Diseguaglianze nell’eguaglianza. Il ruolo dell’amministrazione pubblica

Inequalities in Equality.

The Role of Public Administration

Alessandra Pioggia

Dipartimento di Scienze Politiche, Università degli Studi di Perugia


Indice

Premessa

La legge dell’assistenza inversa e il compito dell’amministrazione

L’amministrazione e la giustizia

L’amministrazione della “cura” per contrastare la legge dell’assistenza inversa

Bibliografia


Abstract

In 1971 Julian Tudor Hart formulated the «inverse care law» to highlight how those most in need of medical care, on average, receive less, and to highlight the inequities of many European redistributive systems. Even today, our public administrations fail to reverse this law and the people in greatest need receive less support and fewer services. Phenomena such as increasing ageing, economic crises, migration, increase society’s needs and the number of people at risk of being left without support. In order to understand why public administrations often fail to intercept specifically the needs of the most vulnerable, it may be useful to consider the feminist critique of today’s prevailing theory of justice, that of John Rawls. The essential objection concerns imagining the people who enter into the social contract all as adult, autonomous and independent. This leaves the concept of mutual interdependence out of the justice paradigm and influences the behavior of public administrations. It is therefore necessary to rethink administration differently and in this redesign process feminist thought can provide another important contribution through the theories of the ‘ethic of care’.

Keywords: Inverse care law, public administration, services, equity, ethic of care.


Premessa

Da giurista e studiosa della pubblica amministrazione, mi sono interrogata in questi ultimi anni sul significato dell’amministrare e sul ruolo delle nostre istituzioni pubbliche nella realizzazione del progetto di società iscritto in Costituzione. In questa prospettiva mi è apparso necessario muovere dal significato profondo dell’intervento pubblico nella realtà. Se tradizionalmente l’amministrazione è stata considerata strumento operativo del potere, mezzo attraverso il quale l’autorità produce i suoi effetti nella società e verso i singoli, dalla Costituzione in poi si è andato definendo un altro e più importante ruolo delle istituzioni amministrative: quello di servire la collettività e le persone, intervenendo nella realtà per trasformarla, in modo che le condizioni di fatto in cui ciascuno e ciascuna si trova non siano di impedimento al suo pieno sviluppo come persona. In questo doveroso ruolo l’amministrazione non è mera esecutrice di un comando, ma è anche attrice di un disegno ambizioso, alla realizzazione del quale deve prestare tutte le sue energie, operative e organizzative. La norma di legge, formulata inevitabilmente e doverosamente come comando generale ed astratto, può definire ambiti di intervento, capacità, poteri e finalità dell’azione pubblica, ma è nel concreto rapportarsi con la realtà che si è in grado di adattare gli strumenti ai bisogni e di rimuovere gli ostacoli che materialmente impediscono il pieno sviluppo dell’individuo. E questo è il fondamentale compito dell’amministrazione.

Alcuni dati, tuttavia, ci dicono che le nostre istituzioni amministrative non sempre arrivano là dove i bisogni sono più consistenti e le condizioni di difficoltà da rimuovere più profonde. Diventa allora importante interrogarsi sulle ragioni per cui questo accade. Questo impone di confrontarsi con molti aspetti del nostro sistema pubblico e da diversi punti di vista.

Nelle brevi note che seguono si dà conto di una delle possibili prospettive, ipotizzando che i limiti nell’intercettare i bisogni più profondi possano essere spiegati anche attraverso l’idea di utente intorno alla quale l’amministrazione ha costruito il suo modo di operare. Naturalmente si tratta dell’avvio di un ragionamento che richiede di essere approfondito. Per poterlo sviluppare però è essenziale il dialogo fra le scienze che si occupano in modi diversi della società e delle sue istituzioni. Di qui l’incursione di una giurista in una rivista che ospita studi di taglio diverso, con l’auspicio di fornire stimoli per uno scambio di esperienze e visioni che possa continuare proficuamente anche in futuro.

