Scenari del futuro

Appunti sul lavoro dei prossimi decenni

Franco Lai

Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali, Università di Sassari

Indice

Premessa
Fare previsioni
L’impatto della prossima ondata di innovazioni tecnologiche
Inquietudini
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. In this short essay I set out some considerations about the job in the medium-term period. The contemporary context is characterized by the impact of technological innovations and economic and financial crises. The pandemic has brought out the concrete aspects of the interconnectedness of globalization. Some models of consumption are emerging in relation to the growing awareness of climate change.

Keywords. Job; innovation; technology; crisis; State.

«The future is unwritten» [Joe Strummer – The Clash][1].

Foto 1 - Napoli, gennaio 2022 (foto dell’autore).

Premessa

In questo saggio vorrei fare delle considerazioni su alcuni effetti sociali di macro-scala tra crisi finanziaria e crisi pandemica che in vario modo possono riguardare il futuro del lavoro nei prossimi decenni.

Sulla questione del rapporto tra la dimensione macro e micro delle dinamiche sociali, economiche e ambientali faccio riferimento a Eriksen [2017] a proposito di processi fuori controllo, del doppio legame tra sviluppo e sostenibilità, delle complesse relazioni esistenti tra i processi globali e locali. Anche se l’antropologia propone ricerche collocate in una dimensione spaziale circoscritta, vale la pena tentare di formulare considerazioni di scala macro. I saggi più spiccatamente etnografici presenti in questa sezione della rivista possono offrire analisi più circostanziate e fondate su una dimensione empirica forte. Per costruire questo saggio mi sono servito, oltre che della bibliografia accademica, di inchieste giornalistiche specializzate. Questo perché dalla stampa qualificata possiamo trarre indicazioni sui temi intorno ai quali si concentra il dibattito politico a livello nazionale, internazionale e dell’Unione Europea. La scelta operata di recente (primavera 2022) dalla UE nel campo del passaggio ai motori elettrici nel settore dell’auto ha fatto discutere esponenti dei partiti politici, delle organizzazioni sindacali e del mondo industriale. Non è improbabile che questa decisione avrà un impatto molto forte sulla produzione, sull’occupazione e sui consumi generando un effetto a catena nei vari settori della vita sociale.

Questo breve saggio è organizzato nel modo seguente: nel secondo paragrafo prendo in considerazione la possibilità e la difficoltà di fare previsioni; nel terzo paragrafo mi soffermo sulla rilevanza delle innovazioni tecnologiche; nel quarto paragrafo espongo alcune considerazioni riguardo alle inquietudini sociali che possono emergere dai processi economici in corso; nel quinto paragrafo cerco di trarre alcune considerazioni conclusive.

Fare previsioni

Quando si parla di futuro nella ricerca antropologica non si può non pensare ad Appadurai [2014] e al suo saggio Il futuro come fatto culturale, dove parla delle specifiche concezioni riguardanti il futuro nelle società umane in termini di aspettative emotive, di narrazioni e di previsioni. La nozione di futuro appare fortemente caratterizzata in senso culturale:

Non dobbiamo dimenticare che il futuro non è uno spazio soltanto tecnico o neutrale, ma è ricolmo di emozioni e di sensazioni. Perciò abbiamo bisogno di esaminare non soltanto le emozioni legate al futuro quale forma culturale, ma anche le sensazioni che esso produce: soggezione, vertigine, disorientamento [Appadurai 2014, 392].

L’immaginario del futuro nei paesi industriali appare caratterizzato da aspettative di progresso e di miglioramento continuo e privo di ostacoli prodotto dagli avanzamenti garantiti dalla scienza e dalla tecnologia. La fantascienza nella letteratura e nel cinema esprimono dubbi e paure verso la scienza e la tecnologia, come ricorda l’economista Daniele Archibugi [2006]. Insomma, i significati presenti nella nozione di futuro appaiono legati all’impatto delle innovazioni tecnologiche.

In questo lavoro non intendo discutere il futuro secondo l’antropologia contemporanea, non intendo sostenere che le scienze sociali abbiano capacità predittive. Ritengo, insomma, che non sia un buon investimento di tempo fare ipotesi su ciò che ci aspetta. Molto più modestamente, vorrei esporre alcune considerazioni basate sulle cose che già si sanno. Una di queste riguarda la complessità e la multifattorialità che caratterizzano i processi di mutamento sociale. Mi occupo di antropologia ma riguardo a temi come il lavoro del prossimo futuro non è possibile non fare riferimento alla letteratura storica, economica e sociologica.

Negli anni Novanta del secolo scorso sono stati pubblicati alcuni volumi sul futuro dell’antropologia in un mondo caratterizzato dall’“accelerazione della storia” [Hann 1994; Ahmed, Shore 1995]. Ciò che emerge dal volume curato da Hann è la complessità dei fattori in gioco nel produrre processi di rapido mutamento sociale. Si tratta di modelli costruiti, per così dire “ex post”, che spiegano ciò che è già avvenuto. In queste ricostruzioni le dinamiche di scala macro e di scala micro interagiscono in modo molto complesso secondo relazioni di causalità nelle quali concorrono in modo variabile numerosi fattori.

