“Non tutti hanno una cripta”

Mummie, turismo e patrimonializzazione in Sicilia

“Not everyone has a crypt”

Mummies, tourism, and heritage-making in Sicily


Rebecca Sabatini

Dipartimento di Studi Storici, Università di Torino

Dipartimento di Educazione e Scienze Umane, Università di Modena e Reggio Emilia


Indice

Abstract

Premessa

Turismo nero?

Cripte

Conclusioni

Bibliografia



Abstract

The Capuchins’ Catacombs of Palermo are not the main tourist attraction of the city, however they receive a high number of visitors representing the niche travel market named “dark tourism”. Even though studies have proven that it is not possible to identify a specific traveller known as “dark tourist”, explicitly interested in locations wholly or partly connected to death or sufferings, they highlighted the existence of a building interest to visit sites relating to death and burial grounds, such as crypts and cemeteries. The Capuchins of Palermo were specialists in the Modern Era mummification techniques, but they were not the only ones. In fact, in Sicily today, you can find a great number of similar sites (e.g. Gangi, Savoca) that are involved in important heritage conservation and heritagization processes aiming to attract and generate economic and tourism growth.

Keywords: cultural heritage; heritage-making; mummies; thanatourism; dark tourism.



Premessa

Il territorio siciliano è da un punto di vista turistico un’area iper-competitiva. L’attenzione del pubblico è implicitamente contesa tra una mole straordinaria di siti e luoghi di interesse, la cui fama si staglia solida nell’ancora più vasto e concorrenziale panorama turistico italiano. Sottesa a questa premessa, c’è la necessità di chi compone l’offerta turistica di costruire la propria identità puntando su ciò che di peculiare esiste nel patrimonio di beni, materiali e immateriali. Si tratta di un lavorio costante di rilettura ed esegesi del sostrato storico-tradizionale, su cui si costruiscono nuove architetture di significato e di autorappresentazione.

Il dibattito a proposito della nozione di patrimonio, inteso ormai come complesso di beni, materiali e immateriali, culturalmente, socialmente e politicamente determinato, tramite negoziazioni più o meno esplicite, è, come è noto, tuttora molto acceso. Dall’analisi dei beni, degli oggetti,1 in quanto tali, si è passati durante gli ultimi due decenni a una prospettiva sempre più grandangolare, che parte dalla consapevolezza che sia indispensabile spostare il focus sui processi di patrimonializzazione [Palumbo 2003, 2013a, 2013b; Smith 2006, Akagawa, Smith 2019; Pizza 2015] e non più solo sul patrimonio come prodotto finale. Interessandosi al suo meccanismo di nascita, osservando nel campo relazionale le dinamiche non solo culturali e sociali, ma anche politiche ed economiche, si va oggi necessariamente oltre un’analisi classificatoria e si decostruisce la tensione verso la tassonomia un tempo dominante. Berardino Palumbo [in Castagneto, Fiore 2013, 289] suggerisce difatti: «[…] Un’indisciplinata e intrusiva lettura etnografica dei processi di costruzione delle ‘cose patrimoniali’, dei modi in cui esse operano negli scenari politico-intellettuali della contemporaneità, degli effetti che simili processi producono nelle e sulle diverse scene sociali che ad essa danno forma»; una riflessione critica dei rapporti tra modi di costruire identità e memoria, cioè delle procedure che portano alla costruzione e all’istituzionalizzazione degli oggetti culturali nel contesto burocratico e politico costituito dallo Stato-Nazione, che mette in moto e gestisce tali processi e i quadri concettuali in cui essi vengono letti [Palumbo 2006, 32].

Considerare le nozioni di cultura e di patrimonio come prodotti del discorso nazionalista non è però la sola chiave di lettura proposta per interpretare e decostruire i rapporti tra politica, identità e patrimonio culturale nel mondo contemporaneo È stato suggerito, infatti, come una certa idea di patrimonio preceda storicamente il nazionalismo e come la globalizzazione, i nuovi regionalismi, i movimenti autonomisti, i profondi processi di trasformazione che investono la tradizionale forma dello Stato-Nazione, i suoi rapporti con l’opinione pubblica e con i saperi esperti, spingano necessariamente a riflettere anche in altri termini su questa relazione [Dei 2002, 39]. «Se dietro il lavoro sul patrimonio c’è sempre l’immaginazione di una comunità», si chiede Fabio Dei, «non è più tanto chiaro quale tipo di comunità sia di volta in volta immaginata»2. Alessandro Simonicca similmente sostiene che l’epoca dell’univocità della lettura del passato in funzione statale/nazionale sia ormai cessata: negli ultimi decenni si è rafforzata l’idea di una politica che si basa sulla ricerca autonoma delle proprie radici locali, dal momento che la categoria mentale Centro/Periferia tipica della modernità è a suo parere superata, e tutte le periferie tentano ormai di costruirsi quali Centri [Simonicca 2004, 47].

Risulta dunque necessario – e questo viene sostenuto all’unisono – studiare empiricamente ogni caso, a partire da una consapevolezza auto-riflessiva sulla disciplina antropologica stessa, sulla sua azione e sul suo contenuto, dal momento che, come lo stesso Palumbo scrive, «contribuiamo tutti, inevitabilmente, a produrre concetti/oggetti “culturali” partecipi, impuri, incorporati» [Palumbo 2006, 31].

Lo studio del patrimonio si complica ancora nel momento in cui a essere oggetto di osservazione è un patrimonio di interesse religioso come quello di cui si darà conto nelle pagine seguenti. Isnart e Cerezales [2020] hanno proposto di parlare di un religious heritage complex, per ripensare il rapporto tra religione e patrimonio, alla luce di una continuità, per loro per troppo tempo ignorata, tra quello che indicano come «l’habitus di conservazione del passato nel contesto delle tradizioni religiose» e la policy alla base dei processi di heritage-making [ivi 6, traduzione mia]. Ritengono cioè che tale continuum, come postulato, debba essere il presupposto per studiare la stratificazione semantica e valoriale di questa categoria di beni, siano essi materiali o immateriali.

Tali considerazioni aprono le porte a un’altra riflessione, quella sul turismo, nelle sue varie forme e configurazioni. Processi di patrimonializzazione e fruizione turistica sono strettamente legati, in una dialettica che fa sì che essi si alimentino vicendevolmente. I meccanismi patrimonializzanti si basano sulla duplice funzione di consolidamento della coesione interna della comunità3 di riferimento, qualunque essa sia (si veda più sopra), e la possibilità di utilizzare questa stessa costruzione per fini ulteriori, ad esempio la costituzione di un’immagine turistico-commerciale in grado di agire in scenari più ampi di quello locale.

