Aprire strade

Alberto Baldi

Dipartimento di Scienze Sociali, Università degli Studi di Napoli Federico II

Evocare il ricordo è procedura che pone in relazione gli attori della rimembranza, necessariamente implicando colui che rammenta e chi è rammentato. Richiamare alla memoria in questa sede Lombardi Satriani mi obbliga a una rimemorazione che non può prescindere da epoche e consessi da cui tali reminiscenze promanano, da episodi nei quali per dire di Luigi debbo dire anche di me. La cosa mi imbarazza ma altre vie non intravedo per costituire quel pannicolo su cui distendere in modo, auspico, comprensibile, dei pur assai circoscritti flashback di un rapporto, eminentemente tra docente e discente, in un arco temporale collocabile all’incirca tra metà degli anni Settanta e fine degli Ottanta del secolo scorso[1].

Dopo tormentata scelta, se darmi alle scienze della natura o a quelle dell’uomo, avendo alfine optato per queste ultime, pur con perduranti dubbi sulla loro essenza, sulle loro funzioni applicative quale forma di restituzione, quale ritorno operativo ai consessi sociali esaminati, funzioni per mia indole indispensabili, varcai alfine la soglia dell’università, la Federico II di Napoli, iscritto al corso di laurea in Sociologia: era il 1973. Dovetti constatare quanto le mie perplessità fossero in diversi casi destinate a perdurare. Delle sociologie non mi scaldava l’orizzonte teorico e politico che le indirizzava, orizzonte talora teleologico e assiomatico, anche apodittico, ove il dato sociale rischiava di annegare, pesantemente incurvato e riconfigurato da assunti dottrinali in seno ai quali l’esperienza di terreno anziché momento centrale delle procedure euristiche e analitiche si sostanziava in un prelievo forzoso e pilotato di informazioni congruenti a una vulgata del marxismo sentito dire più che letto e studiato[2]. Il pericolo era quello di un’etnografia che rischiava di farsi sorda e cieca rispetto ai dati che raccoglieva contraddicendo sé medesima.

Si materializzarono però tra primo e secondo anno alcune felici eccezioni che rintuzzarono il mio disamore mutandolo poco alla volta in desiderio di proseguire, soprattutto di sperimentare. Queste eccezioni avevano un nome: erano i corsi di Metodi e tecniche della ricerca sociale e di Antropologia culturale. La didattica di chi li teneva era esplicito riverbero di esperienze di ricerca dai gangli ben radicati nella complessa realtà dell’epoca, ricerche nelle quali il prelievo delle fonti e dei dati non prescindeva dalla centralità della pratica di terreno, dalle ipotesi definite in relazione all’oggetto di indagine.

Mimmo De Masi, sociologo dell’industria e metodologo, non ci mise molto a mettere al centro delle sue lezioni l’importanza e la delicatezza della fase di campo e dei metodi da ideare e calibrare in relazione a tema e ipotesi prescelte. Non ci mise neppure molto a dividerci in molteplici gruppi, a darci la responsabilità di un preciso ambito esplorativo, obbligandoci a sperimentare sulla pelle le difficoltà della ricerca resa viepiù impervia dagli ostici temi prescelti[3]. Noi studenti vivemmo comunque codesta esperienza con entusiasmo giovanile, felici di sporcarci le mani, elettrizzati dalla possibilità di cimentarci come ricercatori sociali in pectore.

Di tutt’altro tono la didattica di Luigi Maria Lombardi Satriani. Il clima innanzitutto che non esiterei a definire pacato e disteso, inclusivo, anche accogliente, soprattutto riflessivo e critico. Su codesto sostrato l’evidente caratura scientifica del docente distillava conoscenze mediante un linguaggio elegante da rendere però sempre comprensibile all’aula. Mi ricordo di quella volta in cui, parlando con Luigi al termine di una lezione, utilizzai il termine “approccio”, ancora oggi duro a morire. Mi invitò a non impiegarlo in quanto calco dall’inglese e poi dal francese, in qualche modo onomatopeicamente sgradevole, usato peraltro per un suo presunto, forbito esotismo, ma soprattutto inutile avendo in italiano molteplici e felici sinonimi. Non mi pare propriamente un caso che ancora oggi mi ricordi di questo piccolo episodio perché mi si invitava a un uso della lingua ragionato, ovvero, guidato sorretto e corroborato da presupposti filologici ed etimologici[4] ove ogni parola si faceva scrigno di significati e veicolo di memoria.

