Il passato, il presente e il futuro di un distretto industriale

Riflessioni su un campo di ricerca incerto

Simone Ghezzi

Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale, Università di Milano-Bicocca, Italy

Indice

Premessa
Il contesto
La velocità degli eventi critici
In conclusione: l’utopia del sincronismo adattivo e la realtà della crisi della presenza
Bibliografia

Abstract. The current epoch is characterised by a series of critical events that have upset fieldwork research and continue to affect it. The industrial district of the Brianza has always proved to be resilient and capable of overcoming market turbulences, but the rapid sequence of critical events in an industrial context already exposed to other frailties is producing further uncertainty and liminality. The researcher is likewise facing his own uncertainties. The time lag between the observation of the fast changing situation and the writing moment which, occurring necessarily after the observation period, seems to be unable to keep up with the shifting reality.  Thus, both interlocutors and researcher are seeking new conceptual inventories in their own ways to understand the present and imagine the future in a context of prolonged liminality.

Keywords. Crisis; ethnography; industrial district; Brianza; liminality.

Premessa

Nella famosa espressione greca πάντα ῥεῖ (panta rei), attribuita a Eraclito e giunta a noi attraverso Platone, si rappresenta l'apparente paradosso temporale per cui se tutto scorre come l'acqua di un fiume, il presente è già passato. Così come non si metterà mai un piede nello stesso fiume due volte, allo stesso modo lo scorrere incessante degli eventi ci impedisce di cristallizzare la realtà. È una metafora efficace a far riflettere sulla mutevolezza delle cose, sulla processualità degli istanti. Il continuo divenire delle cose e dei fenomeni renderebbe quindi difficile la loro stessa comprensione, perché gli eventi appena osservati hanno già subito un cambiamento, seppur impercettibile al nostro sguardo.

Se ci spostiamo dalla riflessione filosofica a quella antropologica, quali ripercussioni possono avere sul piano dell’analisi etnografica la mancata coevità fra il momento dell’osservazione e quello della documentazione o restituzione etnografica? Non v’è il rischio che lo scarto temporale fra sguardo di campo e scrittura, attraverso la quale si esplicita l’analisi etnografica, possa restituire una immagine statica degli eventi oscurando la loro processualità?

Confesso che il tema della rappresentazione etnografica non è mai stato al centro della mia riflessione antropologica, avendo rivolto spesso lo sguardo al passato proprio per meglio comprendere il presente di una economia regionale distrettuale [Ghezzi 2007], ma di recente questa questione è diventata sempre più assillante nel contesto della mia ricerca sul campo; ho cominciato a percepire una frizione nel rapporto con la temporalizzazione dell’analisi etnografica, e a sospettare che il momento della scrittura non documentasse altro che un presente oramai passato e forse essenzializzato dalla mia presunta accuratezza empirica.

Di tale sfasamento temporale si era già occupata a suo tempo l’antropologia riflessiva, soprattutto in riferimento alla «attitudine locutoria» degli antropologi all’atto della scrittura etnografica [Fabian 2021; Pina-Cabral 2000; Sanjek 1991]. La critica mossa da Johannes Fabian nei primi anni Ottanta del secolo scorso riguarda, in modo particolare, la forma discorsiva delle monografie di ispirazione scientista che, con l’intento di restituire l’obiettiva neutralità dell’autore [Malighetti, Molinari 2016, 110], ricorre all’artificio retorico del «presente etnografico», cioè all’ «utilizzazione del tempo verbale presente per scrivere resoconti su altre culture e società» [Fabian 2021, 161].  Questo tipo di rappresentazione ha però anche un altro effetto, quello di consegnare al testo scritto una descrizione atemporale e, quindi, immutabile della cultura osservata. A partire dunque da quella riflessione sul problema della coevità fittizia, la scrittura etnografica ha diligentemente ampliato il proprio canone narrativo e, nel narrare i fatti esperiti dallo sguardo meticoloso dell’osservatore (quasi sempre partecipante), non si affida più all’artificio retorico del «presente etnografico», bensì a una forma di analisi che ricolloca eventi e fenomeni nella loro appropriata temporalità. La scrittura etnografica, infatti, non può che tradurre l’esperienza della ricerca di campo sulla base dei dati raccolti prima della stesura dell’oggetto testuale; in termini relazionali, il momento della scrittura è ciò che lega l’etnografo alla sua esperienza empirica appena conclusa e il mezzo con quale la condivide con il lettore. Marc Augé, a proposito della temporalità etnografica, ha sottolineato invece come possano concretizzarsi temporalità diverse fra informatore e antropologo; il primo «fornisce informazioni che non sempre lo riguardano personalmente e da cui egli stesso prende le distanze per il solo fatto di presentarle come informazioni» [Augé 1997, 65]; il secondo «mette in risalto tale distanza […] adottando uno statuto di neutralità intellettuale per il solo fatto di presentarle come informazioni […]» [Augé 1997, 65].

