Il difficile ritorno all’agricoltura

Analisi etnografica di una scelta imprenditoriale

Michele Filippo Fontefrancesco

Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo

Indice

Introduzione
Dell’abbandono e del ritorno
La ricerca ed il caso studio
Esperienze di ritorno
Il senso del ritorno
Conclusioni
Bibliografia

Abstract.  The article focuses on the new small-scale agricultural entrepreneurship in Italy. Based on case-study research conducted in southern Piedmont, the article explores the socio-cultural and economic factors determining the return to agriculture in a context of abandonment of the rural areas. Specifically, it highlights the role of family support, individual’s work experience, and landownership in undertaking this enterprise. However, the research suggests the “return to agriculture” is limited by the difficult access to land, the high costs of start-up, and a low level of technical knowledge. All these aspects suggest reading the new rural entrepreneurship as a professional experience deeply embedded within the logics of the market economy, rather than an alternative to it.

Keywords. Entrepreneurship; Agriculture; Italy; Neo-Ruralism.

Introduzione

Il mondo agricolo italiano è stato oggetto ricorrente delle scienze antropologiche che ne hanno indagato la storia profonda e, soprattutto, le vicende umane che hanno segnato quella che è apparsa una sostanziale transizione sociale e culturale occorsa nel corso del Novecento: quella crisi, analizzata da Ernesto de Martino [de Martino 2003 (1948)] nell’immediato dopoguerra, che ha portato al dissiparsi di quell’universo culturale esplorato dai demografi del primo Novecento nel nord e sud del Paese [e.g. Grimaldi 1997; Puccini 2005] per l’abbandono delle pratiche e dei saperi suoi più distintivi all’alba dell’emergente società del benessere sorta dalla ricostruzione post-bellica [Baglioni, Manghi 1966]. Gli studi etnografici hanno approfondito i tratti caratteristici della società contadina definendone le fragilità a fronte del nuovo paradigma economico e produttivo [e.g. Buttitta 2006; Camporesi 1981; Cento Bull, Corner, 1993; Cirese, 2014; Ghezzi, 2007; Lombardi Satriani 1992]. Hanno raccontato l’esodo delle campagne e le difficili dinamiche vissute da chi è restato a vivere e presidiare i territori rurali [Grimaldi 1996; Teti 2011]. Laddove il senso di marginalità della realtà rurale non si è lenito [Fontefrancesco 2015], l’antropologia ha guardato alle risposte messe in campo dalle comunità per rispondere a questa periferizzazione, approfondendone i fenomeni di patrimonializzazione culturale e colturale [Bonato 2016; Fassino 2015; Fassio 2009; e.g. Moro 2014; Porporato 2018; Teti 2015]. Il dibattito ha delineato una difficile relazione tra comunità rurali e centri urbani che spinge i paesi alla ricerca di una nuova centralità socioculturale in cui il turismo appare una delle traiettorie predilette per generare attrattività e prestigio all’interno dello spazio-nazione. Il dibattito sul “Ritorno all’Agricoltura” (da qui in avanti RA) indica un altro piano di negoziazione legato all’impegno lavorativo ed imprenditoriale.

