Avatar

Identità e Sé nella realtà virtuale

Avatar

Identity and Self in virtual reality


Francesco Marano

Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo: Architettura, Ambiente,
Patrimoni Culturali, Università degli Studi della Basilicata



Indice

Bibliografia


Abstract

The article, through an ethnographic investigation in the well-known virtual reality called Second Life, attempts to analyze what an avatar is and what its functions are in the virtual world. To this end, the author has observed the role of the avatar in the expression of different, virtual but real identities, the different modes of participation in virtual reality, and the consequences of a multiple identity on a Self that can be said to be dialogical in that it is always contextually different depending on its relationship with the environment and with the other avatars with whom it interacts.

Keywords: virtual reality; avatar; self; identity; second life.



Che cos’è un avatar? Come funziona un avatar nella realtà virtuale? Come cambia il concetto di sé e di identità con l’utilizzo degli avatar nelle realtà virtuali? Questo articolo cerca di dare un contributo a tali questioni sulla base di una esperienza etnografica svolta nella realtà virtuale. I temi affrontati richiamano concetti vasti dotati di una forte tradizione di studi – reale/virtuale, identità, sé, digitale, realtà, ecc. – che non potrà essere ripercorsa ma che viene chiamata in causa laddove necessario nella contingenza dell’argomentazione.

Tecnicamente un avatar è un personaggio virtuale agito da un individuo. Nel dizionario Treccani la definizione si riferisce alle incarnazioni del dio Visnù e al personaggio che nei giochi di ruolo virtuali «rappresenta l’alter ego dei vari partecipanti, sostituendoli nelle azioni di gioco»1. Esso può avere sembianze umane, ma anche animali, vegetali o mostruose. L’avatar è il personaggio che ci rappresenta e attraverso il quale viviamo e facciamo esperienze nella realtà virtuale, ovvero un ambiente digitale prodotto da un computer, che simula la realtà fisica in un modo sempre più verosimile, fino a riprodurre sensazioni attraverso strumentazioni complesse [Parsons, Gaggioli e Riva 2017, 2].

Realtà virtuale (VR), realtà aumentata (AR) e realtà mista (MR) sono termini e concetti sempre più diffusi nella contemporaneità. La realtà virtuale è un ambiente audiovisivo prodotto da un computer nel quale l’utente, attraverso un avatar, vive esperienze immersive di tipo sensoriale ed emozionale. L’avatar, dunque, è un elemento imprescindibile della VR, mentre non lo è nella AR, che invece estende strumentalmente le capacità percettive umane (come per esempio nelle riprese a 360°). Con MR, invece, si intende l’interconnessione fra AR e realtà fisica (PR). Secondo Bekele, la AR sovrappone contenuti virtuali al mondo reale e «non c’è interazione fra mondo reale e ambiente virtuale nella AR e l’unico scopo del contenuto virtuale è l’ampliamento del mondo reale», mentre nella MR «i contenuti virtuali si fondono con l’ambiente reale dando vita ad un ambiente condiviso reale-virtuale» [Bekele 2021, 98].

Considerando la quantità di attività sociali, commerciali e di intrattenimento – misurabili in termini di enormi quantità di utenti e di ore vissute dagli utenti all’interno – il fenomeno delle realtà virtuali non può essere più trascurato dalle scienze sociali e costituisce un importante terreno di ricerca. In questo articolo intendo analizzare il rapporto fra l’avatar e il soggetto che incorpora, in particolare la relazione fra il Sé e le identità virtuali e la relazione fra realtà primaria e realtà virtuale.

Il terreno di ricerca che ho scelto è stato quello di Second Life (da ora in poi SL), l’ambiente virtuale più frequentato e più studiato, utilizzato fin dalla sua nascita da diverse università, centri di ricerca e industrie. Fondata a San Francisco nel 2003 da Linden Labs, SL nel 2010 contava circa quindici milioni di residenti ed ospitava più di duecento istituzioni educative.

Yale, Harvard, Stanford, Princeton, UCLA, USC, NYU, MIT, University of Texas, Vassar, Cornell, Notre Dame, Penn State, University of Oregon, and the London School of Economics, per citarne alcune, come pure Holocaust Museum, il Vietnam War Memorial, Woodstock e molti altri importanti luoghi di memoria collettiva. E ancora, le multinazionali come Nike, Coca-Cola, Manpower, eBay, Nokia, L’Oréal, Microsoft, Sun Microsystems [Gottschalk 2010, 502]2.

La quantità di denaro scambiato soprattutto attraverso la vendita di oggetti – abiti e arredi soprattutto – e l’affitto di land e appartamenti è dell’ordine di milioni di dollari. Boellstorff scrive che dal dicembre 2006 «sono stati scambiati fra i residenti oltre un milione di dollari al giorno. Oltre 2.000 residenti avevano realizzato più di 1.200 dollari di profitto in un anno; 58 avevano guadagnato più di 60.000 dollari, spesso basati su un grande numero piccole somme ($0.10–$2.00) per beni virtuali» [Boellstorff 2008, 212].

Second Life rientra nella categoria di “virtual social world”, distinta da quella di videogame o virtual world game oriented dove gli utenti sono semplici partecipanti ad un gioco precostruito, senza la possibilità di relazionarsi con gli altri in modo articolato e complesso né di modificarlo se non in minima parte. Come scrive Book:

Sebbene sia stato fatto molto lavoro nei campi dei media studies e degli studi culturali per dimostrare che il pubblico dei media non è così passivo come si potrebbe supporre, i mondi virtuali superano tutte le altre forme di media interattivi consentendo ai partecipanti di assumere il controllo completo delle forme di produzione culturale [Book 2004, 5 cit. in Gottschalk 2010, 503].