Il ricorso al distanziamento temporale nella riproduzione narrativa della ricerca sul campo rappresenta però soltanto l’aspetto formale-epistemologico del problema della coevità, per come l’ho inizialmente posto. Non risolve, infatti, lo iato fra restituzione etnografica e le accelerazioni imposte dalla globalizzazione [Appadurai 2001] al contesto (field), sottoposto a una compressione spazio-temporale [Harvey 2010] che imporrebbe anche una riflessione su un piano più sostanziale e metodologico. Per quanto l’analisi etnografica possa essere densa e accurata, è evidente che si tratta comunque di una riflessione basata su frammenti e sguardi prospettici attraverso i quali si procede alla ricostruzione del contesto. Quanto più il campo di ricerca è complesso, interconnesso e dinamico – è il caso appunto del distretto industriale – tanto più sarà difficile offrire una rappresentazione esaustiva in una cornice spazio-temporale sempre più mutevole. In tale contesto, per esempio, eventuali alterazioni del mercato originatisi altrove, possono rapidamente produrre marcate discontinuità che coinvolgono non solo le imprese del distretto, ma anche le biografie individuali dei miei interlocutori legate a doppio filo alle prime.

La sensazione di restituire una immagine del contesto "etnograficamente densa", ma non più "in atto" scaturì durante il periodo di lockdown, cioè di restrizione alla circolazione, causato dalla pandemia da covid-19. La conseguente chiusura temporanea di molte attività manifatturiere e la temporanea conversione di alcune di queste verso una produzione che potesse fronteggiare la situazione di emergenza, aveva completamente alterato il mio campo di ricerca, oltre che reso impraticabile la prosecuzione della ricerca stessa, il cui obiettivo era quello di osservare in che misura il lavoro artigianale potesse incorporare le nuove tecnologie e quale fosse dunque il ruolo della digitalizzazione e dell’automazione in un contesto manifatturiero dove la manualità costituisce un valore non solo materiale, ma anche simbolico. Il graduale ritorno alla «normalità» ha ulteriormente accentuato la frattura temporale fra un prima – ciò che mi accingevo a documentare - e un dopo ancora indecifrabile al mio sguardo etnografico. Quale etnografia avrei potuto scrivere di un contesto dove gran parte dei miei interlocutori si trovava in una condizione drammaticamente diversa da come li avevo lasciati poco prima? Alcuni erano deceduti, altri avevano cessato definitivamente l’attività e non erano più rintracciabili, altri, perso il lavoro da dipendente, mi riferivano che avrebbero ricominciato da precari come «prestatori d’opera».

Le riflessioni seguenti dunque si propongono di ragionare su, e dare un senso a tale aleatorietà che scaturisce da una condizione di liminalità che il distretto del mobile in Brianza sta attraversando[1]. Certamente, anche la pandemia è stata vissuta come un periodo liminale, nel quale i meccanismi del mercato erano parzialmente sospesi, gli scambi parzialmente sottratti alle regole del mercato stesso, in attesa che l’«economia» potesse ripartire, espressione che riproduce una immagine tanto impersonale quanto perfettamente reificata del sistema produttivo e di circolazione delle merci. Anche tale ripresa, però, sembra essere invischiata in una rinnovata condizione di liminalità, fra un presente ambiguo vissuto come transeunte verso una sperata normalità, ed un futuro molto incerto a causa della difficoltà degli approvvigionamenti, della speculazione finanziaria sulle materie prime che ha fatto lievitare i costi di produzione, delle trasformazioni imposte dalla transizione ecologica e, infine, della situazione bellica in corso fra Ucraina e Russia.