La ricerca antropologica ha offerto un contributo importante per quanto riguarda le forme di rischio e di pericolo che una società formula e che è disposta a correre [Douglas 1993; Douglas 1996]. Realmente la razionalizzazione operata dallo sviluppo del capitalismo e della burocrazia ha reso desueto il ricorso agli strumenti degli operatori della magia? Sembrerebbe di no, almeno in un caso documentato. Kendall [2002] ha sostenuto come tutto un settore di praticanti sia ancora vivo nelle città della Corea contemporanea, operatrici alle quali ricorrono un certo numero di risparmiatori per prevedere il corso dei loro investimenti finanziari. In questo caso, piccoli e medi risparmiatori, ovviamente, non escludono certo i consigli e le indicazioni dei consulenti finanziari e bancari. Ma il ricorso anche al parere degli sciamani appare molto diffuso. Il futuro appare, insomma, come una dimensione problematica e rischiosa, resa tale dalla molteplicità dei fattori in gioco.

Secondo le previsioni che i maggiori specialisti del settore fanno sul prossimo futuro, le dieci innovazioni che avranno un ruolo fondamentale riguardano settori centrali come la salute e le terapie mirate, la longevità, la lotta al cambiamento climatico, l’agricoltura, le comunicazioni, ecc. [Di Christina, Meyerson 2021]. È sufficiente cercare su Google alcune parole chiave come “lavoro” e “futuro” per vedere quante previsioni sono state fatte in questi ultimi due anni sul ruolo delle innovazioni tecnologiche nel modificare la tipologia delle professioni e della stessa organizzazione del lavoro pubblico e privato. I titoli di studio sui quali investire riguardano i settori giuridico-economico e delle scienze sociali, l’ambiente, la medicina, l’ingegneria e l’informatica, laddove le competenze in quest’ultimo settore saranno comuni e trasversali. La considerazione che la pandemia ha cambiato in modo significativo il lavoro pubblico e privato portandolo a distanza è molto comune. Ed è molto diffusa anche l’idea che il lavoro a distanza renda meno necessario vivere nei grandi centri urbani, nelle metropoli e nelle megalopoli[2]. Queste nuove tendenze sembrerebbero essere in contraddizione con il dibattito dei primi anni Duemila sul ruolo propulsivo e creativo delle città, spesso sede di importanti e attrattivi centri universitari e di ricerca. Le città, non solo metropoli ma anche centri della dimensione di una media città europea, sono state al centro della discussione sulla loro capacità di attrazione di un variegato insieme di professionisti con un alto livello di istruzione che Richard Florida [2002] ha chiamato «classe creativa»[3]. Manuel Castells ha sottolineato come le cosiddette «megacittà», nonostante i loro problemi, rappresentino i «centri del dinamismo economico, tecnologico e sociale» contemporaneo. E uno dei problemi riguarda proprio le profonde disuguaglianze che la struttura sociale e produttiva delle economie contemporanee comporta, dato che in questi enormi poli urbani si trova «quanto di meglio e quanto di peggio ci sia, dagli innovatori e dai poteri forti alle popolazioni strutturalmente irrilevanti, pronte a vendere la propria irrilevanza» [Castells 2002b, 466]. Questo è un punto importante perché secondo un certo luogo comune lo sviluppo della rete renderebbe superflua la vicinanza tra i nuovi settori economici e del lavoro. In realtà è stato messo in luce che la new economy ha la necessità di avere disponibili in un ambito di prossimità spaziale tutti i servizi e le consulenze di cui può avere bisogno. Inoltre, le famiglie dei professionisti hanno bisogno di una serie di lavoratori per la gestione della famiglia e della casa [Sassen 2010].

Questo contesto sociale ed economico è stato analizzato da Enrico Moretti [2014]. Seguendo la sua ricostruzione possiamo osservare come l’economia americana ha visto l’aumento dell’occupazione in quattro settori che si sono dimostrati fortemente innovativi a cominciare dal 1991 e ancora di più per tutta la durata del primo decennio degli anni Duemila: Internet, software, ricerca e sviluppo, farmaceutica. L’incremento dell’occupazione in questi settori, grazie anche al fatto che si tratta di lavori altamente retribuiti, ha poi stimolato l’aumento di posti di lavoro anche in settori quali il commercio, la ristorazione, il tempo libero, l’intrattenimento e la cultura, i servizi alle famiglie e le professioni legate ai servizi finanziari, legali, ecc. Le imprese dei settori innovativi hanno posto le basi per una nuova geografia del lavoro perché esse tendono a concentrarsi in città specifiche creando, per così dire, una “massa critica” attrattiva. Tra i vari esempi che Moretti propone c’è il caso di Microsoft e le trasformazioni della città di Seattle dopo lo spostamento di questa azienda dalla sua sede originale ad Albuquerque [Moretti 2014, 50-85].

