Vistose e vincenti migrazioni

Da una ricerca a un volume, a un documentario, a un museo

Impressive and successful migrations

From a research to a book, through a documentary up to a museum


Alberto Baldi

Dipartimento di Scienze Sociali, Università degli Studi di Napoli Federico II


Indice

Foto familiare e precinema quali paradigmatici e vistosi veicoli del successo del progetto migratorio

Emigranti che si fanno cineasti per meglio didascalizzare l’affermazione sociale d’oltre oceano, per renderla vera, inoppugnabile

Dalla pellicola al mattone

Esiti di un progetto in itinere, già raggiunti e da raggiungere

Migrazioni di successo

Presupposti scientifici del museo

Bibliografia


Abstract

Through a study of cases that we consider emblematic, cases found in Basilicata, the project we report on here concerns certain forms of representation of the migratory project where the photographic, and then above all cinematographic, image was deliberately chosen as the main instrument to give visibility to the results of working and professional experiences gained on American soil by certain enterprising Lucanians who decided to abandon their native land for an economic and social redemption to be attempted, overseas, in New York and Chicago. The project has generated a book, five documentaries and a museum currently being set up in Castelmezzano.

Keywords: museografia antropologica, fotografia familiare, documentaristica, emigrazione, esposizione digitale e interattiva



Il progetto di cui diamo qui di seguito notizia inerisce, attraverso uno studio di casi da noi ritenuti emblematici, casi rinvenuti in Basilicata, alcune forme di rappresentazione del progetto migratorio ove si elesse scientemente, deliberatamente l’immagine, fotografica ma poi soprattutto cinematografica, a strumento principale per mettere in forma, per dare visibilità agli esiti di esperienze lavorative e professionali maturate sul suolo americano da certuni intraprendenti lucani che decisero di abbandonare il suolo natio per un riscatto economico e sociale da tentare, oltre oceano, a New York e Chicago.

Le vicende sulle quali ci siamo concentrati, ricostruite innanzitutto sul piano storico e poi rilette in chiave antropologica, quale espressione di una rifondazione identitaria che affonda le sue radici in nuovi orizzonti ove l’emancipazione transita per l’assunzione di modelli urbani, industriali e consumistici, hanno i loro prodromi a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, consolidandosi poi e soprattutto nella prima metà del Novecento.

Foto familiare e precinema quali paradigmatici e vistosi veicoli del successo del progetto migratorio

Nelle procedure di avvicinamento ma pure di distanziamento che i processi migratori mettono sovente in atto la fotografia in primis ha sempre avuto un posto di rilievo nella loro stigmatizzazione. Un profluvio di immagini, nella gran parte ritratti, sin dalla seconda metà dell’Ottocento ha consentito di mantenere un contatto de visu tra chi rimaneva e chi partiva. Con tali foto l’emigrante rassicurava sulla buona salute dei suoi cari, su nuove nascite e dipartite, su comunioni e matrimoni. L’intento ultimo di codeste immagini era però quello di testimoniare di un’esistenza vissuta finalmente con mezzi dignitosi e decorosi talora esibendo la conquista di una ricchezza reale o scenograficamente inscenata negli atelier di fotografi d’oltreoceano1.

Chi dalle “Americhe” intendeva continuare a tessere un rapporto con i congiunti in Italia, affidava alla foto il compito di confezionare un’immagine attentamente definita di sé, che da un lato rinfocolava la sacralità dei legami familiari, ma dall’altro doveva attestare la bontà della scelta effettuata, quella, appunto, di emigrare, illustrandone ed evidenziandone gli esiti positivi. Foto degli interni di abitazioni, della “casa” come valore basilare e agognato, ritratti accanto ai benefit del progresso e ai simboli della modernità, auto, radio, televisore e altri elettrodomestici, ma pure foto scattate all’esterno che variamente declinavano la possibilità di avere a disposizione e di spendere tempo libero in ristoranti, grandi magazzini, scampagnate, parchi naturalistici e di divertimento, raccontavano, dunque, di un successo effettivamente raggiunto o soltanto lambito, comunque inscenato.