I ricordi che ognuno di noi conserva rappresentano grumi di vita solidificati nel tempo, sottratti all’erosione dell’implacabile fluire dei giorni. Che tali grumi si sciolgano in parole ritrovate può costituire un legame, se non altro di conoscenza, tra le generazioni, nella cui esistenza concreta passato e presente coesistono, armoniosamente, conflittualmente o separatamente [Lombardi Satriani L.M. 1991, 14].

A più ampie latitudini quel suggerimento, quell’invito, peraltro propostomi in modo dialogante, mai ex catedra, sostenuto da adeguate motivazioni, disvelava un invito a praticare i campi dell’antropologia con precipua attenzione alle significazioni polisemiche, simboliche, sottese e sotterranee dei comportamenti e della comunicazione umana in un’ottica al tempo medesimo sincronica e diacronica.

L’invito, a scala ancora maggiore, era a una riflessività frutto di una ponderatezza e al contempo di un sostrato conoscitivo approfondito sia sul piano della letteratura antropologica sia su quello della pratica etnografica. Le lezioni di Luigi intersecavano continuamente questi livelli, rese fascinanti dai riferimenti alle ricerche di campo in cui il docente si era cimentato e si stava impegnando. Non si trattava di monologhi ma di ragionate esposizioni che contemplavano l’attitudine all’ascolto, all’interlocuzione dialogante con noi discenti. Luigi non mancava di rispondere alle nostre domande incline a fornire argomentazioni corroborate da spiegazioni tutt’altro che univoche.

Con ciò ci introduceva alla complessità culturale.

In questi giorni, in cui assieme ad alcuni colleghi di area campana ma non solo, abbiamo lavorato all’evocazione di un ricordo di Luigi i cui esiti qui compaiono, ci siamo trovati d’accordo sul fatto che, come sottolineato nello specifico da Gianfranca Ranisio, egli amasse “aprire porte”, tutt’altro che fermo su posizioni e contesti definiti benché debitamente approfonditi. Ciò non significa, ovviamente, che come ogni studioso Luigi non mostrasse una predilezione per certuni ambiti di indagine. Mi sembra però che al contempo, se pur non sempre avvezzo, per sua formazione, a frequentare settori, da lui dunque poco o relativamente conosciuti, non per questo non ne valutasse la possibile pregnanza antropologica incoraggiando chi tali consessi analizzava ad approfondimenti che meglio ne esaltassero le proficue desinenze culturali. Era uomo indubbiamente curioso, quindi incline a intercettare nuovi fronti, a ritornare su antiche prospettive da risignificare, a riprendere in mano consolidate tematiche da rivoltare, ripensare e ridefinire alla luce di inediti tagli interpretativi. Trovai, ad esempio, intrigante la sua rilettura del folklore, soprattutto di novelle e fiabe sussunte in chiave consumistica che ora surrettiziamente, ora esplicitamente e smaccatamente, venivano stravolte specialmente nelle loro glosse finali su cui confluiva e si articolava il senso ultimo, la morale, l’insegnamento del testo, da una chiosa “mercantile”. Luigi puntava il dito soprattutto sull’industria alimentare che suggeva dalla tradizione quanto poteva servire a essa per sottolineare un presunto legame tra un articolo di fabbrica e una sua pretestuosa parentela con i modi produttivi “genuini” e artigianali di un universo tradizionale e “saggiamente” contadino. Nel suo Folklore e profitto edito da Guaraldi nel 1976 Luigi proponeva un articolato studio di casi che metteva in luce un paradosso insito in un sistema produttivo industriale e nei modelli che da esso discendevano e ancora discendono nell’orientare e incoraggiare un consumismo sempre più interstiziale e reiterato. Per un verso tale ”istigazione” era impostata sulla necessità di svilire l’arretratezza di un mondo contadino polveroso e arcaico a esso contrapponendo stili di vita e conseguenti prodotti urbani moderni e vincenti; per l’altro, in un secondo momento, tale istigazione recuperava invece artatamente quel medesimo universo rurale, inizialmente deriso e annichilito, per farne fonte di una “genuinità” da trasferire anche a merendine, pani e paste uscite da una produzione inesorabilmente industriale e seriale. In ciò Luigi individuava sul nascere una tendenza di industria, turismo e pubblicità a stabilire pretestuosi e improvvidi ma economicamente fruttuosi rapporti con una sedicente “tradizione” quale strumento principe per nobilitare un’offerta agro-alimentare, alberghiera e residenziale dal sapore “antico”, “salutare” e “autentico”.

