, 1987; Pittaway, Bartolomei 2002], nonostante l’impatto delle politiche di assistenza sulle vite delle persone, con la ripetizione di stereotipi sessuali e di genere e la tendenza ad alimentare pericolosi processi d’impoverimento, dipendenza e de-storicizzazione dei beneficiari [Harrell-Bond 1986]. Inoltre, ancora oggi, il riconoscimento della violenza sulle donne come forma di oppressione, agita in relazioni d’intimità, o più in generale il riconoscimento della violazione del corpo delle donne ai sensi della richiesta d’asilo, è una questione molto delicata e oggetto di ampio dibattito [Boiano 2014; Rigo 2016; Forina 2018, 2023].

È utile a questo punto ricordare che in tale prospettiva decostruttiva l’interesse etnografico per i rifugiati ha avuto come suo iniziale oggetto/luogo di studio proprio il campo, inteso come sistema entro cui analizzare politiche di controllo e intervento umanitario [Harrell-Bond 1986; Malkki 1995a]. Un’attenzione particolare è stata rivolta a quei processi di de-umanizzazione a cui erano sottoposti i rifugiati [Harrell-Bond 2005], con uno specifico focus della critica antropologica sui meccanismi di spoliazione della loro dimensione politica. Come ricorda Pinelli [2019] negli anni Novanta il sistema campo nei Paesi europei divenne terreno di ricerca etnografica con l’obiettivo di esplorare le forme della risposta politica alla presenza di richiedenti asilo e migranti sul territorio. Solo successivamente è stato poi possibile avviare anche un’analisi di genere dei campi, delle politiche umanitarie e della stessa popolazione rifugiata, con un’attenzione progressiva della critica femminista sulla questione delle donne. Ci si è concentrati così su quei modelli incorporati dalle istituzioni e politiche di aiuto che influivano profondamente sui percorsi di assistenza, riproducendo forti stereotipi legati al genere e alla cultura delle rifugiate. In proposito è stato evidenziato come sulla scena umanitaria le donne siano state rappresentate sempre più come “women and children” [Enloe 1993, 165], con una conseguente naturalizzazione non solo di esse stesse, ma anche delle loro relazioni sociali e d’aiuto. Le immagini di donne con bambini, sofferenti, remissive e impotenti, sono diventate nel tempo icone convenzionali per promuovere campagne umanitarie [Malkki 1996; Kapur 2002; Freise 2017] rivolte appunto a esse, più che agli uomini, a cui è stata invece maggiormente associata l’idea di clandestinità, rischio e pericolosità. Si è così messo in evidenza che considerare le rifugiate come entità da “proteggere e salvare” [Pinelli 2017], più che soggetti storicamente costruiti nelle sfere sociali e culturali di azione e appartenenza, è espressione di un processo attraverso cui politiche e pratiche umanitarie essenzializzano genere e cultura, dando luogo a relazioni di potere più che di protezione, con esiti paradossalmente negativi sulla loro salute [Ong 2005]. Spesso, proprio attraverso precisi immaginari di genere, “razza” e cultura, e rispetto alla complessa questione della violenza e del suo riconoscimento, tali donne sono diventate destinatarie, anche in funzione di concetti come sicurezza, potere e confini, di pratiche pedagogiche e modelli disciplinari.

La critica antropologica, femminista e postcoloniale, ha così sostenuto la necessità di guardare con una più ampia ottica intersezionale [Crenshaw 1991; Davis 2018] alle categorie di genere, “razza”, classe, cultura, religione, e così via, per un’analisi finalizzata a rimettere al centro le donne reali [Ticktin 2016; Turner 2017], approfondendo la violenza sia dei luoghi di partenza segnati da anni di guerre, sia di quelli di transito e approdo, che paradossalmente, attraverso politiche securitarie e regimi umanitari, riproducono ulteriori sofferenze e oppressione e quindi malattie [Farmer 2004].

