Messa in strada.

Note etnografiche sull’occupazione dello spazio attraverso la religione tra gli srilankesi alla Sanità (Napoli)

Mass on the street.

Ethnographic notes on the occupation of space through religion among Sri Lankans living in Sanità (Naples)


Osvaldo Costantini

Dipartimento di Psicologia dei processi di sviluppo e socializzazione,
Sapienza Università di Roma


Indice

Il contesto

Relazioni nello spazio

La “seconda comunità” della Sanità

Serve spazio per pregare. Alcune considerazioni sulla costruzione dello spazio religioso

Conclusioni

Bibliografia


Abstract

This article aims at analyzing the complex processes and social dynamics stemming from the looking for a space to pray by Sri Lankan Catholics during the long period of Covid-19 pandemic. The focus will be on the social meanings of occupying a piece of public street in the grassroots neighborhood of Sanità, in the hearth of Naples’ historical center. Sanità is a space managed by different power with strong forms of self-organization that rule things without recurring to a formal/legal mediation, creating an urban life so unusual in the European cities. Starting from showing off how this direct mediation works, the article will dialogue with the social science debate regarding how migrant religious groups move within the framework of “local rules” in the use of social space that is also a practice of group affirmation, claiming for the right to the city and negotiating within power relationships.

Keywords: Napoli, Public Space, Urban Anthropology, Sri Lanka, Rione Sanità


Il contesto

In Fotomodelle un po’ povere (Passo dopo Passo 1995), il cantautore Gigi D’Alessio gioca con le diversità/similarità che intercorrono tra il Vomero, la parte alta e benestante della città, e la Sanità scelta come segnalatore delle differenze in termini di abitudini, sistemi di relazioni, valori e finanche corporeità su un’asse spaziale che è facilmente sovrapponibile a variabili di composizione sociale: quartieri cioè diversificati sulle coordinate della classe, a cui oggi si sovrappone parzialmente la provenienza geografica. Tale percezione è metaforizzata perfettamente dal Rione Sanità – che appunto è scelto dall’autore come referente simbolico di tale diversità – date le sue caratteristiche particolari, nelle quali sarà calata l’analisi dell’uso della religione per conquistare spazio e visibilità urbana, da parte degli srilankesi che abitano il quartiere. L’ipotesi di lavoro alla base di questo testo inquadra infatti la dinamica di uso dei bisogni religiosi e delle dinamiche relative al sacro nei termini di appropriazione di spazio, legittimazione della propria presenza sul territorio, e negoziazione dei rapporti di forza tra i gruppi che avviene per entro le modalità e i codici locali che regolano le relazioni sociali. In sintesi: si intende inquadrare la pratica di celebrare una messa in strada da parte dei cattolici srilankesi al Borgo Vergini (bassa Sanità) come un tentativo di usare forme locali di negoziazione di spazio e visibilità.

Sanità è una compagine urbana, di centomila persone, incastonata nel centro storico di Napoli, tra le aree neo-turistiche del quartiere San Lorenzo (l’area dei decumani) e la collina del Vomero. Il quartiere è stato nobiliare, poi popolare e poi ghetto nelle varie trasformazioni dell’urbanizzazione tra il XIV secolo, degli interventi napoleonici e di quelli postunitari. Nella pressante richiesta di abitazioni del XIV secolo, la salubrità di quest’area (ragione anche del suo nome) attrae persone. Nel Cinquecento, il quartiere è considerato malfamato per la presenza della prostituzione, fino a trasformarsi completamente agli inizi del Settecento: un decreto regio abolisce il divieto di edificazione all’esterno della cinta muraria, favorendo la costruzione di edifici nobiliari, tra cui “palazzo dello Spagnuolo” e Palazzo Sanfelice [D’Aloisio 1997]. Fino all’alba dell’Ottocento, il Rione mantenne dunque un ruolo privilegiato, perché area intermedia tra il palazzo Reale (dunque il centro città) e la residenza di Caccia di Capodimonte, fatta costruire nel 1738 da Carlo III di Borbone. L’era napoleonica destrutturò tale caratteristica mediante l’erezione, nel 1809, del cosiddetto “ponte della Sanità” (Corso Napoleone), che oggi unisce l’area di Capodimonte con il Centro storico di Napoli bypassando la Sanità. La costruzione del Ponte – oggi intitolato a Maddalena Cerasuolo, partigiana delle 4 Giornate di Napoli – trasformò la Sanità, secondo molti dei suoi abitanti, in un ghetto, perché tagliata fuori dal passaggio centrale della città. Tale immagine è stata poi alimentata sia dalle caratteristiche della vita urbana del quartiere sia dalle classiche dinamiche della costruzione di un immaginario sulle “periferie” come luoghi infernali completamente dominati dal degrado, dalla criminalità e su cui si applicato pseudo-teorie psico-sociologiche come quella della “finestra rotta” [Wacquant 2000; 2013].

Il Rione Sanità, tuttavia, non esiste: la toponomastica ufficiosa descrive con questo nome una realtà amministrativamente composta dalla somma di due circoscrizioni: San Carlo all’Arena e Stella. L’attenzione dello scrivente per il quartiere nasce nell’ambito di una ricerca, suggerita da Dino Palumbo, sulla partecipazione degli srilankesi al culto della Madonna dell’Arco ed alla ritualità religiosa napoletana (che però non è specifico oggetto di questo articolo). Tale articolo si inserisce dunque in una più ampia ricerca svolta tra il 2021 e il 2022, ma molto penalizzata dalle restrizioni per il Covid tra autunno 2021 e primavera 2022. La ricerca si era concentrata in particolare sulle modalità di inserimento nello spazio urbano, al contempo valutando il ruolo delle associazioni, dei circuiti commerciali e delle reti religiose nella conquista di spazio e visibilità, ed anche di potere decisionale.