Pertanto SL ospita un ampio spettro di comunità, piccole e grandi, che vanno dalle comunità LGBTQ a quelle in sostegno dell’Ucraina, dagli artisti, agli scripters, builders a quelle basate sulle preferenze sessuali3. In definitiva SL è un mondo in continua trasformazione sotto la spinta della creatività dei residenti che lo modificano continuamente ma che allo stesso tempo può far emergere dimensioni inconsce o represse della personalità dei suoi utenti. Ed è questo che lo rende interessante per gli studiosi di scienze sociali, in primis antropologi e sociologi che possono osservare SL – una “social virtual reality” [Turkle 1995, 181] – come un laboratorio sociale dove le persone costruiscono nuove forme di espressione dell’identità e nuove forme di condivisione di idee e pratiche che pongono numerose questioni. Scrive Turkle

Internet è diventato un significativo laboratorio sociale per sperimentare le costruzioni e ricostruzioni del Sé che caratterizzano la vita postmoderna. Nella realtà virtuale ci auto-modelliamo e ci auto-creiamo. Che tipo di personae facciamo? Che rapporto hanno con ciò che tradizionalmente abbiamo pensato come la persona ‘intera’? Sono sperimentate come un Sé esteso o come separate dal Sé? I nostri Sé reali imparano lezioni dai nostri personaggi virtuali? Queste personae virtuali sono frammenti di una coerente personalità reale? Come comunicano fra loro? Perché lo stiamo facendo? Si tratta di un gioco superficiale, una gigantesca perdita di tempo? È l’espressione di una crisi d’identità come quella che tradizionalmente si associa all’adolescenza? Oppure stiamo assistendo al lento emergere di un nuovo stile di pensiero più multiplo sulla mente? [Turkle 1995, 180].

Un altro motivo per il quale ho scelto di svolgere la mia ricerca su SL, nonostante venga classificata da McKinsey come web 2.04, è l’antropomorfismo avanzato degli avatar – decisamente superiore a quello di altre realtà virtuali come IMVU, VRChat, Avakin Life – che dalla nascita della piattaforma si sono via via perfezionati per cercare di somigliare sempre di più a un reale corpo umano. Focalizzandomi sull’avatar, e non su specifiche pratiche che studierò nei prossimi mesi, intendo capire quale sia la relazione tra realtà fisica (RL, real life, acronimo utilizzato in SL) e seconda vita: dove sta il confine? La seconda vita è solo un palcoscenico o un gioco dove recitare un personaggio? Come cambia, se cambia, il concetto di persona con l’introduzione dell’avatar? Come cambia, se cambia, il Sé quando dispieghiamo la nostra attività sociale fra reale e virtuale? La lista delle questioni che si aprono può essere molto lunga. Per analizzarle ho utilizzato il classico metodo dell’osservazione partecipante. Ho incontrato e dialogato con persone di ogni tipo nelle situazioni più diverse. Sebbene sia entrato per la prima volta in SL quindici anni fa e l’abbia frequentata con interruzioni anche molto lunghe, la ricerca vera e propria è cominciata due anni fa circa, in modo serendipico, senza scegliere un particolare luogo come terreno di ricerca, senza finalizzare le conversazioni con gli avatar all’indagine, ma spesso adattandomi al contesto nel quale mi trovavo e incontrando avatar di ogni tipo.

Diversamente da Tom Boellstorff [2008, 80], non ho dichiarato nel profilo del mio avatar che ero un antropologo. La mia è stata una partecipazione immersiva in un campo di ricerca in cui l’anonimato è la cornice principale dentro la quale si svolgono le relazioni. Questo non riduce la verità dell’indagine, anche considerando che molti utenti definirebbero Second Life un luogo nel quale possono essere ciò che veramente sono. Diversamente da un terreno di ricerca offline, nelle interazioni in SL non è difficile raggiungere una comune zona intima in cui le persone sono propense a parlare di sé. «Che cosa ci fai qui?» è una domanda comune alla quale è possibile rispondere sinceramente grazie all’anonimato, mentre è molto più difficile se non impossibile avere informazioni sulla RL dell’avatar. Pertanto che io possa essere un antropologo in RL è altrettanto ininfluente quanto sapere che il mio interlocutore sia una casalinga o un militare: entrambi potremmo mentire per proteggere l’anonimato. Le informazioni meno sottoposte ad autocensura sono sembrate essere quelle relative alla percezione della realtà virtuale, alle emozioni, al senso di presenza, proprio perché protette dall’anonimato.


Img. 1. Avatar in un club di Second Life.

Img. 2. Avatar di IMVU.

Img. 3. Avatar in Second Life.


L’avatar è ciò che consente al soggetto di entrare e agire nel mondo virtuale. È un vero e proprio corpo, un corpo digitale, attraverso il quale l’Io che lo abita vive sensorialmente il mondo virtuale. L’avatar è, dal punto di vista della personalità, una estensione del soggetto, una parte distribuita del suo Sé, o “semplicemente” un modo per esplorare il proprio sé [Turkle 2011, 12]. Non necessariamente un avatar femminile incarna una donna e viceversa, e spesso gli utenti posseggono, in genere segretamente, diversi avatar di diverso tipo denominati alt (alternative character), ritenuti secondari rispetto all’avatar principale. Nelle mie esplorazioni in SL ho visto donne e soprattutto uomini che usavano avatar di sesso opposto, ma anche donne che utilizzavano due avatar diversi per ruolare nell’anonimato con due personaggi differenti. È evidente che le persone utilizzano gli avatar e gli alt per esprimere o sperimentare identità che nella vita reale sono inibite dalle regole sociali. Ma in generale i motivi per cui un soggetto usa gli alt possono essere davvero tanti, persino per testare la fedeltà del suo partner in SL [Boellstorff 2008, 132-133]

Lo scambio di genere [gender swapping] è una opportunità per esplorare i conflitti scaturiti dal proprio genere biologico. Inoltre, come ha notato Corey, consentendo alle persone di sperimentare come ci si “sente” ad essere dell’altro sesso o a non avere alcun sesso, la pratica incoraggia la riflessione sul modo in cui idee sul genere plasmano le nostre aspettative [Turkle 1995, 213].