La recente guerra Russia-Ucraina, tutt’ora in corso, apre differenti scenari negli interventi umanitari, perché, per esempio, a essere nelle condizioni di rifugiate sono in questo caso donne europee con cui si condividono in parte sistemi di valori e in certi casi un analogo modo di vivere e di gestire la propria salute.

Proprio relativamente all’impatto in termini di salute, è importante ricordare che la violenza spesso radicale che emerge nelle storie di rifugiate e richiedenti asilo finisce per imprimersi nel loro corpo dando luogo a diverse forme di malattia, sofferenza fisica e psicologica, spesso accompagnate da segni indelebili, visibili o meno, ma comunque in grado di rievocare ricordi di vicende traumatiche e dolorose [Beneduce 2008, 2010]. Nelle strutture di accoglienza, poi, dove emergono incomprensioni comunicative e culturali, i corpi delle richiedenti asilo sono oggetto dell’esercizio del biopotere con pratiche di controllo che spesso interessano proprio l’area della cura e della salute, che possono essere vissute con senso di violazione [Pinelli 2017] e rimandano a livelli sistemici e simbolici di violenza [Farmer 2004; Quaranta 2012; Pinelli 2019], sommandosi così alle altre forme di violenza legate alle guerre nei Paesi di origine o alle persecuzioni subite lungo la rotta migratoria.

È evidente a questo punto che sulle traiettorie di cura di donne e uomini, richiedenti asilo e rifugiati, che spesso diventano “malati fuori luogo” [Quaranta, Ricca 2012], incidono significativamente gli iter previsti nell’ambito dei sistemi di accoglienza dei Paesi di approdo. Questi, attraverso attività di mediazione con i servizi del territorio, possono fornire assistenza innanzitutto nell’ambito della salute, i cui esiti risultano tuttavia strettamente connessi con i diversi livelli in cui il sistema è articolato e con le competenze degli operatori coinvolti, entro differenziati quadri normativi che condizionano in modo determinante. Le politiche rivolte alle richiedenti asilo in particolare, sostenute da un immaginario e da una pedagogia educativa che le considera prevalentemente come soggetti vulnerabili e da emancipare, prive di agency, sono sature di ambiguità e contraddizioni; declinate tra compassione e controllo [Pinelli 2019] incidono pesantemente anche sui processi di cura delle stesse sul piano della salute. In merito a tale aspetto, più nello specifico, se da un lato, per esempio, il Piano di azione per la Salute dei Rifugiati e dei Migranti nella Regione Europea dell’OMS (2023-2030) rappresenta una cornice utile per orientare correttamente le iniziative in termini di tutela della salute di queste persone nei Paesi membri, dall’altro lato però non può garantirne l’effettiva adozione a causa delle specifiche volontà dei governi nazionali, alcuni dei quali hanno invece mostrato politiche di chiusura. In proposito, Quaranta [2014] ci ricorda che la salute globale resta spesso un concetto utopico, un ideale globale staccato dalle realtà locali [Whiteford, Manderson 2000], perché se è vero che è considerato bene comune nelle retoriche delle agenzie internazionali, è spesso però assente nelle politiche reali, considerando che la cornice istituzionale che regola il diritto stesso alla salute è quella degli Stati nazionali, con la conseguenza di aumentare anche per questa via le ineguaglianze in tale ambito [Schirripa 2014].