Risulta interessante domandarsi se questi processi si riprodurranno anche per il futuro e anche per il nostro paese. Occorrerà considerare queste tendenze con senso critico ma anche con apertura, per i riflessi che hanno sul piano non solo economico ma anche sociale, culturale e politico. Ciò che queste storie ci insegnano è che il rapporto tra scienza, tecnologia e saperi, per così dire, umanistici, si pone in modo molto stretto per tutti quei settori dell’innovazione tecnologica legati alla produzione culturale e all’intrattenimento. L’industria culturale e dell’intrattenimento, nel corso del Novecento si sono sviluppate parallelamente alle innovazioni tecnologiche quali i media oggi definiti mainstream come la radio e la televisione, le tecniche di registrazione analogica e il disco, e così via. Nel passaggio dalla dimensione analogica a quella digitale è stato molto evidente come la fruizione dei prodotti dell’industria culturale (film, musica, ecc.) abbia portato a processi di “distruzione creativa”. Ne segnalo alcuni. Si è assistito dagli anni Ottanta del Novecento in poi alla scomparsa relativamente graduale di alcuni settori come la produzione di pellicole e altri prodotti chimici per la fotografia, il noleggio di videocassette prima e di DVD poi, ecc. Il passaggio dall’analogico al digitale nell’industria discografica ha visto un ulteriore passaggio con la smaterializzazione delle produzioni musicali. L’invenzione di formati quali MP3 e, successivamente, di strumenti per l’ascolto della musica in mobilità, tra gli altri l’iPod della Apple, ha portato a nuove modalità di vendita sulle piattaforme musicali, come nel caso del negozio online iTunes Store della Apple. La Apple è diventata un’impresa che non produce più solo computer e software ma anche smartphone, tablet, orologi, dispositivi per la fruizione della TV online con serie televisive, film, ecc. Il caso della Apple, inoltre, è interessante perché nello storytelling dei due fondatori, Steve Jobs e Steve Wozniak, era evidente un rapporto stretto con le humanities. Infatti, è noto che per quanto riguarda la progettazione, l’estetica e l’interfaccia grafica del sistema operativo e delle applicazioni la casa intendeva già dalle sue origini riconoscere un forte ruolo all’estetica dei prodotti e alle professioni creative alle quali si indirizzavano già dalle origini, come l’editoria, la musica, ecc. [Briggs, Burke 2002; Lai 2015; Lai 2020; Balbi, Magaudda 2021].

La pandemia ha rivelato alcune tendenze importanti nel mondo industriale contemporaneo. Nel discorso politico, giornalistico e persino ufficiale delle scienze sociali nel corso di questi due anni di pandemia sembra essersi fatta strada l’idea che viviamo in un’epoca in cui una epidemia nasce, si sviluppa e si diffonde in modo improvviso e imprevedibile. Si è imposta, a mio avviso, una narrazione sull’imprevedibilità delle epidemie e della loro diffusione globale. Questo punto di vista in realtà non tiene conto del fatto che due epidemie sono state individuate e bloccate nei primi anni Duemila e Barak Obama, tra gli altri, aveva parlato nel 2014 del pericolo di una nuova e devastante pandemia e della necessità di affrontarla con una organizzazione globale[4]. Gli stessi scienziati intervistati da David Quammen [2014] in Spillover, pubblicato negli USA nel 2012, sostenevano di essere in attesa del “the next big one”, ovvero di una pandemia dalle dimensioni estreme. Solo oggi l’opinione pubblica sembra aver appreso che nelle dinamiche della nuova era geologica chiamata Antropocene le distanze tra le possibili zone di origine di un virus, i suoi animali possibili vettori del salto di specie e le popolazioni umane si sono ravvicinate per lo sviluppo di nuovi insediamenti e per l’apertura di nuove grandi vie di comunicazione.

La crisi sanitaria ed economica prodotta dalla pandemia ha mostrato, forse anche più della crisi finanziaria degli anni 2007-2008, la necessità di un “ritorno” dello Stato e del sistema degli Stati al governo dell’economia, un fatto reso evidente, di recente, dal massiccio intervento degli USA e della UE a sostegno della ripresa ma anche a sostegno della ricerca nel campo dei vaccini. Come dicono gli esperti intervistati da David Quammen, le epidemie sono ormai globalizzate e da qualsiasi parte scoppino si diffondono dappertutto [Quammen 2020, 33]. In tutta evidenza i poteri degli Stati sono stati chiamati in causa rapidamente per individuare, arginare e controllare la circolazione del virus, anche se in numerosi casi gli Stati sono apparsi impreparati. Nel dibattito politico e mediatico si è quindi fatta strada l’idea dell’importanza degli Stati e dell’organizzazione degli Stati nell’affrontare emergenze generalizzate come quelle sanitarie.