Cercando di attualizzare la riflessione su Folklore e profitto è probabilmente proprio l’idea dei “divoratori di folklore” che oggi ci risulta più utile e opportuna. Essa, infatti, anticipava la stagione di esaltazione sistematica dei patrimoni enogastronomici italiani e più generalmente europei. (…) Non solo il cibo è divenuto compiutamente un patrimonio, ma la metafora stessa del bene culturale come cibo, della cultura “buona da mangiare” (…) pare oggi di straordinaria presa ed efficacia: il cibo, come i patrimoni culturali sono pensati come commodities, come prodotti da consumare e fare propri, inglobare e al tempo stesso proprietà delle collettività, coltivati, lavorati, plasmati dalle comunità e quindi, per l’appunto, divorati [Bindi L. in Ricci A. (ed.) 2019, 316-18].

Luigi tra i numerosi casi presi in considerazione, si soffermò dettagliatamente su quello della Barilla che sulle sue confezioni alimentari recava la trasposizione di novelle popolari[5] il cui finale veniva mutato o comunque si prestava a valorizzare sempre e comunque bontà e naturalezza di quanto usciva dalle sue fabbriche, fabbriche, va detto, in seguito affiancate nelle campagne pubblicitarie di questa azienda dal famoso marchio del Mulino Bianco che avrebbe inaugurato una nuova linea di prodotti sempre e comunque appaesati e proposti in una cornice pertinacemente agreste .

I sondaggi promossi da Luigi sui modi mediante i quali molte aziende italiane si rifacevano una verginità pescando in un sedicente e bucolico passato tradizionale, sondaggi che videro il coinvolgimento di altri studiosi tra cui Annabella Rossi e Mariano Meligrana, erano patente dimostrazione di una plasticità e di una capacità di rileggere e mutare gli assunti di una demologia che nel perdurante riferimento a un’analisi storico-filologica, pur dignitosa e utile[6], aveva rinunciato a una rilettura della materia folklorica che lo studioso riconduceva viceversa all’attualità per rileggere in una prospettiva disciplinare analitica e critica un sistema capitalistico e consumistico che non si faceva scrupolo di spegnere e riaccendere, secondo le esigenze delle proprie messe in scena pubblicitarie, una “tradizione” ora brutta, sporca e cattiva[7], ora surrettiziamente autentica e non sofisticata, sempre comunque reinventandola in stretta correlazione con i propri obiettivi commerciali.

Mi sembra questo un buon esempio di quella attitudine dell’antropologo calabrese a inaugurare e promuovere nuovi percorsi di cui, nel mio piccolo, beneficiai pure io. Ricordo distintamente quando, laureatomi da qualche anno, ricondussi Luigi (sic!) alla Barilla a seguito di una mia inaspettata esperienza nel senese ove, nel comune di Chiusdino, scoprii la presenza, a pochi chilometri dall’abbazia cistercense di San Galgano, e dunque in consessi mistici, eremitici e panici, del Mulino delle Pive presso il quale venivano invece ambientati e girati i ben più prosaici spot del mulino reinventato dalla Barilla. Si trattava di una struttura che nelle intenzioni del pastificio doveva essere sempre e soltanto a disposizione della troupe che periodicamente colà filmava le amene storielle di una sunshine family intenta a godersi un’idilliaca campagna in cui si rifugiava nei fine settimana lasciandosi alle spalle la caotica città. Ebbi casualmente modo di constatare come sull’onda di cotali spot una imprevista fiumana di gente raggiungeva anch’essa il mulino grazie a un tam tam, a una comunicazione spontanea, porta a porta. Giunti nei pressi della costruzione tutti si industriavano con macchine fotografiche e cineprese amatoriali a rimettere in scena atmosfere e a mimare azioni introiettate dalla reiterata visione della pubblicità televisiva.