Il contesto

L’incertezza che pervade il momento attuale è accentuata dagli eventi che l’hanno preceduta: la crisi economica cominciata nel 2008 e la pandemia da Covid-19, iniziata proprio mentre il sistema produttivo stava faticosamente riprendendosi, pur mostrando tutte le sue fragilità e contraddizioni [D’Aloisio, Ghezzi 2020]. In pratica negli ultimi quindici anni si sono succeduti in tempi ravvicinati una serie di eventi critici che hanno avuto effetti destabilizzanti sul piano sia produttivo che sociale. Le seguenti vignette etnografiche di tre imprese famigliari, annoverate fra le «eccellenze» nella produzione del mobile classico in Brianza, forniscono un quadro esemplare della criticità del momento attuale. Pur non avendo alcuna pretesa di rappresentare le varie aziende del settore - infatti sono abbastanza simili fra loro per dimensione, fatturato e numero di dipendenti - sono state scelte con l'idea di delineare quella tipologia di piccola-media impresa che è in grado di alimentare l’indotto e che sostanzialmente diventa un punto di riferimento per numerose microimprese del distretto del mobile che si occupano di una fase intermedia della lavorazione del prodotto. Proprio in virtù della loro centralità, la crisi di imprese di questo tipo ha effetti a catena su tutto il sistema produttivo. Queste tre imprese erano considerate «virtuose» dagli addetti ai lavori, in quanto, invece di adottare politiche di contenimento dei costi, le nuove generazioni imprenditoriali, avevano scelto di puntare sui mercati esteri, sulla qualità, fornendo prodotti di lusso rivolti a consumatori di ceto elevato e sulla affidabilità, cioè sulla fornitura di servizi in grado di rispondere velocemente alle necessità della clientela. Tutte erano organizzate per realizzare progetti di arredamento contract, in cui l’azienda agisce essa stessa da contractor accollandosi la responsabilità di realizzare interamente il progetto per conto del cliente, occuparsi direttamente della produzione e sovrintendere all’installazione finale, dai rivestimenti agli arredi, dalle finiture agli impianti elettrici e idraulici. E, infine, tutte avevano diversificato l’offerta di prodotto aggiungendo componenti di arredamento moderno. «Sulla carta» erano imprese modello e dalle dimensioni (fra i 30 e i 60 addetti) di gran lunga maggiori rispetto alla media del settore del legno che si attesta su 4-6 dipendenti. La loro crescita ed esposizione totale sui mercati esteri erano però avvenute in un contesto sociale locale di forte discontinuità rispetto al modello teorico del distretto industriale; era già evidente, infatti, la crisi delle vocazioni artigianali fra le nuove generazioni, la discontinuità imprenditoriale famigliare, la crisi della trasmissione dei saperi artigianali [D’Aloisio, Ghezzi 2016], e conseguentemente il diffondersi delle pratiche di decentramento fuori dal distretto, impoverito dall’allungamento delle reti di fornitura [Alberti, Fernando 2012].

Impresa famigliare 1: Nasce negli anni Sessanta da una famiglia di mobilieri che lavora nel settore da molte generazioni (se ne ha notizia sin dal 1800), ha una trentina di dipendenti, uno showroom a New York, costruisce mobili di elevata fattura quasi interamente destinati all’esportazione. La crisi economica del 2008 crea una contrazione del fatturato ma non tale da creare problemi di stabilità. Nel 2014 l’annessione della Crimea da parte della Russia provoca il primo grave contraccolpo alle finanze dell’azienda, perché le sanzioni comminate alla Russia, pur non includendo il settore dell’arredamento, hanno come conseguenza il blocco dei conti esteri dei clienti russi facoltosi che costituivano il grosso dell’export; infatti l’azienda subisce un crollo del fatturato (-50%). La situazione sembra comunque gestibile a livello finanziario, soprattutto perché dal 2016 al 2018 l’azienda mostra nuovamente segnali di ripresa; tuttavia, la crisi sopraggiunta con la pandemia del 2020 e il rifiuto da parte delle banche locali di concedere ulteriore liquidità all’azienda sanciscono l’impossibilità di proseguire l’attività e, dopo il concordato preventivo depositato alla fine del 2020, nell’autunno dell’anno successivo il Tribunale di Monza dichiara il fallimento dell’azienda.

Impresa famigliare 2: Nasce nel 1973 da un ramo della famiglia di mobilieri dell’impresa 1. Si sviluppa al punto da diventare una S.p.A. Considerata uno dei “fiori all’occhiello” del distretto del mobile, nota per avere arredato alcune stanze del Cremlino, varie ambasciate nel mondo e alcuni alberghi di Dubai, affronta le prime vertenze sindacali nel 2016. Come nel caso precedente, quando sembra essersi lasciata alle spalle la crisi economica del 2008, sopraggiunge una nuova crisi a seguito dell’annessione della Crimea da parte della Russia e di alcune commesse non andate a buon fine in Medio Oriente. Questi eventi critici portano l’azienda al fallimento alla vigilia della pandemia.

