Le donne ucraine nel Gulag.

Recensione del libro di Oksana Kis’ Sopravvivere nel Gulag. La resistenza quotidiana delle prigioniere ucraine

Tamara Mykhaylyak

Dipartimento di Scienze Sociali, Università degli Studi di Napoli Federico II


Indice

Bibliografia


Oksana Kis’, Sopravvivere nel Gulag. La resistenza quotidiana delle prigioniere ucraine, Roma: Viella, 2023, pp. 1-374, ISBN 979-12-5469-007-9



Nel passato la nostra storia, a partire dai fatti sociali totali fino ai piccoli episodi della vita quotidiana, quasi sempre veniva raccontata e scritta dagli uomini, mentre le testimonianze femminili sono davvero poche. Senza il punto di vista delle donne possiamo avere un quadro completo soltanto a metà. Come ricorda Gianfranca Ranisio:

in antropologia è posto in rilievo che le donne sono state escluse dal ruolo di informatrici e si è dato poco spazio alla loro parola, per l’effetto dell’ottica maschilista degli etnografi. Importante diventa perciò contrastare il pregiudizio che fa degli uomini gli interlocutori privilegiati delle indagini e delle donne delle comparse nelle loro società [Ranisio 2011, 210].

Secondo Simonetta Soldani bisogna

puntare l’obiettivo sulle donne, usando la loro difficoltà a vivere da protagoniste princìpi, diritti e istituti che hanno contraddistinto il mondo in cui siamo vissuti fino a ieri come una cartina di tornasole per individuare le ragioni dell’impasse e per individuare vie di uscita che non si riducano a più o meno astratte politiche di inclusione può essere un modo per ribadire quel nesso fra passione della ricerca e battaglia per una cittadinanza piena e consapevole [Soldani 2003, 75-76].

Riguardo ai women’s studies in Ucraina va detto che questo ambito di ricerca a causa dei limiti imposti dal regime sovietico si sviluppò con un notevole ritardo rispetto al resto dell’Occidente. Le cose iniziarono a cambiare progressivamente a partire dagli anni Novanta, quando dopo il crollo dell’URSS davanti agli studiosi ucraini si aprirono nuove prospettive e opportunità d’indagine. Una delle figure di maggior rilievo in questo settore è Oksana Kis’, storica e antropologa femminista, ricercatrice senior presso l’Accademia nazionale delle scienze dell’Ucraina e presidente dell’Associazione ucraina per la ricerca sulla storia delle donne. La studiosa sottolinea che non sempre le ricerche sul vissuto delle donne possono essere considerate come women’s studies, infatti a tal fine è necessario assumere un approccio femminista che prevede:

– focalizzazione sull’esperienza femminile (le donne, le loro attività, i loro destini, le loro vicende sono al centro della ricerca);

– utilizzo in primo luogo di fonti storiche create dalle donne (testimonianze femminili, memorialistica, lettere, ricordi, diari, ecc.);

– l’attenzione alle interpretazioni che le donne danno della loro identità, delle loro esperienze, delle loro interazioni e del loro spazio sociale, e lo sviluppo di conoscenze che aiutino le donne a comprendere meglio la loro situazione attuale [Kis’ 2021].

Basandosi su questi principi Oksana Kis’ ha condotto una ricerca sulle prigioniere nel Gulag, pubblicando nel 2017 il volume Ukraïnky v Gulagu: vyžyty značyt’ peremohty (Le ucraine nel Gulag: sopravvivere significa vincere). Nel 2020 è uscita la seconda edizione del libro, con ulteriori integrazioni e tradotta in lingua inglese da Harvard University Press. In seguito il lavoro è stato tradotto anche in italiano a cura di Simone Attilio Bellezza e Iryna Kashchey, edito nel 2023 da Viella con il titolo Sopravvivere nel Gulag. La resistenza quotidiana delle prigioniere ucraine. È opportuno ricordare che in Occidente una delle opere più conosciute dedicate al sistema dei lager è Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn e che questa narrativa d’inchiesta ha avuto un forte impatto sull’opinione pubblica, anche a causa dell’esilio subito dall’autore [Solženicyn 1974]. Per l’avvio degli studi multidisciplinari sul fenomeno bisognerà attendere invece l’ultimo decennio del XX secolo, quando diventò possibile accedere agli archivi del governo sovietico. Poche però erano le ricerche che davano voce alle donne recluse nel Gulag e in molti casi le loro testimonianze avevano un ruolo marginale.

Il libro di Oksana Kis’ riesce a colmare questa lacuna. Il testo è corredato da un’esaustiva quantità di fonti bibliografiche, in larga prevalenza femminili: prima di tutto si tratta di testimonianze inedite ed edite delle ex detenute nel Gulag, inoltre sono citate le ricerche scientifiche di studiosi sia dell’ex area sovietica sia dei paesi occidentali, in particolare Inghilterra, Stati Uniti e Canada. Nel testo sono presenti anche molti riferimenti agli archivi e alle fonti digitali che conservano la memoria e diffondono la conoscenza su questo tema. Infine arricchisce il volume una raccolta di immagini fotografiche corredate da dettagliate didascalie provenienti da musei locali e da raccolte private.