Più in generale, in relazione a queste molteplici questioni, il contributo dello sguardo antropologico, come si proverà a mostrare con i cinque saggi di ricerca che compongono questo monografico, firmati rispettivamente da Alessandro Forina, Silvia Pitzalis, Milena Greco, Tamara Mykhaylyak e Mariaelena De Stefano, può essere particolarmente utile, consentendo di leggere criticamente, attraverso l’etnografia [Pennacini 2013; Matera 2020], alcune delle complesse dinamiche cui si è fatto cenno, dal punto di vista di donne e uomini, richiedenti asilo e rifugiati, e così di guardare ai loro processi di soggettivazione. L’obiettivo è quello di tentare di comprendere l’esperienza umana oltre la dimensione privata, e attraverso questa connettere in un’ottica di complessità il genere con soggettività, corporeità, salute, sofferenza, vulnerabilità e potere. L’etnografia ha, infatti, una significativa potenzialità nel rendere esplicite le politiche esercitate sui corpi e attraverso i corpi, evidenziando le modalità con cui esse agiscono sulla vita umana [Ong 2012]. D’altro canto un’ampia letteratura antropologica ha già messo da tempo in evidenza quanto la vita sia un oggetto politico [Das 2011], mostrando come potere e controllo vengano esercitati sull’umanità oltre che con codici e leggi, anche con discorsi, pratiche e tecnologie con cui lo Stato governa.

In relazione a tali dinamiche di potere e controllo dello Stato, nel suo contributo “Rifugio e genere: il ruolo della credibilità nella narrazione delle donne richiedenti asilo”, Alessandro Forina esamina criticamente una tematica molto sensibile come quella della correlazione tra asilo e relazioni di genere, con particolare attenzione al ruolo cruciale della credibilità nella narrazione delle richiedenti asilo, concentrando l’attenzione su una prospettiva antropologica femminista. Forina, partendo dal suo ampio lavoro di campo svolto in Spagna, a Madrid, tra il 2014 e il 2023, caratterizzato da una lunga e intensa fase di osservazione partecipante, con raccolta di interviste a richiedenti asilo, uomini e donne, di varie nazionalità, a personale di enti governativi e organizzazioni non governative, ad attivisti impegnati nella difesa dei diritti di migrati e rifugiati e infine con anche un’analisi di documenti legali e amministrativi, presenta gli interessanti risultati di una ricerca etnografica condotta sulla rilevanza che la credibilità assume nelle possibilità di accedere alla protezione internazionale. In particolare la parte di analisi su cui ci si concentra nel saggio, a partire dalle esperienze di giuriste specializzate in diritto d’asilo, operatrici umanitarie e funzionarie, mira a rivelare le dinamiche sottostanti la valutazione delle narrazioni delle richiedenti asilo, esplorando come la credibilità venga costruita, interpretata e utilizzata nelle decisioni relative alla concessione della protezione internazionale. Attraverso la ricerca si evidenzia quanto il racconto delle proprie esperienze si configuri spesso come un’arena di lotta per l’affermazione della propria credibilità e per il riconoscimento della propria sofferenza. Inoltre la complessità nell’esprimere e raccontare tali esperienze traumatiche è intrinseca alla difficoltà di recuperare in modo coerente e ordinato i ricordi, una sfida ulteriormente accentuata quando la rievocazione avviene in un contesto culturale e simbolico estraneo al proprio. Più in dettaglio l’analisi etnografica svolta da Forina evidenzia l’importanza di comprendere il racconto nel contesto del continuum della violenza sessuale che incide sulla capacità delle richiedenti asilo di articolare una narrazione lineare, coerente e credibile. Il colloquio di asilo si configura, così, come un momento cruciale che può assumere connotazioni traumatiche per le richiedenti, obbligandole a rivivere eventi drammatici del loro passato secondo una precisa cronologia. Forina ci ricorda infatti che, oltre alle forme di persecuzione riconosciute dalla Convenzione di Ginevra (1951), le donne che cercano asilo si trovano spesso a subire specifiche violenze di genere, tra cui matrimoni forzati, stupri e mutilazioni genitali. La difficoltà risiede quindi non solo nel ricordare e verbalizzare queste esperienze, ma anche nel dare loro un senso, nel rendere il racconto credibile per chi lo valuta, nell’impossibilità, spesso, di fornire prove tangibili a sostegno delle persecuzioni subite. D’altro canto la credibilità emerge come il criterio più importante per ottenere asilo, rappresentando l’unico mezzo per legittimare le loro esperienze di oppressione. In conclusione, se è vero che la letteratura sulla valutazione della credibilità è cresciuta nel tempo con contributi significativi, tuttavia l’indagine etnografica che si focalizza specificamente sulla credibilità delle richiedenti asilo resta comunque limitata, nonostante alcune notevoli eccezioni. Questa lacuna evidenzia la necessità, come nel caso della ricerca di Forina, di aumentare gli studi che esaminano più da vicino le persecuzioni basate sul genere e il loro impatto sulla valutazione delle domande di asilo.