Il fenomeno di RA su cui si concentra l’articolo si esprime nell’insediamento agricolo di ventenni e trentenni e nel processo culturale attraverso cui questi vengono ad identificarsi con il profilo professionale dell’agricoltore (inteso nella sua accezione più ampia di imprenditore del settore primario), definendo il profilo di una forma di ruralismo altra rispetto a quella dominante fino al Boom Economico. Come nota Joan Nogué [2012, 30-35], tale fenomeno, definito neo-ruralismo, ha iniziato a svilupparsi negli anni Sesssanta e Settanta del Novecento, nel pieno del momento dell'abbandono delle campagne europee, come forma, spesso isolata, di reazione al nuovo modello socio-economico della terza rivoluzione industriale. Sin da queste prime esperienze, il RA si lega ad una ricerca di un’utopia fuori dalla dimensione urbana [Léger, Bertrand 1978]; una dimensione etica ed ideale che è indicata anche nelle pratiche del presente [Sallustio 2018]. Questa ricerca si sviluppa con dinamiche molto diversificate, che affiancano tanto pratiche in continuità con il modello socio-culturale dominante di stampo capitalistico-borghese [Le Wita 1994; Poirier 1996], quanto sperimentazione di nuove forme comunitarie ed economiche in aperta rottura con queste [Jones 2007]: una molteplicità di approcci che è rispecchiato dal moltiplicarsi di categorie (e.g. back-to-the landers, neo-peasants, new agrarians) usate nel dibattito accademico per identificare singoli profili di protagonisti del neo-ruralismo contemporaneo. Laddove, nel corso degli anni Novanta, Micheal Kearney [1996] interrogava in chiave etnografiche le basi culturali del neo-ruralismo e specificatamente della sottendente idea di agricoltore, evidenziandone la matrice romantica, nel corso dell’ultimo ventennio, come nel caso di Jan Douwe Van Der Ploeg [2010; 2018], si è indagato l’aspetto politico-economico di queste iniziative, identificando in esse forme di dissenso [Koensler et al. 2020] e alternativa socio-culturale [MacClancy 2015] capaci tanto di esprimere una valorialità propria diversa da quella del modello consumistico [Barton 2017], quanto forme nuove di innovazione d’impresa [Luise 2020]. In questo quadro, che si riverbera anche negli interventi mediatici di intellettuali pubblici di rilevanza internazionale [Ceriani, Canale 2013; Giono 2016; Latouche 2010; e.g. Pérez-Vitoria 2015; Petrini 2009; e.g. Petrini 2013; Pollan 2006; Shiva 2012], il RA si è, quindi, definito come un’alternativa socioeconomica universalmente aperta, dando poco risalto ai fattori materiali e culturali necessari che possono definire l’effettiva viabilità della stessa.

Alla luce di ciò, seguendo un filone di riflessione proprio dell’antropologia dell’impresa volto a comprendere i sostrati materiali ed immateriali posti alla base dello sviluppo aziendale [D'Aloisio, Ghezzi 2020; Mollona et al. 2021 ; Papa 1999; Yanagisako 2002], questo articolo vuole approfondire la realtà materiale e le traiettorie di vita che si legano al RA al fine di comprendere meglio questo fenomeno e come si colloca nel contesto italiano. In tal senso, questo contributo approfondisce tali dinamiche attraverso la metodologia del caso studio, così come illustrata da Robert Yin [2018]. Nello specifico, l’areale d’indagine coincide con il territorio rurale della Provincia di Alessandria in cui è stata condotta una campagna di interviste con imprenditori agricoli under-40 che hanno iniziato la loro attività nell’ultimo decennio.

La ricerca, le cui modalità di indagine sono state approvate dal Comitato Etico dell’Università di Scienze Gastronomiche (ex Verbale del Comitato 5/19, art. 1 let. D), si colloca all’interno dell’ambito di ideazione e sviluppo del progetto Erasmus+ EUNE-CPTRA: The European Network for the Promotion of Culinary and Proximity Tourism in Rural Areas, informando con i suoi esiti l’analisi dei fabbisogni culturali di questi attori rurali, coinvolti anche nello sviluppo di modelli rurali di turismo.

L’articolo apre introducendo il quadro del RA in Italia, quindi, presentando la ricerca e i suoi risultati per poi analizzare quali siano i fattori che permettono l’effettivo nuovo insediamento rurale al fine di meglio comprendere il fenomeno in atto.

Dell’abbandono e del ritorno

Nell’arco degli ultimi anni, a livello mediatico, vi è stato un intensificarsi dell’interesse verso il cosiddetto fenomeno del RA: persone, venti e trentenni, che al termine del proprio percorso di studio secondario o terziario, e potenzialmente dopo una prima esperienza lavorativa in un diverso settore, decidono di cercare lavoro nell’ambito della coltivazione, dell’allevamento e della trasformazione artigianale delle materie prime prodotte. Sebbene per dare comprova di questo ritorno si indica il mantenimento complessivo del tasso di occupazione nell’arco dell’ultimo decennio [ISTAT 2019a], ovvero l’incremento delle iscrizioni ad agraria [Mazzei 2014], il RA si esprime in primo luogo nel numero di aziende agricole guidate da under-35 [Coldiretti Impresa Giovane 2020]: nuove imprese esito, spesso, di un passaggio intergenerazionale, da nonno a nipote, che trovano forte risalto nella comunicazione delle associazioni di categoria agricole [e.g. https://giovanimpresa.coldiretti.it/storie/].

