I rifugiati e le “soluzioni durevoli”: un’analisi critica a partire dal caso ugandese

Refugees and the “durable solutions”: critical insights starting from the Ugandan case

Alessandro Gusman

Dipartimento di Culture, Politica e Società, Università di Torino


Indice

Quali “soluzioni durevoli”?

L’Africa dei Grandi Laghi e i rifugiati

Il rimpatrio

L’integrazione locale

Il resettlement

Conclusioni

Bibliografia



Abstract

The UNHCR officially provides three “durable solutions” to the condition of refugee: voluntary repatriation, local integration, and resettlement. However, in many cases these solutions remain only on paper, not being feasible in reality for most refugees.

Taking as its starting point a critical analysis of refugee management in the countries of the Great Lakes Region in Africa, with a particular focus on the case of Congolese refugees in Uganda, this article seeks to investigate how these solutions are conceived and negotiated by refugees themselves in their experience.

Viewed from this context, the three durable solutions show their contradictory nature: repatriation is made impossible by the continuing conflicts in Congo DRC; local integration is hampered by the lack of access to citizenship, while resettlement is reserved to a very limited number of people. Given these conditions, many refugees find themselves in a situation of protracted limbo.

Keywords: Uganda; Congolese refugees; UNHCR; durable solutions; protracted refuge.



Quali “soluzioni durevoli”?1

A fine 2022 a livello globale più di 108 milioni di persone vivevano una condizione di mobilità forzata2, un’espressione che comprende sia i rifugiati e richiedenti asilo, sia quelle che vengono definite “persone sfollate internamente” (IDPs). Questo numero – mai raggiunto prima3 – dimostra come i conflitti, le violenze, le persecuzioni e l’inospitalità di alcune regioni a causa del mutamento climatico siano cresciuti in anni recenti a ritmi senza precedenti. Di questa numerosa popolazione sfollata dai territori di origine, solo una parte trova una “soluzione durevole” alla situazione di mobilità forzata.

Ufficialmente, l’UNHCR propone tre soluzioni: il rimpatrio (o “ritorno”, in termini più generali, se riferito alle IDPs); l’integrazione locale; il ricollocamento (resettlement) in un Paese terzo. Tuttavia, nessuna di queste tre “soluzioni durevoli” è facilmente accessibile: il ritorno è complesso, reso in molti casi impossibile dal protrarsi dei conflitti e delle violenze nei territori di origine; anche quando è attuabile, spesso non si tratta di un processo lineare e unidirezionale, come vedremo in seguito. Il ricollocamento è riservato a una quota ristretta di persone, per la combinazione tra aumento del numero di rifugiati e contemporanea diminuzione della disponibilità ad accogliere da parte dei Paesi di arrivo4, quasi tutti collocati nel cosiddetto “Nord globale”. L’integrazione locale è ostacolata dalla mancata volontà dei Paesi di accoglienza, che temono ripercussioni a livello politico e preferiscono mantenere i rifugiati nello spazio separato dei campi o, quantomeno, non permetterne la completa integrazione con l’acquisizione della cittadinanza. Il risultato di queste dinamiche è che, secondo i dati UNHCR del 2020, quasi l’80% dei rifugiati vive nella condizione definita di «rifugio protratto» [Macdonald, Porter 2020, 644], espressione che indica le persone rifugiate da cinque o più anni nel primo Paese di accoglienza. Esiste dunque una contraddizione marcata tra i regolamenti e le policy degli organismi nazionali e internazionali deputati alla gestione del fenomeno e la realtà vissuta dai rifugiati, che si trovano di frequenti bloccati in una condizione prolungata – e di fatto in molti casi indefinita – di rifugio, di cui non vedono soluzione. Come ricorda Luca Ciabarri in un recente articolo, queste situazioni di protracted displacement non riguardano più solo le aree extra-europee, ma anche i richiedenti asilo in Europa [Ciabarri 2023]; esse sono il prodotto di conflitti e di crisi prolungata tanto quanto di meccanismi istituzionali che mantengono le persone in una situazione di (im-)mobilità forzata.

Il presente articolo indaga queste contraddizioni esistenti tra policy e realtà vissuta del rifugio, esplorando da un lato il livello istituzionale delle “soluzioni durevoli” proposte, mostrandone la difficile applicazione a partire da alcuni casi relativi alla Regione dei Grandi Laghi in Africa Equatoriale; dall’altro, facendo ricorso a un’etnografia di lungo periodo condotta coi rifugiati congolesi in Uganda a partire dal 2013, che permette di ricostruire la loro prospettiva, i riflessi delle decisioni prese dagli attori istituzionali sulle loro esistenze e le strategie messe in atto per «navigare» [Vigh 2009] i contesti di rifugio e realizzare soluzioni che solo in parte coincidono e si adeguano a quanto proposto dagli organismi internazionali. Che senso assume il concetto di “soluzioni durevoli” se osservato da questa prospettiva? In che modo queste soluzioni sono negoziate, utilizzate strategicamente, anche raggirate?