Il turismo culturale, che innerva in maniera predominante i fenomeni appena descritti, si incrocia con altre dimensioni turistiche, autonome ma a esso intersecanti, come il turismo religioso, fenomeno antichissimo e dai confini porosi [cfr. Stausberg 2011; Timothy, Olsen 2006], o il tanatoturismo di più difficile definizione e circoscrizione. L’etichetta di “viaggio religioso”, che abbraccia un insieme composito di pratiche, oggi incorre in nuove implicazioni e possibili ridefinizioni, venendo ripensata anche alla luce della fluidità del sacro e del religioso nella società postsecolare, non isolato, ma ibrido, sempre in trasformazione [Berzano 1994; Aldrige 2005; Leone 2014; Filoramo 2022]. La categoria di “tanatoturismo”, invece, che secondo la definizione di Tony Seaton è identificabile con l’azione del viaggiare “to a location wholly, or partially, motivated by the desire for actual or symbolic encounters with death.” [Seaton in Stone et al. 2018, 9], è ulteriormente problematica perché riunisce sotto lo stesso cappello un insieme di movimenti turistici ed esperienziali estremamente eterogenei, che rispondono a esigenze, istanze e obiettivi molteplici e che nascono da incroci, complessi e profondamente dinamici, di produzione e riproduzione di significati. Un luogo o un interesse tanatoturistico non sono cioè dotati di una semantica lineare e univoca, sono caratterizzati da una complessità intrinseca di cui il loro studio deve tenere conto [Rollo in Bonato, Degli Esposti 2012, 100].

Il fitto dibattito sulla porosità delle categorie legate al fenomeno turistico ha a sua volta fatto emergere alcune coincidenze tra il viaggio religioso e la prassi apparentemente [cfr. Seaton 1996] più recente del tanatoturismo [Olsen, Korstanje 2020]. È stato infatti osservato come sebbene non tutti i luoghi tanatoturistici siano luoghi religiosi, la quasi totalità dei luoghi oggetto di turismo religioso siano invece, stando alla definizione che ne è stata data, anche identificabili come tanatoturistici.4

Nelle pagine che seguono si intende porre l’attenzione su alcuni luoghi siciliani, il cui ruolo e il cui significato si collocano proprio sull’intersezione tra valore patrimoniale, valenza religiosa e, secondo quanto si proverà a dimostrare, interesse tanatoturistico. Si tratta delle catacombe e delle cripte di epoca moderna, rifunzionalizzate e, a loro modo, peculiarmente musealizzate, che contengono resti umani mummificati ed esposti. Lo si farà a partire dalla cornice più ampia della riflessione sulle implicazioni turistiche di tali luoghi, mettendo in luce alcune dinamiche concrete legate ai processi di patrimonializzazione che le interessano, al fine di individuarne i caratteri e interpretarne i meccanismi di funzionamento5. Attraversando le strategie discorsive e autorappresentative operate e riprodotte, si rifletterà nello specifico sui casi della cripta di Gangi (Palermo) e della cripta di Savoca (Messina), a proposito della quale sarà realizzato un breve affondo, inevitabilmente studiate in riferimento alle più note Catacombe dei Cappuccini di Palermo.6

Turismo nero?

Le Catacombe dei Cappuccini di certo non sono la principale attrazione di Palermo, eppure ancora oggi vantano un numero di visitatori estremamente elevato7. Sebbene sia ragionevole sostenere che solo una minima parte di questi abbiano scelto Palermo come meta delle vacanze, avendo come fine principale quello di vedere le sue Catacombe, la gran parte dei viaggiatori finisce comunque per visitarle. Viene dunque compiuta una scelta che, anche se soltanto per il tempo di una visita, fa virare il loro viaggio verso una categoria specifica di turismo, fittamente dibattuta in ambito accademico durante gli ultimi vent’anni: il dark tourism, il turismo nero.

Coniata da Malcolm Foley e John Lennon, nel 1996, per descrivere l’aumento dell’interesse turistico rivolto a Dallas dopo il 1963, anno dell’assassinio del Presidente Kennedy, la categoria di dark tourism, ha segnato un punto di svolta importante nell’ambito degli studi sul turismo.

Lo sforzo iniziale fu tutto rivolto a portare avanti un’indagine che identificasse i tratti comuni di un gruppo di viaggiatori definibili come dark tourists, in virtù delle loro caratteristiche, delle loro motivazioni e delle loro mete, ossia luoghi di morte o sofferenza. Oggi questa postura è ritenuta inefficace, o comunque insufficiente [Seaton in Stone et al. 2018, 9]: non solo risulta impossibile rintracciare un’uniformità sulla base di questi criteri, ma sono gli stessi protagonisti della supposta categoria a non riconoscersi in essa, soprattutto a causa di un’accezione implicitamente negativa dell’etichetta8. Come fatto notare da Tony Seaton [ivi, 13], inoltre, l’incontro con la morte alla base di questo tipo di turismo non è un reale incontro con la Morte, ma con una sua rappresentazione simbolica, e quindi con il suo ricordo (remembrance) architettato e orchestrato da viventi (Engeneered and Orchestrated Remembrance), e il turismo nero, basato dunque su incontri mirati con tale rappresentazione, in questa prospettiva è interpretabile come una nuova forma di quel fenomeno, nato nel Medioevo e rafforzatosi durante il Romanticismo, che è la contemplazione della morte (thanopsis [Seaton 1996]). È stato proposto, così, di superare l’impasse optando per l’utilizzo di una categoria operativa il cui nome è epurato dall’accezione negativa dell’etichetta precedente e preferendo, dunque, l’uso dell’espressione tanatoturismo, per poi concentrarsi sull’indagine della natura di tali incontri (accidentali? Volontari? Involontari?) e degli shaping power(s) che caratterizzano lo sfondo su cui essi si realizzano [Seaton in Stone et al. 2018].

Si ritiene, d’altro canto, che i luoghi/prodotti del turismo nero per essere compresi debbano essere disposti su un continuum, dal momento che le voci accademiche concordano nel segnalare che un generico “nero” sia una categoria troppo ampia e quindi automaticamente poco utile [Stone 2006]. È stato sottolineato, per esempio, come esista una cruciale differenza tra luoghi di morte effettiva e luoghi associati alla morte: una visita all’US Holocaust Memorial Museum a Washington DC sarà sicuramente “più chiara” (lighter in inglese, con la duplice accezione dell’aggettivo: “chiaro” e “leggero”) di una visita ad Auschwitz [ivi, 151]. La collocazione lungo questo spettro è determinata da elementi quali il fine ultimo dei luoghi (e.g. istruzione/divertimento), il loro carattere principale (e.g. storia/patrimonio) e la loro “autenticità”.

A partire da questo quadro teorico, Philip Stone ha elaborato un modello tipologico basato su sette tipi di mete turistiche (dark fun factories, dark exhibitions, dark doungeons, dark resting places, dark shrines, dark conflict zones, dark camps of genocide) e ritiene, per esempio, che le Catacombe dei Cappuccini di Palermo, che definisce “biblioteca umana” composta da “three-dimensional cadaver piece[s] of art” [ivi, 153], appartengano alla seconda categoria, quella delle dark exhibitions, riferita a mostre e siti in cui morte, sofferenza e macabro sono valorizzati con intenti educativi.