Se il concetto di ritorno implica quello di distacco, il distacco dal mondo agricolo a cui il RA si riferisce non è un fatto biografico dei nuovi contadini, ma un fenomeno sociale avvenuto nei decenni subito successivi al secondo dopoguerra. Come illustrato da Gianluigi Bravo [2001, 115-126], è in questo periodo che si manifesta una profonda discontinuità del tessuto socio-economico nazionale, segnato dalla accresciuta centralità urbana e dei settori manifatturiero e dei servizi a discapito del comparto agricolo e delle realtà rurali più in generale. È in tal frangente che la marginalizzazione agricola tocca il suo apice facendo di quel settore occupante oltre il 70% popolazione attiva nel 1871, la realtà occupante poco più del 5% della popolazione attiva del presente [ISTAT 2019b]. È da notare come al tracollo dell’occupazione si contrappose una progressiva crescita della produttività relativa ed assoluta del comparto agricolo [Farolfi, Fornasari, 2011], segno del passaggio da un’agricoltura ad alta intensità di lavoro ad una ad alta intensità di capitale. Gli anni del Boom Economico, infatti, sono il periodo di forte meccanizzazione del settore e introduzione di nuove tecniche e tecnologie agricole così come di nuove varietà e coltivazioni, nonché del progressivo allargamento del numero medio di ettari coltivati da ogni singola impresa [Federico 2009]. È, quindi, il momento del tramonto dell’azienda contadina vocata all’autosufficienza a favore di una nuova imprenditoria agricola indirizzata al mercato nell’ambito delle politiche pubbliche nazionali ed europee di indirizzo e sostegno del settore [Farolfi, Fornasari 2011; Guaschino, Martinotti 1984; Sereni 2005]. Questa trasformazione avviene in un contesto segnato dall’emigrazione dalle campagne. Questo fenomeno vide un primo momento tra il finire dell’Ottocento e primi trent’anni del Novecento, in cui circa 15 milioni di italiani abbandonarono le campagne rivolgendosi prevalentemente all’estero [Audenino, Tirabassi, 2008]. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta del Novecento si consumò, quindi, una seconda ondata migratoria, per lo più interna al Paese, che vide un ulteriore spopolamento rurale [Teti 2011]. Questa nuova ondata migratoria coincise con l’espansione di quel comparto industriale in cui la maggior parte dei migranti rurali trovarono impegno, prima nel mondo della grande impresa di Genova, Milano e Torino, quindi nella Terza Italia dei distretti industriali [Bravo, 2001]. In un contesto di rapida trasformazione del mercato agroalimentare [Fanfani 2004], si può leggere l’esodo come risposta a quelle che James Ferguson [1999] definisce aspettative di modernità che faceva apparire agli occhi del mondo rurale il trasferimento in città quale via sicura per il raggiungimento di condizioni di vita migliori e migliori opportunità di crescita individuale e familiare. Queste aspettative erano supportate dai maggiori salari garantiti dall’impiego nell’imprese a fronte delle condizioni di vita complesse che ancora caratterizzavano il mondo rurale nel secondo dopoguerra [Bravo 2013], specialmente nel meridione [Teti 2004, 2011, 2015]. Da qui, è vista una delle importanti ragioni del generarsi dell’abbandono del mondo rurale che continua fino al presente [Cagliero, Novelli 2012].

Se dal finire degli anni Ottanta non è inconsueto che famiglie ultra-trentacinquenni con redditi medio-alti residenti ed attive nei centri urbani decidano di spostare la loro abitazione dal contesto cittadino a quello rurale [Poirier 1996], d’altra parte i dati demografici nazionali degli ultimi anni ci confermano l’inarrestato abbandono delle aree rurali [D'Alessandro et al. 2020]: al 1 gennaio 2021, circa il 30% della popolazione italiana viveva nell’1% dei comuni italiani, ovvero nelle grandi città capoluogo di regione o provincia; d’altra parte il 20% della popolazione italiana abitava in quell’area rurale che copre circa il restante 70% del territorio nazionale. La forte urbanizzazione dell’ultimo quarantennio ha comportato anche una disomogeneità e disequilibrio di opportunità e possibilità economiche e di servizi facendo il territorio rurale sempre più fragile, anziano ed impoverito [Fontefrancesco 2015]. In questo contesto è stato spesso considerato scontato per un giovane, al termine del proprio percorso scolastico, abbandonare la realtà rurale alla ricerca di un impiego in città a fronte del progressivo calo della domanda di mano d’opera non stagionale in agricoltura ed il mancato sviluppo manifatturiero e dei servizi nei territori rurali.