In un numero ben più ristretto ma assai interessante di casi il medesimo emigrante organizzava un ritorno a casa vestendo i panni dell’“americano”, sfoggiando i vistosi segni del sopraggiunto successo. Ancora all’immagine toccava il fondamentale ruolo di comprovare “obiettivamente” la raggiunta emancipazione, la capacità di muoversi agevolmente nell’ambito di una modernità conclamata, la propensione a un disinvolto cosmopolitismo, l’attitudine a muoversi con sicurezza e scioltezza in seno a spazi non soltanto geografici ma soprattutto culturali e identitari dalle latitudini impressionanti e decisamente “intercontinentali” che i suoi compaesani neppure potevano immaginare.

Per raccontare di tali latitudini non basta più il solo ritratto: ecco che un emigrato programma un ritorno a casa nei primissimi anni del Novecento portando con sé uno stereoscopio munito di molte decine di foto tridimensionali che illustrano il mondo, non solo le metropoli statunitensi, ma bellezze monumentali e paesaggistiche, usi e costumi dei luoghi più disparati della terra. La finitezza del piccolo paese di origine dell’emigrante viene improvvisamente e inusitatamente travalicata da questo dirompente panopticon di immagini del globo terracqueo, immagini che poco per volta nel visore stereoscopico riacquistano “magicamente” la loro tridimensionalità. Chi accosta gli occhi a tale visore ha l’impressione di essere a poco a poco risucchiato all’interno della stereoscopia tra timore e stupore. A tale fantastico viaggio fa da sapiente spalla un imponente grammofono a tromba che diffonde la bella voce di Caruso e brani di jazz: è la ragionata, calcolata e altrettanto stupefacente colonna sonora studiata ad hoc dall’emigrante per accompagnare i paesani nel loro viaggio virtuale a zonzo per un mondo mai visto. Questo trip per l’epoca ipertecnologico, questo interattivo esperimento di precinema va in scena in una realtà contadina e isolata della Basilicata determinando una serie di complesse e intriganti reazioni nella popolazione locale che si mette in fila per gustarsi le immagini e ascoltare la musica, talora sbigottita da una tecnologia che ad essa appare magica.

Emigranti che si fanno cineasti per meglio didascalizzare l’affermazione sociale d’oltre oceano, per renderla vera, inoppugnabile

Se per la realizzazione del racconto della propria vicenda migratoria l’emigrante si metteva soprattutto nelle mani di un fotografo professionista confidando nelle opportunità garantitegli dal suo atelier, in altri casi, a partire dagli anni Trenta del Novecento sarà invece lo stesso emigrato, nei panni, ora, del foto dilettante munito di Kodak, a documentare e a enfatizzare gli esiti del proprio progetto migratorio.

Qualcuno, particolarmente intraprendente, dalla fotografia passerà alla cinematografia.

Sino ad allora la macchina da ripresa era un bene sostanzialmente alieno alla massa e quindi, ancor più a un emigrante il cui bilancio veniva assorbito da spese di natura ben contingente e il cui orizzonte culturale di provenienza, contadino e proletario, non consentiva dimestichezze con una tecnologia complessa. L’acquisto di una cinepresa e, conseguentemente anche di un proiettore di medio formato, quindi 16mm, formato peraltro già professionale, impiegato, ad esempio, soprattutto nell’ambito della documentaristica scientifica, esigeva non solo una spesa decisamente gravosa ma il possesso di un know how tecnico di tutto riguardo, certamente impegnativo2.

È in tale contesto che, abbattendo questi paletti, certuni “arditi” emigranti lucani, giunti negli USA, affidano invece alle loro cineprese ١٦mm il racconto della propria, nuova, scintillante esistenza negli Stati Uniti, da proiettare alla loro gente in occasione di “trionfali” ritorni al paese, ove, peraltro girano pure molte scene inerenti festività e vita quotidiana, dimensione domestica e pubblica, lavoro nei campi e tempo di riposo. Il loro è un racconto cinematografico del tutto inedito, ricco, multiforme e complesso che contempla pure la narrazione del viaggio in nave di ritorno in Italia, più che un viaggio una crociera in transatlantico, che tocca molti porti del Mediterraneo con sosta nelle località rivierasche più in voga e definitivo sbarco a Napoli. Da qui tali nostri dinamici emigranti, dopo aver visitato le più belle città italiane, tutte debitamente filmate, imboccano infine la strada di casa, tornando in Basilicata. Nella loro regione, nel loro paese di origine, si trattengono a lungo, riprendendo la festosa accoglienza tributata loro dai compaesani e da giovani desiderosi di emularne l’esempio progettando di trasferirsi in America. Qui, come detto, passano lunghi pomeriggi, proiettando nello stupore generale le loro riprese, all’imbrunire, negli slarghi del paese e nelle case, stendendo un lenzuolo sui muri. Terminato il loro show, c’è chi deciderà di ripartire per gli Stati Uniti, talora non facendo più ritorno in Italia; altri sfruttando lo status di uomini “arrivati” intraprenderanno carriere pubbliche di successo divenendo sindaci, insegnanti, proprietari terrieri.