Impresa famigliare 3: Nasce negli anni Cinquanta del secolo scorso. Viene amministrata dai 3 figli del fondatore, morto prematuramente in un incidente sul lavoro, e dalle rispettive famiglie. Uno dei tre fratelli soci è uscito di recente dall’azienda per contrasti in seno alla stessa ed è stato liquidato dopo aver formalizzato il recesso. L’azienda ha investito molto negli anni. Si è dotata di una nuova sede moderna e funzionale, ha investito molto sia nella produzione (internalizzando una parte consistente della filiera) sia nell’attività commerciale, sfruttando anche le opportunità fornite dalla digitalizzazione dell’economia, e da poco si avvale di una figura manageriale che affianca le famiglie nella gestione aziendale. I primi problemi finanziari sono sopraggiunti con la crisi economica del 2008, contestualmente al processo di modernizzazione dei propri impianti e della costruzione di nuove infrastrutture. È riuscita a sopravvivere e a superare con qualche difficoltà anche la prima crisi Ucraina, che aveva invece dato il colpo di grazia alle altre due imprese. Ultimamente sta affrontando il problema della difficoltà degli approvvigionamenti e dell’aumento dei costi dell’energia. Tuttavia la preoccupazione maggiore è il fronteggiamento di un nuovo evento destabilizzante: la guerra russo-ucraina. L’80% della produzione è destinata al mercato russo e aree limitrofe: Ucraina, Bielorussia ecc. All’orizzonte si profila un significativo rallentamento, o addirittura una paralisi della produzione nell’ipotesi che le sanzioni contro la Russia permangano nel tempo, indipendentemente dall’esito del conflitto.

Per completare il quadro, aggiungo alcuni dati istituzionali forniti dalla Camera del Commercio di Como-Lecco sull’andamento del distretto del mobile che si estende fra le province di Monza-Brianza e Como e che comprende all’incirca il 52% delle imprese attive del settore del legno e arredamento in Lombardia, pari al 20% di quelle operanti su tutto il territorio nazionale[2]. Il 57% di tutto l’export lombardo del mobile proviene da queste due piccole provincie, pari al 27% se rapportato a livello nazionale. Riporto di seguito uno stralcio del quadro di sintesi dell’export.

Il totale delle esportazioni[3] italiane nel 2021 ammonta a 516,3 miliardi di Euro e il comparto mobili ne rappresenta il 2,1%, quota pressoché analoga a quella della Lombardia (pari al 2,2%, 2,9 miliardi di Euro). Rispetto al 2020, in Italia le esportazioni di mobili sono aumentate del 20,8% (+1,9 miliardi di Euro) e a livello regionale del 23,5% (+558,9 milioni di Euro), mentre il totale dell’export ha registrato un +18,2% in Italia e un +19,1% in Lombardia. Rispetto al 2019, in Italia le esportazioni di mobili sono cresciute dell’8,3% (+831,1 milioni di Euro) e a livello regionale del 6,6% (+181,8 milioni di Euro), mentre il totale dell’export ha registrato un +7,5% in Italia e un +6,6% in Lombardia [pag.8].

A dispetto del quadro lusinghiero fornito dalle cifre dell’export regionale, i dati relativi alle imprese attive e i rispettivi addetti mostrano una fotografia più coerente con le 3 vignette etnografiche presentate sopra. Nell’ultimo anno di rilevazione (2021) le imprese lariane sono diminuite del 1.4%, mentre quelle di Monza-Brianza hanno registrato un -3,9% rispetto all’anno precedente (2020). Se consideriamo invece gli ultimi 5 anni (2016-2021), la diminuzione è stata rispettivamente del 13,9% e 14,1%. In altre parole, nel periodo del supposto superamento della crisi economica, il trend delle aziende che hanno cessato l’attività non si è per nulla invertito. Ciò ha avuto conseguenze negative sulla occupazione del settore. Nell’ultimo quinquennio, il numero degli addetti lariani è diminuito del 6,3%, mentre gli occupati nell’area di Monza e Brianza sono praticamente rimasti stabili. Nell’ultimo anno di rilevazione (2021) si segnala una leggera ripresa dell’occupazione rispetto all’anno precedente: +2% in territorio lariano, +0.9% nell’area di Monza-Brianza, ripresa che si registra soltanto nel settore dell’industria, mentre nelle imprese artigiane la diminuzione degli addetti prosegue senza soluzione di continuità, avendo perso poco meno di 400 lavoratori nel triennio 2018-2021.

