Pandemic soundscapes.

Etnografie collaborative e approcci multimodali al paesaggio sonoro del coronavirus

Pandemic soundscapes.

Collaborative ethnographies and multimodal approaches to the coronavirus soundscape

Gianfranco Spitilli

Dipartimento di scienze della Comunicazione, Università degli Studi di Teramo


Indice

Immagini “sonore” e pandemia

Suoni dal tempo sospeso

La pandemia come fatto sonoro

Bibliografia – Reference List


Abstract

During the first phase of confinement, initiatives focused on the sound dimension of the coronavirus popped up, starting with the perception of the changing soundscape. On a digital level, through web platforms and sound capture technologies, which are also widely available via smartphones, the possibility offered by an almost unlimited interconnection has multiplied the documentation, circulation and manipulation of pandemic sound elements, which have thus become an integral part of collaborative ethnographic projects and multimodal approaches to the coronavirus soundscape.

Keywords: coronavirus, confinement, soundscape, silence, multimodal ethnography.


Immagini “sonore” e pandemia

Inverno tra il 1918 e il 1919. Il pittore norvegese Edvard Munch (1863-1944) si rappresenta durante il contagio dell’influenza spagnola, al quale è poi sopravvissuto, al contrario di altri artisti dell’epoca, come Gustav Klimt, Egon schiele, Amadeo de Souza Cardoso, Niko Pirosmani. L’originale autoritratto (Autoritratto con influenza spagnola, 1919, olio su tela, Nasjonalmuseet, Oslo) lo coglie in una posa inquietante, rivolta all’osservatore, in tal caso a sé stesso mentre si dipinge, nell’isolamento domestico dovuto all’imperversare della pandemia. Munch si auto-osserva, dunque, raffigurandosi in un momento drammatico, materializzando un’immagine di sé in una postura contratta, tesa, per certi versi terrificante: seduto di profilo su una poltrona gialla, con una coperta sulle gambe, le mani e le braccia impegnate a stringerne i lembi, il volto girato verso chi osserva, rappreso in una smorfia, la bocca aperta, così simile a quella di un cadavere, di chi è appena defunto, nella solitudine della sua camera dove è costretto a stare in quarantena, in un ambiente dimesso e in disordine, confuso e fluttuante, incerto, imbevuto di quella condizione di estrema difficoltà e di paura che l’artista stava attraversando, ancora ignaro se la spagnola lo avrebbe risparmiato o condotto alla morte [img.1]1.

Del resto il particolare contesto in cui tutto ciò avveniva era decisamente spaventoso, e imponeva norme rigorose per combattere la pandemia, tra le quali l’isolamento era la più drastica e diffusa e, al contempo, la più immediata da poter autonomamente adottare: centinaia di migliaia di morti in tutto il Nord Europa fra il 1918 e il 1919, con un alto tasso di mortalità rispetto al numero dei contagiati, accompagnati da una percezione globale di radicale smarrimento e fragilità [spinney 2018].

Munch produsse in quel periodo ulteriori schizzi, disegni, dipinti, in cui colse le varie fasi della malattia e la sensazione angosciante dell’avvicinarsi della morte, o la sofferenza patita, come nell’Autoritratto dopo l’influenza spagnola del 1919 (olio su tela, Munchmuseet, Oslo), in cui lo vediamo nel medesimo ambiente domestico, in piedi, a mezzo busto, percorso da una grande contrazione nel viso, con gli occhi incavati nelle orbite e le pesanti labbra, stavolta, del tutto serrate [img.2]. Ma concentriamoci sul volto del primo dipinto. Quella bocca, aperta, in quel volto smunto, spigoloso, deperito e provato dalla malattia, sembra quasi emettere un suono: un sordo urlo, un grido strozzato, ingolato, che pervade tutto l’ambiente, divenendo l’elemento centrale della scena. È un suono inesistente, e tuttavia capace di saturare la percezione di chi osserva, generando uno stato di inquietudine e di oppressione [img.3].


1. Edvard Munch, Autoritratto con l’influenza spagnola, olio su tela, 1919 (Oslo, Nasjonalmuseet ©).

2. Edvard Munch, Autoritratto dopo l’influenza spagnola, olio su tela, 1919 (Oslo, Munchmuseet ©.)

3. Edvard Munch, dettaglio di Autoritratto con l’influenza spagnola, 1919 (Oslo, Nasjonalmuseet ©).

Sono esempi di immagini legate a contesti pandemici e, in particolare, alla dimensione domestica della pandemia, che potremmo definire “sonore”, talmente qualificate dall’allusione al suono da esserne in qualche modo pervase; una connessione immagini-suoni che percorre anche altre rappresentazioni pandemiche di cui mi sono recentemente occupato: quelle del ciclo fotografico dei Fantasmi fuori posto di Gianni Chiarini, rivolto all’osservazione scrupolosa degli effetti della pandemia di Covid-19 sulla socialità e sull’interazione fra le persone in contesto urbano, con particolare attenzione ai mesi di marzo e di aprile 2020 [Spitilli 2021a]2. Immagini animate dalla sensazione di un suono inudibile, uno sgomento acustico, che pare attraversarle: la coppia sotto i portici, che si trasmette un messaggio di complicità al cospetto di chi, forse, impudicamente li osserva, occultando istintivamente con la mano una comunicazione verbale che è impossibile visualizzare in ogni caso, per la presenza del dispositivo sanitario di protezione [img.4]; o la madre al mercato, con la bocca coperta dalla mascherina chirurgica, ma che avvertiamo aperta in un verso o una parola di allarme, di protezione del figlio e di esorcizzazione delle proprie paure [img.5].