Per restare sul complesso crinale della credibilità, nel suo contributo “‘Corpi indocili’, ‘storie eccedenti’. Violenza, genere, asilo, tra processi di assoggettamento, ri-appropriazione e resistenza”, Silvia Pitzalis esplora il tema delle violenze subite da donne richiedenti asilo e rifugiate all’interno del sistema di asilo, concentrandosi, in particolare, sulle interazioni con gli attori istituzionali responsabili della loro cura e gestione. Tali esperienze, intrecciando gli assi del genere, dell’appartenenza culturale, del colore della pelle, dello status sociale e giuridico, si inseriscono lungo un continuum di violenza che, dagli Stati di origine ai Paesi di transito, continua a segnare la vita di queste donne anche in contesti di “accoglienza”, amplificando condizioni di sofferenza, dolore, ingiustizia e spesso producendo malattia. Attraverso l’esame di un singolo caso di studio, la drammatica vicenda di Giselle, una giovane richiedente asilo proveniente da un Paese dell’Africa Subsahariana, l’obiettivo di Pitzalis è di riflettere criticamente sulla violenza nei contesti di arrivo, facendo luce sui meccanismi di governo e controllo del corpo e sulle pratiche di acculturazione prevalenti in tali contesti. Questi meccanismi perpetuano una nozione preconcetta, sessuata e razzializzata di “vere donne rifugiate”, dipingendole costantemente, entro una cultura istituzionale segnata da stereotipi, come vittime passive, impotenti, prive di agency e come tali da “salvare”. Attraverso l’esperienza di Giselle, Pitzalis mostra, però, anche i modi in cui richiedenti asilo e rifugiate reagiscono a tali forme di violenza, attuando pratiche di riappropriazione e rivendicazione della propria storia, del proprio corpo e della propria persona, escogitando modi di resistenza peculiari. In particolare l’etnografia sulla quale si basano le riflessioni proposte dall’autrice si compone di due fasi: la prima riguarda un’esperienza lavorativa come antropologa in un progetto FAMI per la presa in carico del disagio psicosociale tra richiedenti e titolari di protezione in una città del Centro-Nord d’Italia; la seconda attiene a una ricerca condotta nella stessa città, finalizzata a studiare l’iter legale di richiesta di asilo dal punto di vista degli operatori del diritto. Tale doppio posizionamento come professionista e come ricercatrice, fornisce all’autrice un punto di vista privilegiato dal quale guardare alle relazioni tra i diversi attori implicati, dando significativa profondità etnografica all’analisi. Nello specifico l’interazione sinergica tra competenze professionali e di ricerca fornisce le basi per un’analisi critica del complesso legame tra violenza, genere e asilo. Da un punto di vista metodologico è utile sottolineare che la ricostruzione della storia di Giselle è frutto di un lungo e complesso lavoro di tessitura e ricomposizione dei racconti della donna durante i colloqui di presa in carico psicosociale e legale e nel corso di incontri informali, a cui si affiancano analisi di relazioni e certificazioni elaborate da operatrici dell’accoglienza, assistenti sociali, personale sanitario che hanno accompagnato Giselle lungo l’iter, ma anche lo studio di documenti legali. Infine, Pitzalis stessa chiarisce che la possibilità fornitale dall’etnografia di tornare più volte ad approfondire l’esperienza di Giselle le ha consentito di esplorare il suo vissuto su un piano storico-cronologico preciso, permettendole di comprendere il complesso rapporto della richiedente con le diverse strutture di potere nelle quali era inserita.

