Afterwards

Andrea Fumagalli

Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli Studi di Pavia

Questo numero monografico ha come oggetto di studio un tema particolarmente ambizioso quanto nevralgico: “Prefigurare il lavoro del futuro. Frammenti etnografici e riflessioni antropologiche tra crisi finanziaria e crisi pandemica”.

È anche un tema tra i più dibattuti negli ultimi anni, soprattutto dal punto di vista economico e tecnologico. In questi ambiti di ricerca, si torna alla vecchia questione posta da David Ricardo più di 200 anni fa, quando il grande economista inglese si domandava se poteva esistere la “disoccupazione tecnologica”. Nella prima edizione dei Principi[1], Ricardo, in polemica (politica) con il movimento luddista, negava che tale fenomeno potesse sussistere e che in ogni caso era del tutto marginale. Sarà solo nella terza edizione dei Principi (1821), che Ricardo ammetterà invece che il progresso tecnologico può generare disoccupazione, ma sottolineando che tale disoccupazione non sarebbe stata strutturale in quanto riassorbibile nel tempo grazie all’esistenza di alcuni meccanismi di compensazione.

In questi tempi, oltre a situazioni di emergenza particolarmente gravi (la sindemia, da un lato, l’escalation bellica, dall’altro), si è verificata una significativa accelerazione del progresso tecnologico, sino al punto che possa prefigurarsi un nuovo paradigma tecnologico, in grado di sostituirsi a quello dell’Ict (Information Communication Technology).

In effetti ci sono parecchi segnali che si muovono in questa direzione. Senza voler essere esaustivi, possiamo notare che nell’ultimo decennio siamo stati testimoni di un incremento dei momenti di crisi economica e sociale, soprattutto all’indomani della grave crisi finanziaria mondiale del 2007-08. Inoltre, sul piano tecnologico, stiamo assistendo ad un’accelerazione della capacità innovativa, oggi sempre più diretta e comandata dalle grandi corporation internazionali, sia a Ovest come a Est del mondo.

Tale capacità innovativa si muove principalmente in tre direzioni.

La prima ha a che fare con le tecnologie della vita, le bio-tecnologie. Da quando all’inizio del nuovo millennio si è scoperto che esiste un alfabeto della vita (decrittura del genoma umano) e poi nel 2012 si è scoperto come decifrarlo e alterarlo (la scoperta delle forbici molecolari CRISPR/Cas9), siamo di fronte ad uno sciame di innovazioni che, in ultima analisi, aprono il campo alla possibilità di creare in laboratorio materiale vivente artificiale. Si tratta di scoperte rivoluzionarie al pari delle tavole periodiche degli elementi naturali del chimico russo Mendelev nel 1865, che hanno dato impulso allo sviluppo della chimica inorganica e alla possibilità di creare materiali artificiali, senza le quali l’onda tecnologica taylorista non sarebbe mai decollata.

Contemporaneamente, grazie alla tecnologia algoritmica e alle nanotecnologie, negli ultimi anni si è sviluppato un incremento esponenziale nella capacità di calcolo, gestione, manipolazione e organizzazione di un numero crescente di dati e informazione in spazi sempre più piccoli, sino a creare le tecnologie cloud e dei big data, grazie alle quali il capitalismo delle piattaforme può prosperare. Tale dinamica ha investito in modo significativo anche l’organizzazione del lavoro e la governance produttiva e finanziaria.

La terza tendenza riguarda invece lo sviluppo di tecnologie ibride umano-macchiniche, oggi sempre più presente nei processi di apprendimento semi-automatico delle tecnologie machine learning e deep-learning, in grado di creare le condizioni per un’automazione “intelligente”, la cui prospettiva a breve termine è soprattutto rappresentata dall’intelligenza artificiale (Internet of Thing, Industria 4.0, ecc.).

Queste tre tendenze sono fra loro sinergiche e si alimentano a vicenda, favorendo così lo sviluppo di un cluster innovativo, tipico della nascita di un nuovo paradigma tecnologico.

È prematuro discutere della traiettoria o delle traiettorie tecnologiche che potranno scaturire dal nuovo paradigma tecnologico. Da un lato, si pone tutta la questione ambientale, dall’altro la gestione della vita. Zoe e Bios sono sempre più strettamente legate.