Le date di questi inusitati e rari documenti cinematografici, come già premesso, si collocano tra la metà degli anni Trenta e i Cinquanta del Novecento. È certamente questa un’epoca nella quale, in Italia, la cinematografia dilettantesca poteva considerarsi ancora e certamente un piacere di pochi, un’attività ristretta agli ambienti della buona borghesia e dell’aristocrazia. Solo le opportunità che il Nuovo Continente era in grado di offrire, potenzialmente a chiunque, permette a un emigrante proveniente da un contesto rurale spesso di estrema indigenza, di riscattarsi da tale disagiata condizione, di permettersi un viaggio di ritorno organizzato come una vera e propria lunga e piacevole vacanza, e di usare, per “eternizzare” il tutto, non solo una macchina fotografica ma addirittura una cinepresa professionale e semi professionale.

Dalla pellicola al mattone

Nell’ambito di codeste nostre ricerche, sempre ascrivibili alle citate forme di rappresentazione visiva del successo, ne dobbiamo ricordare un’altra che si fa ancor più sfavillante e materica, non avendo più neppure la necessità di narrarsi cinematograficamente.

Alludiamo a famiglie e persone originarie di Castelmezzano, paese abbarbicato alle svettanti, aguzze, vertiginose guglie delle Dolomiti lucane, che, sbarcate a New York, divennero nel tempo una formidabile holding del mattone. Si tratta dei Paterno e poi dei Campagna, imprenditori edili impegnati nella prevalente costruzione di edifici di lusso, di villaggi residenziali dotati di ogni comfort, e di abitazioni, le proprie, autentiche e immaginifiche ville che in un caso presero le sembianze di un vero e proprio castello appositamente costruito sulle rive dell’Hudson.

Tali costruzioni, talora grattacieli, le loro ricercate soluzioni estetiche, stilistiche, cromatiche, unitamente ai medaglioni con i ritratti dei costruttori posti sulla facciata, la monumentalità dei residence eretti in luoghi che li rendevano ben visibili quanto appartati, esclusivi, quasi irraggiungibili, rendono superflua qualunque altra modalità attraverso la quale sostanziare la rappresentazione, in questo caso, incontrovertibile e materica, del “vero” successo raggiunto a New York.

Esiti di un progetto in itinere, già raggiunti e da raggiungere

Quelle che tali nostri arditi e ingegnosi emigranti lucani realizzarono sono, di certo, documentazioni ma pure performance assolutamente uniche e di grande valore antropologico, storico e di costume. Si prestano, esse, a una molteplicità di letture e rivisitazioni che chiamano in causa l’etnografia visuale, le discipline della comunicazione, la storia della documentaristica e della fotografia sociale, e che per tale loro intrinseca e polisemica poliedricità ci hanno indotto a far convergere gli esiti di codesta nostra ricerca in un prodotto complesso e articolato.

Abbiamo perciò realizzato ed editato per i tipi di Squilibri un volume che, in realtà, è un contenitore di più prodotti ognuno concepito per declinare un aspetto di quanto rilevato sul terreno.

Si parte con una sezione testuale nella quale prima di tutto si ripropongono le storie degli emigrati ricostruite con pazienza grazie alla disponibilità dei loro eredi. Tali vicende, tutte intersecate e accomunate dal progetto messo lucidamente in atto di raccontare visivamente il raggiunto benessere americano, sono nuovamente descritte e analizzate sul piano, appunto, delle messe in scena foto-cinematografiche variamente allestite da questi emigrati.

Fin qui la parola che più avanti non poteva spingersi.