Restando sul tema dell’impatto della violenza, nel suo contributo “Percorsi di salute, maternità e agency fra rifugiate e richiedenti asilo somale a Napoli”, Milena Greco, partendo da una ricerca condotta tra donne somale richiedenti asilo e rifugiate in una grande città del Sud Italia come Napoli, riflette sulle ricadute di eventi traumatici, legati alla guerra civile, e più recentemente a gruppi terroristici islamici, su vita, salute e percorsi di maternità delle migranti. Tale ricerca di campo, iniziata nel 2016 e ancora in corso, ha previsto sia lunghe fasi di osservazione partecipante sia la raccolta di storie di vita e interviste in profondità. Queste attività di ricerca longitudinale hanno coinvolto le donne richiedenti asilo e rifugiate somale, ma anche assistenti sociali e mediatrici interculturali. Interviste e storie di vita raccolte mostrano come i percorsi di asilo e rifugio siano fortemente influenzati dalla trentennale instabilità della Somalia e dalla relativa disgregazione economica alla quale le donne incontrate si riferiscono con l’eloquente espressione di “guerra dimenticata”. L’autrice si concentra anche sui percorsi di cura e le traiettorie di agency, resilienza e resistenza, che consentono loro di ricostruire la propria vita in Italia, con particolare riferimento alle reti di genere e migratorie, nonché alle opportunità e ai progetti offerti dalle aree in cui arrivano. Più in particolare le storie e le vicende delle donne intervistate da Greco ci riportano direttamente a un universo di instabilità e sofferenza connesso alla dissoluzione politica, sociale ed economica di un Paese dilaniato dalla violenza. Quest’ultima si ripercuote su di loro come una sorta di apocalisse culturale rivissuta tramite la memoria, le parole, le esperienze che attraversano diverse generazioni di richiedenti asilo e rifugiate. La violenza radicale emersa nelle narrazioni finisce per incorporarsi nelle loro biografie dando luogo a forme di malessere fisico ed esistenziale, malattia e disagio psichico, in una parola somala l’jirro. Alle diverse forme di violenza subite, tuttavia, fa da contrappeso un’agency resiliente e resistente di queste donne. Attraverso le loro storie l’autrice ci mostra, poi, in che modo le violenze subite che si imprimono sui loro corpi e nei loro vissuti abbiano lasciato ferite indelebili, reali e simboliche, di cui non è facile parlare, perché troppo dolorose. Tali trascorsi traumatici si ripercuotono sullo stato di salute e sui percorsi di maternità di queste donne, con a volte la terribile esperienza della morte prematura di un figlio. Greco riporta tra le problematiche di salute più frequenti proprio quelle ginecologiche, provocate anche dagli abusi subiti e dall’infibulazione, ma anche gravi forme di disagio psicologico e psichiatrico. Particolarmente interessante per il discorso su percorsi di cura e resilienza delle richiedenti asilo e rifugiate somale risulta il significativo ruolo svolto dai network migratori femminili, che si intrecciano alle iniziative delle altre associazioni e agli iter previsti dal sistema di accoglienza. Tali reti di solidarietà femminile legano le migranti di prima generazione alle richiedenti asilo e rifugiate giunte più di recente in Italia, in virtù di una comune appartenenza, esplicandosi in un fitto intreccio di relazioni spesso di carattere transnazionale, offrendo sostegno per problematiche inerenti la salute e la maternità e svolgendo attività di mediazione informale con le strutture di accoglienza del territorio. Inoltre, viene dall’autrice fatto notare come tali network possano svolgere un ruolo fondamentale anche dinanzi alle contraddizioni del sistema di accoglienza, contrassegnato da pratiche di biopotere e sorveglianza. Alla forza di queste reti femminili comunitarie si ricollega poi la possibilità di ricostruire percorsi di vita e superare eventi violenti. Infatti Greco, interrogandosi sulle possibilità intrinseche alla maternità nel consentire alle donne di andare oltre le violenze subite per superarle con la nascita di un figlio, ci mostra come tale esperienza possa talvolta effettivamente costituire una possibilità di rinascita per esse, perché, seppure in assenza di diritti per la conciliazione di cura familiare e lavoro, consente comunque, e in modo creativo, di allontanare un passato altamente traumatico.