Concentrandomi sulla condizione dei rifugiati congolesi a Kampala, con aperture frequenti ad altre situazioni di rifugio protratto attualmente in corso o che hanno caratterizzato la Regione dei Grandi Laghi nei decenni passati, in quanto segue analizzo rimpatrio, integrazione locale e ricollocamento, evidenziandone il carattere troppo spesso astratto e scorrelato dalle condizioni reali di vita delle persone a cui si dovrebbero applicare. Dalle premesse di cui sopra nasce la domanda relativa a chi sia da ritenere responsabile della difficoltà a dare soluzione alle diffuse condizioni di rifugio protratto. Spesso questa responsabilità è stata fatta ricadere sui Paesi di origine e sulle condizioni di instabilità che marcano quei contesti, sull’incapacità di porre fine a conflitti che si cronicizzano. Tuttavia, questa prospettiva può essere rovesciata per osservare che il limbo rappresentato dal rifugio protratto si origina in buona parte dall’incapacità degli Stati ospiti e della comunità internazionale di creare le condizioni politiche, ma anche economiche e sociali, per garantire ai rifugiati di poter avere accesso a una soluzione realmente «durevole» [Hovil, Lomo 2015, 47].

L’Africa dei Grandi Laghi e i rifugiati

La regione dell’Africa dei Grandi Laghi, un’area interessata negli ultimi decenni da frequenti migrazioni forzate, è un punto di osservazione importante per indagare le dinamiche sopra introdotte. Si tratta di un contesto in cui nell’epoca post-indipendenza, a partire dagli anni Sessanta, tutti i Paesi tranne la Tanzania hanno vissuto situazioni di conflitto che hanno generato flussi di rifugiati (in diversi casi anche in maniera ripetuta); al tempo stesso, tutti questi Paesi sono o sono stati recettori di gruppi di rifugiati. I motivi di questa condizione vanno ricondotti alle conseguenze del dominio coloniale, ai fallimenti politici (locali e internazionali) nel periodo post-indipendenza e alla conflittualità diffusa per il controllo delle ingenti risorse minerarie presenti nella regione. Per le sue caratteristiche peculiari, la storia recente delle migrazioni forzate nella regione, che comprende la Repubblica Democratica del Congo, il Burundi, il Rwanda, l’Uganda, la Tanzania e il Kenya, costituisce un caso studio esemplare delle dinamiche di rifugio che hanno interessato diverse aree del pianeta in tempi recenti. Queste situazioni sono contraddistinte da numeri elevati di persone forzate a lasciare il luogo in cui vivevano per la presenza di conflitti e violenze, spesso protratte per lunghi periodi, soprattutto nei casi nei quali sono presenti i cosiddetti conflitti “a bassa intensità”, come nelle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo5. In aggiunta alla dimensione numerica, la durata prolungata della mobilità forzata è quindi un carattere che accumuna questi contesti.

Nell’Africa dei Grandi Laghi la combinazione di conflitti e crescenti politiche neoliberali degli Stati produce un’esperienza diffusa di vulnerabilità e di marginalizzazione. Questi fattori si intrecciano con la “slow violence” degli interventi umanitari, in anni recenti spinti soprattutto da un’agenda di securitizzazione che ha accentuato le condizioni descritte; l’elemento considerato centrale nelle politiche recenti è infatti la limitazione della mobilità, un fattore paradossale per chi si trova in una situazione di mobilità forzata. Questo paradigma dello «sviluppo per contenimento» [Landau 2019] ha prodotto anche uno spostamento di focus dai «rifugiati» alle «migrazioni forzate» [Chimni 2009], spostando il centro dell’attenzione verso la prevenzione della mobilità, anziché i diritti di chi acquisisce lo status di rifugiato. In queste situazioni, la vulnerabilità è dovuta in maniera importante anche alla mancanza di diritti di cittadinanza; il rifugiato dal punto di vista giuridico è infatti persona esterna alla comunità dello Stato-nazione in cui si trova, senza i diritti che derivano dall’essere cittadino e senza dunque la possibilità di rivendicare l’accesso alle risorse del Paese in cui si vive. La fabbrica dell’umanitario ha contribuito ad accentuare ulteriormente la distanza tra la condizione di “cittadino” e quella di “rifugiato”: le responsabilità dello Stato, inclusa quella di fornire protezione e diritti a chi vi risiede, sono infatti spostate sugli organismi internazionali. Come è avvenuto spesso negli ultimi decenni in contesti africani e non solo, l’intervento delle agenzie umanitarie non si è affiancato a quello dello Stato, ma lo ha sostituito (e talvolta anche destituito). In questi decenni, gli interventi umanitari nella Regione dei Grandi Laghi non hanno irrobustito le relazioni Stato-cittadino; al contrario, hanno fatto sì che le persone si rivolgessero agli organismi extra-statali, esternalizzando le loro aspettative e domande e sorpassando quindi il rapporto con lo Stato stesso [Kihato, Landau 2020].

