Percorsi di futuro interrotto

Crisi industriale e fine delle opportunità per la mobilità sociale in una valle alpina italiana.

Andrea Tollardo

Dipartimento per le scienze Umane "Riccardo Massa", Università degli Studi di Milano-Bicocca

Indice

Introduzione
La nascita di un’industria estrattiva a scarsa meccanizzazione
Boom, meccanizzazione e mercato estero: le condizioni per lo sviluppo di uno strato imprenditoriale locale
Ristrutturazione industriale e lavoro migrante
La grande crisi
Tracce di analisi
Conclusione
Bibliografia

Abstract. A once florid extractive industry in the Italian Alps became one of the larger and longer-lasting industries of the area. From the 1930s on, this industry generated a continuous need for workers throughout various conjunctures, but the Great Recession opened a period of industrial collapse and the diffusion of a sense of closing of opportunities for local inhabitants, with the silent expulsion of workers. The paper aims to reflect on the combination of elements acting on various spatial and temporal scales, regarding the experiences of a mountain locality in crisis and deindustrialization.

Keywords. ‘Mining’; ‘great recession’; ‘corporate community’; ‘Alps’; ‘deindustrialization’.

Introduzione

Il presente contributo si propone di analizzare come le modalità specifiche di inserimento nel mercato mondiale di un’area montana delle Alpi trentine, fortemente caratterizzata da un’industria estrattiva di cava, abbiano contribuito alla generazione del presente stato crisi economica e di senso di fine delle opportunità diffuso nelle località considerate. Ciò sarà fatto principalmente attraverso il tentativo di individuare tanto degli sviluppi storici che si ritengono rilevanti, quanto delle istituzioni sociali e culturali di lungo periodo attestate nell’area qui presa in considerazione.

La prospettiva generale utilizzata per la ricerca è quella dell’antropologia sociale, e in particolare quella dell'antropologia alpina dal forte focus storico nella tradizione antropologica inaugurata da Eric Wolf; quella delle classi sociali [Carrier, Kalb 2015] e di quella che Gavin Smith [2012; 2014] ha chiamato “historical realist antropology”. Non è invece al centro dell’analisi il ricco e fruttuoso filone dell’antropologia, sociologia e storia della miniera, che, pur di estremo interesse, per ovvi motivi di spazio e di focus tematico si è deciso di lasciare a trattazioni successive.

Questo articolo emerge dalla riflessione in fieri nel contesto di una ricerca di dottorato in Antropologia culturale e sociale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca ancora in corso al momento della scrittura. I dati utilizzati provengono da una ricerca sul campo condotta in due periodi – il primo tra ottobre 2015 e febbraio 2016, e il secondo tra ottobre 2020 e ottobre 2021 – nell'area di estrazione della pietra nei comuni di Trento, Albiano, Baselga di Piné, Cembra, Fornace e Lona Lases nella provincia autonoma di Trento, in Italia.

A causa dell’emergenza sanitaria provocata dalla pandemia di SARS-CoV2, che ha profondamente impattato sullo svolgimento della ricerca e reso l’osservazione partecipante per buona parte del periodo dedicato al lavoro di campo molto ardua (quando non letteralmente illegale) i metodi utilizzati che informano il presente articolo sono principalmente costituiti da interviste semi-strutturate in presenza. La ricerca partecipante è stata possibile per lo più nelle ultime fasi della ricerca quando le condizioni emergenziali sembravano alleggerirsi. La ricerca di tipo storico si basa invece in maggioranza su fonti secondarie (in particolare per quanto riguarda la storia locale e tematica) e in parte primarie (volantini, report di assemblee sindacali, fotografie, memorie di militanti e manoscritti di vario tipo). Nonostante la limitazione inaggirabile della pandemia che ha colpito la quasi totalità dei giovani ricercatori e ricercatrici qualitativi, specie se in fase di stabilimento del campo, l’uso di interviste e il parziale ri-orientamento del focus su aspetti di tipo storico, hanno permesso il prosieguo della ricerca con un tipo di approfondimento che in altro contesto non sarebbe stato possibile.

La nascita di un’industria estrattiva a scarsa meccanizzazione

Il settore dell’estrazione della pietra di porfido Trentino si sviluppò nei Comuni di Albiano, Baselga di Piné, Cembra, Fornace e Lona-Lases a partire da giacimenti di lastre di pietra regolati come bene comune ad uso degli abitanti di alcune entità amministrative di origine medievale a lungo dotate di alcuni poteri di autogoverno. Fu però a partire dalla fine degli anni ’20 del ‘900 che questo bene iniziò ad essere sfruttato in modo capitalistico e industriale da parte di aziende di costruzioni esterne alla regione.