Restando nel contesto campano, nel suo contributo “Rifugiati ucraini a Napoli. Strategie di accoglienza, mediazione culturale e assistenza medica”, Tamara Mykhaylyak si confronta con il più grande esodo di rifugiati a cui l’Europa abbia assistito dalla Seconda Guerra Mondiale, quello successivo all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022. Nella prima parte del saggio l’autrice esamina i cambiamenti significativi nelle politiche europee di accoglienza dei rifugiati, con particolare attenzione all’attuazione della Direttiva n.55 del 2001 sulla protezione temporanea. Nella seconda parte si focalizza invece sulla comunità ucraina residente a Napoli, e sul sostegno da questa offerto ai tanti connazionali rifugiati in Campania. Attraverso un’analisi delle testimonianze di coloro che hanno agito come mediatori culturali durante la fase di emergenza vengono messe in luce e discusse alcune delle sfide che i rifugiati hanno affrontato anche in merito al mantenimento della loro salute. Pertanto sono sostanzialmente due i quesiti intorno ai quali Mykhaylyak organizza la sua ricerca: il primo riguarda il cambiamento delle politiche europee nell’ambito dell’accoglienza in risposta alle esigenze dei rifugiati ucraini; il secondo ha a che fare, invece, con il ruolo della comunità ucraina presente sul territorio napoletano nell’assistenza ai suoi connazionali in fuga. Da un punto di vista metodologico l’autrice chiarisce immediatamente che la sua attività di ricerca nasce da un’esperienza di volontaria svolta insieme alla comunità ucraina di Napoli e provincia, entro un ambito temporale circoscritto, nella sua prima fase da marzo ad aprile 2022, ma intenso, e che, di riflesso, la porta a sviluppare un’estesa attività di osservazione partecipante tra tanti arrivi di rifugiati e molte problematiche da gestire. Siamo nella circostanza di un campo di ricerca nato da un evento inaspettato e traumatico, che non poteva dunque seguire il percorso tradizionale di un’etnografia partecipativa in contesti di accoglienza. Non si è trattato pertanto di una modalità classica di stare sul campo, ma di un’esperienza complessa, lunga circa due mesi e molto intensa emotivamente, in cui l’osservazione estemporanea e non programmata è stata acquisita in una maniera informale e memorizzata sotto forma di brevi note, con un grande coinvolgimento personale, che si è mantenuto anche nelle fasi successive della ricerca, proprio per il duplice ruolo di Mykhaylyak, di volontaria e studiosa. Nel suo percorso di ricerca l’autrice, oltre all’esperienza di osservazione personale, ha ritenuto cruciale acquisire il punto di vista di altre persone coinvolte nell’accoglienza. Sono state così raccolte interviste in profondità con volontari ucraini, in prevalenza donne. La ricerca non solo ha permesso di riflettere sul loro ruolo centrale nella gestione dell’accoglienza, ma, attraverso le loro testimonianze, ha messo in luce molte problematiche relative alla salute dei rifugiati e dunque al loro accesso alle cure offerte dal Servizio Sanitario Nazionale. Quest’ultimo aspetto appare particolarmente rilevante proprio considerando che, a differenza di rifugiati provenienti da altri Paesi, gli Ucraini hanno ricevuto un’accoglienza completa che prevedeva la possibilità di usufruire rapidamente dell’assistenza sanitaria e hanno goduto di un generale atteggiamento di più estesa e diffusa benevola accoglienza, anche nell’opinione pubblica, per diverse ragioni che includono probabilmente, oltre il diverso condizionamento mediatico su di essi, anche la maggiore prossimità geografica e le somiglianze culturali tra l’Ucraina e l’Europa. Più in dettaglio, in merito alle questioni di genere, dalla