4. Fantasmi fuori posto, Teramo, Corso San Giorgio, 31 marzo 2020 (foto di Gianni Chiarini).


5. Fantasmi fuori posto, Teramo, Corso Cerulli, 5 maggio 2020 (foto di Gianni Chiarini).

Possiamo forse comprendere meglio il grido visivo generato dalla pandemia e rappresentato da Edvard Munch nel primo autoritratto in quarantena, pensando all’opera più celebre del pittore norvegese, L’urlo, di cui esistono cinque versioni realizzate fra il 1893 e il 19103:

- 1893, bozza della prima versione definitiva: pastello su cartone (vi sono anche bozze incomplete) [img.6];

- 1893, prima versione, la più celebre: olio, tempera e pastello su cartoncino [img.7];

- 1895, pastello su tavola [img.8];

- 1895, litografia su carta [img.9];

- 1910, tempera su pannello [img.10].


6. Edvard Munch, la prima versione de L’urlo, pastello su cartoncino, 1893 (Oslo, Munchmuseet ©).


7. Edvard Munch, L’urlo, tempera e pastello su cartoncino, 1893 (Oslo, Nasjonalmuseet ©).


8. Edvard Munch, L’urlo, pastello su cartoncino, 1895 (Collezione privata).


9. Edvard Munch, L’urlo, litografia, 1895 (New York City, Museum of Modern Art-MoMA ©).


10. Edvard Munch, L’urlo, tempera e olio su cartone, 1910 (Oslo, Munchmuseet ©).


L’urlo – dal titolo originale Skrik – nacque da un profondo e tremendo sentimento di angoscia, di sconforto e di solitudine che il pittore avvertì nel 1892; lo sappiamo dall’artista stesso, che descrisse le emozioni da cui fu scosso mentre passeggiava lungo un sentiero alla periferia di Oslo:

Una sera camminavo lungo una strada con due amici. Su un lato c’era la città, sotto di me il fiordo. Ero stanco e malato […]. Il sole stava tramontando e le nuvole erano rosse come sangue. Ho percepito un grido che squarciava la natura, avendo la sensazione di sentirlo. Ho dipinto questa immagine, ho dipinto le nubi come sangue vero. I colori gridavano [Munch 2015, 46-47]4.

Un momento di terrore, di panico per la condizione umana, rappresentato con un’immagine primitiva di paura, con il corpo che sembra prosciugato, ondulato, schiacciato da questo urlo agghiacciante, che captiamo pur non udendolo. Tom Gunning osserva che «in all versions, prints and paintings of his emblematic The scream, force lines trace an echoing sound that permeates the landscape while they decompose the figure» [2020, 60]5. Anche la natura sembra in effetti partecipare al medesimo stato di cataclisma, qualcosa di più di una solitaria e inaccessibile condizione interiore: gli elementi naturali si muovono, sono scossi da quel grido, ne vengono attraversati come da onde sonore. Lo accolgono, ne risuonano, lo amplificano, lo restituiscono con tale forza che il protagonista è costretto a difendersi portando le mani alle orecchie, per non sentire nulla, come se la stessa persona non fosse in grado di sostenere il grido che lei stessa sta emettendo e percependo nel mondo circostante: «les mondes intérieur et extérieur s’entremêlent, le personnage est en symbiose avec ce qui l’entoure, et le cri semble retenir à la fois de l’intérieur et de l’extérieur» [Bak Nielsen 2022, 60]6. È ancora Munch a ribadire la portata di questa intensa reciprocità acustica, percettiva, psicologica:

Un grido forte, terribile, acuto, che mi è entrato in testa, come una frustata. D’improvviso l’atmosfera serena si è fatta angosciante, simile a una stretta soffocante: tutti i colori del cielo mi sono sembrati stravolti, irreali, violentissimi. […] Anch’io mi sono messo a gridare, tappandomi le orecchie, e mi sono sentito un pupazzo, fatto solo di occhi e di bocca, senza corpo, senza peso, senza volontà, se non quella di urlare, urlare, urlare. […] Non mi riconoscete, ma quell’uomo sono io [Munch 2015, 46-47]7.

Nel descrivere le proprie immagini lo stesso Munch parlava talvolta, di «‘delicate strands’ or ‘invisible threads’ that bind bodies to each other» [Gunning 2020, 60]8, secondo connessioni che esprimono, attraverso i suoi esperimenti pittorici e di stampa, «new view of the self, the body and their environment» [Ivi, 67]9; non diversamente, accostandosi alla fotografia e sperimentandone la portata espressiva dei “difetti” tecnici, ha aperto ulteriormente lo sguardo verso «a new dynamic and often de-materialized image of the self and its world» [Ibid.]10.