L’emblema di questa extra-statalità dei rifugiati è la forma-campo, caratterizzata dalle tre dimensioni dell’extra-territorialità (dimensione spaziale), dell’eccezionalità (dimensione legale) e dell’esclusione (dimensione sociale) [Agier 2011]. I Paesi ospiti e l’UNHCR si sforzano di mantenere la politica al di fuori degli spazi di “eccezionalità” rappresentati dal campo e dal settlement; questa operazione è possibile anche attraverso la narrazione dell’esilio come temporaneo e come “stato di eccezione”, che permette di sospendere la condizione di normalità [Turner 2005]. Ma come cambia tutto ciò se si osserva che questa presunta temporaneità in diverse situazioni si prolunga in modo indefinito, fino anche a trasformarsi in permanenza? Implementare delle reali “soluzioni durevoli” a fronte di queste situazioni di rifugio prolungato diventa ancora più necessario.

L’UNHCR e i Paesi della regione hanno a lungo ritenuto il rimpatrio la soluzione preferenziale. Al di là della complessa implementazione delle politiche di reintegrazione, di cui tratterò nella prossima sezione, un aspetto che va sottolineato è che rimpatrio, reintegrazione, integrazione locale e ricollocamento sono concepiti dalle agenzie internazionali come “problemi tecnici”, da affrontare e risolvere tramite risposte tecniche, che consistono nel mettere in moto la macchina istituzionale necessaria a implementare le diverse strategie. Va osservato tuttavia come questa “macchina” venga applicata indistintamente a tutti i rifugiati presenti in un contesto, non tenendo conto delle casistiche individuali, delle diverse traiettorie di rifugio, né della volontà e delle aspirazioni dei rifugiati. Per questo motivo non sono stati infrequenti, nella Regione dei Grandi Laghi come altrove, i casi di rimpatrio forzato. Un caso emblematico è quello dei rifugiati ruandesi in Uganda: nel 2010, considerando il Ruanda un Paese sicuro per il rimpatrio, il governo ugandese ha proposto di togliere lo status di rifugiato ai ruandesi che rifiutavano di rientrare nel Paese di origine (una decisione che li avrebbe resi “senza Stato”). In seguito, pur se questa misura non è stata adottata, il governo ha impedito loro di coltivare la terra, rendendone molto difficile la sopravvivenza. Questi rimpatri tecnici sono spesso stati alla base di quello che può essere definito un “rimpatrio senza integrazione” [Daley 2013, 902].

Un altro aspetto che caratterizza l’approccio recente alla questione dei rifugiati nella Regione dei Grandi Laghi e soprattutto in Uganda è il passaggio a policy in cui si sottolineano l’autosufficienza, l’agency e la resilienza dei rifugiati, individuati come elementi che possono facilitare l’inclusione nella società locale e la capacità di trovare forme di sopravvivenza diverse dalla dipendenza dagli aiuti esterni6. Come è stato osservato, se da un lato è importante evidenziare che i rifugiati sono agenti attivi nel disegnare le traiettorie esistenziali durante il rifugio, dall’altro questo rischia di spostare la responsabilità di trovare forme di integrazione nella società locale sui rifugiati stessi anziché sugli Stati ospiti e sulla comunità internazionale [Hovil, Maple 2022]. Le forme di autosufficienza devono essere accompagnate da leggi e interventi che rimuovano le barriere alla partecipazione dei rifugiati alla vita politica – ampiamente intesa – e alla cittadinanza. Al contrario, se i rifugiati continuano a essere percepiti come “ospiti temporanei” che non hanno “diritto alla città” [Lyytinen 2015], l’evocazione dell’autosufficienza e della non-interferenza rischia di accentuare anziché ridurre l’isolamento e la ghettizzazione, senza accesso ai servizi basilari e con la necessità di ricorrere a network protettivi alternativi, come quelli forniti dalle istituzioni religiose, per far fronte a questi vuoti legislativi e mitigare l’incertezza generata dal rifugio protratto [Gusman 2020].

In quanto segue analizzerò separatamente le tre soluzioni durevoli, a partire dalle ricerche condotte tra i rifugiati congolesi a Kampala e in maniera comparativa con altri casi di rifugio nella Regione dei Grandi Laghi descritti in letteratura.

Il rimpatrio

Tornare in Congo non è più un’opzione per me. Forse all’inizio; pensavo che se la situazione fosse migliorata, sarei potuta tornare a casa. Ma oggi, dopo quasi 13 anni, non ci penso più; so che il mio Paese, il Paese che ho conosciuto, non esiste più. La mia casa non esiste più, è stata distrutta. Le persone che avevo lasciato là quando sono scappata sono quasi tutte morte, o scappate anche loro. Dove dovrei tornare? (E., 9/9/2023, Kampala)7.