ricerca emerge che sono state soprattutto donne e bambini a rappresentare la parte principale dei rifugiati ucraini arrivati a Napoli e in Italia, come anche in tutta l’Europa, a differenza di altre tipologie di rifugiati giunti invece prevalentemente in gruppi familiari completi. A lasciare l’Ucraina sono state donne di età, professione ed estrazione sociale diverse, provenienti non solo dalle regioni invase dai Russi, ma anche da quelle occidentali, più distanti dai combattimenti, ma comunque esposte, laddove i loro uomini, coinvolti nella difesa del Paese, sono stati impossibilitati a lasciarlo. A ciò fa da contraltare un prioritario ruolo femminile anche nel cruciale supporto fornito a Napoli e in Campania durante la loro prima accoglienza, come testimoniano le interviste raccolte, da cui emerge un encomio alle donne ucraine, già insediate da anni a Napoli e in Campania, per il loro altruismo e per la loro capacità di affrontare le sfide dell’accoglienza stessa con determinazione e fermezza. Mykhaylyak ci ricorda, inoltre, che l’accoglienza è stata resa ancora più difficile per l’emergenza Covid-19 e per le difficoltà di gestire i traumi psicologici e le patologie preesistenti dei rifugiati a causa della mancanza di documentazione medica. Nonostante tutte queste criticità è stato svolto un significativo lavoro di rete, in cui fra operatori e mediatori si è creata una sinergia che ha dimostrato l’importanza della comunicazione interculturale per un’assistenza appropriata, resa possibile anche attraverso strategie e tattiche di volta in volta elaborate per far fronte agli ostacoli.

Infine, nel suo contributo dal titolo “Indigesto. Soggettività migranti nel sistema italiano di seconda accoglienza” che chiude questo monografico, Elena De Stefano propone alcune utili riflessioni a partire da un’indagine etnografica svolta alla periferia di Napoli, focalizzata su un’unica testimonianza entro una dimensione locale ben delimitata, un avamposto privilegiato da cui osservare dinamiche più ampie. In esso, a partire dalle parole di un giovane richiedente asilo gambiano, l’autrice riflette sui meccanismi di produzione della soggettività migrante nel sistema di accoglienza e integrazione italiano. Di tale sistema, finemente composito e burocraticamente molto complesso, viene presa in considerazione l’articolazione della seconda accoglienza, rete preposta a fare da tramite ultimo tra il mondo che il migrante lascia dietro di sé, dopo aver affrontato un viaggio durissimo e spesso drammatico, e quello che lo aspetta. Figlia di una cultura della guerra, la creazione dei sistemi di accoglienza europei è il riflesso dei fenomeni di migrazione forzata, conseguenti ai conflitti mondiali, visibili e meno visibili, come nel caso di regimi governativi oppressivi e autoritari, da cui è altrettanto necessario fuggire. Dipinti, anche mediaticamente, come atomi in fuga da un universo fagocitante, i migranti lasciano il loro passato di incertezza e precarietà per abbracciarne la continuazione nei luoghi di approdo. In questo paesaggio devastato il posizionamento del sistema di seconda accoglienza è particolarmente ambivalente. Dal punto di vista formale il beneficiario che vi entra deve completare un progetto, temporalmente definito, e nel farlo, il sistema si auspica che egli acquisisca i rudimenti di base per portare al di fuori delle strutture di accoglienza gli strumenti adeguati a orientarsi nella realtà. Tale linearità, però, è molto meno marcata di quanto appaia alla lettura delle norme che ne regolano l’andamento. Minacciato continuamente dallo spettro della sua deportabilità, il migrante, mentre è parte del sistema, subisce un forte condizionamento