Il lavoro riflessivo di Edvard Munch assume così le sembianze di una sorta di autoetnografia pandemica visiva, che contiene in sé un elemento sonoro latente, implicito, onnipervadente, che la qualifica in egual misura: quel grido, interno ed esterno al medesimo tempo, è dunque anche definibile nei termini speculari di un assordante silenzio11. Pensando al primo periodo di espansione planetaria del Covid-19 dei mesi di marzo e aprile 2020, mi sembra che nulla possa restituire con altrettanta efficacia quanto percepito in quella circostanza.

Suoni dal tempo sospeso

La dimensione quasi esclusivamente domestica della pandemia generata dalle disposizioni governative sulla quarantena, almeno in una prima fase, ha portato a focalizzare l’attenzione sulla casa come oggetto etnografico. Gli spazi dell’abitare si sono collocati, necessariamente, al centro della pratica e della riflessione antropologica, in una prospettiva marcatamente autoetnografica12: giornate intere, settimane, mesi, scanditi dal proprio movimento in uno specifico ambiente, organizzandone e riorganizzandone l’uso in base ai bisogni emergenti dal quotidiano evolvere del contagio e delle proprie priorità, di ordine materiale e mentale13.

Susanne P. Blier, applicando una metafora anatomica riferita all’architettura Batammaliba del Togo settentrionale e del Benin, definisce ogni edificio, ogni casa, un organismo vivente, «an active, living organism» [1994, 2], non separato dalle persone che ne fanno uso e assimilato a un membro della famiglia. Le case hanno storie di vita «come gli alberi» – dice Tim Ingold [2001, 138] –, che si intrecciano con quelle dei suoi occupanti e «consistono nel dispiegamento delle loro relazioni con le componenti umane e non umane dei loro ambienti» [Ibid.], nelle relazioni domestiche tra cose e persone, «in un processo di trasformazione biografica» [Meloni 2015, 82] contrassegnato da una reciproca mutazione14.

Riferendomi alla mia esperienza personale, mi sono trovato a vivere la pandemia in una casa di famiglia, al mare, assieme alla mia compagna: un luogo a me particolarmente caro, deposito di memoria familiare e genealogica, in cui risiedevo da alcuni anni in maniera provvisoria e in seguito al danneggiamento della mia abitazione a causa del sisma dell’Italia centrale del 2016-17. Il sopraggiungere della diffusione del contagio ha pertanto contribuito a rafforzare un sentimento di precarietà, di incertezza intesa quale tratto fondante, costante dell’esperienza umana, anch’essa divenuta oggetto di perdurante e rinnovata attenzione antropologica: si pensi, ad esempio, alle modalità con le quali è investigata in pubblicazioni recenti, come il numero monografico della rivista “EtnoAntropologia” dall’eloquente titolo Etnografia dell’incertezza [Matera 2017]15, o al focus tematico del convegno della società Italiana di Antropologia Applicata del 2020, Fare (in) tempo. Cosa dicono gli antropologi sulla società dell’incertezza, quel «tempo sospeso» e incerto di cui parlano anche Simonetta Grilli e Pietro Meloni in un contributo dedicato alle trasformazioni della vita quotidiana domestica durante il primo lockdown italiano causato dalla diffusione del coronavirus [Grilli, Meloni 2020, 71]16. La casa ha assunto così, in tale contesto, la duplice configurazione di estremo rifugio e di luogo tirannico di reclusione, segnato dall’ambivalenza e dall’inquietudine [Douglas 1991; Fontefrancesco 2021].

L’ascolto e la documentazione del paesaggio sonoro della pandemia – intendendo con esso, secondo la definizione di R. Murray schafer, l’insieme degli eventi acustici che ci circondano: i suoni della natura, quelli degli animali, quelli prodotti dall’uomo [1969] – costituiscono in tal senso un filo conduttore d’indagine, applicato in differenziate modalità e in ambito planetario, globale, a volte in una fruttuosa cooperazione fra dimensione oculare e aurale, attraverso numerosi progetti e diversificati supporti17. Dai miei punti di vista e di ascolto domestici, il suono di riferimento, al medesimo tempo marcatore e sfondo acustico della quarantena, era inevitabilmente costituito dal risuonare costante e disomogeneo del mare, con la sua presenza permanente ma anche continuamente soggetta a variazioni, cambi di intensità, di profondità di propagazione, di volume, di riverbero, in base a fattori variabili come le condizioni meteorologiche, la mia posizione all’interno della casa, la presenza o meno di rumori o suoni di disturbo e di interferenza18; un suono fondativo, originario, tranquillizzante, a tratti anche inquietante, che accompagnava inesorabilmente i giorni e le notti, senza tregua19. Accanto, hanno inoltre preso il sopravvento tutti i suoni naturali attorno all’abitazione, dai suoni degli uccelli a quelli del vento frusciante sulle fronde degli alberi vicini, allo scrosciare dell’acqua piovana; infine, i rumori dei rari transiti di automobili, furgoni, camion, pullman, nella strada antistante, nelle strette vie laterali, e quelli di un cantiere edile che a intermittenza proseguiva le proprie attività poco distante. All’interno, i suoni di una vita domestica rarefatta, essenziale e, in alcuni momenti, sopraffatta dall’angoscia di una situazione ancora largamente indecifrabile.