Ho dinnanzi a me lo sguardo illuminato, fortemente incuriosito e pure stupito di Luigi, che mi chiedeva delucidazioni etnografiche e mi dava suggerimenti sul modo in cui imbastire una piccola ricerca su questo evento di duplice e incrociato plagio dove la Barilla inventava una tradizione che, sfuggitale di mano, era nuovamente duplicata ma parimenti ulteriormente reinventata dai consumatori fattisi autori e soi-disant attori. Nel tempo non mancai di aggiornarlo sul lavoro di campo, di ragguagliarlo su un fenomeno che molto lo intrigava e pure lo divertiva[8].

Aprire strade, dicevamo, anche se tangenziali rispetto alla sua formazione e ai suoi più specifici interessi, maieutica quindi cara a Luigi.

Se l’episodio appena ricordato è pur sempre riconducibile a una sfera di interessi propria dello studioso, si dettero altri casi in cui egli non mancò di accogliermi e sostenermi nella ricerca di un mio piccolo e più specifico percorso, nella frequentazione di certuni ambiti riferibili all’antropologia da lui forse meno praticati ma comunque “tenuti d’occhio”. Faccio riferimento a un mio chiodo fisso, quello di indagare le opportunità di impiego, tecniche ma pure analitiche, della fotografia nella ricerca. Siffatta mia vocazione alla visualità, nata probabilmente nella camera oscura di mio padre, recai con me all’università. Dopo aver cercato una interlocuzione in merito con Alberto Abruzzese, altro docente di grande disponibilità ma attestato su posizioni squisitamente quanto finemente teoriche, mi rivolsi a Luigi nella speranza di avere dritte per meglio soppesare e vagliare un ruolo concretamente etnografico della fotografia. Più che fornirmi suoi personali punti di vista mi invitò a tentare di individuare storia e filoni di un’immagine vocata al sociale mettendo assieme una bibliografia internazionale da cui espungere temi e tagli interpretativi da me ritenuti significativi. Fui dunque chiamato ad assumermi una responsabilità: degli esiti di queste mie prime “carotazioni” nel mondo della fotografia di impegno sociale e di quella antropologica fui invitato a rendere conto al termine dell’esame di Antropologia culturale nel frattempo da me biennalizzato. La scena fu la seguente: mi recai alla cattedra trascinandomi una pesante quarantott’ore a forma di bauletto, conferendo innanzitutto, come stabilito, sul programma ufficiale, impaziente però di passare alla seconda fase. A quel punto poggiai sulla cattedra la valigia, la aprii e sciorinai una variegata quantità di riviste fotografiche a partire da Popular Photography, di storie della fotografia possibilmente “eretiche” come quella di Gilardi sulla quale Luigi assai si soffermò, di miei brogliacci, esiti di personali investigazioni nei pozzi librari delle biblioteche nazionali di Napoli e Firenze come anche negli archivi dei musei antropologici ancora di Firenze e di Napoli ma pure del Pigorini di Roma. Sfoggiai anche qualche libro all’epoca poco conosciuto come le monografie statunitensi su Riis, Hine, Lange, Modotti. Iniziò così un secondo lunghissimo esame in cui Luigi mentre mi ascoltava compulsava con attenzione quanto avevo messo insieme. Faceva domande e si faceva pensoso, riprendeva in mano un mio foglio in cui avevo tracciato una mappa per non perdere di vista il filo conduttore delle mie affabulazioni fotografiche e lo rileggeva. Intanto quel colloquio si dilatava. Seppi poi che le ragazze e i ragazzi che attendevano di sostenere l’esame mi davano oramai per spacciato, spietatamente “spellato” dal professore.