in merito alla libera progettualità che dovrebbe caratterizzare questa fase del suo percorso [Altin, Sanò 2017]. Tutto in lui/lei è subordinato all’unica soggettività che gli è riconosciuta, quella dell’alterità, simboleggiata dal trattamento che viene riservato al suo corpo, da tenere dentro precisi confini. Non casualmente questa ricerca ha scelto come osservatorio una struttura di seconda accoglienza posta alla periferia di una grande metropoli come Napoli. Qui le storture della città, invece di sparire, acuiscono il loro portato di fragilità, e quotidianamente si costruisce e si rafforza un confine, ancora una volta inteso come il mezzo e il luogo di esercizio dei poteri biopolitici e disciplinanti dello Stato sui migranti, di cui la riconfigurazione della seconda accoglienza italiana, a seguito del disordine causato dal diffondersi del Covid-19, è un esempio. Ritratti dal dibattito pubblico come portatori di una perturbabilità sanitaria preoccupante, già prima del Covid, i migranti hanno subìto un doppio processo di disciplinamento durante la pandemia: come oggetti di razzismo istituzionale per i quali, nell’affollatissimo Sistema Sanitario Nazionale non c’è posto al di fuori dell’eccezionalità, essi sono stati i primi a doversi però sottoporre al vaccino, pena l’esclusione dal sistema di accoglienza e lavorativo. L’autrice ci ricorda poi che, dal 2020 ad oggi, lo scenario giuridico-legale di sfondo al sistema è mutato ancora. A guidare i frequenti cambiamenti nei decreti è sempre una logica che lega il riconoscimento della soggettività migrante a uno status politico da acquisire. Inoltre, anche la dimensione di genere è particolarmente impattante per l’espressione della loro identità. Lamin – lo pseudonimo sotto il quale si cela l’identità del testimone privilegiato della ricerca – è ancora in attesa dell’ufficialità del documento che gli permetterà di acquisire una valenza politica agli occhi dello Stato in cui risiede da più di otto anni. In questo tempo egli ha dovuto applicare una micro-resistenza quotidiana per contrastare la scissione scatenata dal suo situarsi “alla frontiera dell’essere e del non-essere sociali” [Bourdieu 1992], ma anche per liberarsi, nel formare la sua auto-rappresentazione, dai pregiudizi di genere che lo vorrebbero, in quanto uomo, violento e adepto della criminalità, offrendo la sua voce per disegnare, invece, un processo di costruzione identitaria peculiare.

In conclusione è utile ribadire che da questa variegata sezione monografica emerge un panorama ricco e articolato di questioni e problematiche, che può fornire un contributo al dibattito contemporaneo, non certo esaustivo rispetto al tema di guerre, genere e salute nell’esperienza di richiedenti asilo e rifugiati, che rimane un ambito ampio e complesso, oltre che molto attuale per quanto sta accadendo nel mondo, rispetto al quale è opportuno, dunque, continuare a produrre analisi e ricerche antropologiche che tengano insieme, in prospettiva critica, aspetti locali e globali con una costante attenzione all’umano e ai relativi processi di soggettivazione nel rispetto delle differenze, e alla tutela del benessere di tutte e tutti.

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  1. 1 A Gianfranca Ranisio vanno estesi ringraziamenti per il suo significativo contributo e con lei a tutti coloro che hanno animato con ricerche e riflessioni il dibattito durante la Sessione tematica del Convegno SIAM del 2023, offrendo diversi spunti di cui si è tenuto conto in questo testo. Si ringraziano altresì i revisori dei saggi di questo monografico per il prezioso apporto fornito, attraverso la loro attenta lettura critica, alla qualità dei testi qui pubblicati.