La profonda crisi economica del primo dopoguerra trovava le sue radici nella provincia nel secolo precedente. Fu però la prima guerra mondiale – che interessò in modo diretto diverse aree del Trentino – a portare ad un collasso economico della nuova provincia e in particolare ad un dissesto finanziario degli istituti bancari regionali causato dal cambio di valuta e dalla rottura dei legami commerciali con la Mitteleuropa [Leonardi, Pombeni 2005]. Le nuove autorità amministrative implementarono una politica di incentivi e attrazione di imprese dall’esterno per permettere la ripresa di un’economia regionale dissestata. Tali politiche avevano l’intento di evitare un’industrializzazione metropolitana torrenziale foriera di conflittualità sociale. L’intenzione era piuttosto di favorire l’istituzione di industrie in centri minori dotati di una eccedenza di manodopera agricola [Gallo 2011, XVI], così da permettere una continuità con modalità di vita agricole conservatrici tramite l’uso di operai-contadini part-time o stagionali [Ibid; Ghezzi 2016]. Contemporaneamente, questa strategia permise anche di contenere la spesa iniziale di un’industrializzazione con scarsità di capitali grazie allo sfruttamento di sistemi di riproduzione sociale che non dovessero reperire mezzi di sostentamento sul mercato e quindi fornire salari sufficienti allo scopo [cf Narotzky, Goddard 2017; D’Aloisio, Ghezzi 2016].

Fu in questo contesto che vennero date in gestione le prime cave con contratti di lunga durata a imprese di costruzione provenienti da Torino e Milano, che impiegarono lavoratori locali impoveriti dalla lunga crisi, dediti ad una agricoltura mista tornata di sussistenza dopo periodi di diffusione di colture di mercato supportate dalle amministrazioni trentine e asburgiche del secolo precedente [Lorandini 2005]. Tali iniziative di modernizzazione agricola ottocentesche furono caratterizzate da alterni successi a causa della crisi agricola nel periodo della Grande Depressione di fine ‘800 [ibidem]. Il successo delle politiche economiche asburgiche si misurò tuttavia in una maggiore integrazione commerciale dell’Impero e nella diffusione di un’abitudine alla produzione in cambio di moneta sul mercato, nel contesto di una diffusa piccola proprietà agricola montana.

Le ricorrenti crisi causate dalla Grande Depressione di fine ‘800, dall’impasse politica, dalle operazioni belliche, dal collasso del primo dopoguerra, e infine della crisi mondiale del ‘29, spinse molti abitanti dell’area del porfido all’alternativa tra la preesistente opzione migratoria, sempre meno agibile per via delle politiche demografiche fasciste, e le dure condizioni di lavoro nelle cave di pietra. Questo periodo industriale si caratterizzava infatti per l’alta intensità di lavoro e scarsissima meccanizzazione, la quale si limitava al trasporto con camion di piccola portata da poco in grado di percorrere le strade carrozzabili create a cavallo del secolo [Angheben 1994b]. L’industria, in questa fase degli anni ’20 e ’30, arrivò velocemente ad impiegare tra 900 e 1200 operai locali [ibidem] in un’area abitata in totale da poco più di 8000 persone[1]. Il continuo calo demografico causato dall’emigrazione parve arrestarsi proprio nel periodo di picco di produzione nel 1935 [ibidem], pochi anni prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, durante il quale l’attività si interruppe.

Nel secondo dopoguerra, congiuntamente al boom economico ed edilizio, la produzione vide una forte espansione, arrivando nel 1955 quasi a raddoppiare i livelli medi degli anni ‘30. Gli operai aumentarono fin oltre le 2000 unità. Questo portò ad un aumento della conflittualità, catalizzata dall’idea della rapina di un bene comunitario da parte di imprese esterne che sfiancavano per magri salari a cottimo i lavoratori della zona [Ferrari, Andreatta 1986; Ferrari 1992]. Le grandi imprese esterne cercarono così di disimpegnarsi dalla coltivazione diretta delle cave e, seguendo una strategia attuata altrove nel resto d’Italia negli anni ’50, promuovendo la creazione di cooperative di stampo cattolico di lavoratori diretti che avrebbero poi venduto il materiale alle grandi imprese che mantenevano il monopolio della commercializzazione della pietra [Ferrari, Andreatta 1986].

Boom, meccanizzazione e mercato estero: le condizioni per lo sviluppo di uno strato imprenditoriale locale

In occasione della scadenza dei contratti trentennali di sfruttamento delle cave più importanti nel 1963, amministrazioni comunali i cui abitanti erano fortemente interessati a riprendere possesso del bene comune, ridussero la durata delle concessioni, inoltre esercitando una netta preferenza per imprese locali, secondo una prassi attestata fin dalla prima età moderna [Franceschini 2009]. Questo periodo spinse ad una corsa ai lotti migliori da parte di ex-lavoratori locali e ad una forte individualizzazione del lavoro di cava, il cui prodotto continuava a venire commercializzato attraverso le grandi aziende ormai uscite dall’area. Si assistette così ad una fase di selezione e concentrazione in cui chi riusciva ad appropriarsi dei lotti migliori e a commercializzare il prodotto a condizioni più vantaggiose finì per assorbire altri lotti, soprattutto quando, nel 1970, il settore entrò in una nuova fase di boom, con una produzione che raddoppiò nel giro di un solo anno [Angheben 1994a]. Ciò avvenne grazie, da un lato, all’espansione improvvisa della domanda estera e dall’altro alla prima vera meccanizzazione dell’industria.