A proposito del ruolo cruciale dello Stato, può essere interessante rilevare ancora una volta l’importanza di un classico delle scienze sociali come La grande trasformazione di Karl Polanyi [2000]. Piketty sostiene che quando Polanyi scriveva il suo volume, nella prima metà degli anni Quaranta, «l’Europa era immersa nel periodo più buio della sua sindrome autodistruttiva e genocida», «la fiducia nella capacità di autoregolazione dell’economia di mercato era al minimo» e come «la fiducia nell’autoregolamentazione dell’economia di mercato» avesse «reso molto fragili le società moderne» [Piketty 2020, 537-538].

La forza delle organizzazioni statuali sarebbe molto forte anche nel dare impulso alle innovazioni tecnologiche che poi hanno applicazioni commerciali su larga scala. Qualche anno fa la pubblicazione del volume dell’economista Mariana Mazzuccato [2014] ha suscitato in Italia un animato dibattito quando ha sostenuto che c’è «Lo Stato dietro l’iPhone». Diversi autori avevano già mostrato che l’area che poi prenderà il nome di Silicon Valley è dagli anni della Seconda guerra mondiale uno spazio dove si addensano imprese che lavorano nell’ambito dell’elettronica usufruendo di finanziamenti dello Stato federale per la ricerca di base con fini applicativi[5]. Pertanto, anche la Apple ha usufruito indirettamente del ruolo propulsivo dello Stato nella ricerca di base, acquisendo imprese e relativi brevetti con il sostegno pubblico. Per un prodotto strategico come i microchip, all’inizio del 2022 si è diffusa la notizia che l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno approvato investimenti colossali, rispettivamente di 50 miliardi di euro e di 52 miliardi di dollari [Conte 2022; Manacorda 2022].

L’impatto della prossima ondata di innovazioni tecnologiche

La necessità di tenere in funzione la pubblica amministrazione, l’istruzione scolastica e le università con il lavoro e le lezioni a distanza ha messo in luce alcuni aspetti delle disuguaglianze presenti in Italia: le disuguaglianze territoriali nella diffusione di una efficiente rete internet; la disuguaglianza delle famiglie in quanto a dotazione informatica per poter reggere una prolungata istruzione a distanza; la disuguaglianza nell’alfabetizzazione informatica di base. Sappiamo che già alle origini la geografia di Internet è nel mondo industriale o, meglio, nell’Età dell’informazione, assai diseguale nel suo sviluppo e nella sua diffusione, per quanto in via di mutamento nel corso dei vent’anni che ci separano dalla pubblicazione del volume di Manuel Castells [2002a], Galassia Internet. Poli di sviluppo della new economy si sono formati anche nel Mezzogiorno. Ferrucci e Porcheddu [2004] mostrano per l’area di Cagliari il ruolo fondamentale dell’Università, del parco scientifico e tecnologico della Regione Sardegna e di alcuni imprenditori locali.

Nel discorso pubblico pandemia e mutamento climatico sono stati temi collegati. I consumi appaiono sempre più caratterizzati da elementi socioculturali legati alle ormai diffuse preoccupazioni per la sostenibilità. Anche in questo caso il quadro interpretativo proposto da Eriksen può mostrare gli effetti su larga scala di processi apparentemente a sé stanti. Si può dire che oggi i consumi siano tendenzialmente sempre più caratterizzati in senso culturale, ad esempio, per quanto riguarda la sostenibilità. Mary Douglas parlava dei consumi «eco-freaks» [Douglas 1999, 115] riguardo alle preoccupazioni sulla “moralità” delle scelte di consumo. Negli anni Novanta gli stili di consumo sensibili ai risvolti ambientali apparivano ancora prevalenti nei movimenti sociali all’epoca ancora marginali. Oggi, invece, il peso ambientale dei comportamenti sociali legati al consumo è ormai evidente.