In Italia, la presenza delle persone srilankesi si aggira intorno alle 100mila unità, con una lievissima prevalenza della popolazione maschile [Caritas-Migrantes 2022]: numero cospicuo che muove circa 280 milioni di euro di rimesse [Caritas-Migrantes 2018, 431]. Nel 2018 il dossier annuale Caritas-Migrantes riportava 17mila unità sul territorio regionale campano, mentre i dati Istat invece relativi al 2022 indicano invece una presenza di 13mila unità su tutto il territorio regionale. Secondo i dati invece del portale www.tuttitalia.it, ci sarebbe una presenza di 17mila unità [Guadagno 2023], di cui 15mila nel comune di Napoli (il 24% di essi sono minori). Il 26% di essi è registrato nella III municipalità (la Stella): 4000 persone [Ivi, 99], mentre altre 3000 persone sarebbero aggregate all’Avvocata (II Municipalità), al cui interno vi è l’area denominata “il Cavone”, con una grossa e visibile presenza srilankese. All’area denominata Stella, va aggiunta la popolazione presente nella circoscrizione San Carlo all’Arena (cioè la seconda parte della Sanità), che ha un range di srilankesi tra 500 e 1500 presenze. Tali dati sono tuttavia da relativizzare: il più goffo e disattento dei ricercatori sul campo si accorgerebbe subito che essi non sono realistici: una parte consistente dei negozi del quartiere è gestita da srilankesi; diversi sono i commessi srilankesi nei negozi “italiani”; i “bassi”, le storiche abitazioni a livello della strada che hanno caratterizzato l’immaginario sul mondo partenopeo, sono abitati in buona parte da srilankesi; da ultimo, semplicemente camminando per le strade un passante ogni tre o quattro persone è visibilmente di origine srilankese. Secondo le associazioni srilankesi, e quelle italiane che si occupano di fenomeni migratori, i numeri ufficiali sono “almeno” da raddoppiare, una impressione confermata dalla vita in quartiere.

Relazioni nello spazio

L’attuale dibattito esercita un tentativo di recupero della mancata connessione tra antropologia delle religioni e antropologia urbana [Gonzales Diez, Gusman 2016], dovuta a due fattori: l’influenza ideologica dei paradigmi della modernizzazione e della secolarizzazione [Signorelli 1996]; una sorta di ricerca della purezza del dato religioso da parte degli antropologi maggiormente impegnati nell’analisi dei rituali legati alla sfera metaumana [Gonzales Diez, Gusman 2016; per l’uso di “metaumano” Schirripa 2023]. Per motivi diversi, dunque, le due correnti dell’antropologia consideravano la religione legata al mondo rurale, con poca importanza in città.

Diversi fattori hanno smontato questa artificiale distinzione, tra cui la smentita nei fatti del paradigma secolar-modernista: lo sviluppo delle città del sud globale, in particolare le africane, mostrano come la modernizzazione urbana non ha significato l’abbandono di sistemi di organizzazione sociale e di pensiero locali, magici, tradizionali, che dir si voglia, basti pensare alla particolare lettura della realtà offerta dai nuovi movimenti religiosi [Schirripa 2016]. Nelle città del nord globale, invece, rinnovate forme di aggregazione di natura ieratica si aggiungono alla presenza della migrazione internazionale di manodopera con il conseguente fiorire di luoghi di culto all’interno degli spazi urbani. Diversi autori sono infatti approdati all’idea che la superdiversità1 [Vertovec 2007] e la città si plasmano vicendevolmente [Becci, Burchardt, Giorda 2016] e che le città rappresentano una sorta di traduzione “spaziale” e “materiale” delle diversità presenti nelle nostre società [Fabretti, Vereni 2018]. Aggiungo un tassello: si può leggere la dinamica intorno ai luoghi di culto nella problematica classica che attiene alla storia delle migrazioni di manodopera, ovvero il diritto alla città [Lefebvre 1970; Harvey 2018]. Concordo infatti con Parbuono quando sostiene che il prendere luoghi da parte delle comunità religiose possa essere anche letta come una rivendicazione di quella che Harvey chiama “giustizia territoriale” [Parbuono 2016], una affermazione del diritto a vivere quel luogo, oltreché una affermazione di identità [Gonzalez Diez, Gusman 2016, 96]. È l’articolazione tra la città neoliberista e le regole locali a dettare quali siano le modalità con le quali si negoziano tali forme di riconoscimento [Gonzalez Dìez, Gusman 2016]. Se in termini generali, dunque, le religioni in città possono essere lette sotto la lente delle dinamiche di appropriazione dello spazio, compito dell’antropologia rimane anche quello di mostrare quali siano le forme specifiche che, in un determinato contesto, realizzano questa dinamica. Per questo motivo, nell’economia del presente discorso, vanno evidenziate le specificità del contesto locale, il Rione Sanità a Napoli.