Ne derivò un forte incremento della produttività oraria e un minor costo di produzione, a fronte di un incremento di infortuni e casi di silicosi [Federazioni 1980]. L’istituzione di appositi uffici per la promozione della pietra di porfido aiutò la sua commercializzazione da parte delle piccole imprese locali, che dall’inizio degli anni ‘70 riuscivano a vendere su mercati esteri europei a condizioni sempre più vantaggiose, tanto da far arrivare in questo periodo la quota esportata in valuta pregiata a quasi il 70% della produzione [ibid, 24]. Ciò avvenne anche grazie alle note politiche svalutative che portarono le esportazioni italiane a mantenere competitività nei mercati internazionali, anche quando dal ’74 al ‘79 il prezzo corretto all’inflazione del materiale venduto aumentò quasi del 150% [ibid, 13]. Fu in questa fase che si crearono le condizioni per un accumulo di capitale e una stabilizzazione delle nuove imprese locali il cui accesso ai lotti-cava (la cui risorsa rimane pubblica) venne da allora in poi trasmesso in modalità ereditarie. Infatti, la presenza delle famiglie imprenditoriali nei comuni e negli enti che gestiscono il bene comune, rese facile la concessione di deroghe o trasmissioni dei lotti secondo una logica di continuità aziendale di tipo familiare [Gottardi 2007].

Proprio in questo decennio la Provincia di Trento, seppur in forte ritardo, vide iniziare il suo balzo in avanti economico fino a raggiungere la media di reddito pro-capite del resto del Nord Italia, fino a quel momento più avanzato [Bonoldi 2005]. Ciò fu possibile anche grazie all’attuazione di uno statuto speciale di autonomia provinciale fino a quel momento rimasto pressoché inattuato, tanto per interpretazioni conservative da parte del governo centrale, quanto per forti dissidi con il Sudtirolo [Garbari 2005], l’altra provincia della regione maggiormente sviluppata e industrializzata [Bonoldi 2005]. L’espansione produttiva del 1970 e di tutta la decade successiva attrasse immediatamente quindi la prima forza lavoro immigrata già presente nelle zone industriali della provincia – che in questo periodo proveniva dalla seconda fase della Grande Migrazione Interna Italiana, caratterizzata da una maggiore coscienza politica, network migratori più solidi e maggiore livello di educazione rispetto alla prima [Gallo 2011, 184-186]. E fu infatti in questo periodo che si sviluppò una nuova fase di contestazione, prima nelle aree classiche della grande fabbrica fordista nei fondivalle principali della provincia, ma presto anche contro la nascente borghesia estrattiva dell’area del porfido: nel 1979 circa un terzo dei lavoratori di cava proveniva infatti proprio dalle aree della migrazione interna [Federazioni 1980, 6]. Nelle cave gli effetti della conflittualità nell’intera provincia si videro già nel 1973, con l’ottenimento del primo contratto collettivo provinciale del settore estrattivo, favorito anche dalla più ampia onda di contestazione del Nord Italia.

L’applicazione dell’autonomia legislativa provinciale anche in materia di risorse minerarie, unitamente alle lotte operaie nel settore estrattivo, portarono alla promulgazione della legge provinciale numero 6 del 1980 che si propose di regolare il settore estrattivo in Trentino. L’effetto della legge fu di cristallizzare di fatto i rapporti di forza esistenti nell’area del porfido. Buona parte dei vincoli e delle importanti regolamentazioni introdotte, come la necessità di una programmazione tecnica dell’attività estrattiva, di stabilimento di canoni di estrazione imparziali o di tutele all’ambiente naturale, rimasero quasi del tutto inattuate per via di cavilli che lasciavano discrezionalità agli imprenditori e ai Comuni, quasi tutti governati dall’imprenditoria del porfido. La razionalizzazione dei disordinati e frammentati lotti cava regolamentata dalla legge, ad esempio, venne attuata ricalcando la mappa catastale delle concessioni già in possesso della ormai stabilizzata borghesia estrattiva. Si andò quindi a confermare l’accesso ai lotti già in possesso dei cavatori del tempo [Gottardi 2007, 28-35].

