Prefigurare il lavoro del futuro

Scenari etnografici tra crisi finanziaria e crisi pandemica

Fulvia D’Aloisio

Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli

Simone Ghezzi

Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università degli Studi di Milano-Bicocca

Indice

Quale futuro per quale lavoro
Quale antropologia per il lavoro del futuro
Dinanzi al futuro. Scenari etnografici del lavoro e delle sue trasformazioni.
Bibliografia

Abstract. This article is focused on the transformations of work affecting various sectors of production, goods and services, and the challenges of anthropology in understanding the extent of these changes which are being accelerated by the impact of the pandemic. The constellation of new skills, roles and tasks generated by the latest generation of digital technologies is analysed through the contribution of recent theoretical thoughts. The implications of these changes are manifold and depend on the various theoretical approaches taken into consideration. In order to empirically grasp these changes in the workplace, ethnographic research must necessarily acquire new and more specific knowledge in the field of information technology and artificial intelligence, and adapt its methodologies to new contexts that appear quite heterogeneous.

Keywords. work, ethnography, future, technology, artificial intelligence, platform capitalism

Quale futuro per quale lavoro

La presente sezione[1] è centrata sul tema del lavoro, focus centrale delle etnografie svolte dagli autori che vi partecipano, che hanno una particolare attenzione, nei loro campi di ricerca, al cambiamento accelerato che sta investendo vari settori produttivi, di beni e di servizi. Il riferimento alla crisi finanziaria del 2007/2008 e alla crisi pandemica del 2020/2021, operato nel titolo, intende richiamare l’attenzione sui i due eventi che più hanno scosso, in questo scorcio del XXI secolo, le società e l’economia globale. La pandemia, come è noto, ha prodotto effetti ampiamenti differenziati nelle diverse aree e paesi mondo e, all’interno di ognuno di essi, nelle diverse fasce sociali. Ce lo ricordano autori come Vena Das, che nel suo commento alla crisi sanitaria descrive la vicenda della città di Dheli, dove il ricorso al lockdown ha generato esiti molto diversi che nell’area euro-americana: fenomeni come l’impossibilità di approvvigionamento dei villaggi più lontani, o anche la necessità per migliaia di migranti di tornare ai loro villaggi, hanno generato fenomeni contraddittori, come l’istituzione di bus gratuiti, il cui sovraffollamento ha ovviamente accresciuto il contatto e il contagio, ancora una volta in villaggi al di fuori di qualunque possibilità di monitoraggio da parte dello stato [Das 2020][2]. Considerazioni per certi versi analoghe sulle pandemia, seppur rivolte ad un contesto differente, sono venute da Schirripa, il quale innanzitutto ha sottolineato come le disuguaglianze sociali abbiano agito sia nel determinare forme differenziate di esposizione al contagio (basti pensare a residenze affollate, ai senza tetto etc.) e sia nel definire l’accesso alle cure. Inoltre, partendo dai casi africani di sua competenza, l’autore si è spinto a rimarcare come proprio la capacità di pensare al futuro, di fronte alla crisi, sia elemento essenziale per preservare la possibilità stessa di agire nel mondo, evocando sullo sfondo, a questo proposito, la teorizzazione demartiniana relativa al tema della crisi e ai possibili orizzonti di riscatto [Schirripa 2020].

Nel suo complesso, dunque, la pandemia sembra aver costretto a radicali ripensamenti del ruolo della scienza, dell’utilità di modelli uniformati, tanto nelle strategie attuate per fronteggiare la situazione quanto nei disegni previsionali, questi ultimi supportati da analisi di dati e proiezioni statistiche. Anche nella precedente crisi finanziaria, a fronte delle (mancate) previsioni degli economisti, le certezze previsionali, fino a quel momento accreditate dalle discipline economiche, etano state messe sotto accusa, spesso nei termini di una sorta di inadempienza complessiva.