Un tema così specificamente e fortemente visivo ha però e parimenti richiesto il ricorso a una parte fotografica, costituita da più di trecentocinquanta immagini, divise in molteplici sezioni e collegate a un articolato commentario. L’arrivo a New York, l’immagine della vita convulsa della città, il radicarsi di queste famiglie lucane nel tessuto sociale della metropoli, la loro vita professionale ma soprattutto quella relazionale, festosa e festiva, i ritorni momentanei al paese sono aspetti che dovevano essere “visti” e non descritti, rispettando in tal modo le strategie rappresentative precipuamente e volutamente vistose. A tal proposito una sezione della parte iconografica è dedicata al rapporto intessuto da questi emigranti cineasti con il mezzo fotografico, stereografico e soprattutto filmico. Ci si è spinti ad analizzare i loro girati espungendo quei fotogrammi che meglio stigmatizzano i linguaggi adottati nella costruzione e nella proposizione della loro nuova identità: panoramiche reiterate, senza stacco, da sinistra a destra e viceversa, su luoghi e gruppi di familiari e amici per ribadire, come in una sottolineatura a matita, il momento filmato, sempre lieto e spensierato, zoomate sui volti ridenti di gente seduta a tavola, riprese dinamiche nel traffico cittadino e a bordo di “macchinoni” americani, sequenze volutamente didascaliche per immortalare con attenzione le gite, le visite a parchi e zoo e tutto quanto visto e fatto in simili contesti.

Si è altresì messo in evidenza come la ripresa cinematografica sia fortemente influenzata dalla coeva pubblicità di apparecchi cinematografici in cui, attraverso alcuni fotogrammi, si suggeriscono ai possibili acquirenti e utilizzatori amatoriali delle cineprese cosa riprendere e in qual modo. Se la Kodak suggerisce di filmare il compleanno, il Natale con l’apertura dei pacchi, il matrimonio, il relax in giardino il nostro emigrante si adegua reiterando non solo la ripresa di questi eventi ma imitando finanche il set e le posture.

Emerge un circuito per così dire “omogeneo” ove sequenze e fotogrammi estratti dalle pellicole dei cineasti lucani, unitamente e al pari dei “suggerimenti” delle case produttrici di apparecchiature cinematografiche sul come impiegarle, sottolineano l’ aderenza e l’adesione a una visione del mondo contrappuntata da una modernità, anche tecnologica, su cui chi ha attraversato l’oceano ha contato per rendere esplicito il successo conquistato.

Non ci è assolutamente parso il caso di restringere gli esiti di questa nostra ricerca a testi e immagini. In tal modo si sarebbero annichiliti gli investimenti voluti e compiuti dagli emigrati per dare assoluta centralità alla dimensione “cinematografica” della loro esistenza rifondata negli Stati Uniti.

Ci è sembrato allora opportuno inserire nel volume un documentario e alcuni contributi video che restituiscono i momenti salienti di alcune video interviste realizzate nel corso del lavoro di ricerca. Il documentario, un lungometraggio della durata di 55 minuti, è destinato alla riproposizione, secondo un complesso e articolato montaggio, di foto e filmati rinvenuti nel corso delle ricerche, acquisiti e riversati in formato Beta e DVD. Si alternano ai filmati d’epoca e ad altri appositamente realizzati, numerose sequenze fotografiche in truka e brani di videointerviste effettuate a leader di opinione, studiosi, a emigrati e loro parenti.

Il documentario mentre restituisce la vocazione “cinetica” dei materiali visivi reperiti, anche mediante il ricorso a soluzioni narrative proprie della docufiction, si caratterizza per una vocazione divulgativa, emozionale e coinvolgente pur rigorosamente aderente ai contenuti di pellicole, foto e stereografie rinvenute3.

Il volume ospita infine, come detto, quattro videointerviste debitamente montate e dotate di testi e sottopancia, visibili mediante QR Code. In tal modo abbiamo inteso restituire maggior respiro alle testimonianze reseci dai nostri informatori, presenti pure nel documentario, ma inesorabilmente di limitata estensione.

Migrazioni di successo

Il Museo digitale e interattivo sugli emigranti di successo, dalle Dolomiti lucane a New York

Va sottolineato che quanto sino ad ora prodotto e di cui si è qui brevemente detto ci è parso come la prima parte di un lavoro che avrebbe potuto proseguire verso esiti museali. L’intrinseca vistosità del tema che abbiamo più volte sottolineato, il clamore e il clangore iconico dei casi trattati avevano dunque tutti i presupposti per dare all’iniziativa una “tonalità” ancor più marcatamente visiva e di maggiore coinvolgimento spettacolare.