Usa dunque per le Catacombe la stessa etichetta che attribuisce alla ormai arcinota Body World Exhibition, la mostra anatomica che ha permesso a milioni di visitatori nel mondo di osservare l’interno di veri corpi umani, conservati tramite la tecnica della plastinazione. Le differenze tra i due luoghi, però, sono evidenti e sarebbe, senza dubbio, più appropriato far appartenere le Catacombe alla quarta categoria, quella dei dark resting places. Il concetto di exhibition, di mostra, ha infatti come base concettuale l’idea di una esposizione temporanea, fruita generalmente da un pubblico pagante, in un museo. L’ambiente delle Catacombe è invece intrinsecamente diverso da quello di un museo e la ragion d’essere della loro attività, nonostante i processi di risignificazione a cui stanno andando incontro in epoca contemporanea, non è mai stata principalmente quella educativa [Cfr. Spineto in Cavicchioli, Provero 2020; Sabatini 2022].

Le Catacombe di Palermo, fin dalla loro apertura nel 1599, sono un luogo che per vocazione, valore religioso e sociale può in tutto e per tutto essere considerato un cimitero, nonostante le differenze, non di certo trascurabili, rispetto ai cimiteri cattolici tradizionali. I duemila corpi in esse contenuti [cfr. Piombino-Mascali 2011], che di norma sarebbero inumati o tumulati orizzontalmente, sono infatti, al contrario, collocati in nicchie ed esposti sulle pareti in posizione verticale, dopo essere stati sottoposti a un trattamento di mummificazione naturale. Si deve inoltre tenere conto del fatto che le Catacombe dei Cappuccini di Palermo sono un unicum da un punto di vista quantitativo, ma non lo sono affatto da un punto di vista qualitativo9. Il territorio siciliano è infatti caratterizzato dalla presenza di altri luoghi simili, meno noti e meno “popolosi”, ma non per questo meno significativi. Fornaciari e Giuffra [2006] rilevano, per esempio, nella sola provincia di Messina la presenza di circa undici siti in cui furono praticate queste stesse tecniche di trattamento del cadavere per la successiva esposizione.

I Cappuccini di Palermo, come anche ad esempio quelli di Savoca (ME), dove esiste appunto un luogo analogo, ci tengono a tracciare un confine netto intorno alle possibilità di definizione di questi siti, da loro presentati come luoghi di preghiera e di riflessione, abitati da corpi che continuano ad essere persone.

Senza entrare nel merito del dibattito sulla nozione di persona/individuo [cfr. Capello 2016], a cui non si potrebbe dare degno spazio in questa sede, è comunque necessario sottolineare che equiparare la natura delle Catacombe a quella di mostre o musei provoca uno slittamento semantico che trasforma automaticamente i corpi in esse contenuti in corpi-oggetti da museo, appunto, il cui status di uomini e donne è trasformato e significativamente ridotto. Spesso si conoscono i nomi e la storia degli individui che riposano nelle nicchie, che sono tutelati nella loro privacy dal divieto di scattare foto, e a Savoca, ad esempio, i discendenti tutt’oggi visitano i propri avi, portando fiori e facendo dedicare loro messe in suffragio.

Chi si è occupato della rifunzionalizzazione delle cripte e chi oggi si occupa della loro cura rifiuta di considerarle uno spazio museale ed enfatizza, come si vedrà, il carattere di esortazione morale e spirituale del luogo stesso10. C’è, quindi, una dimensione potenzialmente educativa (anche legata al loro portato storico), ma non sufficiente a giustificare l’applicazione della categoria dark exhibitions alle catacombe siciliane, che non possono essere considerate, come invece sostiene Stone [2006, 153], esclusivamente come delle learning opportunities o una forma di macabre education.

Tanatoturismo in Sicilia

Fin dalle loro origini, d’altro canto, le Catacombe di Palermo sono state di interesse ai viaggiatori, soprattutto all’epoca dei Grand Tour, e si può a diritto definirle un’attrazione turistica ancora prima che si potesse parlare di turismo nel senso moderno e postmoderno del termine. Viaggiare, prima che esistesse il turismo di massa, era un fenomeno elitario, che rappresentava e alimentava uno status sociale specifico; era un lusso, un’opportunità per pochi, e compiere un viaggio che includesse esperienze fuori dall’ordinario, potenzialmente uniche, era un quid in più a cui difficilmente si decideva di rinunciare11. Quest’ultimo aspetto è comune al turismo di oggi, non più fatto di osservazione e conoscenza passiva, ma sempre più concentrato sul desiderio di entrare in contatto con i luoghi tramite esperienze totalizzanti, singolari, autentiche [Marucci 2010], e la dimensione dark del turismo, pur non essendo sempre l’obiettivo principale del viaggio, risponde a questa esigenza: veicola esperienze sufficientemente perturbanti da garantire coinvolgimento fisico ed emotivo e irrompe drammaticamente nell’ordinarietà.

Visitare le catacombe e le cripte siciliane può soddisfare tale desiderio e, fin dai tempi del Grand Tour, questa potenzialità è stata chiara ai siciliani prima ancora che ai viaggiatori.

È stato proposto di studiare il fenomeno tanatoturistico, così poroso e sfuggevole, anche a partire dalle dinamiche turistico-economiche che gli soggiacciono, e dunque usando le variabili della domanda e dell’offerta [Sharpley, Stone 2009]. Richard Sharpley classifica i luoghi tanatoturistici tramite una matrice a quattro quadranti basata sulla domanda, e il relativo grado di fascinazione verso la morte che la determina, e sull’intenzionalità dell’offerta nel soddisfare tale fascinazione. Il risultato è l’individuazione di quattro ulteriori “sfumature” di tanatoturismo che vengono proposte come categorie classificatorie e interpretative: grey tourism demand, grey tourism supply, pale tourism e black tourism [ivi, 19]. Le catacombe e le cripte siciliane in quanto attrazione tanatoturistica diventata tale accidentalmente e rispondendo ad una domanda poco spiccata dal punto di vista dello specifico interesse tanatologico, sarebbero quindi da collocare nel primo quadrante, il pale tourism. Ciò su cui vorrei porre l’attenzione, però, non è tanto l’appartenenza all’una o all’altra categoria sociologica finora proposte, forse rigide e sicuramente problematizzabili, quanto sulla matrice stessa, che sposta l’attenzione dal fruitore a chi è autore dell’offerta. Questo cambiamento di prospettiva, infatti, non solo impedisce alla categoria di tanatoturismo di autoannullarsi con la dissoluzione del “gruppo sui generis di viaggiatori” come unico oggetto di studio, ma ne illumina anche la funzionalità come dispositivo operativo utile allo studio dei processi di patrimonializzazione, oltre che di valorizzazione turistica, di beni legati alla Morte e alle sue rappresentazioni.