Se il terzo millennio marca, per l’Italia, l’affermarsi del turismo enogastronomico e una crescente attenzione del pubblico nazionale ed internazionale per le aree rurali del Paese intese come luogo di autenticità esperienziale [Forné 2015; Garibaldi 2018; Guigoni 2019], questa tendenza ha permesso la progressiva apertura di attività ricettive e ristorative che hanno offerto nuove opportunità occupazionali per i territori rurali. In questo contesto, però, l’agricoltura vive ancora una fase complessa e segnata da una sostanziale stagnazione dei dati occupazionali [da oltre un quinquennio attestati a circa 1.200.000 unità: Marras et al., 2020, 62] e dalla contrazione della redditività aziendale [Marras et al. 2020, 69; Salvioni, Aguglia 2014]. È alla luce di questo quadro che ci si interroga su come poter interpretare il corrente RA.

La ricerca ed il caso studio

Questo contributo si concentra sul territorio della Provincia di Alessandria. L’areale selezionato quale caso-studio presenta un territorio agricolo diversificato tra aree caratterizzare da un’agricoltura cerealicola e orticola fortemente intensiva (le pianure delle valli del Po e del Tanaro), aree di piccola agricoltura, prevalentemente vocata alla viticultura e più recentemente alla coricoltura (la fascia collinare monferrina), quindi, aree in recessione agricola (la fascia appenninica) (vd. Mappa 1).

Mappa 1. Caratterizzazione agricola del territorio piemontese (anno 2020). Fonte: Regione Piemonte

Al momento non sono ancora disponibili i dati del 7° Censimento dell’Agricoltura promosso dall’ISTAT nel 2021, ma è possibile tratteggiare una prima caratterizzazione del settore attraverso i dati del 6° Censimento dell’Agricoltura [ISTAT 2013]. Nel 2010 l’indagine riportava nell’alessandrino 10.723 aziende occupanti 23454 con un tasso di lavoro dipendente pari al 21.92%. Il numero di aziende appariva praticamente dimezzato nell’arco del primo decennio del Terzo millennio (-47.4%) a fronte di un sostanziale mantenimento del territorio coltivato (-5.1%), segno di una progressiva espansione del territorio agricolo coltivato per azienda. Questo dato, però, deve leggersi a fronte di un calo della marginalità prodotte dalle colture a cui più è vocato il territorio ovvero la produzione di cereali o mais (37.45% della superficie agricola totale) e l’uva (9.14%). Questi dati raccontano di un settore in trasformazione e posto di fronte a delle difficoltà sistemiche che ne inficiano il potenziale sviluppo: un dato che erge anche dal tasso di chiusure di attività, progredite nel decennio successivo con un tasso annuo del 2.58% [Adamo, 2020, 12], il peggiore del Piemonte.

In questa realtà, si contestualizza il RA e la presenza di under-40, vedendo la loro presenza prevalentemente come titolari di aziende. In provincia di Alessandria sono circa 800 le aziende condotte al presente da under-40, circa il 12% delle aziende ‘giovani’ piemontesi [Aimone, Torchio, 2018, 18]. Questi giovani condividono un profilo demografico comune all’intera regione: sono prevalentemente uomini (80%), con un titolo di studio secondario (90%), per lo più non con una formazione di tipo agrario (72%).

La ricerca ha investigato questo settore attraverso una campagna di interviste condotte tra il 2019 e il 2021. Sono stati incontrati 20 nuovi imprenditori agricoli, di età media di 30 anni, selezionati attraverso un processo “a palla di neve” [Goodman 1961] cercando di mantenere il bilanciamento di genere sulla base della media demografica territoriale (80-20). Le interviste si sono svolte attraverso la conduzione di un’intervista semi-strutturata sviluppata secondo la metodologia della storia di vita [Bertaux, Kohli 1984], volta ad indagare la storia, la struttura aziendale, le motivazioni alla base della scelta imprenditoriale, il ruolo della famiglia nel processo di scelta e nella conduzione aziendale, le sfide riscontrate, le prospettive aziendali. Le interviste sono state analizzate al fine individuare i fattori determinanti la scelta del RA.

In questa sede, il profilo dei protagonisti del ritorno, sono esemplificati attraverso tre esempi, qui raccontati attraverso le autobiografie narrate dagli stessi durante la ricerca. Questi frammenti etnografici [Gottschalk 1995], introducono l’analisi più puntuale dei fattori che permettono il RA. I nomi degli informatori, i loro dati sensibili, così come il nome dei luoghi sono stati anonimizzati, laddove non espressamente richiesto dagli intervistati oppure si faccia riferimento a risorse a stampa.