Così fortunatamente non andò. Quando dopo un paio abbondante di ore codesto strano esame terminò, sempre con quel suo consueto garbo Luigi mi propose una tesi proprio sulla foto antropologica presentandomi a fine sessione Lello Mazzacane giovane studioso che già da tempo sperimentava gli impieghi della fotografia ma pure della cinematografia in antropologia. Mi stava affidando a chi, a sua volta, si cimentava in nuovi percorsi, nuovi linguaggi, nuove metodologie, nuove prospettive euristiche e speculative dove i registri visivi si intrecciavano alla materia antropologica, dove i saperi di Luigi si aprivano a un dialogo con quelli di Lello come accadde, ad esempio, in Perché le feste, volume firmato, appunto, da Luigi e Lello con un intervento di Goffredo Fofi, edito da Savelli nel 1974.

Pur mettendo in guardia da un possibile «grossolano empirismo» insito nell’uso degli strumenti audio visuali, dalla «mediazione estetica» ad esempio di una documentaristica e di un cinema di espressione neorealista [Lombardi Satriani L.M. 1974, 20-22], Luigi sottolinea quanto debba essere

necessario che la realtà sia documentata attraverso ricerche dirette e fissata attraverso gli innumerevoli mezzi tecnici di cui oggi possiamo disporre (dalle attrezzature fotografiche a quelle magnetofoniche, dalle macchine da presa ai videotapes, ecc). Tale espressione è certamente vera e ampiamente condividibile, sol che si pensi al peso negativo svolto dalla tradizione libresca e astratta così pesantemente presente nella storia culturale del nostro paese [Lombardi Satriani L.M. 1974, 21].

Se dunque a Luigi subentrò nella guida all’elaborazione della mia tesi Lello, se quella tesi fu solo il primo caso di una collaborazione con Mazzacane che ancora oggi felicemente perdura, altre occasioni si presentarono per tornare a fare capo allo studioso calabrese.

Debbo dire che già durante il citato lungo esame che virò di comune accordo sulle fonti visive, Luigi si dimostrò tutt’altro che alieno al mondo dell’immagine. Ricordo di certi suoi riferimenti a saggi come quello di Matteo Marangoni studioso di estetica e conosciuto divulgatore di storia dell’arte [Marangoni 1953], alle foto della menzionata Tina Modotti, ovviamente a fotografi anche italiani come Franco Pinna, ma pure Annabella Rossi.

Quando poi Luigi, a seguito della sua ricerca sulla veggente calabrese Natuzza Evolo, fu più volte invitato in alcuni talkshow televisivi non potetti non notare il rapido suo mutare da un eloquio come quello proprio della sua didattica universitaria, cadenzata, ragionata, riflessiva, a una più sincopata e rapida richiestagli e impostagli da questo o quell’anchorman. Con prontezza e vivacità espressiva ma pure con apprezzabile disinvoltura l’antropologo si mostrò capace di organare una comunicazione dai toni necessariamente divulgativi evitando peraltro di farsi trascinare in ammissioni e valutazioni della sensitiva di natura sensazionalistica e prosaicamente “magica”.

Codesta sua sensibilità per i medium televisivi e più nel dettaglio sui modi per “cavalcarli” ebbi modo di ravvisare in altri episodi in cui i nostri percorsi tornarono a intersecarsi. Al tempo in cui con Domenico Scafoglio Luigi aveva atteso all’imponente ricerca e quindi alla pubblicazione del volume dedicato a Pulcinella, lavoravo su terreni in qualche modo limitrofi, sul teatro di animazione meridionale, su pupi, marionette, burattini e bagattelle che nei loro copioni come nelle loro rappresentazioni a braccio non prescindevano dalla presenza in scena del Cetrulo. Nacque in me il desiderio di organizzare una videointervista in cui invitare Luigi a soffermarsi sulla maschera napoletana. La cosa gli piacque e la accolse favorevolmente. In occasione di una sua permanenza a Napoli si decise di registrare in un locale sito al secondo piano dell’odierno Dipartimento di Scienze Sociali, sala alle cui pareti erano presenti molte librerie con ante a vetri. Con piglio sorprendentemente professionale lo studioso prima di iniziare, osservò con attenzione il “set”, dove erano state piazzate due telecamere su cavalletto a una certa distanza l’una dall’altra. Si preoccupo’ che non si impallassero, volle sapere quale delle due era deputata alla registrazione dell’audio ma soprattutto mi chiese di controllare che la luce proveniente da una finestra non si riflettesse direttamente sulle vetrine e che queste non fungessero inavvertitamente da specchi rivelando presenza e movimenti della troupe. Che dire: rimasi stupito non tanto e non solo di questi accorgimenti che ogni operatore deve mettere in atto ma di cui l’intervistato non necessariamente è a conoscenza, quanto del fatto che codeste accortezze, sì tecniche, fanno parte al contempo o innanzitutto della padronanza di un lessico filmico, della dimestichezza con un linguaggio, quello audiovisivo che Luigi mostrava quindi di possedere.