Ristrutturazione industriale e lavoro migrante

La definitiva appropriazione, di fatto, della risorsa porfirica da parte dello strato imprenditoriale estrattivo dell’area del porfido, unitamente alla continua richiesta di materiale nei mercati nazionali e internazionali, spinse quindi i concessionari delle cave a investire in un incremento di macchinari (per lo più pale meccaniche). Dalla fine degli anni ’80 l’occupazione nel settore tornò ad aumentare, soprattutto grazie all’apporto di nuovo lavoro dall’estero. Parallelamente, infatti, quello stesso periodo vide trasformare definitivamente l’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione [Ambrosini 2011], permettendo un nuovo ingresso nell’area estrattiva di lavoratori dall’esterno. A cavallo tra anni ’80 e ’90 si assistette all’arrivo precoce dei primi lavoratori immigrati provenienti dal nord-est della Repubblica di Macedonia. Testimonianze di lavoratori immigrati da lungo tempo nell’area del porfido indicano come anche in questo caso siano stati gli imprenditori a spingere per richiami di parenti e amici verso il settore che in questo periodo vide una nuova fase di espansione produttiva.

Io per esempio sono venuto nel 90. […]. È venuto uno… Nostro peasano [per] primo. […] È venuto qua. Lui ha fatto… Sei, sette persone […], il padrone ha fatto, come si chiama, il documento. Perché qua cercavano tanto lavoro anni fa. Quelli sei hanno preso altri, quelli altri hanno presi altri. (Lavoratore 1, macedone, nel porfido da 30 anni – 18/06/2021, Grumes)

Eppure, come nel periodo dell’immigrazione interna degli anni ’70, l’impossibilità di controllare pienamente i “portatori viventi” della forza lavoro [Bellofiore 2012, 24] richiesta dal ceto imprenditoriale locale portò ad una nuova fase conflittuale in concomitanza con il periodo espansivo degli anni ’90. Una convergenza tra lavoratori locali socializzati alla conflittualità tra lavoro e capitale dalla precedente generazione radicalizzatasi negli anni ’70 e l’arrivo di lavoratori stranieri già sindacalizzati permise una fase di lotta contro l’imposizione di un contratto collettivo regressivo. La lotta ebbe parziale successo con la sottoscrizione nel 1998 di un contratto migliore rispetto a quello proposto da imprese e sindacati confederali, ma il processo di ristrutturazione del mercato del lavoro, tanto nel settore quanto nel resto d’Italia, rese ormai tale vittoria già superata dalla veloce espansione dell’auto-imprenditoria e di contratti di artigianato fittizio in cui operai addetti alla produzione di cubetti e piastrelle vengono formalmente a costituire aziende artigiane che vendono il prodotto lavorato alle imprese madri, pur continuando a svolgere lo stesso lavoro di quando erano dipendenti [Ferrari 1992]. Al contrario degli anni ’50-‘60, i lavoratori autonomi o organizzati in micro-imprese a partire dai primi anni ‘90 non si basavano più sull’accesso diretto alla risorsa, che rimase saldamente in mano alle famiglie imprenditoriali emerse da quella fase. Si fondavano piuttosto sulla totale dipendenza dall’acquisto di materiale grezzo proveniente dall’impresa madre che distaccava le fasi centrali della lavorazione agli autonomi e sulla vendita del lavorato all’impresa madre, secondo prezzi imposti da questa.

Un nuovo incremento di prezzo della pietra estratta[2] – la cui commercializzazione continuava ad essere trainata dall’esportazione – e quindi un aumento della profittabilità delle imprese estrattive, spingeva queste ultime ad aumentare l’estrazione. Per fare ciò venne aumentato quindi il personale di origine immigrata nell’industria, che, anche grazie al più vasto processo di deregolamentazione del lavoro, venne inserito sempre più nelle fasce più esternalizzate, flessibili e irregolari del settore, tra l’altro rendendo sempre più difficile la sua rilevazione statistica [Gottardi 2007, 69]. A seconda delle stime e delle fasi di lavorazione, da un terzo a metà della forza lavoro, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000 sembra essere stata costituita da lavoro migrante. Questo incremento di lavoratori dall’estero prosegue nei quattro Comuni del porfido fino a portare la popolazione di origine straniera prima della Grande Recessione ad una media del 14% sul totale residenti (per contestualizzazione, a livello provinciale la popolazione straniera nello stesso periodo era dell’8,5%, il 7% in Italia[3]).

All’esternalizzazione in loco, negli anni ‘90 si affiancò una corsa agli investimenti in cave di porfido nel sud del mondo, Est Europeo e Cina, da cui cominciarono ad arrivare quantità di materiale lavorato o semilavorato a prezzi di molto inferiori a quelli locali [ibid, 113]. Idee diffuse tra i lavoratori incontrati durante la ricerca individuano in questo processo un desiderio di arricchimento e competizione tra famiglie imprenditoriali che cercarono di estrarre tutto il possibile da questa situazione favorevole di alte esportazioni, deregolamentazione del mercato del lavoro e accesso a risorse internazionali.