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È partendo da queste premesse che credo occorra leggere i contributi presenti in questo numero. In primo luogo, la messa a valore della vita pone una serie di interrogativi ai quali l’analisi economica mainstream non è in grado di rispondere. La logica economica dominante è infatti una logica di “misura”, ovvero logica formale. Parte dal presupposto che il comportamento umano sia misurabile in termini oggettivi, grazie all’ipotesi fondamentale che il (solo) comportamento economico sia caratterizzato da razionalità perfetta in condizioni di mutua indifferenza. Ciò implica che il comportamento umano, almeno quando gravita nella sfera economica, non è fattore di soggettivazione e diversità. Solo le preferenze sono ritenute soggettive, le uniche in grado di definire una specifica individualità. In tal modo, la scienza economica può formulare modelli matematici rigorosi, basati sull’ipotesi della massimizzazione di una funzione di utilità individuale.

Fintanto che il processo di accumulazione si fondava sulla produzione materiale e tangibile (quindi misurabile), era possibile calcolare la formazione della ricchezza collettiva (esemplificata ancora oggi dalla misura del Pil).

Ma se le nuove forme di organizzazione della produzione e del lavoro sono sempre più improntate all’intangibilità, al cui interno le facoltà vitali messe a valore diventano il perno della produzione di ricchezza, ecco allora che sono le singole soggettività, in condizioni di incertezza (quindi incompleta e imperfetta informazione), a essere al centro dei modelli di organizzazione del capitalismo contemporaneo.

L’analisi quantitativa economica standard non è più sufficiente. Da qui la necessità, di un approccio interdisciplinare che vede le scienze antropologiche tra le più adatte a costruire quello “storytelling” che può farci comprendere le dinamiche in corso.

Certo, alcuni nodi problematici rimangono irrisolti, primo fra tutto quello del valore dei beni intangibili e del lavoro.

La nuova organizzazione del capitalismo delle piattaforme ha profondamento inciso sulle condizioni di lavoro e reddito. Nel modello di internazionalizzazione reticolare della produzione, il sorgere di nuove gerarchie, basate sull’accesso o meno alle tecnologie algoritmiche, definisce nuove divisioni del lavoro, di tipo cognitivo e spaziale, che si aggiungono (senza sostituirla) a quella tradizionale fordista-smithiana basata sulle mansioni. Ne consegue una flessibilità delle prestazioni che tende a variare sulla base del rapporto umano-macchinico, sino a configurare una possibile nuova relazione sociale tra capitale e lavoro. Da un lato, stiamo assistendo al “divenire umano della macchina”, grazie allo sviluppo degli algoritmi di nuova generazione in grado di memorizzare e gestire in modo automatico e versatile immani quantità di dati, sino a tendere alla massima automazione robotica. Dall’altro, l’essere umano è sempre più caratterizzato da elementi meccanici e protesi sino a creare un ibrido tra macchina e natura umana. Qualunque sia il contesto in cui ci muoviamo e a seconda dei settori produttivi di riferimento, il lavoro umano non scompare ma si trasforma e cambia percezione. Sono le soggettività umane che vengono messe al lavoro e, in alcuni casi, è la stessa attività umana che crea immediatamente valore, in modo autonomo e non intermediato dalla prestazione lavorativa. L’automazione robotica (IoT, industria 4.0, ecc.) richiedono il lavoro faticoso dei click-workers e della logistica al pari di quello più cognitivo-relazionale: attività lavorativa che avviene spesso prestata in condizioni di individualizzazione contrattuale e organizzativa oppure in contesti di produzione altamente flessibili e alienanti. Quando invece sono gli atti della vita quotidiana a creare direttamente valore, dalla figura del prosumer a quello di un cliente fidelizzato, (sia che operi su un social media che all’interno di un centro commerciale poco importa), il più delle volte siamo in presenza di una produzione di valore non percepita né riconosciuta come tale e quindi non pagata. La commistione odierna tra lavoro pagato e lavoro non pagato va di pari passo a quella tra tempo di lavoro certificato e tempo di lavoro non certificato. Ed è in questo contesto che si ridefiniscono le figure professionali del lavoro e le loro tipologie giuridiche. La figura tradizionale del lavoratore subordinato stabile, lungi dallo scomparire, tuttavia si ridimensiona a vantaggio di forme miste di lavoro autonomo eterodiretto e di auto-imprenditorialità. La logica della corporatisation[2], infatti non è di esclusiva prerogativa dell’impresa ma innerva e deforma sempre più la stessa prestazione lavorativa e la soggettività del lavoratore/lavoratrice. È sempre più sul lavoro, la sua precarietà e incertezza, che si scaricano oggi i rischi d’impresa.