Esula da nostri obiettivi una riflessione sulla pandemia come evento in sé, piuttosto nei saggi qui inclusi essa inevitabilmente compare nella misura in cui incrocia, e pesantemente condiziona, le aree e gli ambiti lavorativi che taluni saggi analizzano. Soprattutto, la pandemia si colloca di seguito all’altra profonda crisi, la grande recessione (ormai così denominata) del 2007/08, i cui esiti, almeno nel caso italiano, al momento della pandemia non erano ancora del tutto superati. Di quella crisi e dei suoi esiti ci siamo occupati, assieme a Ghezzi, in pubblicazioni, che hanno affrontato, a distanza di alcuni anni, il settore manifatturiero italiano in taluni distretti industriali (Valenza Po, Val d’Elsa, Brianza, Marche), nella grande impresa automobilistica al sud Italia (FIAT-SATA, poi FCA a Melfi), nel terziario del trasporto merci su gomma, pubblicazioni entro cui si era cercato di cogliere aspetti di trasformazione delle forme del lavoro e strategie di resistenza a più largo raggio [D’Aloisio, Ghezzi 2016; D’Aloisio Ghezzi 2020]. Nei settori analizzati in questi scritti, si delineavano cambiamenti tecnologici e faticosi confronti con le nuove forme globali dell’economia e dei mercati stranieri, di merci e lavoro, disegnando casi di imprese che, nella maggior parte dei casi analizzati, concorrevano a dare vita a strategie di resistenza e di riconversione, che vedevano ampiamente in crisi quegli stessi sistemi di organizzazione d’impresa e di reti territoriali, che pure costituivano la specificità delle aree distrettuali italiane. Il discorso sulla crisi economica e suoi effetti, dunque, è tutt’altro che concluso, né poteva dirsi tale nel momento dell’impatto della crisi pandemica, con tutta la sua forza devastatrice. Ne è testimonianza il recentissimo lavoro di Spiridakis, relativo ad un caso particolarmente emblematico, quello della Grecia, che si confronta con diverse situazioni – ambiti economici, nuovi processi migratori, nuovi aspetti della formazione lavorativa - a cavallo tra le due crisi. [Spridakis 2022]. Si tratta, come è noto, di uno dei paesi europei più colpito e bistrattato dalle misure anti-crisi, che quando Spyridakis scrive è ancora nel pieno della pandemia e dei suoi tragici esiti, economici, sanitari e sociali. L’autore vede una precisa continuità tra “le strutture di sentimento” delle persone ordinarie, a seguito della crisi finanziaria e successivamente nella crisi pandemica, in cui si ripropone la grave situazione di precarietà, incrementata e generalizzata, ancora più connotata da un futuro incerto. In questo senso, i gli attori sociali raggiunti dalle etnografie si scontrano con la difficoltà di sopravvivenza materiale e la crescente erosione delle certezze identitarie, «intrappolati in una situazione determinata da strutture di potere economico distanti e tecnologie pedagogico-politiche che supportano la minore protezione sociale in favore di una nuova ‘mano invisibile’» [ivi, 3].[3]

Oltre al riproporsi oggi di una situazione di dilagante precarietà, già sperimentata come si è detto nella grande recessione, si aggiunge poi, in una prospettiva necessariamente autoriflessiva, la difficoltà degli antropologi nel praticare la metodologia consustanziale della disciplina antropologica, a fronte dell’impossibilità della presenza sul campo durante i reiterati lockdown. La questione è affrontata in questo fascicolo da Simone Ghezzi, che nel distretto industriale brianzolo ha sperimentato l’impossibilità di raggiungere i suoi abituali interlocutori, ma più ancora l’accelerazione delle trasformazioni, imposta dalla nuova crisi. Secondo l’autore, dunque, la crisi pandemica non fa altro che riproporre, con ulteriori cogenti interrogativi, il già noto problema della discrasia temporale tra il momento della pratica di campo e quello della scrittura, delineando così nuove questioni circa lo iato tra la velocità dei processi globali e la capacità dell’approccio osservativo, prima, e della fase analitico-descrittiva, poi, di stare dietro a tale velocità [Ghezzi infra]. La pandemia diviene allora, fattore di sconvolgimento di elementi prima dati per acquisiti, in parte nei contesti oggetto di ricerche etnografiche di lunga durata, in parte nello stesso approccio etnografico a quei contesti, costringendo, come conseguenza della impossibilità di poterlo praticare, a necessari ripensamenti e rimodulazioni delle premesse e della pratica di campo. Ci sembra utile qui ribadire che, con il blocco delle attività etnografiche, si ripropone soprattutto la necessità metodologica della osservazione/partecipazione lunga e reiterata, al di là di qualunque suggestione di tipo estemporaneo, con scarso fondamento nell’approfondita pratica di campo.