Secondo i dati dell’UNHCR, a fine giugno 2023 l’Uganda ospitava oltre un milione e mezzo di rifugiati; di questi, il secondo gruppo più numeroso dopo i sud-sudanesi era quello dei congolesi, con oltre 490mila persone registrate come rifugiate o richiedenti asilo nel Paese. Circa 144mila rifugiati vivono nella capitale ugandese, Kampala (anche se in questo caso i dati ufficiali sono probabilmente sottostimati), dei quali circa 40mila sono congolesi8. I principali motivi dichiarati per spostarsi dai settlement alla città sono la ricerca di opportunità migliori in termini di lavoro, educazione e accesso ai servizi sanitari. Per questo quasi mezzo milione di congolesi che vivono in Uganda, così come per E., la donna di cui riporto un estratto di intervista in apertura del paragrafo, le prospettive di un rimpatrio a breve o medio termine sono inesistenti; i conflitti nelle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo si protraggono a fasi alterne da decenni e questo rende impossibile pianificare un ritorno in condizioni di sicurezza. L’UNHCR non ha implementato programmi di rimpatrio volontario verso queste regioni, ma solo alcuni movimenti – peraltro poco numerosi – di ritorno dall’Angola e dallo Zambia verso le regioni di Kinshasa e del Kasai. In aggiunta a questo, dopo periodi prolungati trascorsi in Uganda come rifugiati, la maggior parte dei congolesi intervistati dichiarano di non voler più fare ritorno in Congo, dove non hanno più abitazione, terre, reti sociali.

Al di là dei dati ufficiali, la ricerca sul campo evidenzia che i movimenti informali tra l’Uganda e il Congo DRC sono tuttavia numerosi; nella maggior parte dei casi circolari, questi spostamenti sono legati soprattutto ai traffici commerciali che i rifugiati implementano tra i due Paesi, trasportando cibi, automobili, metalli preziosi e altri beni. In alcune situazioni, tuttavia, il rientro in Congo si configura come definitivo, seppure non autorizzato dall’UNHCR: un numero impossibile da conteggiare di rifugiati congolesi ha scelto di rientrare informalmente nel Paese di origine, per ragioni familiari o lavorative. La mia conoscenza diretta è limitata a due casi, ma diversi altri mi sono stati raccontati, relativi a individui che hanno modificato la propria identità, rientrando in Congo in città diverse da quelle di origine, per evitare di essere riconosciuti e identificati. Ufficialmente, il rimpatrio non è tuttavia previsto dall’UNHCR per i congolesi presenti in Uganda.

Delle tre “soluzioni durevoli”, il ritorno è la più studiata e analizzata, anche per l’enfasi posta su questa opzione a livello internazionale. Gli anni Novanta, con la fine della Guerra Fredda, hanno segnato quella che è stata definita dall’UNHCR la “decade del rimpatrio”. L’orientamento della comunità internazionale, volto più a non creare nuovi rifugiati che a garantire accoglienza, si è esplicitato nel 1994 con la creazione della categoria delle “internally displaced persons” (IDPs); i Guiding Principles stilati nel 1998 dalle Nazioni Unite prevedevano che gli sfollati interni avessero diritto a «ritornare volontariamente, in sicurezza e con dignità, alle loro case o ai luoghi di residenza abituale» [United Nations Commission on Human Rights 1998]. La strategia implementata da quel periodo in poi è una strategia di contenimento, tanto che le IDPs sono diventate nel giro di pochi anni più numerose rispetto ai rifugiati in Paesi diversi da quello di provenienza. Tutt’ora il rimpatrio è considerato dall’UNHCR la strategia prioritaria; tuttavia, in molti casi è impossibile o temporaneo, poiché si generano cicli di esilio e di ritorno. Le policy ne forniscono un’immagine semplificata, che non può essere ridotto a un movimento a ritroso nello spazio; si tratta invece di un percorso complesso e multiforme, fatto di mobilità tra i due Paesi, di relazioni e scambi che vengono mantenuti con il Paese di accoglienza anche dopo essere stati rimpatriati, di famiglie che si dividono per ricongiungersi solo a distanza di anni. Come mi hanno spiegato diversi interlocutori congolesi, non si può semplicemente “tornare indietro”; sebbene molti di loro – soprattutto i rifugiati di lungo periodo – continuino a parlare del Congo con nostalgia, dichiarano che si troverebbero fuori posto in un luogo che non conoscono e non riconoscono più (e da cui non sono più riconosciuti). Il ritorno implicherebbe la creazione di condizioni per un’integrazione pacifica, elemento considerato dai più irrealizzabile, ragione per cui viene considerato dalla maggior parte dei congolesi una “non soluzione”. Per avere il carattere di soluzione durevole, il rimpatrio deve infatti configurarsi come un “processo di rigenerazione” [Long 2013]. Come ha osservato Laura Hammond [2011], più che un ritorno a casa, il rientro è una forma di “home-making”; nella maggior parte dei casi – specialmente per chi torna dopo un periodo prolungato di esilio – non si ha più né una casa né la terra, che è stata nel frattempo occupata o attribuita ad altri. Si tratta insomma di un nuovo inizio, che implica anche la necessità di ricostruire i legami e le reti sociali disgregate. Nonostante queste difficoltà legate al ritorno e il fatto che negli ultimi anni il numero di rifugiati rimpatriati è diminuito considerevolmente se confrontato con gli anni Novanta, anche la più recente strategia implementata dall’UNHCR, il Comprehensive Refugee Response Framework (2019), insiste sul supporto nei Paesi di origine per garantire il ritorno in condizioni di sicurezza.