Praticamente in quegli anni lì avevamo il monopolio. […] Guadagni enormi per le ditte. Guadagnavamo anche noi [operai]. […] Ghera soldi che girava. Girava soldi per tutti.. È partito anche a livello mondiale, disente [diciamo], perché il primo mercato l’era la Germania che tirava. Venivano dentro i tedeschi col marco, crompava [compravano] tutto. […] Nel ‘95[…] [I miei datori di lavoro] Erano andati in Argentina […] E i a trovà [hanno trovato] dei giacimenti di porfido rosso immacolati. E alora […] i ha crompà giò tut lì [hanno comprato tutto], zitti zitti. […] E i ha portà via [hanno portato lì] i macchinari da qua usati. I a investì [hanno investito] na marea de soldi lì […]. Ma invece che svilupparla nell’America, cioè, la portava su in cima alla Germania, ad Amburgo. Alor aven creà [abbiamo creato] na concorrenza tra de noi no?! E’ partì [sono partite] da lì anche le grandi crisi del porfido. […] Qua li vendevi a 5, là li vendevi a 3. Sai cosa vuol dire darsi le pedate nel culo? Ecco. (Lavoratore 2, nativo dell’area, nel porfido da 30 anni – 09/08/2021, Lona)

La grande crisi

L’aumento della concorrenza interna al settore premette per una continua espansione produttiva che arrivò a saturare il mercato e, per la prima volta dopo decenni di aumenti, a far scendere i prezzi a partire dal 2003 e in particolare dal 20072, alcuni anni prima della crisi globale del 2008. All’arrivo di questa, e soprattutto a seguito dell’evoluzione della crisi globale che si tramutò dopo pochi anni da collasso del prestito interbancario nordatlantico a crisi del debito europeo [Tooze 2018, 315-435], lo sgonfiamento della bolla specifica del settore del porfido si combinò disastrosamente con quella generata dalle bolle immobiliari e degli asset del debito, fondate sulla logica del keynesismo privatizzato [Bellofiore, Halevi 2010].

Questa congiuntura portò ad una netta inversione rispetto al periodo di espansione immobiliare pre-crisi e le politiche di austerità e contenimento della spesa pubblica europea contribuirono a far sì che l’intero settore estrattivo trentino crollasse tra metà e un terzo di produzione, valore e impiego2 rispetto ai livelli pre-crisi. Il fallimento di molte cave a partire da quel momento, anche di quelle più grandi che avevano investito pesantemente nei processi di diversificazione dell’approvvigionamento della risorsa e della sua esternalizzazione, per la prima volta da più di mezzo secolo portò alla perdita di una fonte di reddito più o meno stabile per la popolazione (nativa o meno) che abita l’area. A partire dall’inizio dell’estrazione industriale negli anni ’20 e ’30 del ‘900, il settore ha infatti mantenuto livelli di impiego superiori al migliaio di addetti almeno dagli anni ’50. Nel 2020 se ne contano ufficialmente 488[4]. Gli effetti, soprattutto per chi non aveva la proprietà della casa o fonti di reddito alternative e in assenza di altri settori in grado di assorbire la popolazione espulsa (come poteva essere fino agli anni ’80), ha quindi spinto molte famiglie immigrate a lasciare i Comuni estrattivi.

Molti... Più che sono emigrati un’altra volta. […] Quelli che hanno emigrato... Che sono emigrati in Germania, in Svizzera perché hanno parenti là. In Svizzera tanti tanti connazionali, anche in Germania. […] Non ce la faccio con seicento euro, settecento euro se non trovo lavoro.

Secondo te quanti sono partiti dal Trentino per emigrare di nuovo?

[...] Per esempio eravamo... [...] undici. Siamo rimasti [...] cinque. (Ex-lavoratore 3, macedone, nel porfido da 20 anni – 07/01/2016, Trento)

Il fallimento delle aziende ha portato la ricchezza accumulata nelle decadi da parte dell’imprenditoria estrattiva a confluire, tanto in Italia quanto all’estero, in fondi finanziari o investimenti immobiliari. Nel frattempo la chiusura delle cave non sembra per ora aver inficiato la logica di trasmissione lignatica delle aziende e quindi delle concessioni su lotti-cava. I Comuni, infatti, non hanno rimesso all’asta le cave ormai inattive. Sembra piuttosto che si stia approntando una fase di accentramento di aziende tramite incorporazione di imprese inattive o in perdita. Ma le fusioni che si stanno sviluppando sembrano avvenire incorporando almeno nominalmente i proprietari precedenti per evitare che le concessioni dei lotti di cui sono detentori questi ultimi vadano restituite agli enti che gestiscono il bene comune per venire messe all’asta.