Alcuni di questi suoni, unitamente a delle immagini in video, entrambi catturati attraverso l’unico strumento di captazione audiovisiva di cui disponevo, uno smartphone di modesta qualità, compongono un breve estratto sonoro e visivo della particolare condizione di reclusione data dalla quarantena, relativo a un momento della mattina del 25 marzo del 2020, colto mediante una serie di inquadrature che dalla finestra si rivolgono al mondo esterno, ancora di difficile accesso20. Prevale un silenzio greve, pesante, ovattato, che conduce tuttavia, come nel celebre esperimento compositivo del silenzio di John Cage del 1952 (4’33”), a porre attenzione ai rumori e ai suoni del mondo, ad apprezzare il “qui ed ora” dei suoni quotidiani e a riflettere sull’impossibilità del silenzio assoluto21.

La pandemia come fatto sonoro

L’assordante silenzio – denso di vari tipi di suono – del tempo pandemico e della quarantena evocato in precedenza non è un indicatore semantico nuovo, nella storia delle epidemie europee. La fonosfera ovattata e angosciosa delle epidemie planetarie risalta da numerose descrizioni del passato22; si pensi, ad esempio, al «silenzio profondo» in cui «ogni cosa era immersa» durante la pandemia di peste bubbonica che travolse l’Europa tra il 541 e il 542 d.C., e, in successive ondate, nel 546, fra il 560 e il 570, evocato da Paolo Diacono nel secondo libro della Storia dei Longobardi [Historia Longobardorum, L. II, 4-7]; «silenzio di ere lontanissime» a cui il «mondo pareva ricondotto», regnante «su villaggi e borghi, prima pieni di uomini, nell’indomani, dopo che la gente se n’era fuggita»: «non un grido nelle campagne, non il fischio di un pastore, non un’aggressione di fiere contro le greggi, non un furto nei pollai […]. Di notte e di giorno s’udiva suonare una tromba di battaglia, e da molti s’era udito uno strepito d’esercito».

Impressionano, nella descrizione di Alessandro Manzoni, il silenzio, i segni desolanti e i diradati suoni della peste che si abbatté sulla Lombardia nel 1630, colti attraverso la lucida e compassionevole percezione acustica e visiva di Renzo, entrato clandestinamente a Milano in cerca di Lucia:

Cessato per tutto ogni rumor di botteghe, ogni strepito di carrozze, ogni grido di venditori, ogni chiacchierìo di passeggieri, era ben raro che quel silenzio di morte fosse rotto da altro che da rumor di carri funebri, da lamenti di poveri, da rammarichìo d’infermi, da urli di frenetici, da grida di monatti23. All’alba, a mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci assegnate dall’arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane dell’altre chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a pregare in comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti, che spirava una tristezza mista pure di qualche conforto [Manzoni 1988, 683].

L’ingresso di Renzo in città era stato preceduto dalla costernazione e dall’inquietudine che davano «quella solitudine», «quel silenzio», avvicinandosi, costeggiando le mura, osservando la desolazione di una campagna in «parte incolta, e tutta arida», e «ogni verzura scolorita», con «foglie passe e cascanti» [Ivi, 677]; uno scenario sconfortante, animato «verso porta Nuova» da un lontano segnale sonoro: «un tintinnìo di campanelli, che cessava e ricominciava ogni tanto, e poi qualche voce d’uomo» [Ibid.]. è un «motivo fonico»24 che ritorna, e si precisa man mano che Renzo si addentra per le strade di Milano, fino a trovare drammatica congiunzione con la dolorosa e concreta visione del drammatico corteo da cui tale manifestazione acustica proveniva:

A ogni passo, sentiva crescere e avvicinarsi un rumore che già aveva cominciato a sentire mentre era lì fermo a discorrere: un rumor di ruote e di cavalli, con un tintinnìo di campanelli, e ogni tanto un chioccar di fruste, con un accompagnamento d’urli. Guardava innanzi, ma non vedeva nulla. Arrivato allo sbocco di quella strada, scoprendosegli davanti la piazza di san Marco, la prima cosa che gli diede nell’occhio, furon due travi ritte, con una corda, e con certe carrucole; e non tardò a riconoscere (ch’era cosa famigliare in quel tempo) l’abbominevole macchina della tortura […]. Ora, mentre Renzo guarda quello strumento, pensando perchè possa essere alzato in quel luogo, sente avvicinarsi sempre più il rumore, e vede spuntar dalla cantonata della chiesa un uomo che scoteva un campanello: era un apparitore25; e dietro a lui due cavalli che, allungando il collo, e puntando le zampe, venivano avanti a fatica; e strascinato da quelli, un carro di morti, e dopo quello un altro, e poi un altro e un altro; e di qua e di là, monatti alle costole de’ cavalli, spingendoli, a frustate, a punzoni, a bestemmie. Eran que’ cadaveri, la più parte ignudi, alcuni mal involtati in qualche cencio, ammonticchiati, intrecciati insieme, come un gruppo di serpi che lentamente si svolgano al tepore della primavera; chè, a ogni intoppo, a ogni scossa, si vedevan que’ mucchi funesti tremolare e scompaginarsi bruttamente, e ciondolar teste, e chiome verginali arrovesciarsi, e braccia svincolarsi, e batter sulle rote, mostrando all’occhio già inorridito come un tale spettacolo poteva divenire più doloroso e più sconcio [Ivi, 680-681].