In aggiunta alle questioni legate alla sicurezza, il rientro dovrebbe rispettare il carattere della volontarietà; tuttavia, questo è contraddetto da quanto accaduto nella Regione dei Grandi Laghi nei decenni passati. In alcune situazioni si è infatti assistito a rimpatri forzati, come nel caso dei rifugiati ruandesi in Tanzania a fine anni Novanta; in altre, ci sono state pressioni da parte del Paese ospite o dell’UNHCR perché i rifugiati rientrassero nel Paese di provenienza, anche quando le condizioni non erano tali da considerarlo un ritorno “in sicurezza”. Questi casi evidenziano la distanza esistente tra il policy-making e la realtà economica e sociale vissuta dai rifugiati. Per i decisori politici, il rimpatrio è spesso visto come un processo lineare: il rifugiato lascia il Paese di accoglienza e rientra a vivere in quello di origine (perdendo quindi lo status di “rifugiato” nel momento in cui riattraversa il confine), dove viene reintegrato. Nella pratica, questa reintegrazione, sia sociale che economica e politico-legale, è spesso un processo lungo e complesso, che non sempre si completa in maniera positiva. L’esempio nel caso dei rifugiati burundesi in Tanzania, indagato tra le altre da Patricia Daley [2013], mostra in modo chiaro queste dinamiche. Dapprima accolti come “ospiti” (Wageni) sotto il governo socialista di Nyerere negli anni Settanta, a partire dagli anni Novanta i rifugiati burundesi hanno incontrato una crescente ostilità che si è esplicitata in una nuova legislazione restrittiva, emanata nel 1998, e più ancora in seguito tramite la progressiva chiusura dei campi. Ai rifugiati burundesi venne data l’alternativa tra il rimpatrio e la naturalizzazione: coloro che scelsero il rimpatrio (circa 500.000) si trovarono spesso in una condizione di mancata (re)integrazione nel Paese di origine, quella che la Daley chiama «repatriation without integration».

La naturalizzazione venne invece accompagnata da una forma di integrazione tramite marginalizzazione (integration through marginalization). Chi decise di tornare non ebbe infatti accesso alla terra e alle altre proprietà lasciate nel momento della fuga; per queste persone vennero creati ventidue “villaggi della pace”, in cui le condizioni di vita si dimostrarono inadeguate, essendo collocati in aree isolate e non avendo terra sufficiente per garantire un’orticoltura di sussistenza. A causa di questa situazione ostile, alcuni decisero di tornare in Tanzania, altri rimasero, vivendo in una situazione estremamente precaria, che non può essere definita una “soluzione durevole”. Segregati in villaggi inadeguati in aree remote, gli ex-rifugiati soffrirono inoltre della discriminazione e stigmatizzazione della popolazione locale, legata al loro status precedente di rifugiati [Daley 2013, 903].

Per i circa 170.000 burundesi che optarono invece per la naturalizzazione fu inizialmente previsto un ricollocamento forzato in altre aree del Paese, che avrebbe significato la perdita di tutto quanto avevano costruito nei decenni precedenti (si trattava per la maggior parte di rifugiati dal 1972). La politica di naturalizzazione venne proposta dal governo tanzaniano nel 2007, ma, dopo un lungo periodo di incertezza, i rifugiati burundesi ottennero infine lo status di cittadini nel 2014 senza essere spostati in altre regioni [Miletzki 2019]. A queste due situazioni problematiche e precarie va aggiunta la mancanza di un pieno riconoscimento di cittadinanza: chi scelse il rimpatrio veniva chiamato in modo derisorio e disprezzante “Tanzanian” o “UNHCR”, soffrendo di stigmatizzazione e recuperando solo in parte, dunque, il ruolo di cittadino del Paese di origine. Coloro che optarono invece per la naturalizzazione rimasero cittadini “incompleti”; venne infatti coniata la categoria ad hoc di “newly naturalized Tanzanians”, diventando anche in questo caso oggetto di marginalizzazione da parte della popolazione locale. Entrambe le situazioni furono dunque accomunate dal mancato riconoscimento completo in termini sociali e giuridici all’interno del Paese in cui si era scelto di vivere. La condizione di “displaced” sembra quindi non avere termine nemmeno quando viene attuata una delle soluzioni durevoli; gli ex-rifugiati si trovarono infatti a continuare a fronteggiare forme di esclusione economica e sociale anche dopo il rimpatrio o l’integrazione locale tramite naturalizzazione.

L’integrazione locale

Sono in Uganda da 22 anni. Sono arrivato nel 2000 e da allora sono sempre rimasto qui; prima in due campi diversi, poi a Kampala, dove vivo da dodici anni. Quando sono andato all’OPM9 e ho detto “Vivo in Uganda da 20 anni, voglio far domanda per diventare cittadino ugandese”, mi hanno detto che dovevo provare che negli ultimi due anni non ero mai uscito dal Paese, ma io non avevo nessun modo per farlo. Mi hanno fatto capire che la cittadinanza ugandese non ce l’avrò mai, perché non vogliono che noi rifugiati diventiamo cittadini; ci vogliono tenere qui come rifugiati (C., 30/5/2022, Kampala).