Tra le trasformazioni tecnologiche e produttive, destinate già prima della pandemia a modificare radicalmente il modo di produzione, per usare un'utile definizione marxiana, vi è senza dubbio l’insieme delle tecnologie digitali e la nuova fase che esse stanno attraversando. A sua volta, la pandemia ha introdotto una notevole accelerazione di tale processo trasformativo, come due saggi all’interno del presente fascicolo intendono illustrare: Perra, per quanto attiene al cosiddetto smart-working del pubblico impiego in Italia, e chi scrive [D’Aloisio], per quanto attiene alla produzione automobilistica organizzata secondo il cosiddetto 4.0.

Sulle tecnologie digitali è dunque necessario soffermarsi, in queste bervi note introduttive relative agli scenari futuri del lavoro. Specificamente in Italia, alcuni recenti lavori hanno affrontato la questione delle trasformazioni digitali di ultima generazione, [per la complessa definizione di 4.0 si rimanda ai cenni nel saggio interno, D’Aloisio infra]. È riconosciuto dagli studiosi di queste trasformazioni, tuttavia, che l’Italia sia alquanto indietro, rispetto a paesi partener/competitori. Due cospicue raccolte di saggi sul tema, la prima denominata Lavoro 4.0 [Cipriani, Gramolati, Mari 2017], e la seconda denominata Smart Working [De Masi 2020; Scarpitti, Zingarelli 1996], alludono ad aspetti diversi ma con un forte sfondo comune, quello appunto delle tecnologie digitali e del loro sempre più poderoso ingresso nella produzione di beni e servizi, secondo configurazioni avanzate (internet of thinghs) che stanno inducendo la ridefinizione dei ruoli lavorativi, la creazione di mansioni difficilmente riconducibili alle vecchie, tanto nelle funzioni manuali quanto in quelle cognitive, secondo una distinzione che risulta già obsoleta.

Possiamo innanzitutto gettare uno sguardo alle trasformazioni dei ruoli lavorativi, ovvero alla galassia di nuove competenze, ruoli e mansioni generati dalle trasformazioni di ultima generazione. A questo proposito può essere utile fare riferimento ad un volume che ha generato molta discussione negli Stati Uniti, vincendo tra l’altro un prestigioso premio, e che ha concorso a riaprire la discussione sul lavoro del futuro ma anche sul futuro del lavoro, riproponendo un vecchio problema, quello della possibilità di una sua scomparsa. Nel suo Rise of the Robots. Technology and the Threat of a Jobless Future[4], Martin Ford delinea lo scenario di un futuro senza lavoro, secondo il titolo dell’edizione italiana [Ford 2017], riprendendo un tema che aveva avuto largo spazio nella riflessione delle scienze sociali tra gli anni 80 e 90. Nelle analisi di autori come Gorz, Beck, Rifkin la visione apocalittica della fine del lavoro aveva infatti costituto in quegli anni un tema centrale, che spaziava dalla meccanizzazione estrema, in grado di separare il lavoro dalla persona e dalla sua vita [Gorz 1988], all’osservazione sulla costante riduzione dell’orario di lavoro e conseguentemente sul rischio di diminuzione dei lavoratori stessi [Rifkin 1995]. Infine, emergeva la prospettiva di un capitalismo senza lavoro, discussa nel celebre saggio di Beck della fine deli anni 90, ove egli tracciava una fase globale nuova e diversa, rispetto alle contrazioni cicliche del ciclo economico, volta a suo avviso a spaccare la società nelle due classi di detentori e non di un posto di lavoro [Beck 2000]. La questione cambia però notevolmente aspetto se, piuttosto che essere sollevata da una teorizzazione critica, volta ad analizzare i retroscena più oscuri del livello economico, viene proposta invece da un piccolo imprenditore della silicon valley, quale Martin Ford. Proprietario di una piccola azienda di software, vale la pena rimarcare che la posizione dell’autore è dunque di interno al comparto produttivo centrale delle nuove tecnologie, ma al contempo non è certo quella di uno dei guru delle più grandi società globali del settore, come l’ormai pressoché mitico Steve Jobs, oppure Larry Page, co-fondatore e amministratore delegato di Google, le cui elucubrazioni - anche in materia di pandemia, val la pena ricordarlo – inondano periodicamente la stampa o il web, assumendo toni che richiamano vere e proprie profezie[5]. Nel caso di Ford, invece, si tratta di un’analisi lucida e fondata entro report e pubblicazioni di ricerca, entro le prospettive di economisti alquanto esterni al mainstream, attingendo a dati di network di ricerca e non meramente governativi, oltre che alla sua esperienza diretta di aziende e mercati internazionali del settore tecnologico-digitale.