Tutt’oggi sono assai grato a colui che tali mie aspettative non sottovalutò individuando chi mi avrebbe potuto seguire lungo questa via, accogliendo nella sua antropologia quella di coloro che la volevano anche visuale.

Aprire strade, dunque, di cui interessarsi, su cui documentarsi, a cui rapportarsi, aprire strade sulle quali avviare al contempo, con generosità e lungimiranza, coloro che in virtù di più specifiche competenze tali percorsi avrebbero potuto fare debitamente propri in un reciproco rimando di conoscenze, approfondimenti e scambi[9].

Bibliografia

Baldi A. 1992, Segna la rotta e moviti. Tradizioni e specificità culturali di un paese di pescatori, tesi per il conseguimento del Dottorato in EtnoAntropologia, IV ciclo.

Bindi L. 2019, All’incanto. “Folklore e profitto” dinanzi al contemporaneo scenario patrimoniale in Ricci Antonello (ed.) 2019, L’eredità rivisitata. Storie di un’Antropologia in stile italiano, Roma, CISU, 309-319.

Faranda L., Lombardi Satriani L. M. 1986, Lo sguardo dell’altrove, in Di Carlo A., Di Carlo S., (eds.) 1986, I luoghi dell’identità. Dinamiche culturali nell’esperienza di emigrazione, Milano, Franco Angeli,163-180.

Gilardi A. 1976, Storia sociale della fotografia, Milano, Feltrinelli.

Lombardi Satriani L. M. 1974, L’esistenza subalterna e lo sguardo egemone in Lombardi Satriani L. M., Mazzacane L. 1974, Perché le feste. Un’interpretazione culturale e politica del folklore meridionale, Roma, Savelli, 15-36.

-- 1976, Folklore e profitto. Tecniche di distruzione di una cultura, Rimini, Guaraldi, seconda edizione.

-- 1991, Il Progetto, in Lombardi Satriani L. M., Mazzacane L. 1991, I mestieri di un tempo. Una ricerca dell’Università della terza età, in «Le perle della memoria», 2/1, 50&PIU’, 11-14.

Lombardi Satriani L. M., Mazzacane L. 1974, Perché le feste. Un’interpretazione culturale e politica del folklore meridionale, Roma, Savelli.

Lombardi Satriani L. M., Mazzacane L. (eds.) 1991, I mestieri di un tempo. Una ricerca dell’Università della terza età, in Le perle della memoria, 2/1, 50&PIU’, 1991.

Lombardi Satriani L. M., Meligrana M. 1985, Precarietà esistenziale ed esorcizzazione del rischio nella cultura folklorica marinara tradizionale nel Sud Italia, in Mondardini G. (ed.) 1985, La cultura del mare. Centri costieri del Mediterraneo fra continuità e mutamento, Roma, Gangemi, 153-162.

Marangoni M. 1953, Saper vedere. Come si guarda un’opera d’arte, Milano, Garzanti.

Mondardini Gabriella (ed.) 1985, La cultura del mare. Centri costieri del Mediterraneo fra continuità e mutamento, Roma, Gangemi.

Ricci A. (ed.) 2019, L’eredità rivisitata. Storie di un’Antropologia in stile italiano, Roma, CISU.