In quella che è stata definitiva la “ri-ritualizzazione” della morte che si concretizza nell’esperienza e nella fruizione del visitatore [Stone in Stone et al. 2018, 203], c’è anche la partecipazione alla definizione di identità collettive e a sistemi di valorizzazione e di senso che costruiscono campi culturali, politici ed economici. Nel caso specifico qui in esame, l’attenzione va posta sulla scelta di rifunzionalizzare il patrimonio mummificato delle cripte per immettersi in un circuito, a suo modo istituzionalizzato, che appone un sigillo di garanzia da usare nel racconto di esso al pubblico. Uso il sostantivo racconto proprio perché la costruzione di narrazioni efficaci che agevolano la rappresentazione della località, svolgendo un ruolo fondamentale nella competizione delle risorse simboliche e materiali, è ciò che fa la differenza nella fruizione effettiva del luogo. Si tratta di un meccanismo basato sulla mobilitazione di amministrazioni, esperti e circuiti di promozione turistica (si veda più avanti) e su un movimento concentrico che da Palermo (e le sue Catacombe) si allarga verso il resto della Sicilia. La notorietà istituita da Palermo è sfruttata per alimentare un immaginario e investe tutte le cripte siciliane, le quali a loro volta accrescono reciprocamente la propria fama, aumentando conseguentemente la propria legittimazione e costituendosi come parte di una rete non esplicitata ma semanticamente solidissima. I luoghi di cui si sta trattando, infatti, non sono inclusi nella ritualità religiosa ordinaria della comunità, ma lo sono in quella della performatività legata al patrimonio culturale: la linea di confine tra commemorazione dei morti e commercializzazione della morte si sfuma [Stone in Stone et al. 2015, 204], il religious heritage complex mostra le sue intersezioni.

È giusto quindi parlare di tanatoturismo in Sicilia? La risposta, nei termini di quanto discusso finora, è positiva.

Cripte

Come già affermato, le Catacombe di Palermo costituiscono, sì, un unicum da un punto di vista quantitativo, ma non da quello qualitativo, dal momento che, in epoca moderna, a partire da Palermo, ben presto la pratica si diffuse e cominciò a essere utilizzata in gran parte della Sicilia. I Cappuccini, principali detentori del sapere, non lo furono più in maniera esclusiva e questo è il motivo per cui oggi è presente sul territorio siciliano una quantità così significativa di siti simili.

Le mummie e le cripte siciliane di epoca moderna sono negli ultimi anni state studiate soprattutto per ciò che concerne i corpi in esse contenuti, attraverso le lenti dell’antropologia fisica e della paleopatologia. Si possiede oggi un quadro piuttosto dettagliato della loro disposizione sul territorio e delle loro caratteristiche, grazie ad esempio alle analisi di Antonio Fornaciari, Valentina Giuffra e Francesco Pezzini dell’Università di Pisa [2006], fondamentali per gettare nuova luce su una geografia di siti di cui non era ancora stata fatta con dettaglio una ricognizione; agli studi di Dario Piombino-Mascali, nel contesto del Sicily Mummy Project [Piombino-Mascali et al., 2011] e oltre; e ai più recenti lavori di Raffaella Bianucci, Andreas G. Nerlich e colleghi dell’Human Embalming Project [2022; Galassi et al. 2021]. L’interesse accademico ha avuto un ruolo fondamentale nella messa in moto di meccanismi di patrimonializzazione, in quanto ha costituito un innesco e una forma di approvazione esterna fondamentali, nel contesto locale e per gli amministratori stessi, a creare una versione celebrativa credibile della propria storia, del proprio patrimonio e di conseguenza della propria singolare appartenenza comunitaria [cfr. Palumbo 2003, 291]. Un’appartenenza in questo caso “pan-siciliana”, che si configura in un legame con una rete legittimante che fa da sfondo al tentativo di spiccare in maniera indipendente e peculiare nel panorama turistico e patrimoniale. Come si diceva, infatti, le cripte di Savoca, Santa Lucia del Mela, Novara di Sicilia, Burgio, Gangi, snocciolando i nomi di alcuni dei siti più significativi, mostrano caratteristiche equiparabili a quelle di Palermo e godono oggi di nuova vita seguendone la scia di fama e notorietà. Gli studi biologici e paleopatologici, mobilitando e introducendo nel contesto risorse economiche e materiali (si pensi anche soltanto agli strumenti necessari alle analisi radiografiche e di paleoimaging12), coinvolgendo attori esterni alla località e offrendo risonanza mediatica e “accademica”, hanno acceso i riflettori sulle mummie e sulle cripte, giustapponendole le une alle altre in una narrazione legata alla ricerca prima e alla divulgazione poi, conseguentemente interiorizzata e riprodotta dagli attori sociali locali.

Negli ultimi vent’anni si è assistito ad una rilettura del patrimonio storico e culturale locale, che ha modificato le forme dell’offerta turistica e l’attenzione verso il territorio. Con la rifunzionalizzione delle cripte è stato messo in atto un importante processo di valorizzazione di beni culturali di interesse religioso, a partire dal quale sono state costruite architetture di significato e identità alla base di nuove forme di uso economico e turistico. Come spiega bene Bonato [in Bonato, Viazzo 2016, 21], i cosiddetti beni demoetnoantropologici vengono prodotti da una comunità affinché siano espressioni di essa: gli attori sociali in questione non sono “portatori ingenui” dei tratti culturali valorizzati, li hanno appresi intenzionalmente perché consapevoli che tramite la tutela delle ritualità del passato è possibile costruire una forma di comunicazione efficace con l’esterno e un’offerta turistica di supporto alla sua economia. Come si vedrà, inoltre, un ruolo fondamentale è qui ricoperto dall’operato della Chiesa, che agisce come attore determinante, muovendosi con disinvoltura nel complesso intrecciarsi di una nuova azione pastorale con azioni di valorizzazione del patrimonio artistico-culturale e di adeguamento alle logiche e ai vantaggi delle dinamiche turistico-economiche.

A fossa di parrina

Gangi è un comune di poco più di seimila abitanti nella provincia di Palermo. Si tratta di un borgo arroccato, appena fuori dal parco delle Madonie che lo circondano e incorniciano. Le origini della città, così come la si conosce oggi almeno da un punto di vista architettonico e urbanistico, sono medievali. La sua storia è fatta da feudatari e aristocratici che si sono succeduti determinandone le sorti e gli andamenti. È una cittadina geograficamente isolata, poco collegata, vicina ad altre cittadine a loro volta altrettanto isolate e poco collegate. Si tratta di uno di quei comuni che hanno aderito all’iniziative “Case ad un euro”, per intenderci, dove i giovani ci sono ma sono pochi, dove i turisti ci sono ma forse non sono abbastanza.

La città, dall’innegabile bellezza, è, appunto, parte del circuito Borghi più belli d’Italia, che riunisce sotto lo stesso patrocinio più di trecentosessanta borghi italiani che rispondono ai criteri di “qualità” richiesti per essere decretati tali, e la prima ad ottenere il riconoscimento “Borgo dei Borghi” nel 2014. Senza dubbio ciò ha favorito il posizionamento di Gangi nell’immaginario comune dei luoghi da visitare in Sicilia ed è una destinazione turistica mediamente ambita13. A Gangi il visitatore è atteso e ben accolto; le brochure, che raccontano, spiegano, invitano, sono realizzate con cura, dalla Pro Loco e dalla Chiesa, e sono disponibili ovunque. Tra queste, una specificatamente dedicata alla cripta, a fossa di parrina (“la fossa dei preti”), in cui ciascun elemento del sito è spiegato corredato da cenni storici. “La cripta dei preti morti”, così è chiamata sul dépliant, è oggi visitabile pagando un biglietto di ingresso di cinque euro, da considerare, secondo quanto indicato dal sito web ufficiale della Chiesa Madre, come un’offerta “per il restauro delle opere e il mantenimento dell’Itinerario artistico”. La cripta è infatti oggi parte di due “itinerari”: uno interno alla città, che oltre alla cripta comprende il museo parrocchiale, la torre normanna, il “Presepe del borgo” e le opere di Giuseppe Salerno (detto lo Zoppo di Gangi), Crispino Riggio e Filippo Quattrocchi; e uno, nato dall’iniziativa del Vescovo, comprendente tutta la diocesi: l’Itinerarium Pulchritudinis14, parte del “Parco Culturale Ecclesiale”15.