Per dirla in breve, nelle previsioni di Ford l’ormai accresciuta produzione di robotica e di software intelligenti è già intenta a produrre, nei decenni che stiamo attraversando, una progressiva sostituzione di lavoro umano, non solo nelle mansioni a bassa qualificazione, come si è soliti pensare, ma anche nei servizi, nel lavoro dei cosiddetti colletti bianchi e finanche nelle funzioni manageriali e gestionali [Ford 2017]. Esempi concreti derivanti dall’osservazione di tutti i giorni, ma anche da tecnologie meno visibili e note, disegnano complessivamente uno scenario di nuove tecnologie in grado di ridurre enormemente il lavoro umano: dalla ristorazione in grado di fornire servizi automatici, all’ambito della sanità, che include la diagnostica medica e l’offerta terapeutica, in grado di incrociare una grande mole di dati e di fornire risposte terapeutiche confezionate da programmi appositi. Infine, si arriva alla realizzazione di cloud aziendali, in grado di rivoluzionare il lavoro dei colletti bianchi e offrire soluzioni gestionali, anche qui con programmi informatici appositi, attraverso l’azione di un unico consulente [Ford 2017, 95 e segg.]. Inoltre, come egli fa notare, se in passato il pensiero economico dominante sosteneva l’impossibilità di una disoccupazione strutturale permanente dovuta alla tecnologia, teorizzando la sostituzione dei vecchi posti di lavoro con nuove occupazioni, oggi lo scenario sta cambiando anche in seno al pensiero economico. Difatti Ford fa riferimento al lavoro degli economisti Brynjolfsson e McAfee [2011, cit. in Ford 2017, 75], i quali hanno contribuito a diffondere anche in ambito economico la tesi contrastante di una nuova disoccupazione permanente, anche se questo discorso – come egli osserva – continua pur sempre a permanere ai margini del dibattito pubblico.

Solo un anno dopo, sempre negli Stati Uniti, un altro lavoro segnala con altrettanta dovizia di dettagli il cambiamento radicale che collega la robotizzazione alla riduzione dei posti di lavoro, indicando sia la capacità di tali tecnologie di occupare mansioni da secoli di pertinenza umana, sia il progressivo abbassamento dei costi della robotica, tale che i robot, secondo l’autore, diverranno competitivi anche rispetto ai lavoratori più sottopagati [Ross 2016]. L’autore, docente della Columbia University e consigliere per l’innovazione di Hilary Clinton, cita in proposito il caso della Foxconn, multinazionale di componenti elettroniche, oggetto di ricerche sociologiche che ne hanno illustrato gli aspetti più cruenti di organizzazione del lavoro entro la catena di valore dei nostri consueti apparecchi elettronici, fino a giungere a numerosi suicidi di lavoratori (Ngai, Chan, Selden 2015; Ngai, Huilin, Yuhua, Yuan 2015). A seguito di forme di protesta e di successivi parziali rialzi dei salari in Cina, il fondatore e presidente di Foxconn – come riporta Ross - ha incrementato l’investimento in robotica, prevedendo di accrescere ulteriormente la sostituzione di lavoro umano, con l’esplicito intento di ridurre nello stesso tempo i costi del lavoro e la protesta sociale [Ross 2016, 57-58]. Al di là di questo esempio eclatante, Ross ricorda come gli sportelli bancari, le biglietterie dei mezzi di trasporto, le agenzie di viaggio siano ormai completamente sostituite dall’elettronica, e si mostra tutt’altro che ottimista sul potenziale cambio di collocazione di quanti sono già di fatto espulsi dal lavoro, se non attraverso un mirato progetto di riconversione, che vedrà diversamente protagonisti, ancora una volta, le diverse aree del mondo. Nel complesso, secondo la sua esplicita raccomandazione:

È necessario un investimento nei campi in crescita come la robotica, ma anche una struttura sociale che sappia far sì che chi sta perdendo il lavoro riesca a rimanere a galla abbastanza a lungo per reindirizzarsi verso le industrie o le posizioni che offrono nuove opportunità. […] Ciò vuol dire prendere una parte dei miliardi di dollari della ricchezza che sarà prodotta nei campi della robotica e reinvestirla nell’istruzione e nella formazione professionale dei tassisti e delle cameriere rimasti senza occupazione [Ross 2016, 65-66].

Guardando alle trasformazioni qualitative, prodotti dalle forme del lavoro proprie della nuova fase tecnologica si inizia a strutturare una nuova riflessione, sebbene se ne ammettano i tratti di incertezza e di provvisorietà [Magone, Mazali 2016, 2018; Dagnino, Nespoli, Seghezzi 2017; Cipriani Gramolati, Mari 2018]. La necessità di definire i nuovi lavoratori che interfacciano le nuove tecnologie digitali resta un problema aperto, in grado di generare riflessioni sui cambiamenti ma anche preoccupazioni. Seghezzi, ad esempio, nel quadro di un gruppo di lavoro multidisciplinare, ha evocato una seconda grande trasformazione, richiamandosi alla terminologia di Polany, che egli fa partire dal 2005, anno in cui la disponibilità dell’accesso alla rete su smartphone ha reso possibile una più ampia diffusione della connessione, in maniera non dissimile da quanto avviene su pc [Seghezzi 2017]. Se però la portata di questa rivoluzione è stata senz’altro notevole, appare molto problematica la considerazione, operata dall’autore, in base alla quale la grande proliferazione di lavori attraverso la connessione, domestica o in qualsivoglia luogo, segnerebbe la proprietà dei mezzi di produzione da parte del lavoratore. In realtà, i device personali e la loro veloce connessione hanno sicuramente prodotto una grande proliferazione di nuovi servizi, individuali e collettivi, come pure nuove forme di economia, tra cui, negli esempi citati dall’autore, le vendite attraverso piattaforme da individuo a individuo, che sovvertono le tradizionali leggi di mercato. Tuttavia celebrare la liberazione del lavoratore dal rapporto di dipendenza legato alla proprietà dei mezzi di produzione appare alquanto semplicistico, se non inappropriato. Occorre infatti guardare con più attenzione al tipo di merce/servizi prodotti dai lavori in rete, alla proprietà dei profitti realizzati e ancor più alle nuove forme di creazione dei profitti, tutti elementi che delineano uno scenario più complesso, tanto nell’accumulazione come nelle forme del lavoro che ad essa concorrono.