Turkle scrive inoltre che «I MUD5 sono un terreno di prova per una pratica filosofica basata sull’azione che può servire come forma di sensibilizzazione sulle questioni di genere» e riporta il caso di Case, un suo informatore che si ritrova casualmente a usare un avatar femminile e così avvia una amicizia con un uomo che si offre di sposarla. La relazione dura quasi un anno e diventa per l’informatore un’esperienza di conoscenza di se stesso e del mondo femminile. L’informatore racconta così a Turkle quella esperienza vissuta come Mairead:

Vedo in lei [Mairead] un grosso problema psicologico. Abbiamo una relazione disfunzionale. Ma anche se è veramente doloroso e stressante, è veramente interessante osservare me stesso mentre affronto questo problema. Come farò a tirar fuori la mia persona da questo pasticcio? Perché non voglio andare avanti così. Interpretare questa donna mi permette di vedere cosa ho nel mio repertorio psicologico, cosa è difficile e cosa è facile per me. E posso anche vedere come alcune delle cose che funzionano quando sei un uomo si ritorcono contro di te quando sei una donna [Turkle 1995, 214].

Il gender swapping diventa una occasione di riflessione sugli stereotipi. Case racconta:

Per essere interessante la realtà virtuale deve emulare il reale. Ma bisogna essere in grado di fare qualcosa nel virtuale che non si potrebbe fare nel reale. Per me, i miei personaggi femminili sono interessanti perché posso dire e fare il tipo di cose che mentalmente vorrei fare, ma se le facessi come uomo sarebbero odiose. Vedo una donna forte come ammirevole. Vedo un uomo forte come un problema. Potenzialmente un bullo [Turkle 1995, 219].

L’imitazione gioca un ruolo importante. Incorporato in un avatar femminile al quale sono state assegnate fattezze e posture “femminili” stereotipate il soggetto si identifica nel corpo di una donna. Doug, giovane studente universitario, racconta a Turkle che passare da un avatar all’altro significa «spegnere e accendere pezzi della mia mente» [Turkle 1995, 13]:

Ho diviso la mia mente. Sto migliorando. Riesco a vedermi come se fossi due o tre o più. E accendo solo una parte della mia mente e poi un’altra quando passo da una finestra all’altra. Sono in una sorta di discussione in una finestra e sto cercando di fare sesso con una ragazza in un’altra, e un’altra finestra potrebbe eseguire un programma di fogli di calcolo o qualche altra cosa tecnica per la scuola. E poi ricevo un messaggio in tempo reale [che lampeggia sullo schermo non appena viene inviato da un altro utente del sistema], e credo che questo sia RL. È solo una finestra in più [Turkle 1995, 13].

Per Doug la vita reale è soltanto una finestra un più e «di solito non è la mia mia migliore». Pertanto Turkle osserva che la metafora delle finestre ci fa pensare al Sé come a un sistema multiplo e distribuito. Scrive:

Il sé non è più solo quello che interpreta ruoli diversi in contesti diversi e in momenti diversi, che una persona sperimenta quando, ad esempio, si sveglia come amante, prepara la colazione come madre e va al lavoro come avvocato. La pratica di vita delle finestre è quella di un sé decentrato che esiste in molti mondi e gioca molti ruoli allo stesso tempo [Turkle 1995, 14].

In generale, come ancora scrive più di recente Sherry Turkle,

una Seconda Vita offre la possibilità di una giovinezza e bellezza e, dunque, incontri sessuali e compagnie romantiche non sempre disponibili nel mondo fisico reale. Questi possono essere utilizzati per costruire una confidenza per gli incontri reali ma qualche voltala pratica sembra perfetta. Alcuni cittadini di Second Life dichiarano che essi hanno trovato, fra le altre cose, sesso, arte, educazione e accettazione. Ascoltiamo la storia familiare: l a vita sullo schermo si muove dall’essere melio che nulla all’essere semplicemente migliore. Qui il sé è rassicurante e proteiforme. Puoi sperimentare con differenti tipi di persone, senza prenderti il rischio delle relazioni reali [Turkle 2011, 218].

La questione degli alt attraverso cui le persone distribuiscono la propria identità nella realtà virtuale non rappresenta un’anarchia identitaria. Ogni alt necessita di una sua coerenza – nei termini di corpo, persona e personalità interiore – per essere credibile nel mondo virtuale e più specificamente nel gruppo al quale vuole appartenere. Come scrive Velleman: «se una figura in Second Life non riesce a esprimere una combinazione sufficientemente coerente di personalità, pensiero e sentimento, non sarà affatto interpretata come un personaggio, ma apparirà solo come un oggetto mobile di forma umana» [Velleman 2008, 420]. È il caso di Tallya, una donna con la quale ho conversato numerose volte, che in SL distribuiva la sua personalità in due differenti avatar le cui caratteristiche dovevano essere mantenute separate per fornire a ciascuno una personalità coerente. Il primo avatar, quello principale, era una mistress che non instaurava relazioni con uomini se non di dominazione, il secondo era quello di una donna “normale”, non etichettabile, dalla personalità fluttuante e situazionista.