Il Parroco della Chiesa Madre di Gangi porta avanti una strategia di comunicazione ufficiale, soprattutto tramite supporto multimediale, internet e social network, che ha come obiettivo quello di divulgare l’impegno per un miglioramento su più fronti, che coinvolga la comunità, di fedeli e non, attraverso la “valorizzazione” – si dice – “del patrimonio artistico”: “L’itinerario non è solo un semplice museo, ma abbiamo l’ambizione di creare un centro di promozione che accresca il nostro patrimonio di storia, memoria e cultura”, dichiarava il sito web della Chiesa Madre.16 La presenza online (e.g. video, pubblicità, programmi e locandine degli eventi sui social) è utile a ottenere obiettivi di comunicazione efficace in tempi molto brevi, intercettando più facilmente l’attenzione di coloro che si vorrebbe coinvolgere. Le chiese, d’altronde, sono ormai solidamente presenti nella quotidianità dei fedeli tramite i mezzi di comunicazione digitale, vista la loro efficacia comunicativa e l’importanza che questi ultimi ricoprono nelle vite della maggioranza delle persone [cfr. Dawson, Douglas 2004; Apolito 2002] e a Gangi l’uso del digitale si sta insinuando con sempre più frequenza e intensità nelle pratiche pastorali, senza tuttavia ricoprire ancora un ruolo istituzionalizzato. La rete è oggi un’opportunità, un punto di riferimento, un luogo di incontro, e utilizzare i mezzi digitali è una scelta spontanea e quasi inevitabile [cfr. Campbell 2013].

La cripta di Gangi fu costruita durante la seconda metà del XVIII secolo e rimase in attività, secondo ogni probabilità, fino al 1866, anno a cui risale l’ultimo documento in cui la struttura viene menzionata. Essa si distingue dalle altre esistenti in Sicilia per due importanti peculiarità. La prima riguarda la presenza di maschere di cera sui volti delle mummie. Sebbene infatti la tecnica di mummificazione e la relativa tanato-metamòrfosi17 (drenaggio del cadavere, essiccazione in colatoio, pulitura, vestizione, esposizione) sia quella condivisa da tutti i siti siciliani [cfr. Fornaciari 2007], il momento conclusivo del trattamento prevedeva, a Gangi, una fase ulteriore, durante la quale veniva dedicata attenzione al volto del defunto. Durante questo passaggio si procedeva all’apposizione di una maschera funeraria in cera ottenuta o grazie a un calco del viso realizzato immediatamente dopo la morte o tramite un tentativo di ricostruzione a mano libera delle fattezze del viso [Miccichè, Carotenuto, Sineo 2014].

La seconda peculiarità della cripta di Gangi sta invece nell’esposizioni di sonetti su gran parte delle nicchie presenti. Si tratta di componimenti dedicati ai defunti e scritti in occasione della loro morte a fine commemorativo, ma oggi la disposizione dei corpi e dei sonetti lungo le pareti, a seguito delle varie risistemazioni subite dalla cripta nel corso del tempo, non è tale da potere garantire in tutti i casi la corrispondenza precisa tra individuo defunto e dedicatario del componimento su di esso collocato.

Come spesso è possibile riscontare, inoltre, la cripta contiene un piccolo altare, destinato alla celebrazione delle esequie e di messe svincolate dallo specifico frangente rituale a esse relativo. I (corpi dei) sacerdoti defunti, infatti, dovevano poter partecipare anche ai momenti di preghiera e presenziare alle liturgie. Imprimendo sul corpo i segni della propria umanità (prendo a prestito le parole di Remotti [2000, 138]), tramite la mummificazione, e avviando così un secondo processo (pseudo) antropo-poietico [ivi, 137] veniva offerta loro la possibilità di un nuovo “essere sociale”, dopo la morte e parallelamente alla cattolica vita eterna. I maestri della mummificazione erano operatori di un rito passaggio verso una nuova fase che ripensava a livello simbolico la vita, e non la morte [cfr. Spineto 2020; Sabatini 2022]. Mediavano il processo anti-poietico della trasformazione corporea [cfr. Favole 2003, 70] e offrivano all’individuo defunto una “seconda vita”, tramite la quale perpetuare la propria presenza sociale e mantenere il proprio status.

Fino a non molto tempo fa era nota la presenza all’interno della cripta di solo due nuclei di mummie, il primo costituito da trentasette corpi e il secondo da ventidue, collocati in verticale all’interno di nicchie disposte sulle pareti perimetrali di due ampie stanze al di sotto della chiesa di San Nicolò, la Chiesa Madre. Da poco è stato però reso noto che, oltre ai due nuclei appena citati e ai resti presenti nei vari ossari sotterranei, ne esiste un terzo, costituito dai corpi di sei donne e di due bambini. Tale nucleo è estremamente diverso dai primi due, non solo perché riguarda individui laici, ma anche perché le modalità con cui i corpi sono conservati sono diametralmente opposte. Si tratta infatti di corpi quasi nascosti alla vista e disposti in posizione orizzontale, dunque privi delle velleità di esposizione spettacolarizzante riscontrabile nella collocazione dei parrina. Ciò pone un importante discrimine, dal momento che anche a Gangi, come a Palermo, il metodo poteva eccezionalmente andare oltre le gerarchie ecclesiastiche e venire ri-adattato alle caratteristiche di chi risultava meritevole di esservi sottoposto (in questo caso donne e bambini da “tutelare”).

La cripta di Gangi è stata di recente al centro di un rinnovato interesse mediatico proprio per via dell’apertura al pubblico di questo ulteriore spazio contenente i corpi mummificati delle donne e dei bambini. Come si diceva, infatti, la cripta di Gangi è tradizionalmente nota con il nome di Fossa di parrina, fossa dei preti, e si intuisce dunque come la “scoperta” sia stata definita di “portata storica” dallo stesso Parroco, durante il piccolo convegno tenutosi alla fine del luglio 2021, all’interno della chiesa, in occasione dell’apertura ai visitatori della cripta nella sua versione ampliata. Tale evento di inaugurazione era parte di un piano ragionato tramite cui rinnovare l’attività della parrocchia e del comune, e non solo della cripta stessa, ma con la premessa esplicita e più volte ripetuta di non spettacolarizzare ciò che la chiesa custodisce. L’inaugurazione, nella sua ufficialità, ha permesso di osservare la messa in scena dei legami relazionali ufficiali tra i rappresentanti delle varie istituzioni e di esplicitare le aspettative e i desideri a proposito di un elemento importante dell’insieme di beni che ha contribuito a costituire un patrimonio culturale gangitano, cioè le mummie.