Esperienze di ritorno

Maria ha da poco passato i suoi trent’anni. Con il marito, Marco, di lei più vecchio di pochi anni, da circa cinque anni si sono trasferiti a San Rocco, un piccolo paese nell’Appennino sul confine tra Piemonte e Liguria: un territorio storicamente vocato alla cerealicoltura e alla viticultura, ma che nell’arco dell’ultimo trentennio ha visto un rapido abbandono. Laddove la viticultura si è progressivamente ritratta a pochi campi, ha preso piede la coricoltura e, anche grazie al successo di realtà come quelle di Roccaverano, l’allevamento caprino e ovino finalizzato alla caseificazione. Complessivamente, l’età dei coltivatori di San Rocco è elevata (oltre i 60 anni) e l’esperienza di Maria è indicata come una curiosa eccezione dagli abitanti del luogo.

Fu una scelta non banale, ma che veniva dal profondo. Rispondeva ad un’esigenza che sentivamo Marco ed io. Io sono nata in città come Marco. I suoi nonni venivano da San Rocco. Erano morti da un po’ di anni. La città ci stava diventando pesante. Il lavoro soprattutto. Marco faceva l’operaio; io lavoravo con un part-time in un negozio. Ritmi forsennati e non vedevamo come poter andar avanti. Sognavamo di cambiare. Marco ne ha parlato coi suoi e loro gli hanno detto che se avesse voluto tentare ci sarebbe stato la cascina dei nonni: abbiamo poca terra, qualche ettaro che era diventato quasi un bosco. Abbiamo messo un po’ di soldi da parte e siamo venuti a vivere qui. Nessuno di noi aveva mai fatto il contadino. Ci siamo detti: ce la possiamo fare. Ci siamo inventati da zero, ma in qualche modo ce l’abbiamo fatta. La terra era troppo poca per farci un reddito. Abbiamo pensato alle capre ed al formaggio. Non pensavamo che fare una stalla fosse così difficile… quanta burocrazia. In ogni modo… Abbiamo fatto la stalla e comprato le capre. Non costano molto… con qualche migliaio di euro abbiamo riempito la stalla e poi le capre “mangiano di tutto” … beh più o meno… abbiamo poi scoperto. In ogni modo, nell’arco di un annetto in cui io continuavo a lavorare in città, Marco ha messo a posto la cascina ed ha seguito i lavori in stalla. Poi si è iniziato. Ho avuto il mio primo figlio quando abbiamo iniziato a lavorare qui. Non ci sono molti abitanti in paese, ma ci hanno dato una grossa mano. Chi ci ha aiutato a rimettere a posto i campi e ci ha insegnato come fare, chi ci ha dato una mano con la casa o dato della legna per l’inverno. Magnifici! Abbiamo messo su casa. Un po’ della terra l’abbiamo tenuta a prato. Un altro pezzo abbiamo iniziato a far l’orto un po’ per noi, un po’ per vendere. Poi finalmente abbiamo iniziato ad andare in produzione con la stalla. Ho imparato a fare il formaggio. Ho imparato guardando video e seguendo un po’ di corsi offerti qui e lì. Marco, nel frattempo, ha imparato a gestire la stalla. I nostri formaggi ora piacciono molto. Li vendiamo con gli altri prodotti ai mercatini che fanno le proloco o Coldiretti. Ci sono anche negozi qui nel circondario che li vendono. Abbiamo nel frattempo comprato un po’ d’altra terra. Per le capre poi abbiamo preso in affitto dei terreni per farle pascolare. Abbiamo iniziato così. Incentivi siamo riusciti a prenderne qualcuno che ci ha aiutato a fare il laboratorio e completare la stalla. Non è che abbiamo tutti questi soldi, ma noi e i bambini siamo felici della scelta. La rifarei. Certo che se non ci fosse stata la casa di Marco non credo ce l’avremmo fatta. No… Non basta solo il lavoro e la buona volontà… ma in ogni modo siamo qua e vedi in che posto viviamo – indicando le montagne e la campagna attorno a casa -. Mica un palazzone di periferia!?! (intervista svolta il 27 Luglio 2021)

Poco più giovane di Maria, Enrico è un altro giovane agricoltore. Ha quasi trent’anni e nel 2015 è subentrato al nonno alla conduzione dell’azienda di famiglia in San Giovanni, un comune del territorio UNESCO del Monferrato: un territorio collinare vocato alla viticultura, a partire dagli anni 2000 sempre più al centro dello sviluppo corilicolo della Provincia. L’azienda di Enrico è indicata tra quelle mediamente grandi da parte dei suoi concittadini: una dozzina di ettari di coltivo, quattro dei quali a vigna e quattro a nocciole che Enrico vorrebbe nell’arco degli anni ampliare.