Questo estratto da un’intervista con C. introduce il tema della difficoltà ad ottenere la naturalizzazione. A livello globale, i numeri di questo fenomeno sono limitati; secondo i dati dell’UNHCR tra il 2013 e il 2022 poco più di 440 mila rifugiati sono diventati cittadini del Paese di accoglienza10. In diversi Paesi della Regione dei Grandi Laghi l’acquisizione della cittadinanza da parte dei rifugiati è possibile, sul piano legislativo; nella pratica, anche chi ha i requisiti per richiederla incontra molti ostacoli, come risulta dalla testimonianza sopra riportata. Nel caso dell’Uganda ci sono due modi in cui un cittadino straniero può ottenere la cittadinanza: per registrazione e per naturalizzazione. La strada della registrazione permette di fare richiesta della cittadinanza dopo dieci anni di residenza nel Paese, ma prevede che il richiedente debba essere entrato in Uganda “volontariamente”, una clausola che esclude di fatto i rifugiati, anche quelli di seconda generazione. La Costituzione ugandese agli articoli 12 e 14 dichiara infatti che chi nasce nel Paese può chiedere la cittadinanza per registrazione, con esclusione di chi ha genitori o nonni rifugiati in Uganda11. Teoricamente i rifugiati possono fare domanda di cittadinanza per naturalizzazione dopo 20 anni, ma numerosi interlocutori mi hanno riportato storie simili a quella di C., in cui altri congolesi che hanno cercato di ottenere la cittadinanza ugandese tramite naturalizzazione hanno incontrato ostacoli di tipo burocratico che hanno reso loro impossibile portare a termine il percorso.

La legislazione attualmente vigente in Uganda, il Refugee Act implementato nel 2006, ha portato a un’apertura rispetto all’opportunità per i rifugiati di acquisire la cittadinanza. La legge precedente, il Control of Alien Refugees Act (1960) escludeva qualsiasi possibilità per i rifugiati di diventare cittadini ugandesi; il Refugee Act stabilisce invece l’estensione della naturalizzazione anche ai rifugiati, ma non la regola, rimandando alla legge del 1999 relativa all’immigrazione [Walker 2011]. Questa contiene articoli che lasciano ampio spazio all’interpretazione di chi analizza il dossier di richiesta di naturalizzazione, facendo per esempio riferimento al fatto che il richiedente debba essere “di buon carattere”, o che debba avere l’intenzione, se naturalizzato, di continuare a risiedere in Uganda in maniera permanente. In aggiunta a queste clausole piuttosto indefinite, come abbiamo visto sopra il processo richiede vent’anni di residenza nel paese. In definitiva, la complessità e la discrezionalità delle procedure per la naturalizzazione fanno sì che il numero di persone straniere che accedono alla cittadinanza ugandese sia piuttosto limitato, meno di mille all’anno, e tra questi secondo quanto ricostruito da Bronwen Manby [2021] non figurerebbe nessun rifugiato.

A lungo l’integrazione nella società locale non è stata considerata una soluzione prioritaria da parte dell’UNHCR; anche oggi, come si è visto, è un’opzione praticata in modo limitato e che va incontro ad ostacoli significativi. Senza il riconoscimento sul piano legale, l’integrazione economica e sociale – agita spesso dal basso nel quotidiano della vita dei rifugiati – rimane fragile e incompleta [Hovil, Lomo 2015]. I due piani dell’integrazione de iure e di quella de facto vanno considerati insieme quando si parla di integrazione locale; si può infatti osservare che – anche in assenza del riconoscimento legale – i rifugiati mettono in atto nel corso del tempo azioni che costruiscono quella che Janna L. Miletzki [2019] ha definito una «pragmatica dell’appartenenza». La lunga attesa nei Paesi di rifugio, per quanto spesso segnata da un senso profondo di incertezza fisica ed esistenziale, non è quindi una condizione di inerzia, ma piuttosto una situazione in cui sono attivate strategie dal basso per costruire forme di appartenenza che vanno al di là del piano giuridico-istituzionale.

In questa dinamica tra integrazione legale e integrazione di fatto non va dimenticato infine che ricevere la cittadinanza non implica l’inclusione, cioè la possibilità di convivere pacificamente nella comunità locale; se dunque l’integrazione de facto può risultare fragile e incompleta senza quella de iure, a sua volta quest’ultima ha una valenza limitata se non accompagnata da elementi relazionali e socio-economici. L’integrazione locale è quindi da intendere come un processo, non come il momento in cui si riceve la cittadinanza [Hovil, Maple 2022].

Il resettlement

Un giorno viaggerò per gli Stati Uniti, o per il Canada, come hanno fatto alcune persone della mia famiglia. Voglio studiare per diventare un avvocato, aiutare le persone che soffrono, che sono escluse dalla società, come noi rifugiati qui in Uganda. Aspetto quel giorno, in cui inizierò la mia nuova vita. (J., 6/12/2014, Kampala).

Mi chiedi se ho ancora speranza nel resettlement. No, non ci penso più, non vado più a controllare a che punto è il mio dossier. Anziché restare ogni giorno ad aspettare che mi chiamino dagli uffici dell’OPM, ho deciso di impegnarmi per lavorare, dare un’opportunità a mia figlia qui; ma è dura, siamo esclusi da tutto. (J., 5/9/2023, Kampala).