Nelle parole del Vescovo, intervenuto insieme al Sindaco, al docente di Teologia morale della Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia e all’antropologo e paleopatologo incaricato18, c’era un’enfasi voluta sull’aspetto implicito del risvolto economico-sociale della rifunzionalizzazione della cripta19, tanto quanto, dall’altro lato, ce n’era sulla dimensione spirituale e dell’esortazione morale in quelle del Parroco20. La posizione assunta dai due rappresentanti della Chiesa si costruisce, rispettivamente, su due direzioni di pensiero, non vicendevolmente escludenti: la prima più pratica, operativa, la seconda più teologica, “spirituale”. La seconda costituisce il quadro semantico tramite cui giustificare la prima: a partire da un significato primario ben definito, l’esortazione morale appunto, si ramificano le intenzioni di natura pratica a cui esso fa da coronamento. Nel momento in cui è ribadito che la cripta è un luogo di preghiera e di incoraggiamento alla rettitudine, con una dignità e un’utilità anche in questo periodo storico21, il renderla fruibile e godere dei benefici sociali ed economici che ciò implica è una diretta conseguenza che non dà in alcun modo da pensare dal punto di vista della valenza etica del piano d’azione (e.g. il rischio di spettacolarizzazione), ancor di più se tali benefici risultano necessari alla comunità.

Il Vescovo ha creato il già citato Itinerarium Pulchritudinis per agire concretamente tramite esso su dinamiche che non sono solo strettamente legate alla spiritualità, ma che risultano parimenti fondamentali. Per ciò che concerne la cripta, sono le forze congiunte dell’Amministrazione comunale e della Chiesa ad aver permesso l’ulteriore coinvolgimento della Soprintendenza, facendo sì che si avviasse l’iter per ottenere l’idoneità e l’agibilità del sito, così come l’intervento dell’esperto, l’antropologo Dario Piombino-Mascali, per la cura e lo studio delle mummie.

La soluzione ai notissimi problemi siciliani (e.g. la disoccupazione giovanile) vuole essere trovata anche nella rifunzionalizzazione dei beni culturali e ambientali che, veicolando un processo di rinnovamento identitario e di costruzione di nuove forme di autorappresentazione, da utilizzare per comunicare all’esterno e contemporaneamente rinforzare il senso di appartenenza, offre mezzi tramite cui contribuire alla vita sociale, economica e culturale della popolazione. Più di una volta durante il convegno è stato fatto riferimento alla natura mutata e mutevole del turismo e a come la nuova forma di quest’ultimo sia quella di un turismo esperienziale, alla ricerca, appunto, di “esperienze autentiche” [Salvatore in Marucci 2010], che Gangi, anche grazie all’eredità lasciata dall’antica tanatoprassi, riesce a soddisfare.

Si inaugura una nuova fase in cui il patrimonio, e non un tipo di patrimonio qualsiasi, ma proprio quello mummificato, è al centro di una rilettura che finisce con il coincidere con il processo di valorizzazione e costruzione identitaria di cui si iniziava a rendere conto più sopra.

Le mummie di Savoca

Savoca è conosciuta dal grande pubblico principalmente per due elementi: la presenza di una cripta e l’essere stata ambientazione di una delle scene madri del film Il padrino22. Il paese, anche in questo caso arroccato, ma con vista sul mare, rientra così in un immaginario ben specifico che lo colloca all’interno dei confini della più stereotipata delle rappresentazioni della Sicilia, tra mafia e folklore. È fortemente esemplare che Savoca sia tra le mete della maggior parte dei tour destinati a turisti stranieri, specialmente quelli legati alle attività offerte dalle navi crociere, e che sia parte del circuito Borghi più belli d’Italia, efficacissimo strumento, come già sostenuto, di rappresentazione e autorappresentazione, dal momento che opera, semplificando ai minimi termini, secondo un paradigma molto simile a quello che muove le operazione dell’Unesco, ossia apporre un sigillo di garanzia su luoghi più meritevoli di altri di attenzione e tutela [cfr. Smith 2006; Palumbo 2006; Padiglione, Broccolini 2017]. L’obiettivo programmatico del circuito è infatti quello di riavviare i piccoli centri, i più belli, all’effervescenza sociale e culturale tramite processi di riposizionamento turistico e di valorizzazione patrimoniale.

La cripta di Savoca, al di sotto del Convento dei Cappuccini, è rimasta in attività per un secolo esatto a partire dal 1776, anno a cui risale il primo corpo in essa conservato. L’architettura della cripta ricalca il modello comune a tutti i siti siciliani, ma l’originaria disposizione delle mummie in nicchie lungo le pareti non è oggi osservabile. Sebbene infatti le nicchie e il canonico altare per le funzioni funebri siano ancora presenti, le prime non sono nella maggior parte più visibili in quanto nascoste da nuove teche in vetro, che custodiscono i corpi a seguito di un atto vandalico che le aveva viste imbrattate da vernice verde23. Questo avvenimento ha fatto da spartiacque nella storia della cripta, in quanto il restauro non ha cambiato solo l’aspetto estetico della cappella ma anche la condizione dei corpi. Le operazioni di rimozione della vernice sono state realizzate solo a seguito dello spostamento dalla loro posizione originaria nelle nicchie e questo ha dato contezza della loro fragilità. Al fine di poter essere ricollocate in posizione verticale avrebbero dovuto subire una dispendiosa operazione di rinforzamento artificiale dello scheletro, oltre che il già impegnativo intervento di recupero e manutenzione. La mancanza di fondi24, unita alla prospettiva di un’operazione di restauro molto invasiva, ha impedito che si procedesse oltre e oggi la quasi totalità delle mummie, sebbene restaurate e tornate del proprio colore originario, e nonostante l’ambizione sia quella di riportarle nella posizione verticale originale, si trova collocata in orizzontale protetta da vetri.

Dal 2011 il convento e la cripta sono stati presi in carico da un’associazione di volontari, l’Associazione San Damiano, nata da una costola della GiFra, Gioventù Francescana, e fondata con lo scopo di collaborare alla gestione e alla manutenzione di strutture ecclesiastiche inattive, rifunzionalizzandole e destinandole ad esempio al turismo religioso. Il Convento di Savoca era rimasto chiuso per qualche tempo, così come anche la sua cripta, finché, nel 2011 appunto, i volontari, in collaborazione con i Cappuccini stessi, hanno fatto in modo che tornasse in attività, accogliendo i turisti e i gruppi di fedeli negli spazi del convento e in quelli della cripta: «In origine non era la cripta, era il convento. Poi ci siamo resi conto che la cripta, non dico più del convento, ma quanto il convento, aveva bisogno delle stesse attenzioni. Il convento fa giustamente un lavoro religioso diverso, la cripta ormai oggi è diventata un punto di riferimento anche turistico per la città di Savoca» (Vincenzo Garofalo, presidente e co-fondatore dell’Associazione San Damiano, Savoca, 1 agosto 2021, corsivo mio). Ad oggi le mummie sono osservabili gratuitamente, ma è possibile lasciare un contributo volontario all’ingresso.