La legge dell’assistenza inversa e il compito dell’amministrazione

Sono passati cinquantadue anni dalla formulazione della «inverse care law», legge dell’assistenza inversa, enunciata da un medico di base britannico, Julian Tudor Hart [Hart 1971]. Si tratta di una legge osservazionale, elaborata a partire dalla constatazione di una ricorrenza, quella per cui, di norma, chi più necessita di cure mediche ne riceve di meno. Hart usa come campo di indagine il funzionamento del servizio sanitario britannico e la sua organizzazione, constatando come questa, insieme alle condizioni sociali degli assistiti, che non sono per l’appunto prese in adeguata considerazione, produca l’effetto descritto, quello, cioè, di “servire” di meno proprio chi più necessita di servizi.

Hart con la sua legge ha ispirato molti studiosi [Haines, Floss 2021; Mercer, Watt 2007; Kirkwood, Pollock 2022; Victora et al. 2000] che hanno prodotto lavori importanti sull’equità nell’accesso alle cure, e, negli ultimi anni della sua vita, ha pubblicato diversi contributi in cui ha segnalato i rischi della privatizzazione della sanità, avendo lui stesso dimostrato, a suo tempo, che la legge dell’assistenza inversa è tanto più forte quanto più è debole la dimensione pubblica e universalistica dei servizi [Hart 2006].

L’insegnamento di Hart illumina ancora oggi aspetti sia delle grandi diseguaglianze globali [Cookson et al. 2021], sia delle diseguaglianze che resistono anche all’interno dei singoli Paesi, ivi compresi quelli che hanno posto l’eguaglianza nei diritti fondamentali alla base del loro sistema istituzionale [Marmot et al. 2020].

Questa seconda prospettiva appare particolarmente interessante, in quanto in grado di mettere l’accento sulla persistenza di diseguaglianze all’interno dell’uguaglianza. Si tratta di un aspetto molto significativo da diversi punti di vista e che deve interrogare sulla capacità di sistemi fondati, per l’appunto, sul progetto dell’eguaglianza sostanziale, come quelli europei, di realizzare efficacemente l’obiettivo a cui tendono.

Per quanto Hart avesse in mente unicamente i bisogni di salute, il meccanismo dell’assistenza inversa può agevolmente applicarsi a tante, forse a tutte le amministrazioni. Non solo la sanità, dunque, ma anche l’assistenza sociale, l’istruzione, i servizi che sostengono il diritto alla casa, quelli per l’avviamento al lavoro, e così via. Istituzioni e servizi nati per rimuovere gli ostacoli di fatto al pieno godimento dei diritti sociali e assicurare così l’eguaglianza sostanziale, ma nei quali si annidano diseguaglianze significative, che colpiscono proprio chi è più fragile e, quindi, più bisognoso.

Qualche esempio. Dal Rapporto 2019 sul coordinamento della finanza pubblica della Corte dei conti1 apprendiamo che le prestazioni economiche per il contrasto alla povertà sono spesso erogate a persone con l’ISEE più elevato; persone che ne hanno diritto, certamente, ma che costituiscono la porzione dei meno bisognosi fra i bisognosi [Di Cosimo 202]. Chi è più fragile dal punto di vista non solo economico, ma anche culturale e sociale, spesso non accede a certe prestazioni perché non sa di averne diritto, o perché si perde nelle difficoltà di relazione con una burocrazia complessa e incerta. I più poveri, per intendersi, spesso non sono in grado neanche di richiedere la certificazione ISEE.

Sempre la Corte dei conti, nel Rapporto del 20202, segnala alcune distorsioni nella disciplina del Reddito di Cittadinanza, che favorirebbero le famiglie monocomponente, rispetto a quelle più numerose, formate anche da minori (la cui presenza assegna un punteggio più basso rispetto alla presenza di adulti), che sono mediamente più bisognose. Ai limiti che derivano dall’impostazione della disciplina normativa di questo importante istituto, che dovrebbe rappresentare un sostegno nei confronti prima di tutto dei più vulnerabili, si affiancano le difficoltà che riguardano il procedimento di richiesta della misura. Anche questa volta i dati mostrano che, rispetto a quanto si ricava dalle stime sulla povertà in Italia, mancano all’appello i più poveri fra i poveri, quelli che, secondo la legge, avrebbero, cioè, diritto agli importi più elevati. La parte maggiore dei beneficiari effettivi, infatti, riceve un reddito medio appena al di sotto di quello massimo erogabile, a conferma che ci sono famiglie, le più disagiate, che non accedono a questa provvidenza economica. Le ragioni, di nuovo, sono quelle sopra richiamate e confermano i limiti nella progettazione, ma anche e soprattutto nella concreta erogazione della prestazione, chiamando in causa l’amministrazione.