La costruzione di un avatar coerente, nel suo aspetto e nel suo comportamento, è necessaria per dare un senso alle interazioni e all’identità che esso esprime nei contesti in cui si muove, per essere riconosciuto come persona virtuale e reale allo stesso tempo. Così se l’avatar deve comunicare l’identità di un artista, di un designer, di un dj, di una donna o un uomo deve essere costruito per essere riconosciuto dagli altri in quelle categorie. Scrivono Pontes de França e Soares:

Nel processo di creazione di un avatar, il soggetto sceglie con cura gli attributi fisici, nell’aspettativa che gli altri interpretino i segni come lui/lei ha previsto. Questi segni aiutano gli altri a valutare la persona in base all’apprendimento della “categoria in cui rientra”. Ad esempio, se una persona costruisce un profilo il cui avatar è un hippy, è probabile che l’avatar presenti agli altri un sistema di segni che, a partire dall’aspetto fisico e dai vestiti dell’avatar, dai suoi modi di fare, eccetera, permettono agli altri utenti di identificarlo come tale. Così, mentre costruisce un avatar, la persona è impegnata in una costruzione semiotica, scegliendo i segni più appropriati per generare l’immagine più appropriata. Tuttavia, la costruzione dell’avatar non si limita ai confini morfologici di un corpo fisico, affinché il soggetto possa (ri)presentarsi agli altri in modi diversi, umani o non umani, nell’ambiente virtuale [Pontes de França e Soares 2015, 6448].

L’avatar non è la rappresentazione di una identità o la proiezione in un agglomerato di pixel antropomorfi di desideri che finalmente trovano un luogo in cui possono essere espressi. L’avatar è una identità corporalizzata. Diversamente dalla realtà fisica, dove con lo stesso corpo viviamo identità diverse e possiamo differenziarle con l’abbigliamento, il linguaggio e la gestualità, nella realtà virtuale ogni identità ha il suo specifico corpo che può essere modellato in sintonia con la visione dell’avatar. Si può immaginare quanto possa essere soddisfacente per una transessuale vedersi e muoversi con un corpo perfettamente femminile o per un disabile privo della mobilità agli arti inferiori poter camminare.

L’avatar si autorappresenta attraverso segni visivi, che sono principalmente il suo corpo e il suo abbigliamento, ma anche attraverso il profilo. Il profilo è una scheda che appare cliccando con il tasto destro sul corpo dell’avatar. È costituito da testi e immagini, e suddiviso in sezioni le cui più importanti e visionate sono “2nd Life”, “Picks” e 1st Life”, inoltre c’è un campo “Notes” dove si possono inserire informazioni sull’Avatar: dove è avvenuto il primo incontro, un giudizio e altre informazioni di ogni tipo ottenute durante le interazioni con esse. Nella sezione “2nd Life” il soggetto inserisce informazioni sulla personalità del suo avatar, le preferenze sessuali, le sue eventuali attività lavorative, e ogni altra informazione utile a definire il suo carattere e i suoi desideri e le aspettative nei confronti degli altri. Nella sezione “Picks” c’è la possibilità di creare tabelle con un titolo; qui spesso il soggetto inserisce amici, luoghi, regole di interazione con altri avatar e informazioni aggiuntive su di sé. Nella sezione “1st Life” il soggetto inserisce informazioni sulla sua RL, in genere pochissime. In ogni sezione c’è la possibilità di inserire immagini reali.

Pur essendo la realtà virtuale e in particolare SL un ambiente audiovisivo, le interazioni e le relazioni avvengono attraverso il medium della parola, scritta e più raramente parlata. Le interazioni fra avatar avvengono attraverso pose, cliccando su un oggetto (una sedia dove ci si può sedere o una tazza di caffè per poterla prendere) o sulle delle sfere rosa o celesti; in entrambi i casi le animazioni sono precostituite e limitano la creatività dei soggetti. Ma le relazioni si costruiscono con le conversazioni e il dialogo, anche se spesso il look dell’avatar è una precondizione che contribuisce a costruire una partecipazione immersiva nel contesto. È rarissimo che qualcuno voglia interagire con un noob (o newbie o system avatar), ovvero un avatar che si aggira in SL con l’aspetto fornito di default al momento della creazione dell’account: «No mesh, no party» leggo in un profilo, laddove gli avatar mesh sono gli avatar dotati di corpo, testa e skin di ultima generazione che rendono realistiche le fattezze del personaggio.

Ora, assumendo che una identità virtuale è pienamente una identità reale inserita in una rete di relazioni con persone e ambienti con conseguenze nella autopercezione del soggetto e nella realtà fisica, quali implicazioni comporta questo proliferare di identità virtuali e reali con il concetto di Sé? Il termine Sé è stato usato il più delle volte con disinvoltura nella letteratura antropologica come un contenitore di emozioni, stati interiori e personalità. Generalmente ci si riferisce ad esso come ad una entità che organizza le diverse identità, le personae e le parti della propria personalità interiore. L’impossibilità di pensare al Sé nei termini di un “universale culturale” [Rosaldo 1984, 171] nasce dall’impossibilità di tradurre i dati comparativi provenienti dalle altre culture in concetti univoci e dall’uso di una psicologia etnocentrica. A tal proposito Michelle Rosaldo scrive: «finché il tipo di psicologia scaturito dalla nostra cultura impregnerà le testimonianze relative ai popoli di qualunque parte del mondo, sarà difficile poter valutare correttamente le loro azioni» [Rosaldo 1984, 178]. Ma anche perché la postmodernità, piuttosto che aver raso al suolo le concezioni romantiche (basate sull’interiorità dell’individuo) e moderne (focalizzate sulla dimensione razionale) della persona, le ha indebolite e inglobate senza sostituirle, accettandole come “voci” al pari di altre nella paratassi ateleologica, plurale e desostanzializzata del discorso sociale postmoderno6 dove quello che conta è il processo non la statuaria del risultato7, la narrazione e la rappresentazione piuttosto che la fattualità degli eventi.