Tracce di analisi

Le tracce di ricerca che stanno emergendo sul campo riguardano principalmente le ragioni che hanno portato alla presente strutturazione socio-politica e politico-economica dell’area estrattiva del porfido della Provincia di Trento. La prima riguarda la possibilità che la lunga sedimentazione storica di alcune strutture di lungo corso – nella prospettiva di Eric Wolf [1982] – abbia svolto un ruolo nella particolare generazione del contesto culturale variamente condiviso dagli attuali abitanti dell’area. In particolare l’intreccio secolare tra piccola proprietà privata contadina e quella indivisa collegabile a ciò che Wolf [1986] ha chiamato la closed corporate community nel contesto di comunità alpine semi-autonome [Viazzo 1989] dotate delle proprie “Carte di Regola” (il nome che gli statuti medievali e di Età Moderna prendono nel Principato Vescovile di Trento) [Nequirito 1988]. Tale intreccio è evidenziabile nella profonda stratificazione storica nell’area considerata di istituzioni sia formali sia consuetudinarie che, pur in continua evoluzione, hanno costantemente tentato di gestire e mediare le contraddizioni tra gli elementi attorno ai quali la comunità si costituiva – ovvero i beni indivisi – e le singole famiglie proprietarie di frastagliati appezzamenti dispersi su varie altitudini delle comunità rurali di montagna.

Queste comunità si costituirono fin dall’età medievale in tutto l’arco alpino attorno alla necessità di gestione delle fragili risorse montane indivise quali alpeggi e foreste. Diverse comunità alpine e diverse epoche mostrano vari livelli di chiusura comunitaria al loro accesso nei confronti dell’esterno [Viazzo 1989]. Per la maggior parte di esse nel territorio dell’attuale Provincia di Trento è tuttavia individuabile una continuità normativa e istituzionale se non nelle forme, che si modificano soprattutto a partire dalla prima Età Contemporanea, almeno nei principi di protezione da, ed esclusione di estranei.

Dopo il cambiamento epocale dell’abolizione ufficiale degli statuti comunitari rurali montani nel 1810 [Nequirito 2010], il XIX secolo fu caratterizzato da un affastellarsi di provvedimenti volti a omogeneizzare il territorio dello stato e a purificare – termine usato nei documenti del tempo – la proprietà privata della terra, eliminando gravami sui terreni privati e lottizzando proprietà indivise. Eppure, tanto la refrattarietà delle popolazioni dell’area, quanto la necessità dell’amministrazione imperiale asburgica di garantirsi la lealtà della popolazione rurale contro le insorgenze regionali-nazionali in seno ad un impero strattonato sempre più intensamente da pulsioni centripete, fece in modo di mantenere, o meglio, di traslare in nuove forme le autonomie delle comunità montane [ibidem], e quindi le contraddizioni tra beni comuni e singole proprietà private, le quali tesero ad acuirsi precisamente con il peggioramento delle condizioni economiche della provincia. Il risultato fu un sempre maggiore depauperamento delle risorse comuni per far fronte alle esigenze di una popolazione in crisi a causa della Grande Depressione di fine ‘800, particolarmente importante nella popolazione di lingua italiana del Tirolo. Quest’ultima fu per questo interessata precocemente da forte emigrazione, tanto attivando le preesistenti reti migratorie di Età Moderna, quanto con l’emigrazione transoceanica [Albera, Corti 1998; Blanchard 2017; Lorandini 2005].

Come accennato all’inizio dell’articolo, le politiche agricole e finanziarie asburgiche si impegnarono a promuovere iniziative di miglioramento e modernizzazione agricola che diffusero fonti di accesso al mercato e alla moneta, non sconosciute anche in Età Moderna, ma che nell’’800 si espansero e configurarono esplicitamente per un mercato a nord delle Alpi [Lorandini 2005]. La Prima Guerra Mondiale precipitò l’area in una profonda crisi e politiche industriali liberali e poi fasciste causarono un ingresso in provincia di capitale che tuttavia non sembrava bastare a risollevare l’economia provinciale. Fu però in questo contesto che le aziende esterne trovarono condizioni favorevoli all’estrazione di porfido in un’area dove le comunità montane di epoca asburgica si trovarono ormai private di autonomia e in cui lo sbocco dell’emigrazione si trovò chiuso. Operai-contadini profondamente impoveriti, e con una ormai stabilita necessità di ottenere moneta da cash crop di sempre minor valore, si rivolsero verso i magri salari a cottimo nelle cave di proprietà comunitaria, ma gestite da capitale esterno, da integrare ad un’agricoltura che non rendeva più moneta.