Di recente la ex Cancelliera tedesca Angela Merkel e anche alcuni alti dirigenti del colosso dell’auto Volkswagen, hanno affermato che per il 2035 l’intero parco dovrà essere su base elettrica. Le auto a motore a scoppio e ibride usciranno fuori produzione. I marchi dell’auto di lusso hanno annunciato una scelta analoga e di mese in mese anche per le utilitarie i grandi produttori annunciano continuamente nuovi modelli interamente elettrici. Se le case produttrici dell’auto di lusso puntano sui motori elettrici può significare che anche i ceti sociali di alto reddito sono diventati sensibili al tema dell’inquinamento e del peso che le scelte di consumo possono avere nell’ambiente in cui viviamo. Ancora alla fine del Novecento la preoccupazione per il rapporto tra stili di consumo e ambiente non sembrava essere una preoccupazione per i ceti sociali di alta borghesia. Sembrava una preoccupazione limitata ai movimenti e ai partiti ecologisti e alle istituzioni internazionali che, comunque, già si preoccupavano di sensibilizzare i cittadini dei paesi industriali che avere una maggiore consapevolezza del peso ambientale del loro stile di vita era una cosa giusta, appropriata e tutt’altro che marginale [Marras 1999]. Le preoccupazioni per la qualità dell’aria negli spazi urbani e metropolitani e per i processi fuori controllo del traffico cittadino non sono da tempo solo propri dei movimenti ecologisti. La ricerca sui motori elettrici fa parte delle misure di contenimento delle emissioni di gas serra fino alla loro totale eliminazione nelle tecnologie dell’automotive pubblico e privato. L’Accordo di Parigi in questo senso costituisce un riferimento fondamentale a causa dei parametri che gradualmente i paesi che hanno sottoscritto l’accordo devono rispettare. Gli estensori del testo ritengono, evidentemente, che sia possibile governare l’ammontare di emissioni di gas serra passate, presenti e future. Per cui la mitigazione e l’adattamento costituirebbero i concetti centrali di questo accordo. Sui 29 articoli che compongono il testo la parola «mitigazione» compare 23 volte, il termine «adattamento» 49 volte. La gradualità degli obiettivi da raggiungere è collegata all’entità delle emissioni che occorre controllare per evitare il riscaldamento globale (lo scioglimento dei ghiacci nelle regioni montuose, l’erosione della calotta polare al nord, l’incremento del livello dei mari). Si tratta di un processo complesso che si svilupperà su una scala temporale da qui al 2100, anche se gli esperti ritengono che alcuni indicatori siano già evidenti e intorno al 2050 tale processo si mostrerà in tutta la sua gravità. Quindi sembra evidente la preoccupazione di controllare e mitigare il riscaldamento globale non solo diminuendo sempre di più le emissioni ma anche progettando tecnologie tali da catturare l’anidride carbonica già presente nell’atmosfera [cfr., tra gli altri, Piana 2016; Carli 2017; Wadhams 2017; Mann, Wainwright 2018; Conniff 2019]. Per interpretare in termini antropologici queste scelte, voglio ricordare Mary Douglas quando sosteneva che l’assunzione dei rischi che una società ritiene di poter affrontare o tralasciare è un fatto culturale. Le idee che orientano le strategie pubbliche, secondo Douglas, possono essere lette in termini di quattro «miti» della natura. Il mito della «natura forte» «favorisce la sperimentazione audace e individualistica, l’espansione e lo sviluppo tecnologico». Il mito secondo il quale la «natura è forte» ma «solo entro certi limiti» rende, a mio avviso, molto bene ciò che sostiene l’Accordo di Parigi. È il mito che «favorisce i programmi di controllo per la riduzione dei rischi, gli interventi governativi, le limitazioni del mercato» [Douglas 1996, 156].

La scelta di anticipare questa decisione da parte della Cancelliera allora in carica è stata politicamente importante. Tuttavia, quando nella primavera del 2022 l’Unione Europea ha deciso che quella scadenza (2035) doveva essere rispettata, questa determinazione ha creato un certo disappunto tra le grandi rappresentanze sindacali, i partiti, i governi nazionali e i grandi gruppi industriali a causa della perdita di posti di lavoro, dei tempi necessari a riconvertire i lavoratori e del termine di tempo ritenuto troppo ravvicinato per introdurre una tecnologia sostitutiva dei motori termici, che al momento non appare ancora pienamente compiuta. L’Italia è tra i paesi che ha chiesto di posticipare il termine di tempo al 2040[6]. Ancora prima di questa recente decisione della UE, durante gli incontri internazionali del 2021 in Italia e la Cop26 di Glasgow, c’è stata un forte discussione riguardante l’anno di transizione definitivo alla nuova tecnologia elettrica. Il dibattito che si è aperto riguarda i costi sociali della transizione, in particolare per quanto riguarda l’occupazione [Berruti 2021]. Secondo una recente inchiesta, con lo sviluppo dell’auto elettrica circa 60.000 posti di lavoro sarebbero a rischio. Questa transizione si ritiene che debba essere governata con una concertazione tra Stato, imprese, lavoratori e sindacati, come sembra che stia avvenendo nell’industria automobilistica tedesca e nella cosiddetta Motor Valley emiliana tra marchi quali Ferrari, Lamborghini e regione [Gabanelli, Querzè 2021]. Si sta profilando quindi la richiesta di rendere flessibili le scadenze [Longhin 2021]. I dubbi sui tempi di questa vastissima riconversione tecnologica e industriale si basano anche sul problema della diffusione della rete di ricarica dell’auto elettrica nel territorio [Griseri 2021]. Altri grandi gruppi industriali intendono non abbandonare del tutto per il momento la produzione di auto a motore termico e cercano di sviluppare la produzione di carburanti ottenuti a partire dal gas naturale [Cavicchi 2021]. In ogni caso sembra che nei modelli di consumo l’auto elettrica registra un incremento notevole delle immatricolazioni [Gabanelli, Querzè 2021]. A mio avviso risulta interessante notare come i grandi marchi dell’auto di lusso stiano procedendo nella strategia dei motori elettrici. La negoziazione tra lavoratori e proprietà presente nel modello di relazioni industriali tedesche può fare in modo che le scelte abbiano un impatto meno problematico, data la capacità di mediazione che questo modello organizzativo ha mostrato nel tempo [D’Aloisio 2021].