Il gesuita Athanasius Kircher, riferendosi all’«atrocissima peste» diffusasi a partire dal 1656, da Napoli verso il resto della penisola, alla ricerca di cause e rimedi possibili contro l’«atroce male», per contenere la «strage orrenda e formidabile» alla quale assistette, parlò dell’«orrido silenzio di una mesta Roma» nel proemio al piccolo trattato Scrutinium Physico-Medicum Contagiosæ Luis, quæ Pestis dicitur, pubblicato nel 1658, quando l’epidemia stava lentamente scemando.

È «una sfera cognitiva dissonante» quella indotta dall’espansione del Covid-19, secondo quanto espresso nella presentazione di una rubrica digitale, il Diario della crisi, costruita dall’Istituto Italiano di studi Filosofici di Napoli nei primi mesi di confinamento al fine di produrre uno spazio sociale dematerializzato di condivisione e di riflessione comune, di fronte allo «smarrimento», alla «sospensione del tempo», all’«esperienza della separazione» generati dalla pandemia26. Il richiamo a una metafora di tipo acustico appare, in tale contesto, di particolare valenza. La pandemia come fatto eminentemente sonoro è ribadita anche da Stuart Fowkes, ideatore del progetto globale di registrazione sul campo e arte sonora Cities and Memory: «This is a really unique time when the world is sounding like it’s never sounded before», ha dichiarato; «in none of our lifetimes has the world ever sounded like it does right now»27. Fowkes li definisce «nuovi silenzi», che dominano le città durante le prime settimane di lockdown. Proprio gli ambienti urbani diventano l’oggetto centrale di un contenitore specifico all’interno del progetto, #StayHomeSounds/Sounds from the global Covid-19 lockdown, una mappatura partecipativa inaugurata a marzo del 2020 che mira a documentare l’epidemia attraverso clip sonore in crowdsourcing e si alimenta pertanto del contributo degli utenti, autori delle registrazioni e delle immagini fotografiche che spesso le accompagnano, mostrando il luogo e alcuni dettagli della specifica storia dalla quale hanno origine i contenuti, anche con un eventuale approccio compositivo all’uso del suono; l’intento dichiarato è di condividere quanto accade, unire le persone e dimostrare in che misura le persone stiano vivendo il momento del confinamento pandemico come un’unica comunità globale, interdipendente e legata da infinite interconnessioni, con l’esplicita intenzione di trasmetterne inoltre un’eredità documentale alle generazioni future. Valga, fra i tanti possibili, l’esempio della città di Copenhagen, attraverso la registrazione di Tim Hinman dell’11 maggio 2020. In essa possiamo udire il test annuale del sistema di sirene di emergenza della capitale danese, riservato alle emergenze maggiori e utilizzato anche nei tempi di guerra; colta dal documento sonoro nel mezzo della quarantena, sebbene in una fase di attenuazione del contagio, la propagazione imponente del suono delle sirene rende stranamente significativo il paesaggio sonoro cittadino, rarefatto dalla sostanziale assenza di componenti umane ordinarie e segnato da una fonosfera diradata e inquietante, popolata a intermittenza solo dai versi striduli degli uccelli28.

All’inizio della pandemia un gruppo di ricercatori francesi ha avviato un progetto chiamato The Silent Cities Project, un programma partecipativo di monitoraggio all’interno della piattaforma di ricerca e analisi collaborativa OSF (The Open Science Framework) concepito allo scopo di raccogliere dati sul paesaggio sonoro e sul rumore in riferimento all’eccezionale cambiamento intercorso nel panorama sonoro, in particolare in ambiente urbano, durante il confinamento da Covid-1929. L’équipe interdisciplinare ha raccolto e promosso raccolte di registrazioni in 37 Paesi diversi, prevalentemente attraverso strumentazione estremamente sensibile in grado di ascoltare e registrare frequenze udibili, fino alle frequenze ultrasoniche, in genere utilizzata per registrazioni naturalistiche di alta qualità30. L’enorme mole di materiale – oltre due milioni di registrazioni – è stata analizzata attraverso una serie di indici, tra i quali i livelli di decibel, la complessità acustica e un “indice normalizzato di paesaggio sonoro diverso”, inteso quale rapporto fra biofonia (i suoni degli organismi viventi) e antrofonia (suoni generati dall’uomo), e classificata in un database anche in base alla geolocalizzazione, al clima, alla densità di popolazione e alle misure di confinamento della pandemia31.

Numerosi progetti similari sono proliferati nel periodo della quarantena, come ad esempio The sound Outside. Listening to the world at Covid-19 time, ideato da attivisti sonori del Politecnico di Milano, con una medesima focalizzazione su quanto era udibile dalla prospettiva del proprio confinamento domestico e sulla possibilità di contribuire a un contenitore condiviso di paesaggi sonori pandemici, in una prospettiva di ecologia acustica e di pedagogia dell’ascolto32. O Paesaggi sonori italiani - #Covid19, un contenitore partecipativo sul paesaggio sonoro del coronavirus in Italia nato da una collaborazione fra l’Istituto Centrale per i Beni sonori ed Audiovisivi, il Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Padova e il sistema di archiviazione digitale Locate your sound, ideato con lo specifico fine di documentare la trasformazione dei paesaggi sonori italiani in pandemia, georeferenziati su mappa ed esplorabili anche attraverso una lista di consultazione [img.11]33.