Questo è il quadro complessivo aggiornato all’ultimo quadrimestre del 2021. La situazione generale è comunque destinata a peggiorare a causa della imminente nuova crisi del settore dopo la pandemia. Le conseguenze economiche della guerra in Ucraina avranno un impatto diretto su tutti i settori manifatturieri, ma in modo particolare su quello del mobile, notoriamente molto esposto verso il mercato russo.

La velocità degli eventi critici

All’interno del quadro spazio-temporale del contesto si sono susseguite (o meglio, si stanno susseguendo) una serie di crisi sequenziali che non ha precedenti nella storia del distretto manifatturiero. Gli effetti cumulativi di questi eventi di crisi stanno prolungando la condizione di incertezza e, soprattutto, accrescono la vulnerabilità del sistema, indebolendo il reticolo che sostiene l’assetto produttivo, come le vignette etnografiche mostrano, pur nella loro estrema sinteticità. Il fronteggiamento degli eventi critici si fa più difficile perché le risorse materiali e immateriali del sistema si indeboliscono. Ogni nuovo evento critico genera una condizione di liminalità che necessiterebbe un nuovo intervento strategico a seguito dell’evento perturbatore e l’impiego concertato di dispositivi ad hoc che spesso sono venuti a mancare, oppure, quando presenti, hanno apportato cambiamenti strutturali non necessariamente con esiti migliorativi. Per esempio, dopo la crisi del 2008 alcune aziende avevano accorciato la propria filiera internalizzando una parte del processo produttivo (come ha fatto l’impresa famigliare 3) a causa della scomparsa di molti fornitori, o perché falcidiati dalla crisi o perché andati in pensione senza preoccuparsi del ricambio generazionale; altre, invece, avevano dovuto attingere altrove, al di fuori del distretto, allungando dunque la rete di fornitura, da cui la nuova allocuzione «dislargo» [Marini 2011]. Tra gli effetti negativi della congiuntura economica bisogna menzionare anche la ridotta capacità del credito locale di finanziare le attività economiche, non per mancanza di risorse finanziare, bensì per una sopraggiunta crisi fiduciaria a livello locale fra sistema del credito e sistema produttivo che ha portato molte aziende ad avere maggiori difficoltà di accesso al credito.

Durante la conduzione della ricerca sul campo nel periodo precedente alla pandemia mi sembrava di aver colto una forte disomogeneità all’interno del distretto determinata da una crescente e marcata polarizzazione addirittura fra aziende nello stesso settore produttivo, perché incontravo imprese apparentemente solide in cui gli imprenditori che le gestivano erano grado di destreggiarsi fra le difficoltà della crisi economica e della competizione internazionale;  altre invece in cui i proprietari riuscivano a malapena a farle sopravvivere, soprattutto grazie al ricorso all’economia sommersa e agli ammortizzatori sociali, terminati i quali avrebbero rischiato di far cessare l’attività. Questa polarizzazione sembra evidente soprattutto quando si mettevano a confronto le aziende cosiddette «virtuose» – particolarmente attive sui mercati internazionali e alla costante ricerca di strategie per migliorare la propria competitività – e quelle che per vari motivi, non ultimo quello di subire condizioni di sfruttamento per il loro ruolo di subfornitura in un segmento poco redditivo della filiera, si collocavano ai margini.

Poi la pandemia ha stravolto completamente il quadro che stavo ricostruendo, o forse ha semplicemente svelato la superficialità del mio sguardo, facendo emergere la fragilità all’interno di alcune imprese che non avevo colto, oppure che mi erano state tenute nascoste; oppure entrambe le cose. Nelle vignette etnografiche presentate sopra, soltanto la situazione critica dell’impresa 2 era di pubblico dominio, a causa degli scioperi degli operai e della vertenza sindacale in corso, cui la stampa locale dava ogni tanto notizia. Negli altri due casi le difficoltà erano state gestite in maniera molto discreta e la prospettiva del fallimento era solo una eventualità. Paolo, uno dei soci dell’impresa 1, dice: «Onestamente nel 2018 pensavo che ce l’avremmo fatta [a salvare l’azienda] perché avevamo fatto un buon incremento di fatturato. …Poi è arrivata la pandemia …» (Paolo 30/03/22, Meda).  