Il Sé organizza autopoieticamente le esperienze online e offline. Tale attività non è visibile, ma percepibile soltanto al soggetto e comunque sempre temporanea, effimera, immateriale e assume una forma soltanto nelle narrazioni. Una autobiografia o una storia di vita narrata oralmente o scritta, fissa l’attività processuale autopoietica del Sé, sempre in divenire, in una forma materiale (sempre provvisoria e contingente) diretta alla rappresentazione di una unitarietà e unicità consapevolmente costruita, una finzione vera che ipostatizza l’autopoiesi in un momento della storia del soggetto narrante per fornire una immagine pubblica. In questa direzione sembra procedere Brian Morris che collega il concetto di Sé a quello di Persona basandosi sulle teorie di Rom Harré per cui il concetto di persona è il modello originario correlato all’immagine pubblica – in questo senso persona come maschera nella definizione latina – mentre il Sé è il principio organizzatore delle esperienze che sceglie quale persona o quali personae rappresentare contestualmente.

Il Sé narrativo, l’immagine persona sviluppata ed esposta in tali situazioni, non può certamente rimanere la stessa. Si trasforma quando l’attore si relaziona in altri contesti e con altri co-attori, integrandosi in altre reti. L’azione ristruttura le relazioni sociali e si traduce in una reinterpretazione dei contesti sociali, e di conseguenza il significato della distinzione dagli altri – il senso riflessivo del Sé – cambia [Sökefeld 1999, 426].

Il concetto di Sé narrativo ha origine con Paul Ricoeur [1990] e Jerome Bruner [1990] che furono i primi a teorizzarlo.

Sebbene sia stato già discusso da commentatori precedenti, Ricoeur e Bruner sono stati i primi a definire cosa sia il Sé narrativo. Fondamentalmente il Sé narrativo è il modello che noi ci facciamo delle esperienze della nostra vita come una storia che evolve – un cucire insieme i diversi Sé episodici in modo che essi possano essere visti come aspetti di un unico Sé. […] Il Sé narrativo fornisce all’individuo un senso di unità e un fine. Esso fonda i due concetti cognitivi che l’avere un Sé dovrebbe mettere in atto: il concetto di Io unico e il concetto di Io continuo [Edwardes 2019, 172-173].

Tuttavia pensare al Sé come ad una attività mentale e alla narrazione come unica manifestazione materiale del Sé, separa l’agire (l’esperienza) e il pensare (la rappresentazione) collocandoli in momenti cronologicamente e dualisticamente separati. Per superare tanto l’universalismo (il suo essere un concetto applicabile a tutte le culture) quanto il relativismo (la sua scomparsa nei dettagli delle culture locali) deI Sé, bisognerebbe adottare una postura pragmatica – o “prassiologica”, come direbbe Bourdieu –, ovvero mettere alla prova il Sé nel contesto delle azioni e delle pratiche, nei processi di costruzione identitaria tra istanze individuali e sociali. Un Sé processuale, dunque, che si manifesta nell’azione, che costruisce la sua ideale, ma illusoria, unità e coerenza nel momento stesso dell’azione. Scrive Sökefeld:

Il sé narrativo, l’immagine personale sviluppata e mostrata in queste situazioni, non può certo rimanere lo stesso. Si trasforma nel momento in cui l’attore si relaziona con altri contesti e con altri co-attori, integrandosi in altre reti. L’azione ristruttura le relazioni sociali e porta a una reinterpretazione dei contesti sociali, e così il significato della distinzione dagli altri - il senso riflessivo di sé – cambia [Sökefeld 1999, 426].

Quando siamo in-azione, nell’esperienza, il Sé si manifesta come unità di corpo e mente, va colto nella sua prassi, nel quadro di una identità in azione, nell’equilibrio fra persona/maschera, emozioni, sensazioni, valori, ideali e desideri. Che senso ha pensare al Sé come qualcosa che viene dopo l’esperienza? Quando e perché dovrebbe emergere la necessità di darsi, dopo l’esperienza, un Sé? Come può un soggetto riconoscersi in un Sé costituito da identità differenti come quella, per esempio, di un mafioso praticante cattolico o di una donna che vive SL con avatar sia maschili che femminili?

Il Sé, visto come un “semplice” principio organizzatore assume lo stato di un’entità trascendentale o autoreferente. Può essere invece concepito come un progetto in fieri. Come un processo, ma ancor più come un tentativo, di agglomerazione coerente delle identità e delle esperienze che funziona per conferme e rimozioni, aggiustamenti di tiro e ripetizioni.

Nella tradizione di studi antropologici il Sé (individuale) viene concepito come unitario mentre le identità (culturali e sociali) sono multiple [Sökefeld 1999, 419]. Come scrive Sökefeld, il Sé “è una istanza superordinata (anche se non distaccata da) della pluralità di identità. Mentre queste identità possono essere vissute come una pluralità, il sé è vissuto come uno perché è la cornice che garantisce la continuità su cui si iscrive la molteplicità delle identità [Sökefeld 1999, 424]. Nella definizione di Stanton Wortham la definizione di etereogeneously distributed self recita: «Il Sé è eterogeneamente distribuito perché un sé coerente emerge dall’interconnessione di strutture d diverso tipo, che insieme facilitano l’esperienza e la manifestazione di una identità coerente» [Wortham 1999, 155].

Tornando all’avatar, come fa il soggetto ad autorappresentarsi in modo coerente nel mondo virtuale nella molteplicità delle sue identità espresse dai suoi alt? Come fa il Sé a gestire identità talvolta radicalmente diverse? Generalmente il possesso di alt è considerato una pratica deprecabile e biasimata, che segna il soggetto come inaffidabile, falso, inautentico, incoerente. Pertanto il possesso di alt deve essere tenuto segreto. Sono l’anonimato e il segreto che salvano il soggetto dalla disapprovazione. La coerenza, allora, è più una regola sociale eteroimposta che una reale necessità del Sé.