La fine della Seconda Guerra Mondiale, la riapertura della possibilità migratoria, il ritorno della decisionalità comunitaria in chiave di suffragio universale e l’espansione estrattiva portarono ad una riattivazione delle logiche di protezione dall’esterno. La rabbia sociale contro aziende esterne considerate sfruttatrici e rapinatrici della risorsa collettiva arrivò in questo periodo a toccare anche punte violente [Ferrari 1992]. Ma la mobilitazione che emerse da tale malcontento si sviluppò più dalla continuità delle istituzioni cattoliche che dal dissenso di orientamento socialista diffuso nelle regioni rosse d’Italia [Diamanti 2003]. Ciò fu vero soprattutto nelle valli più interne, caratterizzate quasi invariabilmente da una fortissima adesione ai partiti legati alla Chiesa [Vareschi 2006].

Non fu però per una sorta di sopravvivenza culturale tradizionalista e arroccata nelle zone più distanti dagli impulsi della modernità che la popolazione delle valli mantenne una profonda adesione alle istituzioni ecclesiastiche provinciali. Pare piuttosto essere per la strutturazione del potere secolare, istituzionale e amministrativo da parte del principato vescovile prima e della corona asburgica poi che l’autorità e le istituzioni ecclesiastiche, a loro volta controllate dal potere terreno delle due entità, si fusero con l’organizzazione sociale della provincia. Il periodo repubblicano non vide una discontinuità rispetto a questo principio, che si ripropose con sorprendente somiglianza anche se in una nuova forma. Infatti, «la DC ha potuto assolvere il suo ruolo di partito egemone nella provincia (…) in quanto era divenuta la rappresentante di una vasta rete di legami e relazioni territoriali. Legami e relazioni che, a sua volta, essa aveva contribuito a istituzionalizzare attraverso il suo controllo del governo autonomistico. (…) La DC è divenuta (…) rappresentante di interessi comunitari più che ideologici», «lo strumento attraverso il quale i territori hanno potuto realizzare e perseguire il loro autogoverno» [Brunazzo, Fabbrini 2005, 277].

Una ipotesi è che dal retroterra di corporativismo, unito all’abitudine alla piccola proprietà familiare e alla proprietà indivisa, si sia reso più facile il processo di costruzione – all’interno del nuovo capitalismo corporativo dell’Italia democristiana – di una borghesia estrattiva autoctona. Secondo alcuni lavoratori o ex-lavoratori locali che hanno partecipato alle lotte degli anni ’90 del ‘900, l’abitudine ad intendere l’imprenditoria estrattiva negli anni ’70, come dei nosi (dei nostri, dei nativi, parte della comunità), ha portato molti a chiudere troppo facilmente la questione del possesso della risorsa estratta. E l’opposizione al proprio ambiente di appartenenza ha causato in diversi dei lavoratori militanti che ho incontrato sul campo un profondo disagio provocato dall’isolamento da altri abitanti nativi che sembrano approvare lo strato imprenditoriale autoctono. Un ceto che però non ha investito quasi nulla sul territorio, come mi fanno sapere quasi invariabilmente i miei interlocutori.

Il collegamento dei rapporti di proprietà capitalistici e di mercato, purificati dalle ambiguità e promiscuità della pur preesistente proprietà allodiale di Età Moderna, faticosamente costruiti attraverso le politiche dell’Impero Asburgico, a quelli di ancien régime della comunità corporata chiusa, sembrano aver favorito l’emergere di un approccio ad un’etica del duro lavoro [cfr. Stacul 2001] che appare ripagare in modo diretto l’individuo monadico implicitamente posto nella rappresentazione liberale della relazione di lavoro. E tuttavia è un individuo che rimane inserito in una comunità corporata che, nonostante i numerosi tentativi ancora dell’autorità imperiale, non scompare mai del tutto, ripresentandosi anzi continuamente in una sequela di istituzioni formali e informali lungo i due secoli dalla data della sua abolizione ex lege nel 1810. L’ampia adesione delle popolazioni dell’attuale Provincia di Trento al cattolicesimo politico della seconda metà del ‘900 rende poi comprensibile la diffusione dell’ideologia piccolo-imprenditoriale fortemente voluta e sospinta dalla DC nazionale.

Nell’attuale congiuntura di crisi e del collasso della maggiore attività economica dell’area, la memoria di un passato idealizzato in cui era possibile pensare a un futuro di progresso fuori dalla miseria, viene raccontato dai miei interlocutori attraverso i ricordi di un lavoro sfiancante e logorante nel corpo quanto nella mente. La fatica, che spesso mi è stata descritta attraverso i segni incorporati di infortuni e patologie legate al lavoro di cava esibitimi dai lavoratori, viene però sempre accompagnata dal contraltare della ricompensa di paghe alte. In queste narrazioni la fatica e il danno fisico, come il benessere e l’abbondanza, sono a loro volta collegati dai lavoratori locali ad una risorsa che viene descritta come «nostra», nel senso di appartenente alla comunità. Tale risorsa è la materia-porfido che è stata strappata dalla montagna per costruire per mezzo degli alti salari una alternativa a case ricordate come strette, affollate e fatiscenti, e per sfuggire alle costrizioni dell’abitare in paesi senza le opportunità, i servizi e gli svaghi della città. Il senso di possesso di un pezzo di montagna da usare come strumento per scappare dalla povertà e dalla strettezza di un mondo rurale montano che aleggia ancora pesantemente nelle storie di famiglia dei locali (pur senza muoversi, al contrario dei molti che sono emigrati), vale sia per coloro che hanno ottenuto il possesso di fatto delle cave, quanto per chi lavorava da dipendente. Ciò avvenne anche grazie al massiccio uso del lavoro a cottimo, che ha infatti permesso di mascherare il rapporto sociale che incorre tra proprietario e salariato, facendo apparire più sottile la distanza tra imprenditore con licenza e lavoratore dipendente e gli interessi delle due parti come identici.