Nel contesto di crisi in cui eravamo tutti immersi forse avrei potuto osservare con maggior sensibilità come i miei interlocutori si sottraevano comprensibilmente al ruolo di soggetti etnografici, assecondando da un lato le mie aspettative seguendo il filo delle mie domande, ma eludendo dall’altro quelle più spinose e delicate, per esempio le difficoltà dei pagamenti e i difficili rapporti con le banche, spesso additate nei momenti di maggiore difficoltà come agenzie di usura. Paolo, riflettendo sulle ragioni del fallimento, sostiene che il non avere fatto tagli al personale durante la grave crisi del 2015, ha esposto l’azienda all’indebitamento verso le banche, le quali non hanno poi avuto scrupoli nel decretarne il fallimento: «Fra tagliare e indebitarsi quando le banche ti offrono soldi, noi abbiamo scelto di prendere i soldi, poi però...» (Paolo 30/03/22, Meda) la pandemia ha fatto precipitare la situazione molto velocemente. «Potendo, bisognerebbe stare lontani da loro, ma purtroppo non si può […] e fanno la voce grossa da padrone» (Gabriele 23/03/22, Cabiate). «Aiutano solo chi non ha bisogno [….] (Paolo 30/03/22, Meda). Queste sono solo alcune delle affermazioni rivolte alle società di credito dalle quali, mi raccontavano, dipendevano le sorti di parecchie imprese, senza però voler approfondire l’argomento come avrei desiderato. Anche gli istituti di credito locali, tuttavia, hanno subito processi di ristrutturazione interna e compiuto concentrazioni bancarie che hanno investito le agenzie locali e cambiato il modo in cui operano sul territorio.

Cogliere queste metamorfosi nell’atto in cui avvengono e interrogarsi su come queste agiscono sui soggetti, imprenditori e lavoratori, diventa un’operazione di ricerca molto complessa dal punto di vista antropologico, in quanto l’approccio etnografico, anche quello multisituato, poco si confà all’idea di rincorrere gli eventi che si susseguono a una velocità tale da mettere in difficoltà la profondità dell’analisi etnografica stessa. Il valore aggiunto della ricerca etnografica è il fatto di produrre una conoscenza (multi)situata, un prodotto del contesto mediato dallo sguardo dell’osservatore. Ma in che modo può produrre una descrizione «densa» a fronte di eventi critici che si susseguono a incredibile velocità? Tra l’analisi sincronica e quella diacronica della longue durée, ciascuna con i propri strumenti interpretativi, manca la capacità di affrontare gli eventi critici che si susseguono in rapida successione e spesso in concomitanza fra loro. Il tema era già emerso in Hann [1994], ponendo l’accento sui cambiamenti rapidi e concreti che hanno toccato globalmente l’esistenza di tutti, anche se con modalità differenti fra il Nord e il Sud del mondo. Polanyi aveva già anticipato alcuni di questi temi ne La grande trasformazione [1944] [Polanyi 1999], ma solo nell’ultima parte del secolo si è avuta la percezione della velocità di questi cambiamenti e di vivere un’epoca segnata dalla accelerazione della storia. Il termine «accelerazione» è impiegato anche da Eriksen [2001], il quale invertendo i termini di Hann, descrive la nostra epoca come appunto «la storia dell’accelerazione». Il passaggio dalla rivoluzione industriale a quella informatica è segnato, fra le altre cose, da una accelerazione progressiva in ogni aspetto dell’esistenza umana che ha i suoi vantaggi, ma anche una serie di effetti collaterali, fra cui la tendenza all’assuefazione che spinge le persone verso la maturazione di ulteriori bisogni che comportano una accelerazione maggiore, bisogni che il sistema nel suo complesso è in grado di soddisfare, grazie all’ausilio di nuove tecnologie, reti informatiche e modelli di produzione sempre più efficienti, ancorché poco o per nulla sostenibili. Recentemente Eriksen è ritornato su questo tema introducendo il termine «surriscaldamento» (overheating), ovvero gli eccessi, le contraddizioni, le crisi, provocate dalle accelerazioni innescate dalla globalizzazione neoliberista [Eriksen 2017]. Sono considerazioni molto pertinenti per inquadrare i mutamenti in atto nel distretto manifatturiero in una prospettiva multiscalare; ma anche utili strumenti analitici per contestualizzare gli eventi critici i cui effetti cumulativi possono essere intesi come riflesso del surriscaldamento. Tuttavia, nelle argomentazioni presentate manca una riflessione su un altro effetto collaterale di questa epoca accelerata e cioè lo sfasamento temporale fra l’osservazione dei fenomeni che cambiano velocemente e la scrittura etnografica. Non è detto che questo limite temporale invalicabile fra osservazione partecipante e riflessione etnografica ex-post possa produrre necessariamente una crisi della rappresentazione stessa di qualunque campo di ricerca etnografica; però questa è la situazione nella quale mi sono trovato, dovendo fare i conti con una dimensione spazio-temporale molto particolare: la coincidenza tra conduzione della ricerca ed eccezionalità del periodo, contrassegnato da frequenti eventi critici, alcuni dei quali epocali (dimensione temporale), che nel distretto manifatturiero (dimensione spaziale) hanno avuto effetti critici cumulativi di enorme impatto, sebbene alcuni non hanno ancora pienamente manifestato i loro effetti sul sistema produttivo e sulla vita delle persone il cui futuro si prospetta ancora foriero di incertezze.