I suoni della quarantena palesano in effetti una marcata polarità: da un lato, un mondo estremamente circoscritto, confinato prevalentemente all’ambito domestico o alle sue immediate prossimità; dall’altro, l’interrelazione degli infiniti mondi domestici, su scala planetaria, garantita dalla dimensione digitale e dematerializzata, dalla rete internet, dall’iperconnessione, attraverso piattaforme multimodali che traducono un approccio etnografico in produzione di documenti e composizioni sonore, di testi descrittivi, di immagini, di narrazioni multimediali, di ulteriori rimandi e connessioni a contenitori digitali paralleli: playlist, o collettori di risorse, come il Covid-19 soundscapes Resources, elaborato dal World Forum for Acoustic Ecology, in cui sono radunati articoli, blog, podcasts, progetti di mappatura sonora, progetti di ricerca e altri materiali multimediali sul tema34; o veri e propri progetti di interazione sonora che l’utente può costruire in fase di ascolto e contribuire a formare attraverso le proprie documentazioni, come in sound of the Earth: the Pandemic Chapter, un’esperienza sonora dinamica ideata dal Dallas Museum of Art in collaborazione con il sound designer Yuri Suzuki al fine di alimentare l’idea e la pratica del suono come strumento di condivisione e connessione globale [img.12]35.

11. Immagine di mappa georeferenziata di documenti sonori dal sito Locate your sound.


12. Immagine di mappa interattiva dal sito Sound of the Earth: the Pandemic Chapter.

La dimensione dell’interrelazione digitale, perlopiù esperita all’interno dei contesti domestici e abitativi, ha mostrato nel corso dell’evoluzione del coronavirus una preponderante e inattesa concretezza, sollevando ulteriormente «il rapporto tra materialità e immaterialità nelle pratiche quotidiane» [Meloni 2015, 83] e rimettendone in discussione la presunta dicotomia. Oggetti tangibili come smartphone e computer sono strumenti che hanno consentito di accedere a contenuti intangibili e di generare nuovi contenuti, «di costruire relazioni sociali e parlare di sé» [Ivi, 84], persino di portare a compimento, almeno in parte, rituali del cordoglio e del congedo mediante una gestione digitale del lutto [Baldi 2021]. Ed è nelle case e dalla propria casa, grazie alla mobilità dematerializzata favorita dai media digitali, che l’etnografo ha potuto e può sottoporre a osservazione attenta queste pratiche alimentate dalla pandemia e le «experimental, sensory, and imagistic forms of ethnographic representation»36 che ne conseguono [Kazubowski-Houston, Auslander 2021, 220]: un tentativo di portare alla luce, con rinnovate strategie euristiche, «the ways in which the future emerges from the fabric of the everyday as fragmented stories, feelings, sensations, and imaginaries» [Ibid.]37.

«Non si vedeva orma di gente che viaggiasse né si compivano assassini», afferma ancora Paolo Diacono nel narrare la peste europea del VI secolo. L’illusione di un azzeramento o un ripensamento globale delle violenze, delle disuguaglianze, dell’incidenza negativa e distruttiva della presenza dell’uomo sul pianeta Terra ha attraversato prepotentemente la prima fase di diffusione del virus; anche la preponderante attenzione rivolta all’emersione dei suoni della natura, e lo stupore che l’ha accompagnata, ce lo mostra. «La morte è l’esperienza comune che può far sentire a tutti i soggetti del genere umano i loro mutui legami e la loro comune umanità», dichiara la fotografa iraniana Masoumeh Bahrami (Inside Living Cells), che nei giorni di maggior contagio dell’inverno 2020 ha violato la quarantena per documentare lo stato della sua città, Mazandaran, sentendosi «come in un tunnel, come in uno stato di transizione tra la vita prima e dopo il coronavirus»38.

Il cambiamento è stato certamente epocale, ma apparentemente momentaneo, come abbiamo potuto iniziare a verificare in seguito. Nel percorso sin qui tracciato, l’universo dei suoni e la sua documentazione nel tempo di quarantena, attraverso un’etnografia di tipo collaborativo basata sulla condivisione e l’interrelazione, può dirci qualcosa in più sulla fragilità umana e le sue forme di adattamento, sull’interdipendenza che caratterizza le nostre esistenze e sulle rinnovate possibilità di convivenza, sulle tensioni e le contraddizioni della vita sociale, economica e relazionale delle società contemporanee. È emersa soprattutto – come sottolineano Simonetta Grilli e Pietro Meloni ispirandosi alle considerazioni di Bruno Latour – la centralità della socialità e della dimensione relazionale nella nostra esistenza: «siamo esseri relazionali che vivono e abitano le case, interagendo con altri esseri umani e non umani e stabilendo relazioni con la tecnologia e con un ambiente ibrido» [2020, 87]; di questo l’antropologia non può fare a meno di continuare occuparsi con rinnovate chiavi di lettura, comprese quelle che la pandemia ha sollevato.