Tra il 2013 e il 2015, durante il primo periodo delle mie ricerche coi rifugiati congolesi a Kampala, quella del resettlement era non solo l’aspirazione principale della grande maggioranza dei miei interlocutori, che immaginavano un futuro negli Stati Uniti, in Canada o in qualche Paese del Nord Europa, ma anche una vera e propria ossessione per molti, che spendevano una parte consistente del tempo a seguire l’iter del dossier depositato presso l’OPM e a modificare la richiesta sulla base di nuove prove che riuscivano a produrre e che speravano potessero accelerare il processo di ricollocamento. Il successo di quest’ultimo era ritenuto così centrale nella possibilità di costruire una nuova vita che diventava oggetto di invidie, risentimenti, nascondimenti. Il fatto che il dossier si bloccasse diventava frequentemente motivo di accuse di stregoneria [Gusman 2018]; per questa ragione nella maggior parte dei casi le persone tenevano nascosto il fatto di aver svolto il colloquio per il ricollocamento, fino almeno al completamento dell’iter e talvolta anche fino alla partenza stessa, che non veniva comunicata a nessuno se non ai familiari più stretti. Il ricollocamento era pensato da molti congolesi a Kampala come l’unica “vera soluzione” al rifugio, unica opzione desiderabile, nonostante le difficoltà e le lunghe tempistiche dell’attesa. Questo senso dell’attesa veniva sovente ricondotto a narrative di tipo religioso, esplicitate per esempio nel parallelismo tra la condizione di essere rifugiato in Uganda e il racconto biblico dell’attraversamento del deserto del Sinai da parte del popolo di Israele; la religione funge qui da strumento di costruzione del significato di esperienze di sofferenza e di precarietà altrimenti difficilmente comprensibili [Gusman 2021]. Col passare degli anni, tuttavia, la speranza di essere ricollocati sta lasciando spazio a una forma crescente di disillusione e di scoramento: dopo dieci o più anni trascorsi in Uganda, molti dei miei interlocutori stanno iniziando a pensare che trascorreranno il resto della loro vita nel Paese che avevano pensato come luogo di transito. Questo cambiamento nelle aspettative sta producendo una trasformazione nelle narrative dei congolesi a Kampala, che hanno elaborato il concetto della “mort silencieuse” come “quarta soluzione durevole”: l’essere lasciati a morire in Uganda, senza prospettive e senza veder riconosciute le proprie richieste di futuro.

Questa condizione non riguarda ovviamente solo i congolesi rifugiati in Uganda. I numeri del ricollocamento a livello globale sono drammaticamente bassi; nel 2020 secondo i dati UNHCR solamente 22.770 rifugiati sono stati ricollocati in un Paese terzo, il numero più basso degli ultimi vent’anni12. A fronte dell’aumento esponenziale del numero di rifugiati nel mondo, le possibilità di ricollocamento non solo non si sono espanse, ma si sono addirittura contratte, per la mancata disponibilità dei Paesi terzi ad accogliere rifugiati. Di fatto, il resettlement è dunque sì una “soluzione durevole”, ma destinata a un numero così esiguo rispetto a chi ne fa richiesta che nei fatti difficilmente può essere considerata una reale soluzione, se non a livello individuale e ristretta a persone che si trovano in condizioni definite di particolare pericolo. Quello che permette di arrivare in un Paese terzo è un processo fortemente selettivo, le cui condizioni sono dettate da categorie di “vulnerabilità” definite dall’UNHCR e di conseguenza da forme di governamentalità dell’umanitario che sfuggono largamente al controllo dei rifugiati [Garnier, Jubilut, Sandvik 2018].

Le procedure ufficiali di ricollocamento creano infatti un apparato umanitario che richiede trasparenza ai rifugiati, ma le cui decisioni sono prese con un grado elevato di “opacità burocratica” [Thomson 2012], che lo rende difficilmente comprensibile. I rifugiati congolesi con cui ho lavorato erano generalmente ben consapevoli della posizione dell’UNHCR, secondo cui il resettlement non è da considerare un “diritto” per il rifugiato e che per avere accesso al programma di ricollocamento è necessario dimostrare di avere ragioni sostanziali per temere la persecuzione individuale (non è sufficiente dunque fuggire da una violenza diffusa). Tuttavia, molti di loro non possedevano le competenze per mettere in atto la performance, anche comunicativa, richiesta da questi processi: «Allo stesso modo dei processi di richiesta di asilo, il processo di ricollocamento ci dice meno della validità delle richieste dei rifugiati di quanto non faccia rispetto alle domande e alle disuguaglianze inerenti al sistema umanitario stesso» [Thomson 2012, 192]. Come ben noto in letteratura rispetto alle procedure di richiesta di asilo [Sorgoni 2019], anche per quanto riguarda il ricollocamento buona parte del processo è volto a provare la “verità” della storia narrata dal rifugiato che chiede di essere mandato in un Paese terzo; gli ufficiali dell’UNHCR agiscono nelle interviste per scovare le “menzogne” in quello che può essere considerato un vero e proprio rituale di verità. Esemplificativo delle modalità in cui la credibilità del racconto viene identificata è il caso di Toyi – descritto da Marnie Jane Thomson [2012] – a cui durante l’intervista viene chiesto chi siano le altre persone che vivono con lui nel campo: alla sua risposta che si tratta dei suoi “siblings”, l’ufficiale dell’UNHCR replica, presumendo di averlo colto in fallo, che sono invece i suoi “cugini” e ne rifiuta la domanda su questa base, reputando che Toyi avesse cercato di far partire i suoi cugini con lui.