Le regole locali

Nick Dines apre la sua monografia – dedicata ai cambiamenti urbanistici e alla negoziazione degli spazi nel Centro di Napoli – con la seguente riflessione di Dipesh Chakrabarty sulle città indiane: i colonialisti e i nazionalisti erano scandalizzati in maniera simile da (quello che veniva considerata) sporcizia e disordine: entrambi avevano assunto il paradigma modernista della separazione tra spazi pubblici e privati e dunque trovavano orripilante attività quali mangiare, lavarsi, defecare, bere, nello spazio esterno alle abitazioni ed entrambi i progetti si assunsero la “missione” di trasformare l’urbanesimo in spazi pubblici regolamentati e “benigni” [Dines 2012]. Che facesse parte del progetto coloniale come controllo delle popolazioni in senso preventivo rispetto alle possibili ribellioni, o del progetto nazionalista in una produzione della cittadinanza, l’interazione urbana è stata al centro di una battaglia ideologica per l’affermazione di una idea precisa ed ideologica di “spazio pubblico” [Ivi, 1-2]. Non si tratta naturalmente di evocare paralleli tra la Calcutta degli anni Quaranta del Novecento e Napoli, ma di comprendere le particolarità della città e le poste in gioco del discorso nazionale rispetto non tanto alla città nel suo insieme, quanto ad alcuni settori che mantengono una parziale autonomia, nella regolamentazione e nella negoziazione, rispetto alle regole statali, con una miriade di soggetti e di contropoteri diversi sul territorio. Una di queste poste in gioco, come sottolinea Dines in un articolo più recente dal titolo Napoli città informale [Dines 2020], ha a che fare con la questione di classe, dove tutto ciò che non “decoro” e “senso civico” (e dunque “degrado”) è molto spesso associato o associabile alla vita delle fasce meno abbienti della popolazione: “risulta chiaro che parlare di informalità a Napoli è parlare di politica di classe con altri mezzi” [Ivi, 183]. Al centro della normalizzazione neoliberista della città, sembra, in ultima analisi, esserci l’idea di modernità come spazio unico verso cui tendere univocamente [Palumbo 2020: 64], e a cui è connessa una specifica configurazione della soggettività e una ancora più precisa dinamica relazionale tra le popolazioni e le istituzioni di centralizzazione del potere. A questo aspetto mi pare si connetta in maniera evidente l’antagonismo reale – rispetto al progetto della modernità sia dal punto di vista dello sviluppo della forma politica dello Stato-nazione sia per la sua particolare divisione sociale del lavoro legata la modo di produzione capitalistico – rappresentato da qualunque forma di autonomia decisionale rispetto all’uso degli spazi urbani, che a Napoli si dispiega sin dall’epoca della cosiddetta rigenerazione urbana dell’epoca bassoliniana: «In particolare, strade e piazze strategiche del centro storico si sono regolarmente trasformate in campi di battaglia ideologici sui significati e sui limiti dei comportamenti appropriati» [Dines 2020, 189].

La riflessione nel presente lavoro non intende tuttavia essere intorno alla questione delle tensioni tra istituzioni ufficiali dello stato e popolazioni rispetto alla gestione dello spazio urbano. In questo articolo quella particolare tensione fa da sfondo a una serie di dinamiche anch’esse, a mio avviso, pertinenti alla rivendicazione del “diritto alla città”, nel senso datogli da Harvey di rivendicare il potere decisionale sul modo in cui le città sono costruite e ricostruite. Qui intendo comprendere, cioè, in maniera dettagliata, come questi specifici codici e dinamiche vengono agite dai gruppi di srilankesi mediante la religione per acquisire visibilità e guadagnare spazi sul territorio. Una rivendicazione che avviene sia nei confronti delle strutture istituzionali che dell’altro gruppo protagonista dell’area: gli autoctoni napoletani con le loro specifiche frammentazioni e schieramenti.

La trasformazione del quartiere degli ultimi due decenni è in parte legata alla migrazione srilankese e al suo insediamento progressivo. Uno dei dati più interessanti in questo senso è quello legato alla “conquista” dei bassi: mentre rappresentano un pilastro dell’immaginario sulle classi popolari napoletane, molti di essi sono diventati l’abitazione del nuovo proletariato srilankese. Il motivo di fondo di questa trasformazione risiede ragioni strettamente materiali: i bassi rappresentano ancora le abitazioni più economiche, che gli immigrati srilankesi (e, in misura minore, altri gruppi migranti) affittano, incrociando l’interesse dei proprietari che vedono in loro degli inquilini con maggiore puntualità e affidabilità nel pagamento del canone di locazione, rispetto agli stessi autoctoni. Talvolta i bassi, soprattutto quando soppalcati, sono in grado dunque di ospitare una famiglia con due figli, ed hanno un prezzo solitamente fisso di 350€ (molte volte comprensivo di spese), al massimo 400 € in situazioni meno disagiate. Questo si sposa molto bene con le caratteristiche di una migrazione per lavoro che prevede un grosso impegno di rimesse e risparmio, quest’ultimo spesso impiegato nella costruzione di una casa in Sri Lanka. Molte persone, soprattutto coloro giunti da poco, devono affrontare anche il pagamento del debito (fino a 15mila euro) contratto con particolari agenzie che consentono alle persone di migrare. Tutte queste variabili hanno favorito la trasformazione di molti bassi in case per gli srilankesi. L’entità del fenomeno è difficilmente calcolabile: Mazzacane mappava negli anni Settanta 2.125 bassi [Mazzacane 1978] e sarebbe difficile mappare la nazionalità degli inquilini in tutti e verificare la pertinenza attuale del dato di Mazzacane. Vale come esempio il reticolo di strade intorno al basso dove abito: sui 18 bassi nell’area di 100 metri in tutte le direzioni, 10 sono abitati da famiglie srilankesi. L’altra grande trasformazione che riguarda il quartiere attiene alle mutate caratteristiche della criminalità organizzata sul territorio: da anni non vi è più una egemonia o un bipolarismo dei clan nel quartiere, che è invece suddiviso tra vari gruppi, con una rilevanza dei Vastarella, dei Sequino e dei Savarese. Il controllo camorristico del territorio si dispiega lungo coordinate diverse dal piano militare visibile decenni fa e oggi rimasto soltanto in una cinematografia fuorviante.