Non va dimenticato che la gente di Castelmezzano, spesso emigrata per andare a ingrossare le fila dei paesani assunti nella holding del mattone messa in piedi con grande lungimiranza dai Paterno, ha alimentato l’idea di una intrinseca vocazione dei castelmezzanesi al lavoro edile alimentata da una originaria contiguità con la pietra. Ancora oggi, con compiacimento che rasenta il determinismo, molti tra coloro che vivono nel paese tendono a stabilire una relazione tra gli alti pinnacoli rocciosi che paiono prendere slancio dal sottostante paese per innalzarsi verso il cielo e l’attitudine alle attività edili dei loro progenitori che altrettante guglie eressero, quelle dei grattacieli newyorchesi. Ne discende un habitus caro agli abitanti di Castelmezzano che si impernia su una radicata attitudine al fare, al superare scogli e ostacoli per raggiungere obiettivi ambiziosi, eclatanti.

Si desidera dunque allestire un museo che recuperi e incarni codesto habitus celebrando le gesta di una genia di costruttori e più in generale di un’emigrazione che almeno per una volta appaia vittoriosa, dimostri di esserlo.

Un museo che replichi l’antica vocazione all’intraprendenza, alla novità, alla modernità degli emigrati castelmezzanesi ha preso corpo proprio recuperando questa filosofia, cotale modus operandi. Non a una struttura espositiva tradizionale e sostanzialmente materica si è pensato ma a un sito ove assai marcata sia la comunicazione multimediale, digitale, tridimensionale e interattiva e di conseguenza la capacità attrattiva e di intrattenimento.

Il comune di Castelmezzano nella figura del suo altrettanto intraprendente Sindaco, l’avvocato Nicola Valluzzi, che con generosità aveva finanziato la già onerosa pubblicazione di volume e documentario, ha tentato la carta dei Pnrr, vincendola, per dare seguito al progetto, puntando ora sulla realizzazione del museo di cui abbiamo appena detto.

Stabiliti competenze e ruoli scientifici, artistici e digitali4 si è addivenuti alla definizione del progetto che attualmente è in fase di realizzazione.

Ne sintetizziamo qui di seguito taluni presupposti teorici e progettuali.

Subito dopo una sezione iconografica renderà evidente la planimetria dello spazio espositivo, la dislocazione delle sale, i temi in esse esposti e gli strumenti digitali e scenografici di volta in volta adottati.

Presupposti scientifici del museo

In qualche modo il museo di Castelmezzano innesca una procedura che rimanda alle istanze ottocentesche e novecentesche del Grand Tour ove i poli e gli elementi di richiamo non sono però più quelli dell’antichità classica, della discoperta di patrimoni e siti archeologici5 ma della modernità occidentale e della contemporaneità. Il viaggio è nell’oggi, in un hic et nunc altrettanto abbacinante e coinvolgente ove i grattacieli rubano la scena a piramidi e templi, a essi sostituendosi in termini di attrattività. I viaggi della speranza degli emigranti, il loro aggirarsi stupefatti per le vie di New York con il naso all’in su, inghiottiti in una selva di svettanti e anch’essi monumentali edifici, divengono peraltro non solo la meta ultima e sola di codeste “esplorazioni” che hanno quindi l’ambizione di farsi durature e stabili, ma, all’opposto atti fondativi di una nuova esistenza che va ben oltre l’esperienza “turistica” e del viaggio di conoscenza in sé conchiuse nel tempo e nello spazio, esistenza che cerca invece il radicamento in un altrove industrializzato, in una vita pienamente confortevole. Il museo intende quindi replicare codeste dinamiche e codesti intenti narrando ai visitatori odierni, ai “turisti” che giungono sulle Dolomiti Lucane un Grand Tour del tutto sui generis. Come in una visione caleidoscopica differenti esperienze migratorie caratterizzate dal coronamento del progetto migratorio vengono riproposte nel museo secondo strategie espositive ed esplicative differenti ma tutte accomunate dall’obiettivo di indurre il visitatore ad andare oltre il semplice vedere, a esso sostituendo un saper guardare [Caniglia Rispoli 1990] che disvela ulteriori prospettive, ulteriori tagli di lettura, ulteriori stimoli secondo rinnovate poetiche che all’austerità antica del museo contrappongono percorsi emozionali e coinvolgenti [Karp, Lavine 1995].