Anche i dati sull’accesso ad un’altra importante misura economica, l’assegno di accompagnamento, a cui hanno diritto tutte le persone disabili, confermano che molti di coloro che avrebbero titolo a riceverlo non accedono a questa prestazione. Secondo i dati Istat del 2020, infatti, sono 3,1 milioni le persone con gravi disabilità3, mentre dai dati INPS4 dello stesso anno risulta che la provvidenza economica è goduta unicamente da 2 milioni di persone. Nell’oltre un milione di individui che non usufruisce di alcun sostegno, ci sono coloro che non hanno ottenuto il sussidio perché valutati come non idonei, ma anche coloro che non lo hanno richiesto, spesso perché non sono a conoscenza di questa possibilità o non sono in grado di fare domanda.

A conferma di quanto considerato, l’Istat5 ha rilevato come, nel corso del 2021, l’11% delle persone abbia rinunciato a visite ed esami medici, non solo per problemi economici, ma pure per le difficoltà di accesso al servizio. Anche l’associazione Cittadinanzattiva da tempo segnala come molti anziani e anziane rinuncino ad alcuni servizi a cui avrebbero diritto per le difficoltà di interazione con una amministrazione troppo complicata, che scoraggia la richiesta di prestazioni.

Sono naturalmente i più vulnerabili a non sapere come muoversi o a rinunciare di fronte alle difficoltà. Si tratta di persone spesso prive di una rete familiare o sociale di sostegno, che vivono in condizioni di marginalità estrema e deprivazione economica e culturale, e che, quindi, necessiterebbero di un ausilio più degli altri. Per non parlare dei casi in cui la fragilità è proprio la ragione che esclude le persone dai benefici che dovrebbero sollevarle dalla situazione di difficoltà: si pensi a chi è irregolarmente presente sul territorio nazionale, che, proprio per questa condizione, non entra nel campo visivo dell’amministrazione, a meno di trovarsi in una situazione estrema, come un incidente, una grave malattia, un reato della povertà.

Ma anche fra chi ha avuto accesso ad un servizio non mancano differenze. Spesso sono le modalità di organizzazione dell’erogazione delle prestazioni a determinarle. La mancata previsione di una assistenza fisioterapica a domicilio per chi gode di assistenza sociosanitaria domiciliare, ad esempio, rende molto differente la situazione di chi è ancora in grado di muoversi, per potersi recare nella struttura ove si eroga la prestazione, da quella di chi, più grave e bisognoso, non può neanche essere trasportato fuori dalla propria abitazione e deve quindi rinunciare a ciò a cui avrebbe diritto. O ancora, poter usufruire di un servizio scolastico, ma soltanto a molta distanza dalla propria abitazione, senza adeguati trasporti, fa la differenza, o meglio la diseguaglianza rispetto a coloro che vivono in zone meglio servite. Lo stesso vale per le modalità dell’erogazione di certi servizi. Di recente è stato previsto un contributo per il pagamento della bolletta dell’energia elettrica per coloro che hanno un reddito al di sotto di una certa soglia. Per poterlo ottenere occorre tuttavia svolgere il procedimento di richiesta online e, quindi, avere a disposizione o essere comunque in grado di utilizzare un computer e uno scanner. Non sempre questo è possibile per tutti, e lo è ancora meno per chi ha un reddito basso, un’età elevata, vive in zone poco servite, manca di competenze o di una rete sociale che lo supporti, e così via.

Con la pandemia da Covid-19 questi limiti si sono enormemente amplificati, non solo nella sanità, che ancora oggi presenta liste di attesa interminabili e tempi per erogare prestazioni sempre più lunghi, per cui spesso riesce a curarsi solo chi può ricorrere al privato, ma anche in altri ambiti. Basti pensare alle misure economiche apprestate per sostenere chi non poteva lavorare a causa delle chiusure disposte per rallentare i contagi: intere categorie di lavoratori non hanno potuto richiedere alcun sostegno, come molti lavoratori e lavoratrici domestiche, perché spesso privi di regolare contratto e costretti ad accettare condizioni lavorative senza garanzia, proprio per la loro debolezza contrattuale.