Doug, il menzionato informatore di Turkle, agisce in diverse zone di MUD con differenti personaggi visualizzandoli in finestre che gli consentono, come dice, di

accendere e spegnere pezzi della mia mente […] Ho diviso la mia mente. Sto migliorando. Riesco a vedermi come se fossi due o tre o più. E accendo solo una parte della mia mente e poi un’altra quando vado da una finestra all’altra. Sono in una sorta di discussione in una finestra e sto cercando di fare sesso con una ragazza in un’altra, e un’altra finestra potrebbe eseguire un programma di fogli di calcolo o qualche altra cosa tecnica per la scuola. E poi ricevo un messaggio in tempo reale [che lampeggia sullo schermo non appena viene inviato da un altro utente del sistema], e credo che questo sia RL. È solo una finestra in più, e di solito non è la mia migliore [Turkle 1995, 13].

La metafora delle finestre, dice Turkley, ci aiuta a pensare al Sé come a un “sistema multiplo e distribuito”,

Il sé non è più solo quello che interpreta ruoli diversi in contesti diversi e in momenti diversi, che una persona sperimenta quando, ad esempio, si sveglia come amante, prepara la colazione come madre e va al lavoro come avvocato. La pratica di vita delle finestre è quella di un sé decentrato che esiste in molti mondi e gioca molti ruoli allo stesso tempo [Turkle 1995, 14].

La distribuzione del Sé in diversi alt/identità evoca la teoria dell’identità multipla secondo la quale viviamo diverse identità con cui soddisfare desideri, bisogni e aspirazioni individuali all’interno di gruppi sociali.

Le identità possono essere considerate come mattoni per la costruzione di una immagine di sé. Questi blocchi non vengono semplicemente posati così come vengono forniti, ma vengono rifilati e dotati di forme che possono essere incorporate in un insieme più o meno integrato. Cioè, le identità sono interpretate dall’essere umano che agisce in modi specifici [Sökefeld 1999, 426].

In SL queste parti di personalità possono essere molteplici e non necessariamente vengono espresse attraverso il role play (gioco di ruolo)8. Qui gli utenti si dividono in due categorie, quelli che ruolano e quelli che sono “se stessi”. La differenza può essere sfumata. Quando un utente scrive nel suo profilo che non è un role player, intende dire che non inventa situazioni (con la complicità di almeno un altro avatar) che non siano quelle che l’ambiente offre in quel momento.

In antropologia spesso termini come individuo, persona, Sé, sono spesso sovrapposti e confusi [Gredys Harris 1989]. Complice di questa indifferenziazione è stata l’antropologia stessa da sempre focalizzata sull’alterità e sui ruoli sociali piuttosto che sull’individuo e sul Sé, relegando quest’ultimo, come le emozioni e le sensazioni, all’ambito del non indagabile perché “interiore” se non dalla psicologia. Inoltre, essendo l’antropologia degli anni Sessanta e Settanta essenzialmente comparativa e strutturalfunzionalista, doveva usare categorie collettive come società, cultura, parentela, potere, ecc. che, applicate localmente, producevano individui stereotipati, clonati dalla cultura e dalla società in cui vivono. Secondo Anthony Paul Cohen – ricordiamolo, è stato il demolitore del concetto sostanzialista di comunità – che nel suo articolo si concentra sul Sé dell’antropologo piuttosto che sulle concezioni del Sé in altre culture, un primo riconoscimento dell’individualità è avvenuta quando il concetto di simbolo è stato interpretato in modo polisemico in relazione all’agency dei partecipanti. Cohen sostiene che il paradigma funzionalista riteneva che le persone condividevano credenze e significati attraverso l’appartenenza a una cultura comune, ma successivamente l’antropologia si è

liberata dalle sue strutturali e funzionali connotazioni, nelle quali la cultura appariva come un meccanismo integratore, ora descritta come un fenomeno aggregativo la cui condivisione fra la popolazione di una data società dovrebbe essere considerata problematica (vedi Cohen 1985). È precisamente in questo modo che l’individuo viene riammesso nel computo antropologico come qualcosa di più di una determinata e malleabile rifrazione di forze sociali sovraordinate [Cohen 1990, 39].

Il concetto di Sé è entrato nell’antropologia attraverso un riconoscimento del ruolo della soggettività dell’antropologo sul campo e degli effetti che essa ha nella produzione di conoscenza. Un cambiamento avvenuto attraverso il riconoscimento delle emozioni come categoria culturale [Geertz 1973; Rosaldo 1984; Lutz 1986; Lutz and White 1986], la svolta letteraria e l’istituzione dell’antropologo come autore, infine ha contribuito non poco la pubblicazione dei diari di Malinowski [1967].

Morris inoltre concorda con Gredys Harris [1989] sulla tripartizione fra Individuo come singola entità del/nel mondo, Sé come centro dell’esperienza e Persona come attore sociale [Morris 1994, 1]. Tali categorie assumono specifici significati all’interno di specifiche culture e storie nelle quali il discorso sociale elabora un ideale di persona e una gerarchia sociale basata sulla vicinanza o distanza da quell’ideale. Fra i Tallensi, scriveva Fortes, «l’ideale di persona completa è un maschio adulto che ha raggiunto la vecchiaia e una posizione di rilievo nel lignaggio[...] che ha discendenti nel patrilignaggio»[Fortes 1987, 264]. Riconoscendo il passaggio da una proprietà integrativa della cultura ad una aggregativa, anche il concetto di Sé ci appare come un principio che non costruisce l’unità frullando le identità in un immaginario melting pot, ma le lascia indipendenti e riconoscibili come i pezzi di frutta di una macedonia. Che il Sé sia visto come una entità che integra (frulla) le identità per costruire un senso di sé stabile o come una struttura che aggrega identità diverse, resta ferma la coerenza quale caratteristica fondativa del Sé.