Bibliografia – Reference List

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1 Al particolare tema Edvard Munch ha dedicato almeno un altro dipinto, un olio su tela del 1919, conservato presso il Museum Behnhaus di Lubecca.

2 Gianni Chiarini (1983) è fotografo e direttore della fotografia cinematografica, formatosi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma con Giuseppe Rotunno. Un profilo biografico approfondito è in: Spitilli 2021b; si veda, inoltre, il sito: https://www.giannichiarinidop.com.

3 La genesi dell’opera Il grido, e l’analisi delle prime due versioni, è in: Bak Nielsen 2022.

4 Edvard Munch ha descritto in vari testi le circostanze che lo spinsero alla realizzazione dell’opera, nelle sue numerose versioni. Una rielaborazione, resa in forma poetica, fu anche segnata sulla cornice della versione del 1895. Il suo quaderno di note conservato presso il Munchmuseet di Oslo, alla data dell’8 gennaio 1892, riporta il primo testo redatto di cui si ha testimonianza [Bak Nielsen 2022, 56].

5 «In tutte le versioni, stampe e dipinti del suo emblematico L’urlo, le linee di forza tracciano un’eco sonora che permea il paesaggio mentre scompongono la figura» (traduzione dall’inglese di Gianfranco Spitilli).

6 «I mondi interiore ed esteriore si fondono, il personaggio è in simbiosi con ciò che lo circonda, e il grido sembra provenire sia dall’interno che dall’esterno» (traduzione dal francese di Gianfranco Spitilli).

7 La concezione del vivente – uomo o natura – come grande corpo animato attraversato da un’energia vitale intesa come «manifestation d’une genèse sans repos» («manifestazione di una genesi incessante»), onnipresente nell’opera di Munch, è ribadita in: Wat 2022, 46.

8 «‘Fili delicati’ o ‘fili invisibili’ che legano i corpi tra loro».

9 «Una visione radicale e nuova del sé, del corpo e dell’ambiente».

10 «Una nuova immagine dinamica e spesso de-materializzata del sé e del suo mondo».

11 L’opera stessa di Munch, con particolare riferimento all’evoluzione costante dei suoi soggetti in versioni continuamente aggiornate, in perpetuo divenire, è stata equiparata a un mondo in costante propagazione, «tel un virus porteur de vie et de mort» («come un virus portatore di vita e di morte») [Wat 2022, 50, 52].

12 La particolare condizione dell’abitare in pandemia è stata affrontata da molteplici prospettive; si vedano, fra gli altri: Della Valle, Mariani 2020; Grilli, Meloni 2020; Cito 2021.

13 Sulla relazione fra crisi mentale e incrinamento dell’ordinario piano spazio-temporale durante il blocco della mobilità conseguente al primo lockdown planetario, si veda: Vereni 2020.

14 Il dibattito antropologico sugli spazi domestici e sugli oggetti è amplissimo e non può essere in tale sede ripercorso. Si vedano in particolare: Appadurai 1986; Kopytoff 1986; Miller 2008; Bernardi, Dei, Meloni 2011; Meloni 2011; Meloni 2014 e l’ampia letteratura in esso rilevabile.

15 Si vedano anche, con specifico riferimento alla percezione dell’incertezza durante il primo lockdown: MacGregor 2020; De Matteis 2021.

16 Gli autori si riferiscono, in particolare, alle riflessioni di Francesco Remotti sulla sospensione traumatica indotta dal coronavirus, al centro di un ampio dibattito online nei primi mesi di pandemia, poi confluite in: Remotti 2020; sul concetto di sospensione in antropologia, si veda: Remotti 2011. Il cambiamento della vita quotidiana durante il lockdown è analizzato, fra gli altri, in: Colombo, Rebughini 2021.

17 Per una adeguata disamina di prime analisi critiche dei cambiamenti negli ambienti sonori, nelle pratiche artistiche e nei comportamenti di ascolto causati dall’epidemia di coronavirus, si veda: Agamennone, Palma, sarno 2023.

18 Si veda, a tal proposito, la concezione del suono come fenomeno dell’esperienza, quale frutto della nostra immersione e commistione con il mondo in cui ci troviamo, proposta da Tim Ingold [2007]; sulla dimensione relazionale, contestuale ed esperienziale del processo conoscitivo attraverso il suono e l’ascolto dell’orientamento di Steven Feld, e sulla relazione tra sensi e luoghi, vedi anche: Feld, Basso 1996; Feld 2009; 2010; 2021; Spitilli 2023, 491-495. L’idea di “punto di udito”, in opposizione a “punto di vista”, è sviluppata per la prima volta in: Carpenter, McLuhan 1960.