Non c’è dubbio che un altro fattore che contribuisce ad amplificare la diseguaglianza, anche nel godimento di eguali diritti rispetto ai cittadini politici, sia il diverso status di cittadini e cittadine stranieri, soprattutto quando extra europei. Un dato significativo in questo senso è quello messo in evidenza dal nostro Istituto Superiore di Sanità6, che segnala come al loro arrivo nel territorio nazionale le persone migranti siano mediamente più in salute dei cittadini e cittadine italiani, anche perché coloro che scelgono di allontanarsi dal proprio Paese spesso sono i più giovani e sani. Ma dopo poco tempo questo vantaggio di salute si annulla per le peggiori condizioni di vita e lavoro alle quali le persone migranti sono costrette. A questo più elevato bisogno di salute, esattamente come metteva in evidenza Julian Tudor Hart oltre cinquanta anni fa, corrisponde, però, una minore disponibilità di servizi sanitari, incapaci di intercettare, accogliere, sostenere chi di essi ha più necessità.

Gli esempi potrebbero continuare, ma già quanto considerato è sufficiente per fotografare il parziale fallimento dell’amministrazione nell’adempiere al compito che la nostra Costituzione, all’articolo 3, secondo comma, le affida. In questa fondamentale previsione, infatti, la Repubblica con i suoi apparati è chiamata dalla carta fondamentale a rimuovere gli ostacoli di carattere economico e sociale che ostacolano «di fatto» la libertà e l’eguaglianza delle persone. La scelta dei costituenti di impiegare l’espressione appena richiamata segnala la volontà di affiancare al divieto di discriminazione da parte della legge e delle scelte che ad essa danno attuazione, un preciso impegno, quello relativo alla predisposizione di servizi e di prestazioni capaci di incidere in concreto su quei fattori che materialmente, cioè, «di fatto» impediscono di godere in modo pieno dei fondamentali diritti di libertà ed uguaglianza.

In questa piccola formula (di fatto) risiede un approccio radicalmente innovativo rispetto al modo in cui si era garantita l’uguaglianza degli individui. Se, infatti, a lungo si era ritenuto sufficiente operare attraverso la legge, definendo diritti eguali e proibendo discriminazioni, con la Costituzione del 1948 si prende atto della circostanza per cui diritti eguali non sempre sono egualmente goduti da persone diverse. Di qui l’impegno ad intervenire attivamente, attraverso il riconoscimento a tutte e a tutti dei diritti sociali (salute, istruzione, assistenza) e l’organizzazione dei servizi necessari ad assicurarli a ciascuno, affinché gli ostacoli che impediscono un pieno sviluppo della persona siano rimossi dalle istituzioni pubbliche [Rescigno, 2008]. In questo progetto l’amministrazione è protagonista e muta la sua profonda ragion d’essere: non più solo strumento di esecuzione puntuale del comando normativo e di esercizio del potere che da esso deriva, ma attrice di una trasformazione della realtà, in cui le condizioni sociali, economiche, fisiche, relative alle proprie capacità non sono più un impedimento insormontabile verso la piena realizzazione di sé.

Alla luce di quanto appena considerato, il fatto che la legge dell’assistenza inversa sia ancora confermata da quanto accade nel rapporto con l’amministrazione pubblica appare particolarmente grave e stimola ad indagare le ragioni profonde che la rendono ancora oggi così attuale.

L’amministrazione e la giustizia

Se ci soffermiamo ad indagare sulle ragioni profonde della dinamica di amplificazione delle diseguaglianze fotografata dalla legge dell’assistenza inversa, non possiamo non partire dall’idea di giustizia alla luce dalla quale l’amministrazione interpreta il suo ruolo nelle società contemporanee. Non ci interessa qui discutere tanto delle teorie della giustizia, quanto registrare quale sia l’impostazione dominante, al fine di provare ad interpretare, attraverso di essa, alcune dinamiche profonde che caratterizzano la pubblica amministrazione. Nell’idea di giustizia risiede, infatti, non solo il senso del rapporto fra l’amministrazione e il comando normativo che ne definisce funzione e poteri, ma anche il modo in cui l’amministrazione concepisce la sua relazione con le persone e con la società tutta.