In questo rinnovato quadro la presenza srilankese si inserisce in un sistema di relazioni del quartiere della quale si devono sottolineare alcune specificità: l’area è vissuta con una certa lontananza dalle regole urbane visibili altrove, con una tendenza a mediazioni che non passano per i canali della formalità legale ed istituzionale. Quota parte della convivenza può essere mediata nelle relazioni personali e di vicinato [Dines 2020]. L’esempio che uso è quello più rappresentativo di questa dinamica in vivo: i parcheggi. Siamo in ambito urbano affollato dove la sosta delle automobili rappresenta uno dei problemi più importanti del quotidiano: accaparrarsi un posto in prossimità della propria abitazione, localizzata talvolta in vicoli troppo stretti per parcheggiare è potenzialmente trasformativo della quotidianità. Nei vicoli più larghi alcuni spazi sono contrassegnati da un segno di appartenenza inconfondibile: una sedia o, in pochi casi, un bidone della spazzatura dotato di ruote che lo rendono mobile. La sedia segnala che quel posto auto (spesso risicatissimo) è di qualcuno, e che quel diritto informale è riconosciuto dal circondario. La rimozione della sedia nel tentativo di parcheggiare comporta l’immediato intervento della persona assegnataria informale del posto auto che intima senza troppi fronzoli l’immediata liberazione dello stallo. La pretesa di non rispettare questa consuetudine, comprensiva dell’implicita evocazione della legalità formale, non troverebbe appoggio dall’intero vicinato, che ha probabilmente contrattato, negoziato e infine assegnato quello stallo, all’interno di ovvie logiche di reciprocità. Si verrebbe allo scontro in pochi minuti. Tuttavia, per chi ha un habitus forgiato nelle relazioni di strada di tali contesti, vi sono degli spazi di negoziazione. Non essendo relazioni di tipo formale-statuale, non essendoci dunque un reale monopolio dell’uso della forza, si possono fare dei passi. È vero che si arriverebbe allo scontro subito, ma questo tende sempre ad essere evitato da tutti gli attori perché, nel caso di discesa nella violenza, non vi sono rapporti di forza così sbilanciati da poter assicurare una vittoria. Tali mediazioni informali per l’uso dello spazio e per forme negoziate di “diritto proprietario” andrebbero esplorate con dovizie di esempi radicati in microepisodi etnografici che chi scrive ha in animo di fare in altra sede. Per quel che concerne l’economia del discorso qui presentato, si vuole provare a restituire al lettore le modalità come le quali queste forme di contrattazione vengono messe in atto dagli stessi srilankesi per guadagnare spazio, rivendicare la propria visibile presenza all’interno del Rione Sanità. Tali tipi di mediazioni, molto frequenti all’interno del vissuto giornaliero del Rione sembrano riflettersi in molti aspetti delle relazioni di quartiere, anche per quello che riguarda il rapporto tra locali e srilankesi.

È intenzione dello scrivente mostrare questa dinamica mediante il caso etnografico di una messa svolta all’aperto nel pieno del Borgo Vergini. Il dato va inserito in un contesto nel quale parte della comunità srilankese ha appreso queste modalità di relazioni basate sulla mediazione quotidiana: un lavoratore domestico della comunità buddista mi narrò di aver subito, nei primi anni dieci, un tentativo di rapina da gente del quartiere dove viveva, all’alba, mentre si recava al lavoro. Aveva riconosciuto qualche faccia e aveva dunque deciso che quella cosa non potesse essere tollerata: si era dunque recato presso mediatori di strada (per lo più vedette dei clan) e presso associazioni religiose e negozi per portare un messaggio. Aveva detto loro che gli srilankesi “sono gente tranquilla”: lavoratori che non volevano arrecare alcun fastidio e che erano in grado di risolversi i conflitti al loro interno. Tuttavia essi non dovevano essere disturbati, non dovevano essere oggetto di violenza e rapina nei quartieri, perché essi sapevano benissimo trasformarsi da soggetti tranquilli a soggetti pericolosi, in grado di organizzarsi (grazie anche ai numeri) e reagire con violenza. Non c’era stata più una rapina in quel quartiere a danno di una persona srilankese, secondo il mio interlocutore. In un altro caso (più indietro nel tempo), grazie a una complessa mediazione, era stato un famosissimo capoclan del centro storico a punire due ragazzi che avevano tirato i capelli ad una signora srilankese, picchiandoli nel negozio del marito della vittima. Purtroppo, la limitazione dello spazio di un articolo non consente una esposizione dettagliati di numerosi altri casi etnografici. Ciò che ho qui narrato basta tuttavia a comprendere come vi sia un certo apprendimento ed uso delle regole locali, che consentono tentativi di non rinchiudersi in spazi di subalternità e di aprire sempre spazi di contrattazione nella particolare forma di gestione poco istituzionalizzata di questi quartieri.