In sostanza il museo castelmezzanese propone deliberatamente una propria rappresentazione di un fenomeno circoscritto ma non per questo non degno di essere analizzato e raccontato, fenomeno che mette in forma ricorrendo ad allestimenti volutamente iperbolici e tutt’altro che pedissequi e calligrafici, apparentemente in autentici. Pare opportuno ricordare qui, secondo Cohen, dell’esistenza di due differenti modalità di “rappresentazione dell’inautentico” nell’ambito di offerte e prodotti concepiti per il viaggiatore, per il visitatore, che si sostanziano in una “inautenticità sostantiva” e in una “comunicativa”. Nel primo caso siamo di fronte a un artefatto appositamente concepito, concretamente costruito ed effettivamente messo in atto per il turista; nel secondo si è al cospetto di una messa in scena che prende le fattezze, ad esempio, di una narrazione, di una performance, di un evento iconico variamente fittizio [Cohen 1988: 371, 386]. Va subito detto che l’inautenticità non va assunta in una prospettiva negativa, quale artata contraffazione di un modello originario “puro”, ma come inesorabile e anche auspicabile riformulazione di un contesto umano e sociale ricondizionato, reinterpretato, rigenerato per meglio intercettare e declinare una data offerta turistica e culturale. Codesta riformulazione può quindi “sostanziarsi” in un sito progettato e realizzato ad hoc, sito nel quale si attivano delle narrazioni atte a meglio intercettare e declinare sul piano “comunicativo” le istanze di conoscenza del visitatore. Da siffatto punto di vista ci pare che il museo castelmezzanese riproponga le vincenti vicende di alcuni emigrati a New York attraverso registri espressivi che nella loro intrinseca “inautenticità” affidata a una pressoché totale dematerializzazione di quanto esposto e a una messa in forma totalmente digitale, proprio grazie a suddette scelte espressive e allestitive sempre più in uso nella museografia contemporanea, recuperi una sua precipua ed efficace vis comunicativa in linea con gli odierni mezzi e canali di comunicazione che caratterizzano Internet e i social.

In tale prospettiva, e più in generale, il museo, soprattutto quello contemporaneo, ma con esso anche siti espositivi di antica fondazione, interdetti, nel passato, finanche alla visita, essendo concepiti ab ovo quali luoghi di studio e confronto, di conservazione e catalogazione, stanno dotandosi di una differente natura, facendosi “campi di pratiche” [Czarniawska 2007, 7] a cominciare da quelle interattive, a tutto vantaggio di una comunicazione avvolgente, attraente, soprattutto dialogante e relazionale. Ecco quindi che in anni fecondi per il dibattito su natura e funzioni del museo antropologico, nei decenni 1970-1990, si reinventano status e statuto, parlando, come suggerisce Clemente di “museo comunicazione” [Clemente 1996].

Anche in tal senso il museo di cui qua si dice non fa mistero di voler seguire codesta strada ad esempio quando adotta la navigazione tridimensionale. Il nostro museo partecipa di una temperie che si afferma nei primi decenni del Novecento, epoca di avanguardie, andando nel tempo consolidandosi, dagli Anni Cinquanta del Novecento in poi, in forme di democratizzazione e di divulgazione dell’arte e, parimenti, con l’affermarsi della società di massa che attribuisce al museo le sembianze di un rito collettivo, non più appannaggio dei ceti alti e medi [Mirzoeff 2017, 43]. Rito peculiare, secondo Meloni, che cita opportunamente Augè [Augè 2009] e de Certeau,

perché il museo non è un luogo etnografico classico, isolato e dove vive una comunità stabile, ma è più simile a un non luogo, inteso sia come spazio da transitare (…) sia come utopia, spazio di azioni tattiche nel luogo dell’altro [Meloni 2023, 113].

De Certau, aggiungiamo noi, allude a immagini utopiche quale mescolanza di scienza e finzione che rientrano tra le consuetudini e le pratiche mediante le quali si articola una comunicazione retta da tattiche socialmente determinate che agiscono su scale differenti [de Certeau 1984, XXIII, 48].

Nel suo piccolo anche il museo di Castelmezzano intende porsi consapevolmente in tale scia quale luogo di attraversamenti che da fisici, le sale, si fanno temporali, culturali, valoriali, quale ambito di sperimentazioni comunicative, come detto, interattive e polisemiche ove la materia esposta subisce scientemente trasfigurazioni linguistiche e tematiche in sintonia con gli intenti espositivi di cui si è detto.