Secondo l’autrice nella rappresentazione del passato delle donne, durante eventi drammatici come guerre o repressioni, persiste ancora oggi uno stereotipo che vuole dipingerle come vittime. Tale visione influenza l’opinione pubblica, che attribuisce alle donne le caratteristiche di debolezza e impotenza e non riesce a vederle come protagoniste degli eventi storici [Kis’ 2021]. Oksana Kis’ ribalta questa visione e le donne sopravvissute alla repressione staliniana sono invece rappresentate come delle vincitrici. La vittoria delle prigioniere consiste nella loro resistenza quotidiana a un sistema che cerca di annientarle fisicamente e psicologicamente. Le donne mettono in atto numerose pratiche di sopravvivenza e atti di sfida, come il canto, l’attività di ricamo e la celebrazione di feste religiose, cose che permettono di contrastare le condizioni disumane di detenzione. L’idea di resistenza come vittoria è il filo rosso che lega insieme tutti i sette capitoli densi di testimonianze e ricordi. Lo scopo principale che Oksana Kis’ riesce a raggiungere nel suo lavoro è quello di restituire alle donne un ruolo di coprotagoniste e attrici attive della storia.

Nell’introduzione l’autrice afferma che gli studiosi ucraini hanno prestato poca attenzione all’esperienza femminile della prigionia politica. Nel libro invece risuonano le voci di più di centocinquanta donne, la maggioranza di nazionalità ucraina, accusate di crimini politici nel periodo tra il 1939 e il 1956. La complessità della ricerca sta nel fatto che tutte queste storie di vita, memorie scritte e testimonianze orali sono state analizzate in modo trasversale al fine di proporre al lettore un ampio quadro della quotidianità delle detenute, esaminando in modo accurato una moltitudine di aspetti e dettagli.

All’inizio del volume si propone un’analisi attenta e critica delle fonti utilizzate ed è di grande interesse soprattutto la parte delle “memorie dai campi”, che informa sia sui diversi fini sia sulle modalità messe in atto dalle ex prigioniere inerenti la scrittura dei propri ricordi personali. In merito all’impostazione teorica della ricerca lo studio della vita quotidiana viene condotto partendo dal principio che le stesse esperienze storiche per gli uomini e per le donne possono essere affrontate in modi molto differenti e per questa ragione vanno presi in considerazione specifici aspetti di genere. Per restituire alle donne il ruolo di soggetti attivi del processo storico Oksana Kis’ si rifà all’idea dell’agency delle donne, vista come capacità di agire autonomamente in contrapposizione alla struttura che spesso limita la libertà d’azione (nel caso di questa ricerca sotto il concetto di struttura si intende il Gulag). Per lo studio delle esperienze riguardanti la prigionia politica delle donne viene utilizzato anche il concetto di femminilità normata, intesa come un insieme di regole, ruoli sociali e comportamenti che costruiscono un’immagine ideale della donna. Solitamente, negli studi femministi, tale concetto ha un’accezione negativa, ma nel caso di quest’indagine l’autrice sottolinea come il ricorso alla femminilità normata diventi un mezzo per fronteggiare la disumanizzazione.

A proposito dei luoghi di reclusione si racconta che una volta arrivate nei lager, dopo un viaggio estenuante, le donne venivano fatte alloggiare in baracche di legno oppure in tende, spesso sovraffollate. Diverse testimonianze fornite nel libro attestano le terribili condizioni igienico-sanitarie e lo scarso riscaldamento nei periodi più freddi. Le detenute cercavano, per quant’era possibile, di rendere più confortevoli gli alloggi, organizzavano le pulizie e sfruttavano le poche risorse a disposizione per rimediare la stoffa che serviva a cucire le coperte per le gelide notti invernali. Le prigioniere ricorrevano dunque a forme di “appropriazione e appaesamento” degli spazi assegnati, facendoli diventare luoghi più vivibili [Caniglia Rispoli, Signorelli 2008]. Inoltre avevano un impatto rovinoso sulla salute non solo le pessime condizioni abitative, ma anche i lavori usuranti e l’alimentazione carente.