La “seconda comunità” della Sanità

Quando chiesi al proprietario, mio coetaneo, di uno storico negozio dei Vergini di farmi una chiacchierata sulle sue impressioni circa la presenza degli srilankesi alla Sanità, accettò volentieri e chiosò “’e sillankes’, ‘a siconda comunità r’à Sanità2”[gli/le srilankesi, la seconda comunità della sanità]. L’idea che questa porzione di popolazione rappresentasse una presenza stabile, visibile e soprattutto riconosciuta (la seconda comunità, dopo i napoletani) la si può comprendere da queste brevi conversazioni di campo e da una serie di segni tangibili per i quali l’antropologo non deve fare altro che girare per il quartiere. Le mura sono spesso luogo per l’ospitalità di annunci di lavoro, case, feste, elezioni ed eventi politici e, molto spesso accanto dei loro corrispettivi napoletani, annunci mortuari: nell’imbocco di Vico Lammatari è stato per mesi affisso un poster di un ragazzo srilankese con l’annuncio della sua morte in lingua sinhala, di fronte ad una edicola votiva mariana di una certa importanza. Le porte dei bassi erano spesso caratterizzate (come molti bassi abitati da napoletani) da qualche scritta che indicasse in srilankese la possibilità di acquistare cibo, o altro3. Ancor più importante, alcuni negozi assumono commessi srilankesi non per un livello di salari più bassi (sono già bassi quelli dei locali), ma per la necessaria intermediazione linguistica con una clientela che si fa ogni giorno più rilevante. Le due farmacie più importanti di Piazza Cavour hanno un bancone dedicato a questa parte della popolazione, con farmacista srilankese. È frequente, inoltre, l’annuncio in doppia lingua: “si prega di non buttare qui la spazzatura” e immediatamente sotto la traduzione in sinhala coi suoi caratteri arrotondati. Tali segni sul territorio di una presenza riconosciuta e necessariamente rispettata che però conquista spazio4 quotidianamente anche con i semplici annunci sui muri produce una nuova articolazione di quella “domesticità utilizzabile” [Signorelli 2006] urbana nata dall’incontro tra srilankesi e napoletani, dalle loro biunivoche esigenze di appaesamento in cui anche i corpi degli altri hanno bisogno di nuovi orizzonti culturali di elaborazione: su Via dei Cristallini, il limite del quartiere Stella dal lato Est della Sanità, al confine con l’area dei Miracoli (che per i napoletani è comunque ancora Sanità), c’è un ferramenta locale, con il quale avevo sviluppato un contatto sulla base della critica a Dries Mertens, l’ex attaccante belga del Napoli. Sulla porta del suo negozio figura un cartello rosso con scritta bianca in lingua Sinhala. Mi sono spesso chiesto che storia ci fosse dietro quel cartello, e, quando andai a comprare dei flessibili per il boiler del basso, nella transazione economica decisi di affrontare l’argomento. Mi raccontò che un amico srilankese gli voleva fare un regalo per l’inaugurazione del negozio, e lui non sapeva cosa scegliere perché trovava inutili lampade e ammennicoli di altro genere. Gli chiese allora una scritta che gli servisse per dialogare con la clientela srilankese che affolla i Cristallini. Lapidario chiesi “e che ce sta scritte?” (che c’è scritto?) “e che c’ha da sta scritto, frà, «ferramenta - si duplicano chiavi»” (cosa vuoi che ci sia scritto, fratello, «Ferramenta - si duplicano chiavi»)”5. In alcuni palazzi sono frequenti forme di reciprocità tra srilankesi ed italiani, sia in termini di scambio di cibo che di favori, il maggiore dei quali è l’accudimento dei figli, talvolta la cura delle edicole votive [Van Loyen 2020]. Tale presenza nello spazio è continuamente mediata tra quello che si può fare e quello che non si può fare.

Come si può evincere da queste brevissime considerazioni etnografiche, la presenza srilankese nel quartiere si caratterizza per visibilità e per una modalità di uso degli spazi che ratifica la loro condizione di abitanti del quartiere a pieno titolo.

Serve spazio per pregare. Alcune considerazioni sulla costruzione dello spazio religioso

Come evidenziato poco più sopra, la letteratura antropologica risulta sempre più interessata dall’intreccio tra la dimensione urbana e quella religiosa, soprattutto nella dinamica della conquista dello spazio e riconoscimento per via religiosa. Alla Sanità6, tale prospettiva non solo risulta pertinente all’analisi, ma assume una rilevanza specifica in virtù del particolare spazio di mediazione, quello che Gonzales Diez e Gusman chiamano la cornice locale di regole che definiscono le forme e le modalità di contrattazione dello spazio e del riconoscimento [Gonzales Diez, Gusman 2016]. I lavoratori srilankesi che vivono alla sanità, sul piano religioso, hanno aperto uno spazio di visibilità e riconoscimento molto evidente: le messe cattoliche sono molto poco frequentate dagli autoctoni, con presenze attestate poco oltre la decina e l’assenza di giovani. Al contrario la popolazione srilankese7 è caratterizzata da una alta frequenza intergenerazionale, nell’ordine anche di 200-300 persone ad ogni culto8. Questa massiccia partecipazione, specchio di una vita religiosa vissuta come bisogno dalla popolazione immigrata, spinse anni fa padre Michele della Parrocchia di Santa Maria dei Vergini ad imparare a memoria una messa in srilankese per poter officiare almeno in alcune occasioni particolari. Questa situazione mutò quando alla sanità arrivò, intorno al 2014, un prete srilankese. Egli andò dunque ad aggiungersi ad un altro prete srilankese, operativo nella chiesa del Gesù Nuovo nella centralissima (e turistica) Piazza del Gesù Nuovo. Attualmente, oltre a queste due chiese, sono operative, con messa srilankese, la Chiesa di San Severo, ancora nel cuore della Sanità, la chiesa di Santa Maria tra il Cavone e Piazza Mazzini, la chiesa di Santa Maria di Materdei, e una chiesa ai quartieri spagnoli. Tutti questi luoghi prevedono culti, soprattutto domenicali, molto affollati e officiati dai due preti srilankesi presenti nel centro storico. Ad esse si aggiungono alcune sale di preghiera del Kitu dana Pubudwa (i cattolici carismatici srilankesi), una tempio indù e due tempi buddisti, uno dei quali situato in un basso nell’area semirurale delle Fontanelle (alta Sanità), il cui cortile antistante è arredato con statue del budda, spazi per cerimonie, e il bo’gaa, l’albero sacro della tradizione buddhista srilankese. Tale spazio esteso sotto i balconi degli autoctoni è uno dei possibili esempi di una operazione di conquista dello spazio basata sul riconoscimento informale e sulla mediazione quotidiana degli spazi. Ciò su cui però intendo soffermarmi in questa sede è una messa cattolica nel cuore del Borgo Vergini.