Si tratta sicuramente di una fase di studio, di ricerca e di investimenti tecnologici capaci di contraddistinguere il mondo in cui viviamo. A questo riguardo, l’economista Daniele Archibugi sostiene che «alcune famiglie tecnologiche si affermano nella storia fino a contraddistinguere l’intero sistema economico e sociale». Seguendo ancora Archibugi [2006, 9] è interessante ricordare che Joseph Schumpeter ha «insegnato che il cambiamento economico e sociale avviene grazie a invenzioni tra loro connesse e affini, collegate in sistemi e tra loro interdipendenti» [Archibugi 2006, 10]. L’impatto delle innovazioni, insomma, va molto al di là del fatto meramente materiale.

Questa ondata di innovazione tecnologica e di creazione di un nuovo modello di consumo ritenuto sostenibile può assumere i caratteri di una vera “distruzione creativa” alla Schumpeter. Gradualmente potrebbero scomparire interi processi produttivi, altri li sostituiranno, nuovi beni tecnologici prenderanno il sopravvento, una intera filiera produttiva e distributiva legata al petrolio verrà sostituita o affiancata dalle strutture di servizio dell’auto elettrica. Nell’arco di qualche tempo alcune figure produttive rischiano di non essere più funzionali, ma potrebbero crearsi altri nuovi posti di lavoro o altri verranno riqualificati.

Lo scenario apparirebbe assai ottimistico, ma in realtà occorre considerare anche altre conseguenze forse non volute di tale processo. Seguendo l’approccio di Eriksen viene da pensare agli effetti per così dire collaterali di questo processo in altre aree del mondo. Il doppio legame che secondo Eriksen caratterizza il rapporto tra crescita economica e limiti ambientali potrebbe ripercuotersi anche in nuove forme. La necessità di materie prime come le cosiddette “terre rare” potrebbe portare a nuove tensioni sociali e politiche e a ulteriori impatti ambientali, causati dall’estrazione di queste materie prime. È il caso dei minerali che sono necessari per la produzione delle batterie elettriche. In un paese come il Congo l’estrazione delle materie prime, in particolare il cobalto, si sta configurando come una nuova forma di sfruttamento da parte di un paese produttore di elettronica come la Cina [Farina 2021]. La produzione di cobalto, prodotto per il 70% dalla Repubblica Democratica del Congo, si concentra anche in Russia e Australia. Appare molto concentrata anche la produzione degli altri minerali come il nichel (Indonesia, Filippine, Russia), le terre rare (Cina, USA, Myanmar), il litio (Australia, USA, Cina) [Agnoli 2021]. Il prezzo del litio è cresciuto enormemente e si ritiene che il paese che riuscirà a controllare questa risorsa avrà un enorme potere non solo economico ma anche politico [Taino 2022]. Il litio e le terre rare rappresenterebbero «il petrolio del futuro» e come tale sono già una risorsa scarsa e presente sul pianeta in modo disuguale [Michielin 2022]. Tuttavia, la ricerca sulle migliori tecnologie per le batterie delle auto elettriche appare ancora in corso[7].

Inquietudini

In un breve articolo del 1930, il grande economista inglese John M. Keynes [2017], cercava di ragionare sulle prospettive economiche per la generazione del prossimo futuro, quella dei nipoti: «In questo saggio (…) non è mio scopo esaminare il presente o il futuro immediato, ma sbarazzarmi delle prospettive a medio termine e di librarmi nel futuro» [Keynes 2017, 264]. Questo “librarsi nel futuro” costituiva il punto di osservazione in cui dare forma al quadro di vita economica e sociale da lì ai prossimi cento anni. Riteneva che l’umanità avrebbe potuto imboccare la strada che poteva portare «alla soluzione dei suoi problemi economici». Riteneva che nel giro di pochi anni la tecnologia avrebbe reso possibile impiegare nelle attività agricole, minerarie e industriali «un quarto dell’energia umana» fino ad allora utilizzata. Riteneva, però che questo processo di mutamento causato dalle innovazioni avrebbe prodotto un grande problema sociale di cui si sarebbe molto sentito parlare negli anni successivi: «la disoccupazione tecnologica». Da lì a un secolo sarebbe stato possibile lavorare secondo turni di tre ore a settimana per un totale di quindici ore alla settimana, far lavorare «quanta più gente possibile» e allargare il godimento del tempo libero anche ai ceti sociali che mai ne avevano goduto. Tuttavia, sosteneva anche che tutto questo sarebbe stato possibile solo se la società fosse stata in grado di controllare alcuni «fattori»: il controllo demografico, la decisione nell’evitare guerre e conflitti sociali [Keynes 2017, 267-270].