Entrambi gli aspetti sono oggi illuminati dalla concezione della giustizia che prevale nella modernità occidentale, quella di stampo liberale neocontrattualista. Negli ultimi decenni, infatti, per quanto non si dia un modo di concepire la giustizia del tutto incontroverso, non c’è dubbio che sia egemonico il paradigma neocontrattualistico, nell’ambito del quale la posizione che ha avuto maggiore fortuna è quella elaborata da John Rawls [Rawls 1971].

Rawls coagula nella sua rilettura della giustizia le istanze prevalenti della contemporaneità, collocandosi a metà strada fra egualitarismo e utilitarismo e unendo la parte migliore della tradizione contrattualista con l’approccio deontologico kantiano, che pone la giustizia al di sopra del bene. Uno dei principali contributi innovativi di Rawls riguarda la neutralizzazione dei fattori che potrebbero rendere ingiusto un accordo, attraverso l’artificio del «velo di ignoranza». Come è noto, la strategia è quella di immaginare la formazione delle regole che sostengono il patto sociale in una situazione «originaria», in cui coloro che scelgono i criteri e gli equilibri delle relazioni intersoggettive e i caratteri del potere non conoscono ancora quale sarà il loro posto nella società, la loro posizione di classe o la condizione sociale, le loro doti e capacità naturali, i particolari del loro piano razionale di vita, e nemmeno i caratteri peculiari della loro psicologia. I contraenti ignorano, quindi, i propri interessi, ma non escludono perciò stesso gli interessi dalla giustizia. Piuttosto sono inevitabilmente portati a cercare di stabilire regole eque e in grado di proteggere anche le condizioni di coloro che apparterranno alla classe più svantaggiata, così da proteggere anche se stessi se dovessero trovarsi ad occupare quella posizione. In questo modo i consociati sono indotti ad accettare sia il principio di eguale libertà, che garantisce a tutti il pieno riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali, sia quello di differenza, che consente di distribuire in modo differenziato le risorse per sostenere chi è più vulnerabile.

La teoria di Rawls, più e meglio di altre concezioni liberali della giustizia, include nel panorama della società giusta i diritti sociali, quelli cioè che impegnano direttamente l’amministrazione a realizzare le condizioni di sviluppo delle persone. Nel pensiero di Rawls è essenzialmente allo Stato che si chiede di dare una risposta istituzionale all’insicurezza derivante dal libero gioco delle forze sociali e dei meccanismi di mercato, attraverso l’impiego di strumenti redistributivi in favore del più svantaggiato fra i cittadini e quindi, anche attraverso i servizi erogati dalla pubblica amministrazione.

Se questo è il ruolo dell’amministrazione così come immaginato proprio nell’ambito della teoria della giustizia, resta da capire come mai nell’esercitare questa fondamentale funzione questa fallisca proprio laddove di essa c’è maggiore necessità, non riuscendo a risollevare dalla propria condizione di vulnerabilità chi maggiormente sperimenta nel proprio percorso biografico le difficoltà che derivano dal collocarsi fra gli ultimi.

Per provare a fornire una risposta a tale questione possiamo attingere ad alcuni argomenti della critica femminista alla teoria di Rawls [Casadei 2015], utili ad evidenziarne alcuni limiti strutturali, riferiti proprio all’idea di persona [M. Nussbaum 2003]. L’ipotesi che si intende formulare, infatti, è che l’amministrazione si rapporti con i suoi interlocutori avendo di essi una immagine ideale che risente della concezione della giustizia nella quale essa è immersa, o, meglio ancora, della quale essa è strumento.

Il più importante argomento critico del pensiero femminista all’impostazione della teoria della giustizia rawlsiana riguarda l’aver immaginato gli individui che decidono dalla «posizione originale», precedente, cioè, l’effettiva costituzione dei rapporti sociali, essenzialmente come maschi, adulti, liberi e indipendenti. Si tratterebbe, quindi, di un artificio falsamente neutrale [Giolo 2015], che, pur con un approccio egualitario e nonostante un linguaggio neutro e politicamente corretto, ignora la soggettività femminile nell’individuazione dei criteri di giustizia e produce un paradigma che avvantaggia strutturalmente gli uomini, a scapito delle donne.