Ogni operazione di valorizzazione (o di tutela) modifica radicalmente lo statuto del documento. Occorre pertanto domandarsi: quale significato rivestono per la società attuale i documenti o le “opere” che il museo trasfigura in immagini e beni buoni da consumare? A chi si rivolge, con quali strumenti opera, come si legittima e dove ricava la propria autorità, quella mentalità museale che media pezzi di tradizione fissando il mutamento in determinati frame spazio-temporali? Le risposte della museologia contemporanea a questi problemi sono sotto gli occhi di tutti e hanno fissato un punto di non ritorno. Avere una mentalità museale significa oggi osservare i contesti da cui provengono gli oggetti e ascoltare le voci che abitano questi contesti; significa quindi elaborare riflessi di identità, “etnografie”; vuol dire giocare con sistemi di oggetti la cui natura è performativa; significa muoversi con curiosità nell’immaginario del museo (ormai anche telematico) per costruire musei dell’immaginario, cioè luoghi (…) dove le cose abitano un teatro delle metamorfosi, derivano cioè la loro ragion d’essere dalle differenze specifiche tra la propria oggettualità e la propria immagine virtuale [Lattanzi 1999, 30].

Il museo di Castelmezzano cercherà dunque di farsi ribalta in sé immaginifica dove l’immaginario inscenato si salderà all’immaginosa voglia di riscatto dei suoi abitanti sbarcati in America dei quali esso racconterà.


 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

Augè M. 2009, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Milano, Eléuthera.

Baldi A. 1996, Foto familiare e ricerca antropologica. Un tentativo di analisi, «Archivio Fotografico Toscano» Quaderni della rivista AFT, Fototeche e archivi fotografici – Prospettive di sviluppo e indagine delle raccolte, Prato, 147-169.

–– 2004, Scatti per sognare. Avigliano nelle fotografie di Andrea Pinto, Napoli, Electa.

–– 2017, Immagini migranti, immagini in-discriminanti. Latenze e valenze nell’uso di foto e filmati in ambito migratorio, «EtnoAntropologia», Vol.5 n°1, 109-146.

–– 2021, Emigranti cineasti. Regie di un successo. Basilicata – America 1900-1950, Roma, Squilibri.

Bourdieu P. 1972, La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, Rimini, Guaraldi.

Caniglia Rispoli C. 1993, Guardare/vedere. I pieni e i vuoti, il cambiamento e l’uso dell’ambiente, Napoli, Cuen.

Clemente P. 1996, Graffiti di museografia antropologica italiana, Siena, Protagon.

Cohen E. 1988, Authenticity and Commodization in Tourism, in Annals of Tourism Research 15,2, 371-386.

Cresci M., Mazzacane L. 1983, Lezioni di fotografia, Bari, Laterza.

Czarniawska B. 2007, Shadowing and Other Techniques for Doing Fieldwork in Modern Society, Copenaghen, Liber.

de Certeau M. 1984, The Practice of Everyday Life, Berkeley – Los Angeles, University of California Press.

Faeta F. 1995, Strategie dell’occhio. Etnografia, antropologia, media, Milano, Franco Angeli.

Faranda L., Lombardi Satriani L. M. 1986, Lo sguardo dell’altrove, in Di Carlo A., Di Carlo S., (eds.) 1986, I luoghi dell’identità. Dinamiche culturali nell’esperienza di emigrazione, Milano, Franco Angeli, 163-180.

Karp I., Lavine S.D. 1995, Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Bologna, Clueb.

Lattanzi V. 1999, Per un’antropologia del museo contemporaneo, «La Ricerca Folklorica», n°٣٩, aprile, 29-40.

Mazzacane L., Baldi A. 1990, Specchio di donna, Foggia, Cappetta.

Meloni P. 2023, Cultura visiva e antropologia, Roma, Carocci.

Mirzoeff N. 2017, Come vedere il mondo. Un’introduzione alle immagini: dall’autoritratto al selfie, dalle mappe ai film (e altro ancora), Monza, Johan & Levi.

Simonicca A. 2008, Antropologia del turismo. Strategie di ricerca e contesti etnografici, Roma, Carocci.