Risulta in proposito illuminante un altro importante lavoro contemporaneo, quello di Shoshana Zuboff il cui titolo, Il capitalismo della sorveglianza, sembra ancora una volta rievocare temi noti, ma più che altro nella letteratura distopica, a partire dal ben noto 1984 di Orwell. L’analisi della sociologa di Harward è invece complessa e articolata, ed anche in questo caso delinea un nuovo panorama economico, oltre che nuovi scenari del potere, opportunamente indicati nel sottotitolo dell’edizione italiana [Zuboff 2019]. Nell’ analisi da lei condotta, si parte dalla grande massa di dati personali estratti dagli apparentemente gratuiti e molteplici servizi, offerti dalla rete e dai social network, per individuare come essi vadano a costituire una nuova merce di grande valore economico, accumulata dalle agenzie di rete che adoperano i ben noti cookies, e che sono in grado così di raccogliere e capitalizzare grandi quantitativi di informazioni. Tali informazioni divengono immediatamente fonte di profitto, costituendo merce sul mercato della pubblicità. Esse consentono, infatti, tramite la vendita alle agenzie pubblicitarie, di produrre un processo denominato di profilazione degli utenti, cui fa seguito la possibilità di elaborare una pubblicità targettizzata, ovvero mirata sui gusti, le esigenze, le preferenze espresse dai soggetti sociali attraverso i comportamenti e le scelte effettuate nel web. Come si può comprendere, le implicazioni di questo processo sono molteplici, dalle nuove forme di potere di coloro in grado di estrarre queste informazioni, alle questioni giuridiche ed etiche che riguardano la possibilità di captare informazioni dai comportamenti “liberi” di utenti, che solo in maniera frettolosa e non ampiamente comprensibile sono informati sulle modalità di estrazione, conservazione e ancor più di uso commerciale delle informazioni stesse. Ma la questione più rilevante, almeno ai fini del discorso qui condotto, è a parere di chi scrive la possibilità di creare valore economico non da una merce, nè da una prestazione di lavoro ma dai semplici comportamenti on line di tutti noi - ciò che Zuboff chiama renderizzazione - senza alcuna consapevolezza della nuova creazione di valore da parte dei “proprietari”, nè della “messa a valore” dei comportamenti e delle preferenze di ciascuno da parte di terzi [Zuboff 269 e segg.]. L’argomento illustrato dalla Zuboff è in grado dunque di delineare nuove forme di valorizzazione economica, di profitto e di capitalizzazione, e concorre a sfatare l’idea della liberazione dal rapporto di dipendenza della proprietà dei mezzi, come pure a mitigare la diffusa idea delle nuove forme di libertà consentite dalla rete. Sarà pur vero che in rete, nelle piattaforme dedicate a queste attività, possiamo vendere/acquistare un vestito o un’auto senza intermediazione, cosa del resto possibile già prima dell’esistenza di internet, ma è anche vero che nuove forme di compravendita, che investono noi stessi, i nostri gusti e il nostro “libero” navigare in rete, sono ormai pienamente delineate nell’orizzonte dei mezzi digitali, così come sono raccolte e utilizzate da nuovi capitalisti della sorveglianza, nel linguaggio dell’autrice. Anche il recente lavoro di Adam Greenfield, una efficace descrizione quasi da manuale delle tecnologie radicali - così da lui denominate, che investono la produzione, l’economia finanziaria e la nostra stessa quotidianità – testimonia il potere di tali trasformazioni di incidere sul modo stesso in cui immaginiamo e rappresentiamo il futuro, ormai quasi del tutto sussunto alla forza pervasiva di talune tecnologie, i cui nessi con il potere e le sue nuove forme sono, a parere dell’autore, tutti ancora da indagare [Greenfield 2017].

A fronte di queste brevi digressioni introduttive, in una prospettiva limitata alle ricerche qui presentate, quali scenari possiamo prefigurare per il lavoro del futuro ormai prossimo? La prospettiva antropologica e l’approccio etnografico, rivolti a tali questioni, propongono una specifica visione prismatica che consente di cogliere situazioni diversificate e persino antitetiche, con la scomparsa di competenze e ambiti di produzione, ma al contempo la strutturazione di nuovi prodotti e servizi, di nicchie di resilienza o di eccellenza, di nuovi ambiti di consumi, funzionali ad un mercato in rapida trasformazione.

Quale futuro allora abbiamo davanti? Quanto la nostra cognizione quotidiana della vita e del mondo è in grado di compendiare, nelle condizioni contemporanee, una capacità di prefigurare il futuro, di costruire visioni anticipatorie delle trasformazioni che stanno agendo sulle nostre vite lavorative, sulle identità connesse al lavoro, sul senso che il lavoro assume nelle nostre esistenze? Il primo saggio, di Franco Lai, inizia col riflettere proprio sulle modalità attuali di prefigurare il futuro, a seguito delle reiterate crisi, e sul cambiamento squisitamente antropologico della nostra visione della prospettiva futura. I saggi successivi rivolgono invece la metodologia etnografica a campi, tutti di lunga durata, che si configurano nel distretto della produzione del mobile brianzolo che vive appieno la crisi pandemica ma anche la crisi bellica legata al mercato russo (S. Ghezzi); nella grande acciaieria storica di Terni, nell’arco della sua tortuosa evoluzione (M. Saltalippi); nell’industria automobilistica bolognese, nella nicchia delle vetture super-sportive di lusso di Automobili Lamborghini (F. D’Aloisio); nel tanto decantato ritorno all’agricoltura a partire dal caso studio della provincia di Alessandria, che concorre a sfatare retoriche e false rappresentazioni (M. Fontefrancesco); nell’industria estrattiva della pietra di porfido in Trentino, anch’essa industria di lunga durata protagonista di alterne vicende (A. Tollardo); nel settore del pubblico impiego, con un contributo di ricerca sociologica qualitativa che completa il fascicolo, affrontando l’accelerazione del cosiddetto smart working (S. Perra). Infine, il commento conclusivo è affidato ad Andrea Fumagalli, economista che si è a lungo occupato di lavoro precario nelle sue ricerche [Fumagalli 2015, 2016, 2020], oltre che nella scena e nella discussione politica, attraverso il network della Rete di San Precario. Tutt’altro che nuovo alle discussioni interdisciplinari, e sempre sensibile verso il dialogo con la ricerca antropologica, Fumagalli concorre a chiudere il cerchio, partendo nella sua digressione dalla trasformazione del lavoro in un futuro ormai già divenuto presente: egli analizza come le tecnologie siano ormai sfociate nella dimensione della biologia, nella gestione di grandi masse di dati, nella nuova frontiera informatica dell’internet of things. Torniamo così all’interrogativo iniziale su quale futuro ci aspetti, su come - e quanto - sarà il lavoro disponibile in questa nuova fase, sull’interrogativo che concerne se - e con quali strumenti - saremo in grado di dare un senso al futuro che incombe, anche attraverso la possibilità di prefigurarlo.