Il rapporto fra l’avatar e il soggetto in esso incorporato può essere di diverso tipo. Vi sono tre tipi di utenti in SL: aumentazionisti, giocatori di ruolo e immersionisti. La fonte di questa distinzione è incerta, la si può leggere in qualche profilo di avatar e poi in alcuni blog9. Sebbene non provenga, almeno apparentemente, da una fonte “scientifica” essa è oltremodo pertinente e utile per definire le tipologie di partecipazione alla realtà virtuale.

Gli aumentazionisti sono coloro per cui l’avatar stabilisce una connessione con la persona reale, estendendo la personalità di RL dentro SL. I giocatori di ruolo sono personaggi dentro una storia inventata. Gli immersionisti sono coloro che si identificano con il loro avatar e vivono SL attraverso i loro occhi. Alcune persone appartengono a soltanto una di queste tipologie, ma altri le usano tutte. I giocatori di ruolo usano delle maschere per recitare dei personaggi, che lo facciano con lo stesso avatar o con un alt sono in fin dei conti degli attori. Il confine fra aumentazionisti e immersionisti è in verità sfumato, in realtà gli aumentazionisti fanno, come gli immersionisti, cose differenti dal loro utente nella vita reale, sia pure vicine. Per esempio quando un dj reale prolunga la sua attività nei club di SL possiamo dire che si tratti un caso di augmentation, ma non possiamo essere sicuri che in ogni caso, per esempio, non sia membro di un gruppo BDSM o che abbia un alt. Allo stesso tempo quel dj è anche un’immersionista, perché svolge la sua attività in SL con una completa partecipazione nel contesto in cui agisce. Un immersionista non considera mai un role player come un attore, egli sempre interagisce con gli altri avatar come persone altrettanto completamente immerse nell’ambiente virtuale e può sentirsi disturbato da eventuali interruzioni causate dall’ingerenza della realtà primaria. Viceversa un role player agisce in modo totalmente immersivo quando impersona un personaggio e dalla sua prospettiva può vedere il comportamento degli altri come recitato quanto il suo, ma allo stesso tempo ciò non vuol dire che non sia completamente immedesimato nel suo ruolo come un attore stanislavskiano.

Anche in questo caso non dobbiamo immaginare i tre tipi di partecipazione dell’avatar alla realtà virtuale come nettamente separati. Un avatar può passare da un tipo all’altro di modalità partecipativa. Anche nella realtà primaria indossiamo delle maschere, in un certo senso siamo sempre role players che cambiano la maschera a seconda del contesto in cui agiamo e dell’identità che esprimiamo [Goffman 1956]. E ci sono momenti in cui togliamo la maschera, o ci cade inavvertitamente o, ancora, la rendiamo semi-trasparente per comunicare con chi ci sta di fronte oltre il ruolo stereotipato, aprendo un varco per dimensioni dell’essere differenti.

Tuttavia l’approccio drammaturgico secondo cui siamo tutti attori, nel virtuale o nel reale, che indossano una maschera e recitano un personaggio non rende giustizia agli aumentazionisti e tanto meno agli immersionisti. A meno che la maschera non sia altro che lo strumento capace di manifestare una determinata identità che l’individuo potenzialmente possiede. Ovviamente, per sfuggire alla portata generalizzante ed essenzialista delle definizioni, aumentazionisti, immersionisti e role players vanno analizzati in situazione nella costruzione del loro rapporto con la realtà virtuale.

Riassumendo quanto fin qui analizzato, il Sé è l’istanza organizzatrice delle identità di un individuo. Il Sé comincia ad esistere solo quando ci poniamo la domanda «chi sono io?». Può essere colto oppure provvisoriamente fissato soltanto in una narrazione, ma ovviamente esiste per il soggetto in sé come una attività autoriflessiva, ovvero come coscienza di sé, che avviene quando il soggetto riflette su una specifica identità o esperienza, come coscienza di quella identità, o quando mette in relazione diverse identità accomunate da un tratto psicologico o sociale comune.

Le identità convivono nel Sé conservando la loro unicità e coerenza interna (assicurata da un Io, da una coscienza che le rende tali e da una “costruzione semiotica” dell’avatar), pertanto il Sé non costruisce la sua unità integrando le identità – vedi critica di Cohen allo strutturalfunzionalismo – ma aggregandole riconoscendo ad esse tanto la dipendenza da contesti e mood differenti quanto somiglianze di famiglia. Si tratta dunque di un Sé distribuito e aggregativo, che nel caso di SL si esprime attraverso l’avatar e i suoi eventuali alt, corpi che esprimono dimensioni della personalità del soggetto non facilmente visualizzabili o esprimibili nella realtà primaria.

L’avatar è un corpo digitale che incarna parti della personalità – spesso occultate perché contraddittorie, impossibili, antisociali in RL – del suo proprietario il quale agisce nel mondo virtuale a diversi livelli di partecipazione e immersione. Quindi, riprendendo l’idea di un Sé processuale, ovvero situato e quindi sempre provvisorio, effimero e dinamico, dobbiamo rinunciare all’idea che il Sé possa costruire una ideale unità con i mattoni delle identità, decontestualizzandosi dall’ambiente, dai contesti delle identità, delle specifiche situazioni che le identità selezionano per definirsi tali, dalle specifiche relazioni, instaurandosi come una rappresentazione mentale decorporalizzata, decontestualizzata, destoricizzata, che intende proteggersi dalle esperienze – e dunque dal corpo – che potrebbero destabilizzarla e smontarla. Questo “muro di mattoni”, tuttavia, prima o poi si sgretola quando nuove esperienze ne incrinano la struttura. È un Sé, questo, che sembra una super-persona, una maschera non collocata in una specifica situazione e identità.