È innegabile che la globalizzazione non sia stato un processo indolore. Inoltre, la celebre idea di Joseph Schumpeter [2010] della «distruzione creatrice», operata dalle varie ondate di innovazione tecnologica con i loro effetti su organizzazione produttiva, nuovi tipi di beni, occupazione, ecc., ha più di un esempio nella storia del Novecento. L’interconnessione crescente dei sistemi e degli spazi economici ha acuito la disuguaglianza e innescato nuove tensioni sociali e politiche, come mostra l’ampia analisi comparativa dell’economista francese Thomas Piketty [2020]. D’altra parte Giddens [2000, 27] sosteneva che «la globalizzazione non si sta affermando in maniera imparziale e non è affatto pienamente benigna nelle sue conseguenze». Enrico Moretti, nel suo volume sulla nuova geografia del lavoro, qualche anno dopo, ha affermato che «la globalizzazione suscita una diffusa inquietudine» [Moretti 2014, 72] tra i lavoratori americani, e non solo americani si potrebbe aggiungere. L’inquietudine riguarda, ad esempio, la probabilità di perdere il lavoro perché la propria impresa ha delocalizzato la produzione in paesi in cui il costo del lavoro è più basso. Come mostrano D’Aloisio e Ghezzi [2016], nel caso dell’Italia le trasformazioni del lavoro industriale hanno posto le basi per un diffuso stato di crisi. Nella percezione dei lavoratori questa condizione di crisi si concretizza nella perdita e nella precarizzazione del lavoro. Richard Sennett [2001] ha mostrato come le strategie di flessibilità dei lavoratori e delle istituzioni locali possano costituire una risposta ai pesanti effetti dei mutamenti economici sulla vita delle persone. Ma nei casi esposti da D’Aloisio e Ghezzi [2016] la flessibilità richiesta ai lavoratori italiani è diventata sinonimo di precarizzazione. La crisi del lavoro assume quindi le caratteristiche di una esperienza totalizzante di «crisi della presenza», come negli studi di Ernesto de Martino [1959] sulla condizione dei contadini del Meridione. Come mettono in luce i due autori, in questo caso non si tratta più della estrema povertà dei contadini del Sud. Questa nuova forma di precarietà del mondo industriale riguarda sia il lavoro sia la stessa esistenza per la difficoltà di mantenere un reddito e un lavoro stabili. Sono in gioco le identità dei lavoratori come tali e la consapevolezza di poter progettare un futuro e di avere un controllo sulle proprie vite [D’Aloisio, Ghezzi 2016, 37-38].

Tali inquietudini in Europa prendono forma in una sorta di «voglia di comunità», come Zygmunt Bauman ha sostenuto. In questo caso si paleserebbe il ritorno a una supposta forma di socialità comunitaria caratterizzata dalla fedeltà a un luogo specifico che garantisca sicurezza, una condizione che lo Stato si ritiene non abbia garantito. Da qui il ripiegamento in un ambito di vita sociale caratterizzata da esclusivismo e conservatorismo [Bauman 2001].

Questa tendenza ha mostrato un riflesso nelle scelte politiche ed elettorali che si sono sviluppate negli ultimi decenni nel mondo industriale. I partiti in vario modo definibili di “sinistra” sembrano attrarre principalmente i ceti medi dotati di un alto livello di istruzione. I partiti di “destra”, talvolta definibili come «social-nativisti», sono al centro delle preferenze dei ceti sociali dotati di alti redditi ma anche dei ceti popolari. Questi ultimi mostrano tali preferenze elettorali perché riterrebbero i partiti di sinistra e di centro come responsabili della costruzione dell’Unione Europea e quindi come responsabili delle nuove disuguaglianze, della diminuzione delle risorse del Welfare e in generale della precarietà della propria condizione sociale [Piketty, 2020, 555-641, 917 e segg., 974 e segg.]. La ricostruzione di Piketty sullo sviluppo della disuguaglianza tra epoca moderna e contemporanea è caratterizzata dall’uso assai competente non solo degli studi di economia politica e di storia economica ma anche della sociologia e dell’antropologia. Egli sostiene che le nuove disuguaglianze che si sono concretizzate dagli anni Ottanta e Novanta del Novecento non devono essere ritenute inevitabili. Non è nelle mie competenze entrare nel merito della sua complessa analisi e non sarebbe neppure questa la sede. Tuttavia, voglio segnalare che l’autore – cito alcuni suoi passaggi – propone varie politiche, tra queste ha fatto molto discutere l’idea di «sostituire il concetto di proprietà permanente con quello di proprietà temporanea, attraverso una tassazione fortemente progressiva dei grandi patrimoni che permetta di finanziare una dotazione universale di capitale, dando così vita a una circolazione permanente dei beni e dei patrimoni». Propone, inoltre, di studiare modalità di «tassazione fortemente progressiva sul reddito», rendere equo il sistema di accesso all’istruzione, di assicurare la «partecipazione al processo decisionale delle aziende», e così via. L’economista francese ha, insomma, proposto un superamento del contemporaneo sistema capitalistico per porre le basi «di un nuovo socialismo partecipativo per il XXI secolo», una nuova «organizzazione dell’economia mondiale al fine di istituire un sistema democratico transnazionale fondato sulla giustizia sociale fiscale e climatica» [Piketty 2020, 1092]. Mi sembra di poter dire che ciò che si profila in questa analisi è il forte intervento dello Stato nella vita sociale per combattere le nuove disuguaglianze sociali. Forse si può dire che emerge la necessità anche di un rafforzamento del Welfare State nei suoi vari settori, “tradizionali” e nuovi, di intervento [Porcellana 2022; Rimoldi, Pozzi 2022].