Quale antropologia per il lavoro del futuro

Che cosa dunque possiamo aspettarci dall’antropologia del lavoro nei prossimi anni? Adam Kuper [1994, ed.ital. 2000] si era posto una domanda simile in riferimento all’antropologia culturale degli anni Novanta, anni in cui la disciplina era percorsa da nuovi orientamenti teorici, quali gli studi postcoloniali, la critica postmoderna e le teorie della globalizzazione. Lo stesso autore rispondeva a quella domanda affermando che «l’oggetto sarà come il passato, poiché gli elementi costitutivi dell’antropologia sono rimasti stabili per tutto il ventesimo secolo. Allo stesso tempo, le tendenze delle innovazioni teoriche che condurranno ad alcuni cambiamenti di direzione e di enfasi sono già evidenti» [2000, 149]. Il riferimento di allora riguardava l’interdisciplinarità e il contributo teorico proveniente dalla sociologia, dalla storiografia, dalla linguistica, dalla filosofia, dall’ecologia e - aggiungiamo noi - dalla geografia e dall’economia; ma l’elenco potrebbe continuare. Oggi quel richiamo alla interdisciplinarità è ancor più necessario nell’ambito dell’antropologia economica e del lavoro. Infatti, come si è argomentato nel paragrafo precedente, nell’ambito del lavoro e dell’impresa, non solo le trasformazioni in atto sono rilevanti dal punto di vista tecnologico ed organizzativo, ma si preannunciano anche significative dal punto di vista dell’impatto sociale e culturale. Ovviamente tali cambiamenti, e la percezione di essi, hanno impatti e significati differenti fra i vari nostri interlocutori sul campo - imprenditori, lavoratori dipendenti o autonomi, sindacalisti - così come fra i diversi settori economici. Alcuni idealizzano il futuro in termini distopici, e guardano con nostalgia al passato, non perché vi sia una qualche tradizione da salvaguardare, bensì perché avvertono la possibilità di perdere la professionalità acquisita in anni di lavoro; altri lo cavalcano con entusiasmo per necessità, per cogliere opportunità e vantaggi attraverso l’impiego di nuove tecnologie; infine, altri lo vedono con più distacco, perché queste innovazioni non avranno molto peso e conteranno ancora poco nel proprio contesto lavorativo. Se nell’industria vari processi di riorganizzazione e di automazione sono già in corso, come nel caso della fabbrica Lamborghini illustrato da D’Aloisio, nel settore dell’artigianato si presentano, invece, situazioni molto più variegate e ambivalenti al loro interno. Le agevolazioni governative recentemente approntate per incentivare l’industria 4.0 anche nei settori tradizionali del Made in Italy [per es. la legge «Nuova Sabatini» per l’investimento in beni strumentali, 4.0 e green nella piccola e media impresa - decreto legge del 22 aprile 2022], potrebbero avere effetti molto variabili nelle imprese artigiane. Da un lato, queste agevolazioni dell’Esecutivo creano i presupposti per aumentare le economie di scala, che è poi il fine ultimo di questi dispositivi rivolti a «migliorare la competitività del sistema produttivo del Paese»; dall’altro lato, però, pongono le aziende di fronte ad una possibile contraddizione, cioè come riorganizzarsi senza mettere in discussione la propria artigianalità, fondata sulla complessità del lavoro manuale e sul controllo della qualità attraverso l’occhio esperto del lavoratore o della lavoratrice. Va poi tenuto presente che questi interventi tecnologici avranno una molteplicità di ricadute su tutte le filiere, in termini occupazionali, di relazioni fra imprese e di rapporti finanziari.