Conclusione

La strutturazione di modelli globali di produzione e accumulazione sembrano da ormai quattro decenni caratterizzati dalla tendenza a sovraccapacità mondiale che spinge al disinvestimento nella manifattura e quindi alla deindustrializzazione dei paesi a capitalismo avanzato [Brenner 2006; Benanav 2020]. È in questo contesto che, come in buona parte del resto del Nord del mondo, stagnazione salariale e chiusura delle opportunità di mobilità sociale dei trente glorieuses rendono sempre più difficile, se non impossibile, la realizzazione di progetti di vita dalla mobilità ascendente. Fulvia d'Aloisio e Simone Ghezzi [2020] hanno proposto proficuamente di adottare il concetto di riscatto di Ernesto de Martino. A partire dal mio contesto di ricerca, e da una lettura antropologica gramsciana dei tentativi di riscatto popolari derivanti da concezioni del mondo «implicite» [Crehan 2002, 115-127 ] che Hobsbawm [1966] aveva chiamato «primitivi» (nel senso di precursori e non di selvaggi), mi chiedo se la crisi di presenza che questa impossibilità genera non sia portata a guardare più a mitologie incorporate e naturalizzate che spesso sostanziano il senso di identità locale, che non a forme di redenzione che cerchino di superare la subordinazione a processi politico-economici su cui non possono esercitare capacità di azione. Nel contesto di una provincia bianca [Diamanti 2003] come quella del Trentino, in cui le forme comunitarie pre-capitaliste sono state e sono rimaste profondamente legate alla capillare presenza della Chiesa, questo pare effettivamente possibile.

L’attuale fase di concentrazione delle aziende estrattive sembra mostrare come le imprese che ne emergono siano orientate ad una maggiore meccanizzazione rispetto a prima. Secondo un dirigente di un ente per lo sviluppo del settore, i prodotti richiesti dal mercato italiano ultimamente sembrano concentrarsi più verso il prodotto considerato di scarto, ma che richiede macchinari per la macinazione come massicciato per ferrovie, ghiaia e ghiaino; mentre quello internazionale continua a chiedere materiale di pregio. I piani di investimento dell’Unione Europea come il NextGenerationEU, e le iniziative del Green Deal Europeo sembrano aprire la possibilità di un cambio di rotta nelle prospettive di spesa nel settore immobiliare e infrastrutturale rispetto alla lunga fase di austerità precedente. E alcuni nel settore guardano ai prossimi sviluppi con attenzione. Ma le incertezze del mercato internazionale e la stagnazione economica italiana, unita alle continue politiche di compressione della spesa pubblica, suggeriscono all’imprenditoria estrattiva di evitare per ora investimenti tecnologici e di formazione dei lavoratori. I lavoratori del porfido, a loro volta, indirizzano ormai da due generazioni i loro figli verso altri settori, meno pericolosi e faticosi e meno legati ad una monocoltura che non lascia molte possibilità di cambiare mestiere in futuro.

Non è quindi ancora chiaro cosa riserverà il futuro nell’area. Considerando l’attuale livello di degrado del mercato del lavoro e della precarietà lavorativa ed esistenziale soprattutto giovanile, pare sensato che una possibile nuova spinta per assunzioni possa venire inserita di nuovo esternamente alle aziende centrali tramite lavoro precario e una nuova fase di attrazione di lavoro dall’esterno. Il futuro del lavoro nei Comuni montani del porfido rimane fumoso e le prospettive di vita della decade della crisi rimangono per adesso ancora interrotte e in attesa.

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[1] Si sono usati i censimenti del 1931 per i Comuni di Albiano, Cembra, Fornace, Lona-Lases e Piné.

[2] Istituto di Statistica della Provincia di Trento (ISPAT). Serie storiche – Cap XII, TAV. XII.05 - Produzione delle cave: quantità prodotta e valore unitario, per materiale (1976-2020).

[3] Elaborazione sulla base di dati ISTAT sulla popolazione di origine straniera nelle aree considerate.

[4] Istituto di Statistica della Provincia di Trento (ISPAT). Serie storiche – Cap XII, TAV. XII.03 - Produzione delle cave di porfido (1976-2020).