Questo rilievo, inizialmente diretto a segnalare una estromissione di genere [Pateman 1988], ha consentito di mettere in evidenza un effetto escludente molto più articolato. L’autonomia e l’indipendenza, che caratterizzano coloro che sono chiamati a formare e accettare le regole di convivenza sociale, sono condizioni in cui spesso non si trovano le donne, ma neanche altri [Wolgast 1991], come i bambini, le persone con disabilità o gli anziani che hanno perduto la loro autosufficienza. Autonomia e indipendenza non appartengono nemmeno a tutte e tutti coloro che non possono “permettersi” decisioni guidate da una razionalità utilitaristica autoriferita, dal momento che sono inseriti strutturalmente in un sistema di relazioni in cui qualsiasi scelta incide anche sul bene di altri [Held 1987]. Applicare a queste situazioni la grammatica dei diritti individuali di matrice utilitaristica produce allora «diritti sbagliati» [Wolgast 1991], che non realizzano il bene degli individui coinvolti.

Una amministrazione, il cui approccio di servizio sia debitore di tale impostazione, è allora una amministrazione che rischia di perdere di vista proprio coloro che sono più lontani dal modello di persona immaginato in questa ricostruzione della società. Naturalmente la questione non riguarda il negare o il non considerare l’esistenza di individui dipendenti da altri, perché bambini, perché in condizioni di disabilità, di completa non autosufficienza, perché migranti irregolari estromessi da reti di relazioni legali, perché culturalmente soggetti a regole diverse, e così via. L’effetto è indiretto e, per così dire, più sottile e concerne il design dei diritti [Carloni 2020] e la costruzione delle prestazioni che li soddisfano.

Possiamo ora tornare con la mente agli esempi di assistenza inversa, in cui misure pensate per rispondere a bisogni fondamentali non riescono a raggiungere coloro che esprimono massimamente questi stessi bisogni o lasciano sistematicamente fuori dal campo di azione categorie di persone particolarmente vulnerabili. Spesso, la ragione risiede nel modo in cui è stato disegnato il diritto: l’importo del reddito di cittadinanza che svantaggia strutturalmente le famiglie con minori; ma più di frequente è il percorso che la persona deve compiere nella relazione con l’amministrazione che diventa escludente. Si può richiamare a questo proposito la necessità di possedere una identità digitale e avere accesso ad un computer e ad uno scanner, come condizioni senza le quali ottenere il sostegno per il pagamento della bolletta elettrica diventa quasi impossibile. O ancora al modo in cui i servizi di assistenza domiciliare per le persone non autosufficienti presuppongono strutturalmente la presenza di un caregiver in grado di intrattenere rapporti con l’amministrazione, di spostarsi con un mezzo proprio e, a volte, in grado di portare la persona accudita presso i locali dell’amministrazione, dove dovrebbe poter usufruire di certe prestazioni che rientrano nell’assistenza domiciliare, ma non sono erogate a domicilio.

Anche nei servizi pensati per sostenere chi è particolarmente vulnerabile si intravede quasi sempre il fantasma della persona adulta, abile, indipendente, senza l’intermediazione della quale la relazione fra chi ha bisogno e il servizio fallisce tragicamente. Spesso è proprio l’assenza di questo intermediatore capace e attrezzato che determina l’esclusione. E non c’è dubbio che sia una esclusione, una diseguaglianza, particolarmente odiosa proprio perché taglia fuori chi incontra ostacoli «di fatto» più grandi e difficili, la battaglia contro i quali è più complicata da vincere con le proprie forze. E nel sopravvivere e consolidarsi di diseguaglianze come queste si legge il fallimento dell’amministrazione.