In conclusione: l’utopia del sincronismo adattivo e la realtà della crisi della presenza

C’è una insospettabile affinità fra la condizione dei miei interlocutori e il mio ruolo di osservatore partecipante. Entrambi siamo alla ricerca di inventari concettuali nuovi per leggere il presente e immaginare il futuro in un contesto di liminalità prolungata, prima determinata dall’austerity economica, poi dalla pandemia, poi dal caos post-pandemico della ripartenza e, infine, dalla guerra russo-ucraina che si profila all’orizzonte come un’ombra minacciosa, potenzialmente più devastante per il distretto del mobile rispetto ai conflitti precedenti, quali la crisi balcanica e le guerre del Golfo. Su larga scala i fenomeni sembrano essere relativamente chiari e standardizzabili, ma quando si manifestano su piccola scala diventano unici, come afferma Eriksen, e portatori di complessità a vari livelli, sociale-organizzativo, fisico-infrastrutturale, cognitivo-percettivo e, infine temporale, come cioè si ricorda il passato, si legge il presente e si immagina il futuro [Eriksen 2017, 39].

E qui si arriva al nocciolo della questione. Quali strategie adottare per fronteggiare questi eventi su piccola scala, cioè nella propria impresa, nelle filiere in cui si lavora, nella propria nicchia di mercato, nel proprio ambito lavorativo messo a soqquadro dalle crisi? Le vignette etnografiche proposte sopra possono indubbiamente mostrare un quadro semplicemente aneddotico, come direbbero gli economisti, ma potrebbero anche fornire indizi riguardanti la tensione fra modelli imprenditoriali e aziendali calati dall’alto, come emanazione di una conoscenza standardizzata su larga scala, e l’embeddedness del modello locale. C’è uno sfasamento temporale anche fra i miei interlocutori che manifestano difficoltà nell’applicare il sincronismo adattivo che ha caratterizzato la rete di imprese del distretto, cioè la capacità di reagire tempestivamente alle turbolenze del mercato individuando strategie risolutive nel breve periodo. Dunque uno degli effetti del surriscaldamento a livello locale è l’emergere della congruenza fra due criticità di ordine diverso, ma unite dalla condivisione del contesto spazio-temporale: la «dis-cronia» tra osservazione e restituzione etnografica da parte dell’osservatore e la crisi del sincronismo adattivo da parte dei suoi interlocutori. La dis-cronia ha implicazioni di rilevanza metodologica in quanto sollecita il ricercatore a riflettere sulle sfide che l’etnografia deve saper cogliere per fronteggiare la complessità e, soprattutto, la velocità delle trasformazioni. Il sincronismo adattivo invece sottolinea l’incapacità dei miei interlocutori di fronteggiare rapidamente gli eventi critici attuali. Ciò si pone in aperto contrasto con l’immagine-cliché, fors’anche utopistica, del distretto industriale flessibile in grado di far fronte alle crisi e di uscire da queste rinnovato. Sembrerebbe confermarsi dunque quello scenario già ipotizzato durante gli anni di austerity [D’Aloisio, Ghezzi 2016, 37], cioè una condizione di prolungata incertezza che può essere letta come una nuova condizione della crisi della presenza [De Martino 2019], in cui invece della penuria di mezzi materiali che contraddistingueva le comunità contadine del Salento degli anni Cinquanta, come scriveva De Martino, si palesa nel distretto della Brianza una povertà di strategie adattive che contribuisce a rappresentare una realtà incontrollabile dall’interno del sistema produttivo, sia da parte degli imprenditori, sia da parte dei lavoratori: una rilettura attuale dell’impossibilità di esserci nel mondo, «un esserci pienamente agito e consapevole» [D’Aloisio, Ghezzi 2016, 37].