Ho maturato la scelta di continuare nel mondo agricolo molto presto. Sono cresciuto con mio nonno. Mi portava sempre con lui a portare avanti i lavori nei campi. A dodici anni mi ricordo che mi faceva guidare il trattore. I miei lavorano in città. Non era per me stare in ufficio. La mia passione è stare nei campi, vedere crescere le piante, raccogliere il raccolto. Ho studiato agraria e dopo il diploma ho iniziato a lavorare con il nonno. Lui aveva ormai più di ottant’anni ed è stato contento di vedere continuare il lavoro (Enrico, intervista svolta il 10 gennaio 2021).

Enrico ha portato avanti la trasformazione dell’azienda iniziata dal nonno.

Già mio nonno aveva iniziato a diversificare. Prima faceva grano ed uva. Abbiamo iniziato con la nocciola ed altre piante da frutto. Vendiamo per lo più al dettaglio. Non vinifichiamo. Abbiamo deciso di vendere l’uva come uva da taglio. Vendiamo cassette. C’è gente fin da Milano che ce le ordina. Ci guadagniamo molto di più così che venderla in cantina sociale o a far del vino… non ne parliamo. Meglio venderla ad 1 euro al chilo subito che aspettare un anno per guadagnarne 70 centesimi. Poi faccio un po’ di lavori da terzista e un po’ per il comune. Alla fine, riusciamo a viverci bene. Il mio subentra in azienda ha permesso l’accesso a qualche fondo in più che ha permesso qualche acquisto in termine di mezzi. Certo che se avessi dovuto iniziare da zero sarebbe stato difficile. Con che soldi avrei comprato terra e mezzi? In ogni modo, l’azienda c’era e gli abbiamo dato un futuro.(Intervista svolta: 10 gennaio 2021)

Giuseppe ha trentacinque anni ed una laurea in scienze naturali. Nel suo caso, l’insediamento agricolo è avvenuto nella vasta pianura cerealicola del Bormida e dello Scrivia, acquistando un’azienda storicamente specializzata nella produzione di frumento.

Facevo il tecnico per un’azienda della zona. Contratti a tempo. Nei fine settimana davo una mano a casa. Questa era l’azienda di famiglia. Mi piaceva, abbastanza. Pensavo però fosse un altro il mio futuro. Poi un po’ di crisi e non mi hanno rinnovato il contratto. Ho cercato altri lavori ma erano un po’ qui un po’ lì e per fare l’operaio in fabbrica… beh… ho iniziato a dare una mano nel quotidiano alla famiglia con l’azienda. È un’azienda piccola ma ce la caviamo.

L’azienda di Giuseppe lavora circa trenta ettari nella piana, quasi completamente a cereale.

Il profitto è basso e oggi pensare di fare investimenti è impensabile. Qui acqua ce ne è poca per cui dobbiamo adattarci. Sono colture povere quelle che possiamo fare. Non ho avuto grande fortuna con i fondi per l’azienda, ma fortunatamente i miei hanno tutti una pensione e comunque uno stipendio buono lo tiriamo fuori. All’inizio pensavo che questo fosse una sorta di piano B, ma alla fine mi piace. Non sono un agronomo, ma un po’ ci capisco e stiamo lavorando bene. Spero di poter far crescere l’azienda anche se sicuramente devo inventarmi qualcosa di diverso dal vecchio business. Qui col grano e basta si muore… qualcosa faremo, no? (Intervista svolta: 10 novembre 2020)

Il senso del ritorno

Queste testimonianze danno il senso dell’atmosfera, dell’emergente geografia di relazioni [Vannini 2020, 270], che caratterizza il fenomeno del RA obbligando a ripensarne il senso.