L’amministrazione della “cura” per contrastare la legge dell’assistenza inversa

In questi ultimi decenni le file degli esclusi si sono andate ulteriormente gonfiando. I fattori che amplificano il problema sono diversi. Ne richiamo qui solo cinque. L’aumento dell’aspettativa di vita e la crescita della frazione di popolazione anziana nel nostro Paese: nel 2050, la percentuale di persone con più di 65 anni salirà di oltre dieci punti, arrivando secondo l’Istat al 34,9%7. L’aumento delle migrazioni verso l’Europa: in soli due anni sono quintuplicati gli arrivi di persone che fuggono dalla guerra e dalla povertà estrema8. La crisi economica: i dati Istat sulla povertà in Italia confermano che il nostro Paese nel 2020 ha toccato il massimo storico in termini di famiglie a rischio di povertà assoluta9. I vincoli finanziari alla spesa pubblica imposti in ottica di sostenibilità del debito: molti servizi hanno radicalmente ridotto la capacità di intervento, basta pensare alla situazione in cui il nostro servizio sanitario ha affrontato la pandemia e alla carenza di personale e posti letto che hanno reso difficile una risposta alle aumentate esigenze di salute [Pioggia, 2020]. Infine, le privatizzazioni, che hanno portato all’interno dei servizi logiche strettamente economico produttive, meno attente ai bisogni marginali e alle esigenze specifiche di una minoranza di utenti, spesso proprio i più fragili.

Pochi ma significativi dati che confermano come non contrastare efficacemente la legge dell’assistenza inversa aumenterà nei prossimi anni il numero di persone confinate in un limbo invisibile all’amministrazione, amplificando diseguaglianze e ingiustizie.

Occorre allora avviare all’interno delle nostre istituzioni di servizio un processo culturale che spezzi la legge con la quale più di cinquant’anni orsono Julian Tudor Hart descriveva i limiti della sanità britannica, per intercettare, innanzi tutto, i bisogni più consistenti, a costo, altrimenti, di tradire il progetto costituzionale di cui l’amministrazione è strumento. Per questo è importante che studiosi e studiose di diritto e organizzazione amministrativa dialoghino con studiosi e studiose di scienze antropologiche, psicologi e psicologhe sociali, sociologi e sociologhe, studiosi e studiose di scienze quantitave, ecc…, mettendo in moto un processo di riconoscimento dei bisogni dei più bisognosi e fornendo all’amministrazione strumenti anche culturali per ridefinire le modalità di rapporto con individui e collettività.

In quest’ottica, una prospettiva interessante può arrivare ancora una volta dal pensiero femminista e riguarda l’approccio qualificato come «etica della cura» [Gilligan 1983].

Vale la pena di accennarvi molto brevemente con alcune considerazioni conclusive.

La prospettiva della cura rappresenta un modo di guardare alla giustizia immaginato come alternativo a quello rawlsiano e basato sul presupposto della comune interdipendenza che caratterizza la biografia di chiunque, perlomeno nella prima infanzia e nella tarda senescenza, nel rapporto con gli altri, ma anche con l’ambiente [Tronto 2020]. L’etica della cura mette l’accento sulla specificità dell’esperienza di ciascuno e ciascuna e denuncia la parzialità di una giustizia costruita in base a criteri e modelli astratti, proprio per la sua incapacità di sostenere i bisogni che non rientrano nello schema predeterminato. Una particolare enfasi è posta sulla relazione e sul modo in cui, solo attraverso un concreto rapporto con la persona e la comprensione dello specifico contesto in cui si ambientano le sue esigenze, è possibile identificarne i bisogni e soddisfarli [Giacalone 2021].

Inizialmente proposta come paradigma etico alternativo a quello della giustizia, l’etica della cura è stata poi ricostruita come capace di integrarlo e renderlo maggiormente responsivo ai bisogni di una società fatta di individui interdipendenti [Botti 2018]. In questa prospettiva l’approccio della cura appare particolarmente fruttuoso, dal momento che aggiungerebbe all’atteggiamento adempitivo del comando normativo generale ed astratto, che le nostre amministrazioni sono comunque doverosamente tenute a seguire, una specifica attenzione al modo concreto in cui si fa eguaglianza nella realtà. Questo rimetterebbe al centro gli ostacoli di fatto che determinano le singole ingiustizie, rivitalizzando il ruolo dell’amministrazione come strumento per contrastarli e per sostenere ciascuna e ciascuno nel pieno sviluppo di sé.