Dall’esplosione dell’emergenza Covid, alcune delle misure restrittive hanno costretto un ripensamento dell’uso degli spazi o hanno consentito nuove forme di creatività culturale, così come inedite strategie di controllo statale. I fedeli srilankesi decisero, dopo il lockdown dell’inverno 2020, di occupare lo spazio pubblico antistante la chiesa per celebrare la loro messa. Qualunque decisione, per quanto possa apparire soltanto “tecnica”, appare agli occhi dell’antropologo come foriera di trasformazioni, processi sociali e dinamiche relazionali che emergono quantomeno come conseguenza. Anche in questo caso, la decisione di “uscire” dalla chiesa e occupare lo spazio antistante può essere analizzata sotto il profilo sociale e culturale, precipuamente sotto quello dell’occupazione dello spazio e dell’autolegittimazione della presenza di un gruppo tramite l’acquisizione di visibilità. Come notato da Chidenster e Linenthal [1995], infatti, l’occupazione di uno spazio ha come conseguenza la negoziazione di rapporti di potere nei termini dell’inclusione e dell’esclusione, del dominio e della subordinazione, come dell’appropriazione e della espropriazione.

La chiesa in esame, Santa Maria dei Vergini è il centro della vita religiosa degli srilankesi e funge anche da punto di riferimento nella divisione simbolica dello spazio urbano del quartiere per gli srilankesi: prima della pandemia la Sanità veniva divisa dal prete in quattro parti rispetto alla posizione della chiesa: a) coloro che abitano alle spalle della chiesa, quelli che abitano dalla parte della facciata della chiesa, quelli che abitano a sinistra e quelli che abitano a destra. Si divideva il mese in 4 settimane e ogni settimana si affidava la gestione della messa (scelta dei testi, dei canti, ecc) a uno dei 4 settori che venivano in qualche modo elevati a unità amministrativa informale. La strada di fronte alla chiesa è la centralissima Via Dei Vergini, che corre tra due ampi spazi pedonali delimitati da paletti di ferro. Venendo da Piazza Cavour, la parte pedonale a destra (lato della chiesa) è quella immediatamente antistante il portone della chiesa. Uno spazio che veniva totalmente occupato dai fedeli. La parte sinistra della strada invece è di solito totalmente occupata dai banchi esterni dei negozi che vengono piazzati di fronte alle vetrine di modo che il corridoio centrale che viene a crearsi avvolge il passante con le merci da entrambi i lati. Di fatto non è possibile passare di lì in maniera esterna alle merci, a meno di non percorrere la strada occupando la carreggiata dedicata ai veicoli (si fa quando si ha fretta)9. Nelle ore diurne, la via si presenta come un mercato permanente, una immagine rispetto alla quale la liturgia in strada provoca una modifica molecolare, ma significativa nell’uso dello spazio. Vediamo come, dividendo la descrizione in due parti che coincidono con i due lati della strada. Come ho già detto, il lato della chiesa risulta a maggiore disposizione di spazio. Tuttavia, anche da questo lato vi sono delle attività commerciali: la domenica mattina, quando la messa si svolge all’aperto, tali attività commerciali aprono una quarantina di minuti prima dell’orario domenicale solito. Si tratta principalmente di due negozi: un venditore di frutta secca e un negozio di articoli generici, tra cui giocattoli. Il primo apre di solito poco dopo le 8, mentre, quando la messa srilankese si svolge all’aperto, una ventina di minuti prima delle 8 ha già le buste trasparenti esposte sui banchi esterni, con all’interno quello che in napoletano viene definito “’o spasso” (il divertimento): frutta secca di vario tipo. Dall’altro lato anche il negozio di articoli generici apre con il medesimo anticipo. Ciò che appare agli occhi dell’antropologo è il non detto: i due negozi vanno a delimitare lo spazio rituale (fisico) dove si svolge il culto, non permettendo un loro eccessivo allargamento che comprometterebbe il commercio tra le 8 e le 9 della domenica mattina. Allo stesso tempo, la decisione appare come un tentativo di marcare la presenza sul territorio che è in grado però di fare i conti con una contraddizione: la popolazione locale, pur non praticante, è solita esternare una forma di rispetto per lo spazio del rito cattolico, per cui, aprendo semplicemente prima, si consente il rito ma lo si delimita nello spazio: una mediazione e negoziazione dell’uso dello spazio fatta senza comunicazioni verbali, ma semplicemente per occupazioni fisiche. Quello che succede all’altro lato della strada è invece opposto e simmetrico di ciò che accade al lato della chiesa: i negozi sono più numerosi, perché non vi è l’ingresso della chiesa a fare da spartiacque. All’inizio della messa sono già aperti un altro venditore di frutta secca, un fruttivendolo che espone un cartello ad identificare l’unicità della sua offerta ortofrutticola: “sul’addu ‘e chiattune”, “solo dai grassoni”. Oltre a queste due botteghe vi è un negozio di vestiti, uno dei tanti di questi quartieri che offrono a basso prezzo abiti di fatture che seguono le mode in corso. Il venditore di frutta secca e il fruttivendolo svolgono la stessa funzione dei due negozi dall’altro lato: delimitano