Tale insicurezza riguarda anche il tema della remunerazione del lavoro. La remunerazione della prestazione lavorativa è sempre in qualche modo correlata al valore delle merci prodotte, anche se la teoria mainstream dell’Equilibrio Economico Generale cerca di negarlo. Ma oggi assistiamo ad un fatto nuovo: il valore prodotto dal lavoro diventa sempre più non misurabile, almeno con le tradizionali unità di misura. Assistiamo ad un paradosso: più i fattori produttivi hanno a che fare con la vita umana e presentano elementi di non rivalità e fisicità (quindi sono relativamente abbondanti), più la teoria tradizionale del valore - utilità, che definisce il prezzo solo come indice di scarsità, perde di senso e di validità esplicativa. Ne consegue che solo la teoria del valore-lavoro è in grado, oggi più che mai, in tempi di accumulazione intangibile e bio-cognitiva, di cogliere la natura e l’essenza del processo di valorizzazione. Ma nel momento stesso in cui la teoria del valore-lavoro si trasforma in teoria del valore-vita, nasce la questione della misura. La teoria del valore oggi è in crisi non perché il lavoro (ovvero, il suo sfruttamento) non sia più la fonte del valore capitalistico ma perché tale valore risulta non misurabile. Detto in altri termini: più la sussunzione del lavoro al capitale non è più, marxianamente parlando, solo reale e formale ma diventa vitale[3] (aumentando così l’intensità del saggio di sfruttamento), più la determinazione del suo valore diventa aleatoria e discrezionale.

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La ricerca etnografica è uno strumento assai utile per capire la percezione che oggi si ha del lavoro, soprattutto se tale prestazione lavorativa si fa sempre più eterogenea e complessa. Come si legge nell’introduzione a questa sezione monografica, a cura di Fulvia D’Aloisio e Simone Ghezzi:

La prospettiva antropologica e l’approccio etnografico rivolti a tali questioni, propongono una specifica visione prismatica che consente di cogliere situazioni diversificate e persino antitetiche, con la scomparsa di competenze e ambiti di produzione, ma al contempo la strutturazione di nuovi prodotti e servizi, di nicchie di resilienza o di eccellenza, di nuovi ambiti di consumi, funzionali ad un mercato in rapida trasformazione (infra, 19).

È possibile definire una chiave di lettura unificante per le diverse condizioni soggettive del lavoro che spaziano dal nuovo operaio informatizzato della fabbrica 4.0 (D’Aloisio) all’operaio in lotta dell’acciaieria di Terni (Saltalippi), dall’artigiano-maker del distretto industriale (Ghezzi) al lavoro autonomo minerario del Trentino (Tollardo), dal lavoro agricolo (Fontefrancesco) e a quello dell’amministrazione pubblica (Perra)?

Difficile, se non impossibile, al momento. Se ci limitiamo infatti alla sola descrizione statistica, seppur basilare, della condizione di lavoro, ci troviamo di fronte a mille sfaccettature difficili da ricomporre in unico quadro. L’irruzione di elementi di soggettività nel lavoro vivo non consente una descrizione omogenea della stessa condizione lavorativa, anche per macro gruppi.

Diventa quindi necessario astrarsi dal tipo di prestazione lavorativa che si vuole analizzare e verificare se al suo esterno è possibile ravvisare una o più condizioni accomunanti.

Sulla base delle analisi qui condotte, in ambiti tra loro molto diversi, appare in modo immediato che le condizioni lavorative del capitalismo contemporaneo sono caratterizzate da incertezza e precarietà.

La condizione precaria diventa oggi una condizione generalizzata e strutturale, acuita dall’emergenza sanitaria e bellica, che tende a interessare sempre più l’intera vita: è precarietà esistenziale.

È questa la sfida che abbiamo di fronte. E apre alla necessità di sviluppare la discussione verso un nuovo tema: “Il welfare del futuro, il futuro del welfare”.



[1] David Ricardo, Sui principi dell’economia politica e della tassazione, a cura di F. Vianello, Milano, Isedi, 1976 (ed. orig. 1817)

[2] Con tale termine non si vuole far riferimento solo al principale agente che oggi domina i processi di produzione (la corporation o la grande impresa manageriale) ma soprattutto la filosofia dell’agire economico oggi dominante.

[3] Per un approfondimento, si rimanda a Andrea Fumagalli, Economia Politica del Comune: sussunzione e sfruttamento nel capitalismo bio-cognitivo, DeriveApprodi, Roma, 2017