Non si può, infatti, propriamente parlare di un “ritorno”. “Ritorno” è una parola semanticamente forte, come già evidenziato da Michele Corti [2007]. Come originariamente mostrato da Vladimir Propp [1968, 55-56] e più recentemente evidenziato da Christopher Vogler [2007, 187-196], il “ritorno” è uno degli elementi fondamentali nello storytelling mitologico: si pone verso la fine del racconto, successivamente al superamento delle prove che l’eroe ha dovuto affrontare per giungere alla sua maturazione e riferisce al tragitto percorso dal protagonista per ricongiungersi con la propria comunità di destino avendo espresso pienamente il proprio potenziale, essendosi disvelato al mondo quale eroe, quindi, preparandosi ad assurgere ad una nuova funzione di guida della società. Indicare nei fenomeni imprenditoriali del presente un “ritorno” suggerirebbe una chiusura di un ideale cerchio iniziato nel dopoguerra con l’abbandono dalle campagne da parte della generazione silente e di quella del boom economico, e richiuso due o tre generazioni più tardi da Maria, Marco, Enrico, Giuseppe e dagli altri nuovi agricoltori: un “giro lungo” [Remotti 2014] di cui protagonista è la società italiana che dopo aver voltato le spalle all’agricoltura oggi si starebbe ad essa riavvicinando. Questa interpretazione, che riverbererebbe una certa retorica celebrativa dell’agricoltura di piccola scala oggi spesso marcante il dibattito pubblico [e.g. Ceriani, Canale 2013; Giono 2016; Pérez-Vitoria 2015; Petrini 2009], stride con le storie di vita raccolte sul campo.

Nelle storie degli intervistati non si legge una chiusura di un cerchio, bensì una continuità con la svolta del dopoguerra. La ricerca evidenzia come la scelta imprenditoriale di nuovo insediamento sia spesso fatta in reazione alle esperienze lavorative maturate in settori diversi da quello agricolo ovvero di fronte ad una protratta disoccupazione; per usare le parole di Giuseppe, è “piano b” messo in campo laddove l’orizzonte professionale originalmente immaginato non appare più perseguibile o soddisfacente. Seppure nelle storie di vita non manchi il senso della ricerca di un’alternativa alla città e ai ritmi e modi lavorativi del presente, diventare agricoltori, quindi, si contestualizza nell’hic et nunc dell’economia di mercato e dalla sua costante precarietà. Spiega, infatti, Ann Tsing [2015, 2] come nel presente:

[…]seems that all our lives are precarious— even when, for the moment, our pockets are lined. In contrast to the mid-twentieth century, when poets and philosophers of the global north felt caged by too much stability, now many of us, north and south, confront the condition of trouble without end [Tsing 2015, 2]

La scelta imprenditoriale è risposta o conseguenza della precarietà del mercato di lavoro e, quindi, può essere vista come il tentativo di percorrere una via di fuga da quel fenomeno di precarizzazione che è sempre più un «general existential state, understood at once as a source of ‘political subjection, of economic exploitation and of opportunities to be grasped’ [Lazzaro 2004, 1]» [Neilson, Rossiter 2008, 52]. Dunque, soprattutto per chi non è cresciuto con una particolare passione per il comparto agricolo, diventare contadino è una forma di compensazione messa in atto di fronte alle incertezze create dal contesto del mercato del lavoro, ovvero dell’impossibilità di raggiungere una stabilità economica e professionale in un contesto urbano, manifatturiero o terziario. Questa secondarietà emerge non solo dalle storie di vita ma dal riscontro della limitata conoscenza del settore all’inizio dell’attività, così come la mancanza di studi specifici in campo agrario: conoscenze, quindi, costruite dopo l’avvio dell’attività attraverso corsi di formazione, training, workshop, e attraverso l’esperienza diretta e una formazione informale basata sul confronto con vicini e colleghi.

Ritornare alla terra, quindi, non sovverte la piramide del valore che scandisce l’orizzonte culturale egemonico, ma è scelta strumentale per il raggiungimento di un successo, una sicurezza altrimenti preclusa. Nel motivare a questa scelta, per la maggior parte degli intervistati appare determinante la possibilità di poter fruire, già precedentemente alla scelta imprenditoriale, di un primo patrimonio agricolo composto da campi, macchinari e strutture di proprietà familiare, ovvero di ingenti capitali. Per quanto possano essere limitati come nel caso di Maria e Marco, questi primi asset sono la base su cui si sviluppa una solida opzione agricola. In assenza di questi, le nuove imprese devono scontare una lunga fase di avvio in cui i conduttori si vedono costretti a portar avanti anche una seconda attività lavorativa al fine di garantire una piena sussistenza. Altri fattori importanti sono il supporto familiare soprattutto nella fase di start-up aziendale, espresso in un aiuto tanto finanziario quanto lavorativo, quindi l’accesso ad incentivi economici per il subentro o il nuovo insediamento agricolo. Questi fondi sono centrali nell’ammodernamento ed espansione aziendale includendo nuove strutture produttive atte a sviluppare nuovi rami d’azienda (e.g. stalle, laboratori di trasformazioni, etc.).