L’interesse nei confronti della cripta cappuccina savocese è negli anni cresciuto, ma già prima che fosse rimessa in attività riscuoteva un interesse che si ambiva a poter sfruttare: la fama della cripta è molto prospera ed è verosimile sostenere che sia la più conosciuta dopo quella di Palermo25. Intorno a questa consapevolezza si costruisce l’offerta turistica del paese e l’immagine che si desidera offrire di sé all’esterno. L’importanza che il sito ricopre nella vita e nella storia di Savoca contribuisce ad un’identificazione con esso, o meglio, alla percezione di un rapporto naturale [Palumbo 2006, 16] con il sito e la costruzione di un sentimento di appartenenza locale che va messo in connessione con l’operare di persone, istituzioni e media, anche di portata non locale.

Non tutti hanno una cripta e quindi questa cosa comunque distingue Savoca da altri, da altre realtà. La cripta ha un legame particolare [...] con i savocesi [...] La cripta identifica tra virgolette Savoca e Savoca identifica la cripta, nel senso che quando si pensa a Savoca si pensa alla cripta perché è una delle principali attrazioni, tra virgolette, e quindi loro sono molto legati. C’è un interesse anche dell’amministrazione stessa o delle varie amministrazioni che si succedono negli anni nei confronti della cripta (Vincenzo Garofalo, 01/08/21, Savoca, corsivo mio).

“Identificarsi con la cripta”, come suggerisce Vincenzo Garofalo con un’espressione molto vivida, non è un’azione così scontata. Scegliere di essere rappresentati oggi nell’immaginario comune da un luogo la cui caratteristica principale è l’esposizione spettacolarizzante di corpi morti mummificati è una decisione importante, che passa attraverso la normalizzazione di un patrimonio che fuori da questo specifico contesto potrebbe essere fortemente problematizzato [cfr. Ferracuti, Lattanzi 2012; Favole, Ligi 2004; Gorer 1955; Thomas 1976; Morin 1980]. Esiste in questi luoghi un rapporto svincolato, diretto, con una specifica forma di espressione della morte, che sembra appropriato definire di “normalizzazione” implicita. Si tratta di un processo di riappropriazione e proiezione dei beni in una dimensione universale legittimante che finisce per configurarsi poi, nella produzione e nella narrazione sociale e culturale del patrimonio, come un’intimità, una familiarità spontanea con essi. Il legame tra l’esistenza di tale processo e l’“uso” economico, in senso lato, sollecitato dall’esterno, emerge qui chiaramente, agganciandosi all’orchestrazione di un paradigma di “esoticità” offerto ai “non iniziati”, in una prospettiva, dunque, definibile come tanatoturistica.

Conclusioni

La dimensione immersiva della contemplazione della morte viene riletta alla luce di nuove pratiche di costruzione di senso, in un orizzonte di significato che non è più solo quello religioso-teologico, ma che riguarda un Patrimonio culturale, con la maiuscola, percepito come entità leggittimatrice da guardare con deferenza. Il processo di risignificazione “dal basso” a cui si assiste si configura, in definitiva, come un desiderio di istituzionalizzazione. L’attribuzione di funzioni nuove che si sovrappongono a quelle storiche e religiose di partenza, così come l’intreccio delle relazioni tra amministratori ed esperti, e ancora la mobilitazione di fondi e risorse economiche, oltre che intellettuali, accompagnano il consolidamento di vari livelli di costituzione di un’identità locale. Si realizzano dinamiche che dimostrano sia una tensione implicita verso l’esterno, che inserisce i siti in una rete siciliana, semanticamente legittimante, di luoghi simili26, sia una tensione più esplicita verso l’interno, che spinge le singole località a volersi costituire come “centri” autonomi, in virtù della supposta unicità del proprio patrimonio e dell’orgoglio che essa scaturisce («Non tutti hanno una cripta»).

Nel privilegiare l’osservazione degli “autori” di tali forme di produzione e riproduzione di significato, piuttosto che dei fruitori di esse, si è provato a suggerire come la categoria del tanatoturismo possa essere utile per l’analisi dei processi patrimonializzanti messi in pratica in Sicilia: movimenti ibridi, fluidi, che rispondono al desiderio di mostrarsi, di definirsi e di autorappresentarsi, in un contesto turisticamente iper-competitivo, intercettando una domanda, o meglio un interesse, e provando a rispondervi. «In a consumerist mercantile world, demarcation between commemorating the tragic dead and commercializing their passing are increasingly distorted and nebulous», scrive ancora una volta Stone [2022, 469]. Il ritorno economico porta con sé, oggi, una garanzia di approvazione e importanza; si configura come una nuova forma di consacrazione che si somma ai processi di valorizzazione e di patrimonializzazione di cui è sia strumento che esito.

Esiste dunque una Sicilia sotterranea sempre più frequentemente visitata. Sotterranea non solo dal punto di vista della collocazione spaziale, ma sotterranea anche in una metafora che mi sembra calzante a raccontare della sua posizione ancora secondaria nel panorama turistico generale. È sotterranea, quindi, anche nel senso di subordinata a uno strato più evidente e più facilmente raggiungibile di luoghi, attrazioni e proposte che incontrano in maniera maggiormente diretta gli interessi del vasto pubblico. Attraverso un’azione di accoglienza e normalizzazione di una peculiare eredità, quella delle cripte, si realizzano processi di rivalorizzazioni della memoria storica, in uno scambio di approvazioni reciproche, legati a una visione che è a suo modo tanatoturisticamente imprenditoriale. Sebbene gli esiti possano essere piuttosto diversi tra caso e caso, il meccanismo che li produce è comune: la morte e il macabro diventano contenitori, catalizzatori, le “vite concluse” si trasformano in risorse, simboliche e materiali, nuove, grazie alla fascinazione che sono in grado di suscitare.

La Sicilia in questione è sotterranea, ma non per questo dimostra di essere immobile. Anzi.

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1 Seguo nell’utilizzo di questo termine Palumbo che a sua volta lo trae da Handler [1988]: «La definizione di “bene culturale” (o naturale o misto) presuppone, infatti, un’operazione di “oggettivazione culturale”, ossia la possibilità di reificare, di pensare alla “cultura”, alla “tradizione”, alla “società”, alla “località” come se fossero “cose”» [Palumbo 2013a, 51].

2 È importante qui fare riferimento alle riflessioni a proposito del ruolo dell’UNESCO nell’azione di costituzione di tali comunità e tali scenari di appartenenza e validazione, numerose e altrettanto fondamentali. Oltre al già citato Palumbo, si rimanda anche ai lavori di Laurajane Smith e alla nozione di AHD, authorized heritage discourse da lei proposta [2006].

3 Il concetto di comunità, in senso patrimoniale, così come la sua supposta intrinseca coesione e unità sono stati problematizzati e recentemente decostruiti [Cfr. Padiglione, Broccolini 2017].

4 L’esempio canonico, seppur forse riduttivo, che riporto qui è quello dei pellegrinaggi ai luoghi legati alla morte di Cristo.