Ritornando all’immagine metaforica iniziale del tutto scorre: c'è un altro elemento che si cela dietro questa apparente banalità eraclitea, e cioè che lo scorrere delle cose nelle acque di un fiume, non fa del fiume qualcosa d'altro da ciò che è. C'è dunque un elemento strutturale che rimane sostanzialmente invariato all'interno del quale ogni cosa muta continuamente. Alla luce però di quanto detto sulle crisi subite in rapida successione, il fiume, cioè il distretto industriale, ha perso gran parte delle sue caratteristiche originarie: non è più, se non parzialmente, quello del modello teorico. Sottoposto a continue crisi ravvicinate, ha subito quelli che Raymond Firth chiamava due ordini differenti di cambiamento: structural change e detail change. Il primo altera gli elementi di base di un sistema sociale, il secondo invece, pur cambiando in continuazione, non è in grado di portare alterazioni sostanziali al sistema stesso [Firth 1954, 17]. Ovviamente la portata di questi cambiamenti dipende anche dalle azioni sociali e dalle scelte delle persone. Il perdurare della liminalità non consente di stabilire a quale ordine di cambiamento afferiscono gli eventi critici che sono ancora in corso: ci vorrà del tempo. L’analisi etnografica del presente-che-è-già-passato può comunque dare il proprio contributo euristico sul futuro? La risposta potrebbe essere contenuta in queste ulteriori domande che Sally Falk Moore si era già posta qualche decennio fa: «What is the present producing? What part of the activity being observed will be durable, and what will disappear? [...] The identification of change-in-the-making.... [and] conjectures about the future thus become an implicit part of the understanding of the present» [Moore 1987, 727].

Bibliografia

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[1]  Il concetto di liminalità introdotto da van Gennep [2012 (1909)] è stato ripreso di recente da Carlo Capello [Capello, Semi 2018; Capello 2020] nel suo lavoro antropologico sulla disoccupazione a Torino. Nella sua accezione la liminalità fa riferimento sia alla condizione di indeterminatezza e marginalità dei lavoratori disoccupati, sia alla condizione transitoria della città di Torino che ha perso il proprio status di città industriale di stampo fordista; nel mio caso, invece, applico il medesimo concetto all’area distrettuale della Brianza per sottolineare il suo carattere transizionale, piuttosto che marginale. In questo senso la liminalità in un distretto rappresenta una situazione di profonda incertezza indotta da un evento critico destabilizzante, destinato ad essere eventualmente assorbito mediante processi riorganizzativi, con una funzione analoga a quella del rituale, che possono produrre effetti positivi, ma possono anche accentuare le fragilità del sistema, come forse sta avvenendo proprio nel distretto della Brianza.

[2]  Ringrazio in particolare Arianna Augustoni e Daniele Rusconi dell’Ufficio studi e statistica della Camera di Commercio di Como-Lecco per avermi fornito i dati statistici e il rapporto del settore del mobile in anteprima: Il settore del mobile nell'area lariana, in Lombardia e in Italia nel periodo 2016-2021. Focus: Benchmark con la Brianza Monzese (Aprile 2022).

[3]  La fonte dei dati citati in questo paragrafo è Istat. Le statistiche del commercio estero di beni sono il risultato di due rilevazioni che hanno come oggetto gli scambi dell’Italia con i Paesi dell’Unione Europea (modello Intrastat, periodicità mensile o trimestrale) e con i Paesi extra-UE (bollette doganali, periodicità mensile). I dati mensili coprono circa il 98% degli scambi con i paesi dell’Unione Europea. I dati trimestrali vengono stimati mensilmente; tale stima a fine anno viene revisionata con le dichiarazioni trimestrali pervenute (pertanto, al momento della prima pubblicazione, i dati sono provvisori e soggetti a revisione nel mese successivo). Ulteriori informazioni sono consultabili sulla banca dati del commercio estero dell’Istat: www.coeweb.istat.it. I dati relativi al 2021 qui indicati sono provvisori.