Ripartire da questo potrebbe riqualificare l’orizzonte della doverosità dell’amministrazione [Pioggia 2022], stimolando un ripensamento complessivo delle sue modalità di azione, anche oltre quanto specificamente previsto dalla legge, per poter incidere effettivamente sulle condizioni di bisogno più complesse e per intercettare quelle fragilità che oggi restano fuori dal raggio di azione dell’amministrazione perché difficili da inquadrare nello schema operativo prefigurato dalle norme.

Si tratta di un percorso impegnativo per le nostre amministrazioni e che richiede una trasformazione, anche culturale, importante. Qualche segnale si è intravisto durante la pandemia, nell’impegno a soddisfare bisogni nuovi ed urgenti, non adeguatamente contemplati dalla regolazione, ma percepiti come importanti. In alcuni casi le amministrazioni si sono attivate in modi inconsueti, privilegiando il risultato e cercando di rispondere alle esigenze anche degli utenti più fragili10.

Un caso interessante è quello preso in considerazione da una pronuncia della sezione ligure della Corte dei conti a gennaio di quest’anno11. I giudici hanno rigettato l’azione erariale volta a far valere la responsabilità del funzionario a capo dell’ufficio servizi sociali di un piccolo comune per aver erogato buoni spesa anche a coloro che non avevano puntualmente indicato nell’istanza i requisiti richiesti e, in alcuni casi, addirittura si erano limitati a firmare la richiesta, lasciandola per il resto in bianco. In tutti questi casi, il funzionario si era preoccupato di verificare le condizioni dei richiedenti con altri mezzi: le banche dati del Comune, le relazioni dei servizi sociali, la varia documentazione in possesso degli uffici e persino la conoscenza diretta degli operatori comunali. La Corte non solo non procede nei confronti del funzionario, ma riconosce il valore di un comportamento che, rispettando le norme, ha consentito di sostenere le famiglie bisognose tempestivamente (ci troviamo nella prima fase delle chiusure a causa del Covid), anche quelle che non avevano modo o capacità dimostrare il possesso dei requisiti o che, composte da cittadini stranieri, non erano in grado di compilare le domande correttamente.

Forse non si tratta di un segnale di trasformazione, ma certamente è uno spiraglio che ci consente di intravedere un modo diverso di fare amministrazione. Una prospettiva ancora da indagare, ma che certamente si muove nell’ottica di una amministrazione ispirata ad un’etica civile di servizio alle persone e alla collettività [Merloni, Pirni 2021], orientata all’intervento, piuttosto che all’attesa, capace di superare le rigidità organizzative nella direzione di una reale e profonda integrazione fra settori [Bombardelli 2022] e capace di attivare le risorse della società [Arena 2006] nella direzione di una vera eguaglianza.

Bibliografia

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1https://www.corteconti.it/Home/Organizzazione/UfficiCentraliRegionali/UffSezRiuniteSedeControllo/RappCoord/RappCoord2019

2 https://www.corteconti.it/Home/Organizzazione/UfficiCentraliRegionali/UffSezRiuniteSedeControllo/RappCoord/RappCoord2020

3 Istat, Disabilità in cifre, 2020, https://disabilitaincifre.istat.it

4 https://www.inps.it/osservatoristatistici

5 Istat, Rapporto BES, 2021: Il benessere equo e sostenibile in Italia, https://www.istat.it/it/files//2022/04/BES_2021.pdf

6 https://www.epicentro.iss.it/migranti/InfettiveIntro

7 Istat, Report previsioni demografiche, 2021, https://www.istat.it/it/files/2021/11/REPORT-PREVISIONI-DEMOGRAFICHE.pdf

8 Ispi, Istituto di Studi di Politica Internazionale, Fact-checking immigrazione, 2021, https://www.ispionline.it/it/pub-blicazione/ispitel-fact-checking-migrazioni-2021

9 Istat, Povertà in Italia, 2021, https://www.istat.it › Report_Povertà_2021_14-06

10 Si veda, ad esempio, la ricerca svolta dalla Direzione Generale per la Lotta alla povertà e per la programmazione sociale del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, I servizi sociali al tempo del Coronavirus, disponibile qui: https://www.lavoro.gov.it/redditodicittadinanza/Rafforzamento-servizi/Documents/I-Servizi-Sociali-al-tempo-del-Coronavirus.pdf

11 Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Liguria, n. 20 del 2023.