Conclusioni

A mio avviso, la domanda può essere formulata nel modo seguente: pensare il futuro chiama in causa le innovazioni tecnologiche e il loro impatto complesso nell’organizzazione sociale, politica e produttiva. Ma non possiamo non considerare anche l’impatto sul discorso e sulle rappresentazioni degli attori sociali e persino sulle rappresentazioni prodotte dai media, dall’industria culturale e dalle narrazioni delle forze politiche. In questo breve saggio ho provato a delineare non tanto le prospettive future concrete quanto i discorsi che oggi vengono proposti per immaginare il futuro. Alla fine di questo modesto lavoro ho pensato a quanto possa essere interessante concentrarsi sul punto di vista degli attori sociali riguardo alle pratiche sociali e alle rappresentazioni che stanno prendendo forma riguardo al futuro.

Sta prendendo quindi corpo una rappresentazione del futuro del lavoro caratterizzata dalla imprevedibilità dell’impatto dell’innovazione tecnologica sul panorama delle professioni esistenti, con la scomparsa di varie specializzazioni e l’emergere di altre, a cui si aggiungono la precarizzazione del lavoro e un’istruzione scolastica e universitaria non più capaci di garantire un futuro professionale [Signorelli 2016]. Come ha sostenuto di recente Edgar Morin, i processi di mutamento in atto vengono percepiti dagli attori sociali come dinamiche che hanno un grande impatto nelle loro vite. Tali processi appaiono caratterizzati dall’incertezza e dall’imprevedibilità tanto da generare la difficoltà di comprensione degli scenari possibili [Morin 2021, 4].

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[1]  Citazione tratta dal gruppo rock britannico The Clash, titolo del film The Future is Unwritten, regia di Julien Temple, 2007.

[2]  Cito solo alcuni dei tanti siti e delle numerose inchieste: https://www.ilsole24ore.com/art/le-professioni-piu-richieste-2022-cosi-cambia-mondo-lavoro-ADLqgR1; https://www.lum.it/lavori-del-futuro-figure-professionali-competenze-e-lauree-piu-richieste/; https://www.linkiesta.it/2021/12/lavoro-libri-futuro/; https://www.wired.it/economia/lavoro/2020/10/21/come-sara-futuro-lavoro/; https://www.wired.it/economia/lavoro/2021/01/04/lavoro-tendenze-2021/.

[3]  Vedere, tra gli altri, Pecqueur [2000, 71]; Trigilia, Burroni [2010, 11, 21, 45, 46, 56-60].

[4]  Vedere, tra gli altri siti giornalistici: https://video.sky.it/news/mondo/video/le-parole-profetiche-di-obama-su-una-possibile-epidemia-586645.

[5]  Cfr., tra gli altri, Kenney (ed.) 2000.

[6]  La stampa italiana ed europea ha dato grande risalto al dibattito politiche che è scaturito da questa decisione della UE, come si può vedere, tra gli altri, in Fotina 2022, Magani 2022; vedere anche Voitures thermiques: le Parlement européen vote pour l’interdiction de leur vente neuves à partir de 2035, in https://www.lemonde.fr/planete/article/2022/06/08/climat-les-eurodeputes-s-opposent-a-un-texte-de-reforme-du-marche-carbone_6129406_3244.html, 8 giugno 2022.

[7]  Vedere, ad esempio, il caso della start up Factorial Energy: https://www.italian.tech/2021/12/30/news/rivoluzioneremo_il_mondo_delle_auto_elettriche_parola_di_siyu_huang_ceo_di_factorial_energy-331066022/?ref=RHTP-BG-I294524205-P10-S4-T1.