lo spazio rituale in maniera perentoria. I negozi centrali invece, maggiormente interessati dalla presenza dei fedeli, rimandano di quaranta minuti l’esposizione delle merci. Il negozio di vestiti infatti attende che la messa volga verso il termine per posizionare una “brandina”10 tra i fedeli in preghiera, senza tuttavia aprirla; operazione per la quale attenderà la fine effettiva del culto. L’altro negozio, dove uno dei lavoranti è srilankese egli stesso si comporta ancora diversamente. Quando la messa volge verso il termine, inizia ad aprire gli ombrelloni sotto cui saranno posizionate le merci (sempre alimentari) e ad aprire i tendalini, provocando un leggero spostamento delle persone in preghiera in mezzo alle quali si svolgono le operazioni, con un tono di voce più basso del consueto. Chi scrive non solo proviene da una famiglia di venditori di strada, operatori di mercati rionali e cittadini, ma ha anche svolto questo mestiere per una quindicina di anni della propria vita precedente all’entrata nell’accademia. Sulla base di tale esperienza posso sottolineare un aspetto altrimenti difficile da cogliere: un ritardo nell’esposizione delle merci di una quarantina di minuti è estremamente rilevante in questo tipo di commercio; se il flusso delle persone inizia alle 9, le merci devono essere già completamente esposte prima di quell’orario, perché un rallentamento comporterebbe non solo la perdita di eventuali acquirenti ma la circostanza di dover continuare a ordinare l’esposizione mentre ci sono già clienti. Dunque un ulteriore rallentamento e complicazione di tutte le operazioni. L’apertura ritardata dei banchi è quindi il frutto di una negoziazione molto importante, che costringe i fedeli a una sorta di pressione nelle fasi finali della messa, una pressione che esprime principalmente attraverso l’intreccio dei corpi nello spazio: la persona in preghiera costretta a spostarsi dal commesso che sta ponendo un banco esterno ed appare in procinto di renderlo operativo; il fruttivendolo che passa tra i fedeli per gettare nei secchi della spazzatura alcuni scarti degli ortaggi, costringendo gli astanti della messa a creare dei corridoi liberi rispettando il suo spazio; il negoziante costretto a fermarsi perché la fedele in preghiera non lascia lo spazio di passaggio. Tuttavia, nonostante questa pressione, i negozianti delle botteghe centrali mostrano, mediante il ritardo delle operazioni, un rispetto dello spazio che si deve non solo all’occupazione fisica dello spazio da parte degli srilankesi, ma anche alla presenza dei commessi srilankesi che costringono alla mediazione, e al rispetto per il culto cattolico, come detto in precedenza. Di solito l’attenzione etnografica dello scrivente si soffermava con più interesse alla messa quando veniva svolta all’aperto, proprio per questa mediazione sull’uso dello spazio. In una di queste visite domenicali, le dinamiche dell’osservazione si avvalsero di una collaboratrice italo-srilankese impiegata come traduttrice e mediatrice sul campo: le prime parole che pronunciò quella mattina riguardavano le sue personali impressioni sul ruolo che i commessi srilankesi avevano in quella che lei definiva una battaglia per lo spazio. Le osservazioni dell’etnografo si trovavano confermate un una attenta attrice nelle reti srilankesi (candidata alle elezioni, attivista di una associazione, musicista nella chiesa locale, spesso oggetto di interviste come rappresentante degli srilankesi).

Queste interazioni andavano avanti in maniera lineare fino all’autunno 2021, quando, da un lato gli srilankesi lamentavano un eccessivo vociare intorno alla messa, dall’altro una signora italiana abitante del palazzo di fronte alla chiesa lamentava l’impossibilità del marito a riposare dopo una settimana di lavoro, per l’inizio della messa srilankese alle 8 del mattino. Pur avendo diverse volte chiamato la polizia, la signora non aveva ottenuto nulla perché il culto esterno, come spiegato varie volte dal prete al ricercatore, godeva del permesso del comune. Una domenica del dicembre 2021, senza motivi apparenti, il culto non si svolse più all’esterno. Una decisione presa in una giornata di sole che permetteva tranquillamente la sosta in strada, proprio mentre, invece, i contagi e le morti aumentavano e il governo aveva messo in atto le misure più dure d’Europa, tra cui l’obbligo di super green pass11 anche nei locali all’aperto e in tutti i luoghi di lavoro. Alla fine della messa, chi scrive chiese dunque conto dell’accaduto: uno dei membri più in vista della comunità, disse che le persone intorno avevano protestato varie volte, facendo spesso ricorso alla forza pubblica (cosa accaduta in precedenza ma neutralizzata dal permesso comunale). Altri fecero finta di non capire la domanda, mentre il prete affermò che avevano provocato già molto disturbo nel quartiere e quindi siccome quel giorno era freddo non avevano voluto fare stare i bambini fuori. Versioni contrastanti che lasciano pensare che la mediazione a livello micro, quella dei corpi fisici sulla strada, è stata sovrastata da interventi di altro tipo, che hanno convinto a fermare, o quantomeno a sospendere la pratica della messa in strada.