Nel testo emergono alcuni tratti comuni delle prigioniere ucraine e la solidarietà che si instaurava tra di loro, elementi che le facevano distinguere da altre detenute. Grazie alla documentazione raccolta Oksana Kis’ ricostruisce anche come si sviluppavano le relazioni con le detenute di altre etnie e come veniva affrontata la conflittualità che esisteva tra i diversi gruppi. La fede cristiana per le prigioniere ucraine era un altro importante valore che aiutava a non perdere le speranze e serviva a contrastare la depressione. Le prove materiali di queste credenze religiose sono giunte fino a noi sotto forma di icone ricamate e disegni realizzati dietro al filo spinato con gli scarsi mezzi a disposizione. Attraverso i loro ricordi si racconta che nonostante i lavori forzati, la malnutrizione, il freddo, la stanchezza e le malattie, le detenute non persero la loro creatività e durante il poco tempo libero a disposizione cercavano di esprimerla sfidando i divieti. Tra le pratiche più diffuse c’era il ricamo, un’attività tipica per le donne ucraine, ma, come sottolinea l’autrice, nei campi esso acquisiva una valenza speciale in quanto evidenziava “l’ucrainicità” delle detenute e rappresentava uno dei modi di manifestare l’identità femminile in un luogo deputato a distruggerla. La creatività si esprimeva anche sotto altre forme, come canti, disegni, poesie, recite teatrali.

Una parte del libro è dedicata alle pratiche di disumanizzazione che il regime di Stalin avviò nei confronti delle prigioniere politiche. Dopo l’arresto le donne perdevano ogni diritto e le loro vite passavano sotto il totale controllo dei dipendenti del Gulag. Le detenute, come accadeva nei campi di concentramento nazisti, venivano chiamate con numeri che dovevano essere cuciti e scritti sulle giacche. L’antidoto a questa disumanizzazione era proprio l’attuazione delle pratiche femminili tradizionali, che aiutavano a sentirsi persona e donna. Per fortuna anche tra i rappresentanti del sistema repressivo c’era chi mostrava umanità ed empatia: molte delle ex prigioniere hanno segnalato questi casi cercando di essere giuste nelle loro valutazioni.

Un altro tema importante che viene trattato è quello del corpo e della sessualità. A causa delle pessime condizioni di detenzione il fisico subiva una forte trasformazione, a volte veniva sfigurato da malattie o traumi dovuti ai lavori, perdendo le sue caratteristiche femminili. L’autrice nota che il corpo poteva diventare anche una risorsa per sopravvivere, menzionando i casi di prostituzione involontaria. In molte etnografie si parla di violenze, umiliazioni e torture, mentre il tema dello stupro, uno degli argomenti più dolorosi per una donna, è trattato raramente. Per questo motivo Oksana Kis’ ricorre alle memorie di alcuni uomini, anch’essi prigionieri politici, che riportano fatti di violenza sessuale. Il volume affronta pure il tema della maternità che, come scrive l’autrice, dietro le sbarre diventava una “benedizione maledetta”. Questa parte della ricerca mette in luce non solo le condizioni in cui vivevano i neonati assieme alle loro madri nel Gulag, ma anche le sofferenze dovute alla separazione dai figli e le difficoltà legate al ricongiungimento dopo la fine della prigionia. Se da un lato la maternità costituiva una fonte di stress, dall’altro rappresentava uno stimolo in più per andare avanti e sopravvivere.

Il libro è un importante ed esaustivo contributo nell’ambito dello studio del Gulag, perché l’esperienza della prigionia raccontata, scritta e analizzata dalle donne fa emergere diversi aspetti del fenomeno che fino ad ora erano stati trascurati. Oksana Kis’ si muove contemporaneamente in più direzioni, la sua è una ricerca interdisciplinare. Da un lato viene usato l’approccio storico che prevede il reperimento e l’analisi di documentazioni archivistiche e museali. Dall’altro, essendo antropologa, l’autrice raccoglie e propone magistralmente le storie di vita delle prigioniere politiche, che permettono di scoprire alcuni fatti assai poco conosciuti della loro quotidianità nei campi. Lo sguardo femminista infine ribalta completamente la visione delle esperienze femminili nel Gulag. L’immagine della donna viene trasformata e da vittima diventa una vincitrice che attraverso la sua sopravvivenza sconfigge la repressione del regime sovietico.

Bibliografia

Kis’ O. 2010, Žinoča istorija: čomu važlyvo diznavatysja pro dosvidy žinok mynuloho (Storia delle donne: perché è importante conoscere le esperienze delle donne nel passato), «Hender v detaljach»,<https://genderindetail.org.ua/spetsialni-rubriki/zhinky-yaki-toruyit-novi-shliachy/nevidoma-ukrainka.html> (15.05.2023).

Ranisio G. 2011, L’Antropologia del genere e i women’ studies, in Signorelli A. Antropologia culturale, Seconda Edizione, Milano: McGraw-Hill.

Solženicyn A. 1974, Arcipelago Gulag, Milano: Mondadori.

Caniglia Rispoli C., Signorelli A. (a cura di) 2008, La ricerca interdisciplinare tra antropologia urbana e urbanistica. Seminario sperimentale di formazione, Milano: Guerini Editore.

Soldani S. 2003, L’incerto profilo degli studi di storia contemporanea, in Rossi-Doria A. (a cura di) 2003, A che punto è la storia delle donne in Italia, Roma: Viella, 63-80.