1 L’interesse per la foto familiare, altrimenti detta “vernacolare” si va coagulando in ambito antropologico dagli anni Settanta del Novecento sia in Italia che in altri paesi, ad esempio in Francia [Bourdieu 1972], [Cresci, Mazzacane 1983], [Mazzacane, Baldi 1990], [Faeta 1995], [Baldi 1996, 2004, 2017, 2021]. Si portano alla luce raccolte familiari e archivi di varia consistenza spesso allestiti amorevolmente da studiosi locali che evidenziano una ritrattistica legata primieramente ai riti di passaggio, dalla nascita alla morte. Tutti i contesti sociali, da quelli rurali a quelli urbani, si mostrano inclini a una foto che li rappresenti, che li accompagni nell’arco dell’intera esistenza. Va in scena il desiderio di una affermazione lavorativa e professionale assieme, o forse soprattutto alla necessità di celebrare i vincoli familiari, i valori parentali e amicali. Coloro che emigrano fanno lo stesso ma con un precipuo e prioritario intento, quello di associare, di fondere nel medesimo scatto l’adesione evidente ai principi e ai vincoli della famiglia che continua a essere patriarcale, unitamente alla voglia irrefrenabile, talora smaccata di “illustrare” il successo conseguito o inscenato sui set di studi fotografici ove abbondano fondali pittorici, mobilio e arredi pomposi.

2 Va evidenziato che l’industria fotografica e cinematografica, sia in Europa che negli Stati Uniti, già a partire da George Eastman e al colosso che mise in piedi la citata Kodak, ma poi pure dalla Bell & Howell, dalla Keystone e dalla Revere, si premurarono di affiancare ad apparecchiature cinematografiche destinate a un’ utenza professionistica, cineprese, proiettori, moviole, giuntatrici, schermi avvolgibili pensati invece per il grosso pubblico, per amatori da invogliare a mettersi dietro la loupe, a farsi “registi”, a filmare, prima in bianco e nero e quindi anche a colori, la loro vita familiare, il tempo libero, la scampagnata, le feste. Se si trattò di apparecchi e loro dotazioni dall’impiego in qualche modo facilitato, si era pur sempre dinnanzi a una tecnologia impegnativa che prevedeva l’impostazione manuale del fuoco e del diaframma, la scelta dell’ottica, il caricamento e il riavvolgimento della pellicola impressionata. A “emanciparsi” sul piano visivo furono, dunque, anche emigrati, anche lucani, che videro nella cinematografia casalinga, realizzata in proprio e in piena autonomia, un potente mezzo per rappresentarsi e celebrarsi.

3 Ci permettiamo qui di seguito di segnalare i premi conseguiti dal documentario: Attribuzione del secondo posto al documentario “Emigranti cineasti. Regie di un successo”, alla Rassegna internazionale “Vittorio De Seta” di documentari etnografici – edizione 2019. Premio Memorie Migrate 2022 per Emigranti cineasti. Regie di un successo. Basilicata –America 1900-1950, Comune di Castelluccio Inferiore. Primo classificato Vesuvius Film Festival IV edizione 2023, sez. Docufilm. Questa segnalazione è dovuta al fatto che i tre festival, pur premiando sostanzialmente il documentario, hanno colto la natura sperimentale dell’operazione di cui, come detto, il video è una parte, lo si evince da messaggi inviatici dai curatori dei festival nei quali si apprezzano le sinergie tra i veicoli prescelti per tentare di restituire a tutto tondo gli esiti della ricerca.

4 Il bando PNRR (Linea B - Intervento 2.1 Attrattività dei borghi) vede come partner scientifico il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e il MAM – Museo Antropologico Multimediale del medesimo ateneo. Chi scrive ha assunto la direzione scientifica e artistica, responsabile delle ricerche storiche e archivistiche è Renato Cantore, la coordinatrice della redazione scientifica e artistica è Tamara Mykhaylyak, capoprogetto degli allestimenti digitali è Elisa Laraia. L’apertura del museo è prevista per la fine del 2024.

5 “Il turismo dei patrimoni culturali si alimenta sulla nostalgia per il passato e sul desiderio di esperienze di paesaggi e forme culturali; in ogni caso è strettamente collegato con le tradizioni e gli artefatti del passato. (…) Quello delle tradizioni culturali (…) è mosso dal desiderio della natura oppure dal sentimento di partecipazione alla storia dei siti. Le motivazioni culturali di tali viaggi si possono senz’altro riannodare a quelle del classico Grand Tour. (…) Quest’ultimo era un viaggio particolare, con un percorso obbligato attraverso le grandi città e capitali artistiche dell’Europa: Italia e Francia, i resti dell’antichità classica, i centri del Rinascimento” [Simonicca 2008, 156-157].