[1] Si tratta di un periodo che, a più riprese, benché non continuativamente, comprende il mio percorso universitario, alcune successive sospensioni dovute all’espletamento del servizio militare, ad abortiti tentativi di insegnare nelle scuole superiori e infine al dottorato che mi ricondusse, come dirò più avanti, alla frequentazione di Luigi e dell’antropologia.

[2] Se non eri un compagno non potevi essere un sociologo: era questo un mantra ben presente nella popolazione studentesca, nella sua élite, nei suoi rappresentanti. I corsi erano ciclicamente sospesi ex abrupto dalle assemblee, fumosi rituali officiati dagli esponenti dei collettivi, sempre gli stessi.

[3] Si trattò di una batteria di ricerche affidate a gruppi di sei, sette studenti invitati a rotazione a coprire tutti i momenti, tutti i ruoli necessari allo svolgimento delle indagini incentrate su “proletariato e sottoproletariato marginale a Napoli”. In questa prospettiva gli aspetti da scandagliare erano tutti assai impegnativi per studenti di primo pelo, sorta di rito iniziatico in cui verificare la personale e reale predisposizione al “mestiere” di sociologo. Il contrabbando di sigarette degli scafisti, la crisi dell’Italsider e il ruolo dei sindacati, gli ospedali di recupero per bambini down, la prostituzione, i commerci alimentati dalla camorra, la crisi del comparto conserviero erano solo alcuni dei temi che non esito a definire spinosi e delicati in cui ci cimentammo. Al contempo vivemmo sulla nostra pelle le dinamiche di gruppo, il problema di leadership conclamate o sotterranee che di certo complicarono in diversi casi il lavoro originando anche scissioni ed espulsioni di membri “dissidenti”. Settimanalmente, ogni sabato, si teneva sempre all’università un incontro con il docente finalizzato a ragguagliarlo sull’andamento dei lavori, sui problemi incontrati e sui modi per superarli. Si trattava di una sorta di conclave nel quale ogni gruppo valutava ed era valutato dagli altri attraverso la regia del docente e i suggerimenti che tutti erano liberi di dare. La scelta del sabato era voluta da De Masi per misurare l’autentica passione per la ricerca di un’aula in cui molti erano i radical chic posillipini e vomeresi che avrebbero gradito di celebrare diversamente il fine settimana.

[4] Di Luigi apprezzavo pure, sempre su questo piano, il recupero, anche forbito ma pienamente pertinente, di lemmi eleganti caduti via via in disuso, soppiantati da un linguaggio svelto, essenziale ma in ciò esposto a sfarinamenti semantici, a impoverimenti prima lessicali e quindi anche culturali. A molti è probabilmente noto l’amore per parole come “temperie” che ricorrevano nel suo parlare e nel suo scrivere.

[5] La fiaba tradizionale viene scelta, nota a tal proposito lo studioso, «per il suo valore paradigmatico, smontata e ricostruita in funzione del finale. Al centro della vicenda dovrà figurare la pasta o questa dovrà scandire il punto risolutivo della fiaba o svolgere la funzione memorativa di esso e il finale dovrà motivare il consumo di quel tipo di pasta, l’utilità (…) di tale consumo» [Lombardi Satriani 1976, 153].

[6] Nella disamina delle fiabe “riesumate” e reinterpretate dalla Barilla torna infatti utile a Lombardi Satriani ricondursi al sistema di classificazione delle fiabe elaborato in prima battuta da Antti Amatus Aarne e quindi da Stith Thompson per valutarne varianti e diffusione.