A questa idea monolitica e monologica del Sé è stata contrapposta l‘idea di un Sé dialogico, ovvero relazionale, inscritto in pratiche [Muller 2016]10, che comporta allo stesso tempo il fatto che l’identità “non può essere definita come un set di proprietà individuali; essa esiste soltanto all’interno di uno spazio visibile e dipende dal nostro posto in diverse azioni dialogiche. Prima siamo parte di un noi; solo dopo c’è un Io” [Muller 2016, 935].

Dalla prospettiva del sé dialogico, il Sé distribuito non ha senso e l’idea della distribuzione è di fatto l’espressione di una variante sostanzialista che vede il Sé come qualcosa di sempre esistente seppure disseminato in molte identità. Il Sé dialogico, invece, è la provvisoria costruzione di una coerenza effimera “per sua natura”.

Per concludere, dobbiamo chiederci se la diffusione degli avatar nelle realtà virtuali abbia cambiato la concezione del Sé. Le realtà virtuali come Second Life hanno creato uno spazio di espressione e rappresentazione che rende possibile l’espressione virtuale di desideri reali, la manifestazione di identità latenti non sempre desiderate, la rielaborazione virtuale di aspetti critici presenti nella vita reale – per esempio le disabilità –, ma soprattutto esse sono laboratori di costruzione di nuovi modelli di società, di parentela, di relazioni fra i sessi, di abitare. Inoltre la pratica degli avatar nella realtà virtuale sostiene la validità della teoria del Sé dialogico nel momento in cui certe identità – certi avatar – esistono solo quando siamo online in interazione con altri avatar e ritornano nello stato di latenza quando siamo offline. La vasta gamma di identità virtuali con cui centinaia di migliaia di esseri umani vivono la loro Second Life immersivamente, con identità molto diverse dalla loro Real Life, respinge l’idea di un Sé monologico capace di tenere insieme e omogeneizzare in una autorappresentazione unica e coerente identità eterogenee e conflittuali. Il Sé, dunque, non è una entità sostanziale – esso “appare” solo quando ci chiediamo «chi sono io?» –, ma un processo dialogico di costruzione della coerenza interna, di ricomposizione delle “incertezze” prodotte dalle nuove esperienze vissute “realmente” e “virtualmente”.

Bibliografia

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1 https://www.treccani.it/vocabolario/avatar/

2 Anni fa l’Università di Torino era presente su SL con un edificio di notevoli dimensioni gestito da studenti scelti fra quelli che avevano risposto al bando delle collaborazioni studentesche.

3 Segnalo qui il video realizzato nel 2013 da Elena Quintarelli, basato su una breve ricerca etnografica su una comunità di lesbiche: https://www.youtube.com/watch?v=zCMFEr40Z-s

4 Nello schema di McKinsey, la VR 2.0 (Second Life, Roblox, Fortnite, World of Warcraft) e la 3.0 (Decentraland, The Sandbox, Somnium Space, Cryptovoxels) si distinguono per le seguenti caratteristiche: struttura organizzativa centralizzata/ decentralizzata, valuta tradizionale/criptovaluta, avatar dedicato/interoperabilità dell’avatar su diverse piattaforme.

5 MUD è l’acronimo di Multi User Dungeon, una serie di giochi di ruolo in cui gli utenti assumono le vesti di un personaggio e si relazionano con gli altri in stanze e zone.

6 «Entrambe le concezioni della persona, quella romantica e quella modernista, hanno contribuito fortemente alla prospettiva individualista e alle istituzioni ad essa collegate. Per i romantici, relazioni come il matrimonio e l’amicizia erano sicuramente significative, persino sacre. Tuttavia, il loro significato dipendeva dal loro legame con l’interiorità profonda. Una relazione che univa le anime era profonda; una priva di tale comunione era semplicemente profana. Allo stesso modo, il modernismo riaffermava l’importanza della ragione e dell’osservazione individuale per l’azione umana; non bisognava ascoltare le autorità o i gruppi, ma le prove della propria ragione e dei propri sensi. L’essere umano ideale sotto il modernismo era autosufficiente, auto-motivato e auto-diretto» [Gergen 1991, 240].

7 «Attraverso il postmodernismo, quindi, sia il modernismo che il romanticismo vengono rivitalizzati, ma senza escludere l’altro. Prendono posto come voci significative e sostanziali nell’insieme dei giochi seri sviluppati ed elaborati dalla cultura nel corso dei secoli» [Gergen 1991, 248].

8 Talvolta, se l’avatar è un role player fornisce nel suo profilo informazioni su come approcciarlo. Ecco un esempio estratto dal profilo di un avatar femminile: «KJ, suo marito morì combattendo per reclamare Gerusalemme nella guerra santa, lasciandola senza nulla, ma un piccolo palazzo nell’oasi del deserto e un contingente delle sue guardie del corpo rimanenti per la sua sicurezza e il suo benessere. Ma senza di lui è vulnerabile. Come ladri nella notte, la tengono in ostaggio per il loro piacere. Accetta per necessità poiché non ha altra scelta che intrattenerli. porta dentro di sé un bambino di cui non sa chi sia il padre».

10 Riporto dall’abstract dell’illuminante articolo di Muller, nell’economia di questo testo impossibile da sintetizzare: «Il sé monologico enfatizza la separazione tra mente, corpo e mondo esterno, concentrandosi sulla funzione rappresentativa e descrittiva/referenziale del linguaggio. Al contrario, il sé dialogico enfatizza le pratiche, la natura permeabile delle relazioni tra i soggetti e la funzione costitutiva del linguaggio».