Conclusioni

Eugenio Giorgianni ha studiato approfonditamente le feste indù a Palermo, ed in un articolo recente ha messo a fuoco i termini del rituale come forma di negoziazione dello spazio urbano. Nello specifico della festa del Sanpati, le celebrazioni in onore della figura di Ganesh, la scelta degli spazi della celebrazione rappresentano una continua richiesta di permessi e di transito: dalle autorizzazioni istituzionali alla sovrapposizione delle celebrazioni agli spazi sacri palermitani con le figure di Sant’Agata e Santa Rosalia come mediatrici tra i mauriziani induisti «e i luoghi che li hanno accolti, diventando metonimia delle loro rispettive città» [Giorgianni 2022, 9]. Giorgianni non ha un oggetto territorialmente così delimitato come gli srilankesi alla Sanità, ma parla di un contesto cittadino più generale che non gli consente un ragionamento specifico su “regole locali”: nelle città meridionali, e non solo, non abbiamo una omogeneità dei sistemi di regolamentazione e, soprattutto, varia il peso dei codici locali autonomi rispetto allo Stato centrale. Alla Sanità è invece visibile un certo modo di organizzarsi, in cui una autorizzazione comunale non è condizione sufficiente alla produzione di un certo evento. L’ipotesi che ha mosso la scrittura di queste pagine è che la popolazione dei lavoratori di nazionalità srilankese che popolano il territorio abbiano appreso le modalità di negoziazione dello spazio codificate a livello locale: nonostante infatti la dismissione della messa in strada, la pratica, durata diversi mesi, segnala, tra le altre cose, una mediazione dello spazio all’interno di una più generale acquisizione di habitus locale da parte degli immigrati srilankesi nel cuore di una città le cui caratteristiche presentano tratti abbastanza particolari, quali la contrattazione poco mediata dalle categorie della legalità formale e la presenza di poteri diversificati sul territorio. Da questo punto di vista, la messa srilankese mostra sia una volontà di affermazione sul territorio, che si manifesta anche in altri modi visti durante la breve esposizione etnografica, e la capacità di praticare la mediazione diretta con gli abitanti del quartiere. Sembra infatti possibile affermare che quel livello implicito nell’uso religioso dello spazio che in letteratura è evidenziato nella forma di una richiesta di visibilità, affermazione e rivendicazione del diritto ad abitare la città e ad usarne, conseguentemente, gli spazi a disposizione, è fortemente visibile nella dinamica della messa in strada al Borgo Vergini. Nonostante infatti l’abbandono della pratica, la sua lunga durata li ha legittimati agli occhi della popolazione locale.

Su un piano più dettagliatamente religioso, possiamo vedere come la stessa sacralità della messa diviene fattore di mediazione con la popolazione locale, come nel caso mostrato da Giorgianni. In generale alla Sanità vi è un rapporto poco conflittuale tra la popolazione srilankese e quella napoletana, ma è sicuramente nello spazio della messa cattolica che essi ottengono una maggiore protezione in virtù della comune fede tra i gruppi in contrattazione12. All’interno del piccolo spazio del Borgo Vergini e, più in generale, del Rione Sanità, avvengono queste trasformazioni dello spazio urbano, mediante infiniti cambiamenti: esse rappresentano una delle dinamiche di cambiamento delle città che ogni giorno abitiamo, costringendo tutti gli attori a una nuova forma di domesticità [de Martino 1977, Signorelli 2006], a un nuovo orizzonte di utilizzabilità che includa bisogni, valori e strategie delle diverse, e nuove, componenti della popolazione. Una riflessione che ci spinge ancora una volta a considerare quanto le forme religiose non siano fuori dalla modernità, ma altrettanto capaci di starci tramite un abitarla mediato da «accomodamenti» e «resilienze specifiche» [Palumbo 2020, 119].

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1 Con questo termine Vertovec indica il crescente intreccio di livelli di diversità (etnico, culturale, religioso) nella costruzione degli spazi e delle identità urbane.

2 Il mio interlocutore è qui persona istruita e scandisce “Srilankesi”, nel gergo popolare napoletano, anche per la tendenza all’eliminazione delle “R” tipica dell’evoluzione del dialetto negli ultimi due decenni, si indicano come sillankesi.

3 Nei casi di presenza di neonati, è frequenta una scritta che invita le streghe a ripassare il giorno successivo.

4 Per i modi non apertamente aggressivi di conquista dello spazio, si veda comparativamente Harney 2007.

5 Il tono della frase sottolineava l’ovvietà del significato e, in un modo delicato, il carattere quasi superfluo della domanda.

6 Il discorso vale anche per altri quartieri di Napoli, di cui mi occuperò in altra sede.

7 A Napoli come altrove l’immigrazione srilankese è, in larghissima maggioranza, proveniente dalla costa occidentale dell’Isola, caratterizzata da una massiccia evangelizzazione cattolica che fa di questa fede il culto maggioritario, anche se nell’intero paese è solo il 7% della popolazione.

8 Per il cattolicesimo in Sri Lanka si rimanda al classico di Stirrat [1992].

9 Tale uso dei corpi rimanda a una affascinante riflessione di Amalia Signorelli circa la particolarità napoletana di una urbanizzazione e di una modalità di vivere lo spazio che costringono a un cambiamento frequente e repentino della maniera di usare il proprio corpo sulla strada [Signorelli 1996].

10 A Napoli così sono nominati i tavoli richiudibili in alluminio e plastica usati a scopi commerciali.

11 Il passaporto sanitario digitale che veniva rilasciato solo ai vaccinati ed ai guariti.

12 Questo al netto di una serie di differenze nello stesso svolgimento della messa e delle celebrazioni cattoliche che, tuttavia, sono secondarie nel presente discorso.