19 Schafer propone una scomposizione analitica delle caratteristiche più significative di un paesaggio sonoro in tre categorie principali, al fine di individuare i suoni “particolarmente importanti per la loro individualità, la loro quantità o la loro presenza dominante” (1985, p. 21): la “tonica” (keynote sound) – suono posto sullo sfondo, non necessariamente percepito in modo cosciente, in genere appartenente a elementi della geografia e del clima di un paesaggio sonoro (“acqua, vento, foreste, pianure, uccelli, insetti, animali”; il “segnale” (sound signal) – “suono in primo piano, ascoltato consapevolmente”; l’“impronta sonora” (soundmark) – “suono comunitario che possiede caratteristiche di unicità”; possono poi aggiungersi a essi i “suoni archetipi”, “quei suoni antichi e misteriosi, dotati spesso di un preciso simbolismo, che ci sono stati tramandati fin dalla antichità più remota o dalla preistoria”: Ivi, pp. 21-22. Il suono del mare, per le sue specifiche caratteristiche, assume a mio avviso, congiuntamente, la funzione di keynote sound per la sua natura di suono di fondo, percepito in sottofondo o percepito in modo non immediatamente cosciente, e quella di soundmark, poiché contrassegna in modo marcato la vita sonora di chi abita nei pressi del litorale, acquisendo in tal senso i tratti di suono comunitario con caratteristiche di unicità rispetto a spazi sociali contigui che non vivano un’analoga prossimità quotidiana.

20 L’inquadratura coglie una porzione del terrazzo antistante l’abitazione; uno spazio ancora poco utilizzato nella prima fase di espansione del contagio, al contrario di quanto avvenuto in contesti prettamente urbani, dove i balconi hanno assunto sin dai primi momenti la vitale funzione di prolungamento della casa e luogo di estensione pubblica della vita domestica [Bassetti 2020; Grilli, Meloni 2020, 71].

21 Le riprese che compongono il breve estratto visivo sono state effettuate a Tortoreto Lido, una località marina in provincia di Teramo, davanti al Mare Adriatico [Spitilli 2022]; il video è visionabile al seguente link: <https://youtu.be/T7BQrnIxKSk>. Sulle pratiche etnografiche di ascolto dei background, vedi: Bachis 2017. Più ampiamente, la relazione fra soundscapes ed etnografia del silenzio è affrontata nella sezione tematica di «Anuac», 6 (2): 197-288 (Soundscapes and ethnography of silence, 2017). Per una interpretazione antropologica del silenzio e delle pratiche culturali ad esso connesse, si veda Silence in Cultural Practices, la special issue di «Ethnologia Europaea», 46 (2), 2016.

22 Sulla fonosfera intesa quale spazio uditivo socialmente e culturalmente costruito, si veda: Ricci 2016 (in particolare il capitolo Sacre fonosfere della Settimana Santa in Calabria, 138-153).

23 Addetto pubblico incaricato del trasporto dei cadaveri o dei malati nei lazzaretti in caso di epidemia.

24 È la definizione che ne fornisce in nota Angelo Marchese, curatore dell’edizione, riferendosi a uno dei tanti elementi sonori che costellano il testo manzoniano [Ivi, 681].

25 Colui che precedeva i carri funebri, avvertendo i passanti.

26 La rubrica è stata creata e coordinata dall’Istituto Italiano di s>tudi Filosofici di Napoli, ed è andata avanti dall’inizio di aprile del 2020 alla fine di novembre del 2021: <https://www.iisf.it/index.php/progetti/diario-della-crisi.html>.

27 «Questo è un momento davvero unico in cui il mondo sta suonando come non ha mai suonato prima; in nessuna delle circostanze della nostra vita il mondo ha mai suonato come in questo momento». Un estratto delle sue considerazioni è in: Bakare 2020. Si veda anche la pagina introduttiva del progetto: <https://citiesandmemory.com/covid19-sounds/>.

28 È possibile ascoltare la registrazione, della durata di 9’32”, al seguente link: <https://audioboom.com/posts/7579377-sirens-in-copenhagen>.

29 https://osf.io/h285u/. Si tratta, in dettaglio, di Samuel Challéat (geografo ambientale), Amandine Gasc (ricercatrice in ecologia e in conservazione biologica ed ecoacustica), Jeremy Froidevaux (biologo della conservazione), Nicholas Farrugia (ricercatore transdisciplinare in intelligenza artificiale, neuroscienze cognitive e musica), Nicolas Pajusco (ingegnere acustico e sound desiner).

30 Si tratta, in particolare, dell’Audiomoth di Openacoustics e del Wildlife Acoustics SM4.

31 La specifica configurazione sonora generata dalla pandemia ha mobilitato un articolato campo di produzione scientifica; per una prima disamina della letteratura di studi sull’acustica prodotta durante il confinamento, si vedano, fra gli altri: Bartalucci et al. 2021; Hasegawa, Lau 2022.

32https://www.soundesign.info/2020/03/28/the-sound-outside/. Per l’approccio multimodale in ambito antropologico si vedano, in particolare: Pink 2011; Collins, Durington, Gill 2017; Favero, Theunissen 2018; Varvantakis, Nolas 2019. Si veda, inoltre: Spitilli 2023.

36 «Forme sperimentali, sensoriali e immaginifiche di rappresentazione etnografica».

37 «I modi in cui il futuro emerge dal tessuto del quotidiano come storie, sentimenti, sensazioni e immaginari frammentati».

38 Vedi il capitolo Inside Living Cells all’interno del sito-progetto fotografico The Covid-19 Visual Project. A time of distance: <https://covid19visualproject.org/it/chapter/una-visione-dinsieme/0>.