Complessivamente, tanto la scelta imprenditoriale che la spinta innovativa possono leggersi non tanto come espressione di un’alterità etica ed economica, come suggerisce, per esempio, Cristina Grasseni [2013] nella sua analisi dello strutturarsi di alternative food network, ma come perseguimento di una chiara volontà di rafforzare la profittabilità aziendale in un contesto agricolo, come evidenziato da Susana Narotzky [2016], in cui le piccole aziende affrontano un futuro incerto essendo soggette alla pressione delle istanze di multinazionali e della finanza. Rilancio di prodotti tradizionali, sperimentazione di nuove forme di commercio business-to-business, come gli accordi di filiera, e business-to-consumer, come la partecipazione a mercati contadini quali i Mercati della Terra organizzati da Slow Food o quelli di Campagna Amica organizzati Coldiretti: sono azioni, queste, che esprimono di un pensiero razionale proprio di un homo economicus [Cohen 2014] e profondamente incorporate all’interno di una dinamica propria di mercato. Questo appare confermare quanto già evidenziato da Andrea Segré [1995], rielaborando le teorie di Enzo di Cocco, ovvero che il fenomeno dell’abbandono delle campagne ed il ritorno ad esse si devono, in primo luogo, leggere come una risposta degli individui consequenziale al disequilibrio tra l’incremento marginale della ricchezza dell’agricoltore contro la profittabilità proposta da altri tipi di occupazione offerti dal contesto urbano: un sotteso che si ritrova nelle parole degli intervistati.

Conclusioni

La ricerca approfondisce la realtà della nuova imprenditoria agricola di piccola scala che si va sviluppando nel presente. Laddove il dibattito pubblico corrente ha voluto vedere nel RA il manifestarsi di un modello socio-economico altro rispetto a quello dominante di mercato, l’indagine suggerisce una continuità con questo. Senza volere minimizzare il peso del crescente attivismo alimentare che vede anche gli agricoltori in prima linea in Italia [Counihan 2018; Counihan, Siniscalchi 2014; Siniscalchi 2015], questo contributo vuole evidenziare i limiti di una visione ideologizzata dei fenomeni del presente.

In primo luogo, l’articolo evidenzia come questa scelta sia limitata a pochi e, complessivamente, veda alcuni fattori limitanti il successo d’impresa: la difficoltà di accesso alla terra, gli elevati costi di avvio e scarsa redditività aziendale, la difficoltà di accesso al credito ed un generale basso livello di conoscenze tecniche da parte dei giovani che si avvicinano all’agricoltura.

Inoltre, la ricerca evidenzia come il RA sia spesso motivato dalle incertezze del mercato del lavoro odierno che porta i giovani a rivolgersi all’agricoltura alla ricerca di sicurezze altrimenti difficili all’interno di un orizzonte marcato dal precariato. Quindi, le scelte individuali che danno vita al fenomeno dell’RA nascondono difficoltà, incertezze, delusioni e difficili processi di rinegoziazione di un proprio percorso di vita. A fronte di ciò l’indagine evidenzia come tra i neo-agricoltori sia scarsa la conoscenza del settore agricolo, confermando da un lato una certa visione romantica dell’agricoltura da parte dei nuovi imprenditori, ma anche la tardiva maturazione della scelta imprenditoriale.

Alla luce di ciò emerge un quadro non privo di ombre ed incertezze rispetto alla complessiva sostenibilità del fenomeno e resilienza dei suoi attori. È a fronte di ciò che questo contributo non può che concludersi con un invito verso la comunità antropologica a volgere lo sguardo proprio su queste fragilità, per contribuire con la loro analisi alla costruzione di strumenti di supporto alle imprese piuttosto che alimentare retoriche celebrative non sempre capaci di dare voce e forza a questi attori sociali e a queste imprese.

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