5 Si tenterà di offrire una chiave di lettura di ciò che è stato prodotto dall’agentività della comunità locale di riferimento, nei termini dell’offerta turistica che si lega alla rilettura e alla rifunzionalizzazione del patrimonio locale e non ci si concentrerà sull’analisi della percezione del luogo da parte dei visitatori.

6 Le considerazioni che verranno condivise si riferiscono a una ricerca più ampia, estensiva [Fassio in Bonato, Viazzo 2016, 28] e comparativa, dei siti siciliani, realizzata a partire da discese sul campo mirate, ripetute nel tempo, svolte tra maggio 2021 e giugno 2023, a Savoca (ME), Santa Lucia del Mela (ME), Pettineo (ME), Novara di Sicilia (ME), Gangi (PA) e Burgio (AG). Le citazioni riportate (in nota e nel testo) nelle pagine che seguono si riferiscono a interviste condotte dall’autrice (Savoca) o sono trascrizioni di interventi pubblici a cui l’autrice ha assistito (Gangi), tra luglio e agosto 2021.

7 Le Catacombe dei Cappuccini di Palermo contengono duemila corpi mummificati, collocati in nicchie ed esposti sulle pareti in posizione verticale. La loro apertura risale al 1599.

8 Il concetto di dark tourism è legato nell’immaginario comune alla spettacolarizzazione della morte in contesti ludici e di intrattenimento e ciò comporta spesso un giudizio negativo, espresso sulla base delle implicazioni etiche che tale pratica comporta.

9 Le cripte contenenti corpi mummificati tramite trattamenti di mummificazione naturale [cfr. Piombino-Mascali, Carr in Shin, Bianucci 2021] non sono però peculiarità esclusiva dell’Italia meridionale; sono presenti altrove in Italia e in Europa (e.g. Roma, Brna in Repubblica Ceca) luoghi con caratteristiche formali simili [cfr. Nerlich, Bianucci, in Shin, Bianucci 2021, 741-776].

10 Le considerazioni qui condivise tengono conto di un’unica eccezione in Sicilia, non trattata in questa sede: Burgio (AG), dove si trova una cripta, contenente quarantanove corpi di laici e religiosi, uomini, donne e bambini, costituita ufficialmente come museo civico e esplicitamente denominata Museo delle Mummie .

11 Nella letteratura odeporica, italiana e straniera, sono numerose le descrizioni delle esperienze di visita alle Catacombe dei Cappuccini di Palermo [cfr. Sabatini 2019; Spineto in Cavicchioli, Provero 2020].

12 La radiografia e il paleoimaging sono le tecniche più diffuse per lo studio dei resti umani mummificati per via della loro efficacia e della loro ridotta invasività, tipica invece di altri approcci ed esami [cfr. Beckett, Conlogue e Kim et al. in Shin, Bianucci 2021; Beckett et al. 2020; Bianucci 2021].

13 Sul turismo dei borghi si rimanda a Salvatore in Marucci 2010.

14 È stato Papa Francesco a suggerire di avviare questi “itinerari di senso e di bellezza” per agevolare una nuova azione pastorale [cfr. Mazzoni 2022, 197]; i musei e i beni culturali in genere devono secondo questa prospettiva essere testimoni della Chiesa ed esprimere, con diversi stili, la catechesi, il culto, la cultura e la carità, agevolando il fedele nella riscoperta delle proprie «radici cattoliche» [ivi, 148].

15 Si tratta di un sistema territoriale integrato per il recupero, la valorizzazione e la promozione del patrimonio liturgico, storico, artistico, architettonico, museale, ricettivo e ludico di una o più chiese, che non si limita a musealizzare il patrimonio ma ha l’ambizione di valorizzare la spiritualità offerta dal luogo [Mazzoni 2022, 220].

16 Il sito viene aggiornato periodicamente. Questo era uno dei punti programmatici inseriti durante l’estate del 2021.

17 In casi come questi, in cui la tanato-morfòsi, cioè l’insieme di tutti i processi di ordine naturale legati alla morte che modificano il corpo, si somma agli interventi culturali che gli esseri umani compiono sui corpi stessi è corretto parlare di tanato-metamòrfosi [Favole 2003, 21], termine che pone enfasi sull’idea di intenzionalità e progettualità [Remotti 2006, 5].

18 Rispettivamente: Mons. Giuseppe Marciante, Dott. Francesco Migliazzo, Prof. Salvino Leone, Dott. Dario Piombino-Mascali.

19 <«Perché ho voluto l’Itinerarium Pulchritudinis ? Perché […] le nostre zone interne […] hanno due risorse: la natura e la cultura. […] Valorizzare la natura e valorizzare la cultura può creare lavoro.» (Mons. Marciante, 30/07/21, Gangi )

20 « Tengo sempre a precisare che la visita alla cripta, per quanto faccia parte di un itinerario artistico, è sempre una visita che va fatta con molto rispetto, perché quello è un luogo di culto, il luogo dove riposano le spoglie mortali dei nostri fratelli che ci hanno preceduto nella casa del Padre.» (Don Giuseppe Amato, 30/07/21, Gangi)

21 «Educare alla contemplazione della morte significa innanzitutto educare alla non violenza […] ma nello stesso tempo per noi cristiani ha un significato ben più forte. […] Io penso che i visitatori dovrebbero fare un’immersione in questa tematica che oggi viene camuffata oppure male interpretata. Noi dovremmo dare secondo me questo servizio.» (Mons. Marciante, 30/07/21, Gangi, corsivo mio)

22 Si segnala qui un’intersezione con il cineturismo [cfr. Bonato in Bonato, Degli Esposti Elisi 2012].

23 L’atto vandalico, realizzato nel 1985, non sembra essere stato compiuto come manifestazione di dissenso o di protesta contro la cripta e la sua attività nello specifico. Secondo le ricostruzioni, fu più verosimilmente un gesto di trasgressione fine a se stesso [Todesco 1994].

24 Il restauro fu finanziato dalla Soprintendenza, ma per completare l’operazione sarebbe stato necessario attingere ad ulteriori fondi privati.

25 «C’erano dei tour [operator] che contattavano più che altro i frati periodicamente per visitare la cripta e tutto, quindi è stato automatico: nel momento in cui è stato rimesso in funzione il convento, e chiaramente la cripta, sono stati informati soprattutto quelli che nel periodo precedente cercavano di accedere alla cripta. In questo ovviamente anche il comune e l’ufficio turistico [fanno la loro] perché […] se c’è qualcuno che ha interesse nel visitare la cripta contatta magari il comune e l’ufficio turistico gira a noi i contatti o le esigenze, o ci fa contattare. [Vincenzo Garofalo, Savoca, 1 agosto 2021]»

26 Tramite la mai assente comparazione con Palermo e con le altre cripte con caratteristiche similari, favorita dall’azione di collegamento tra i siti messa in pratica, come si sottolineava più sopra, da studiosi ed esperti. Come ha fatto notare Giovanni descrivendo queste dinamiche nel contesto dei processi di patrimonializzazione che hanno riguardato il tarantismo pugliese: «Non […] una contrapposizione dicotomica tra intellettuali accademici e locali. Ma […] alleanze trasversali più o meno sorprendenti tra i due campi» [Pizza 2015, 98].