[7] Il riferimento è al film di Ettore Scola Brutti, sporchi e cattivi, uscito nel 1976 di cui fu interprete principale Nino Manfredi nella veste di un meridionale di origini pugliesi. La pellicola racconta le vicende di ordinaria povertà della famiglia di questo uomo che vive in una baraccopoli ai margini di Roma, povertà che si incancrenisce nella trista e sordida condizione di marginale e quasi ferina esistenza a cui si vedono costretti i congiunti del protagonista. Scola ci restituisce un’alterità assolutamente liminale di un sottoproletariato ringhioso e quasi animalesco, talora biecamente anaffettivo, sullo sfondo, pressoché assente, della Capitale, presa e compresa a ridefinirsi in chiave piccolo borghese mediante cinture di palazzoni che la speculazione edilizia tira su rapidamente distinguendo gli inurbati da chi si arresta in una terra di nessuno, che non è campagna, che non è città. Questo film ci ricorda quello precedente, diretto, in epoca neorealista, nel 1951, da De Sica, Miracolo a Milano, ove i componenti di un’altra bidonville, questa volta a Milano, cercano di opporsi inutilmente a un arrogante palazzinaro che ha messo gli occhi sull’area in cui sorgono le baracche dei barboni per costruirvi dei condomini a cui gli homeless non avranno accesso. La pellicola termina con una sublimazione del conflitto in atto tra una cenciosa povertà e una imprenditoria cinica dove agli straccioni non resta altro che involarsi a cavalcioni delle scope loro date dai netturbini della capitale lombarda in cerca di un non meglio definito futuro migliore. Mentre Scola sembra estrarre da un contesto rurale e sordido il suo turpe protagonista, De Sica invita a immedesimarsi, a familiarizzare con i diversi personaggi che vivacchiano tra le stamberghe: ciò detto in ambedue le pellicole che si collocano agli inizi e alla fine del boom economico si assiste allo sfarinamento di un mondo tradizionale divorato da una modernità rampante intenzionata a far piazza pulita di qualunque passato ma pure, sul piano scientifico e intellettuale a una incertezza ondivaga non in grado di esplicitare una relazione critica e definita con tale passato rurale che, intanto, si va obnubilando ai margini di una dimensione urbana e aliena.

[8] I visitatori si introducevano nella proprietà attraverso dei varchi aperti nelle reti e nei muri di recinzione dell’immobile pur se potendosi appropriare soltanto degli spazi esterni. Approfittando del sentiero di poco meno di mezzo chilometro che conduceva alla struttura accompagnavo, assieme alla mia compagna di allora, Daniela Sepe, che poi avrebbe imbastito la sua tesi di laurea proprio sul Mulino Bianco, i turisti sondando le loro aspettative, chiedendo da dove venissero, da chi avessero avuto la segnalazione, che cosa intendessero fare. Le medesime persone intervistate all’andata, dopo averne osservato e fotografato le azioni al cospetto del mulino, tornavamo ad avvicinare sulla via del ritorno chiedendo loro una valutazione dell’esperienza. Non può essere questa la sede per dilungarmi su questo fenomeno; debbo però sottolineare il generale disappunto dei visitatori nel constatare la chiusura del rustico i cui ambienti interni volentieri avrebbero visitato aspettandosi di ritrovarvi le ambientazioni della pubblicità. Si biasimava altresì la Barilla per non aver organizzato un’accoglienza, con banchi per la vendita dei suoi biscotti e delle sue merendine a cui peraltro sopperivano astutamente alcuni venditori ambulanti che all’inizio del sentiero avevano montato le loro bancarelle ove, accanto a ruspanti e sostanziosi panini con salame e formaggio, non mancavano di tenere in bella vista i prodotti del colosso alimentare di Parma. Tali risposte la dicono lunga sullo stato di “fascinazione” subita da codesti visitatori profondamente soggiogati dagli spot quali potenti e suggestivi strumenti di evocazione di idealtipici, rosei e soprattutto confortanti orizzonti “rurali”.

[9] Rammento qui velocemente, nell’ambito del suo interesse per la foto, quello, più nel dettaglio, per la ritrattistica fotografica popolare, in altri termini per la foto di famiglia altrimenti definita come “vernacolare” [Faranda L., Lombardi Satriani L. M., 1986], o anche quello per le culture alieutiche e marinare [Lombardi Satriani L. M., Meligrana M., 1985] dinnanzi a una più generalizzata e consolidata attenzione per il mondo contadino. In questo ultimo caso lo studioso ebbe notevole peso nell’orientare la mia tesi di dottorato sul mare sapendo delle mie attenzioni per le popolazioni rivierasche, per sistemi di pesca e navigazione di particolare complessità, per orizzonti mitici e magico religiosi poco indagati proprio perché legati alla dimensione equorea e non a quella di terra, a una cerimonialità di mare aperto e non di banchina. [Baldi A., 1992].