Queste procedure creano un vero e proprio feticismo della documentazione, in risposta alla richiesta di produrre “evidenze” della condizione di pericolo vissuta; in diverse occasioni mi sono stati mostrati – come cimeli – i documenti che avrebbero comprovato una persecuzione in atto, che si protraeva a Kampala. Referti medici, immagini di dettagli macabri delle violenze subite, registrazioni di telefonate di minacce e altra documentazione ancora, raccolta con dovizia di particolari. Nonostante venga spesso ribadito all’OPM e in altre sedi che solo circa l’1% dei rifugiati potrà essere ricollocato in un Paese terzo, molti congolesi che vivono a Kampala compiono enormi sforzi per imparare a muoversi all’interno della complicata e opaca burocrazia legata al resettlement e aumentare così le possibilità di essere ricollocati. Va sottolineato come l’enfasi sulla sofferenza individuale operi a depoliticizzare fortemente l’intero processo di rifugio; solo alcune persone, riconosciute come particolarmente “vulnerabili” al termine di un processo che dura anni (talvolta anche decenni), ottengono il diritto al ricollocamento. Per la moltitudine di chi rimane il riconoscimento dei diritti di cittadinanza e a un’esistenza non precaria, come si è visto, è ben lontano dall’essere realizzato.

Conclusioni

Osservate dalla Regione dei Grandi Laghi in Africa, un’area interessata negli ultimi decenni da frequenti conflitti e conseguenti situazioni di sfollamento, le “soluzioni durevoli” proposte dall’UNHCR evidenziano le contraddizioni esistenti tra il piano normativo e quello dell’esperienza. Come si è visto a partire dal caso dei congolesi che vivono a Kampala e da altri esempi relativi all’area presa in considerazione, i rifugiati hanno pochi margini per muoversi dentro ai meccanismi che controllano le loro vite (fornendo al tempo stesso protezione) e che sono implementati e gestiti da organizzazioni internazionali e dai governi dei Paesi della regione. Spogliate del loro carattere di “soluzione tecnica” a una situazione di “crisi”, rimpatrio, integrazione locale e ricollocamento mostrano il loro carattere di politiche contraddittorie e spesso inefficaci, marcate dalla presenza di numerosi ostacoli nell’implementazione. Di fatto, questa situazione fa sì che un numero sempre più elevato di persone si trovi in quella che viene definita una condizione di “rifugio protratto”, un limbo prolungato in cui nessuna delle tre soluzioni risulta effettivamente percorribile e che produce un elevato grado di incertezza e di precarietà esistenziale per milioni di persone nella Regione dei Grandi Laghi.

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1 L’articolo si inserisce nel contesto delle attività del progetto PRIN “Genealogies of African Freedoms” (GAF-2017KFW5RJ) e della Missione Etnologica in Africa Equatoriale.

2 <https://www.unhcr.org/global-trends> (22/06/2023).

3 A fine 2012, l’UNHCR registrava circa 53 milioni di sfollati; negli ultimi dieci anni questa popolazione è dunque raddoppiata.

4 Dal 2013, a fronte di una popolazione di rifugiati passata da 11,7 milioni a 29,4 milioni il numero totale di persone ricollocate è stato inferiore a un milione; <https://www.unhcr.org/refugee-statistics/download/?url=i0Dl8T> (22/06/2023).

5 Dal 1994 queste regioni sono segnate da continui focolai di violenze e scontri, che rendono nei fatti impossibile la soluzione del ritorno. A parte gli anni della “Seconda guerra del Congo” (1998-2003), gli altri periodi di questi decenni sono stati marcati da conflitti a bassa intensità che sono funzionali agli interessi economici dei diversi gruppi coinvolti [Jourdan 2010].

6 Per un’analisi accurata del “modello di autosufficienza” promosso dal governo ugandese si veda il lavoro di Alexander Betts [2021].

7 Gli estratti di interviste sono stati tradotti dal francese, lingua con la quale sono avvenute la maggior parte delle conversazioni coi rifugiati congolesi. In alcuni casi è stato utilizzato l’inglese, se preferito dall’interlocutore, o lo swahili (in quest’ultimo caso con il supporto di un interprete).

8 <https://data.unhcr.org/en/country/uga> (20/06/2023).

9 L’OPM è l’Office of the Prime Minister, che ha in carico i dossier dei rifugiati a Kampala.

10 <https://www.unhcr.org/refugee-statistics/download/?url=0g6uXG> (29/06/2023).

11 <http://refugee-rights.org/ the-eligibility-for-refugees- to-acquire-ugandan-citizenship/ #:~:text=Articles%2012(1)%20and%2014,by%20 registration%20for%20 migrants%20who> (12/072023).

12 <https://rsq.unhcr.org/en/#Kat2>, 10/07/2023.