Nessuno, in modo diretto o indiretto, può sottrarsi a tale cambiamento. La parentesi della pandemia, se possiamo definirla tale, pur causando una contrazione della produzione, ha accelerato fenomeni già in atto, come il lavoro a distanza e l’utilizzo di tecnologie digitali, che hanno messo in luce forti diseguaglianze fra i lavoratori e i limiti di quelle stesse tecnologie. Dunque, anche ipotizzando una maggior presenza delle applicazioni tecnologiche nel mondo del lavoro, in particolare l’intelligenza artificiale e l’utilizzo pervasivo delle reti informatiche, gli antropologi dovranno comunque fare i conti con situazioni già note, per gli effetti della polarizzazione fra i lavoratori che assumono ruoli di responsabilità o comunque di centralità nel funzionamento dei processi di automazione e i lavoratori che invece sono confinati a svolgere mansioni ripetitive o con minor contenuto professionale e, per questo motivo, hanno posizioni marginali. Ciò si riflette conseguentemente in differenti condizioni di sfruttamento, di precarietà, di tipologie salariali, di disuguaglianze a vari livelli, che i nostri interlocutori subiscono o contribuiscono a produrre nel lavoro.

Vi è, inoltre, un’area emergente ancora poco esplorata in ambito antropologico, il lavoro digitale [Ciccarelli 2020], ma che sta diventando una tipologia di lavoro pervasiva. Il lavoro digitale, infatti, ingloba oramai una eterogeneità di occupazioni e di mansioni che stanno generando nuove modalità di sfruttamento e di ricchezza nei processi di creazione del valore, per spiegare i quali gli studiosi hanno introdotto nuove aggettivazioni e categorie: capitalismo bio-cognitivo [Fumagalli et al. 2020] [Fumagalli infra], capitalismo delle piattaforme digitali [Peck e Phillips 2021] [Kenney e Zysman 2020], economia dell’algoritmo. All’interno di queste, poi, sono sussunte altre sottocategorie, ancora prive di una locuzione italiana, afferenti a contesti molto eterogenei: gig-economy, sharing economy, economy on-demand, crowd economy, blockchain economy, ecc. [Weinhardt et al. 2021] [Kosmarski e Gordiychuk 2021] [Calvão 2019]. Tali contesti presuppongono competenze specifiche nell’ambito dell’IT, dei big data, del machine learning - la pletora degli anglicismi potrebbe continuare – di cui gli antropologi spesso non dispongono, ma che rappresentano contesti dove sono osservabili situazioni innovative e molto rilevanti dal punto di vista antropologico. Questi nuovi ambiti di produzione o, meglio, di creazione del valore, perché spesso non si tratta di prodotti veri e propri, bensì di scambi e prestazioni virtuali, sollevano numerosi interrogativi circa i perimetri spaziali e sociali dell’attività lavorativa, ma anche circa le caratteristiche delle imprese che generano enormi profitti attraverso il lavoro digitale dei propri dipendenti, e attraverso l’estrazione gratuita, spesso inconsapevole, di informazioni da parte di ignari utenti-consumatori-lavoratori che forniscono dati preziosi per creare le già citate «profilazioni», cioè pacchetti di informazioni sulle loro scelte e preferenze di consumo, che saranno poi oggetto di scambio sul mercato per elaborare strategie di marketing mirato. Tali imprese, alcune delle quali hanno acquisito una posizione di quasi monopolio nel proprio settore, sono poco assimilabili alle tradizionali organizzazioni economiche. Nonostante prevalga la retorica di rappresentarsi come comunità di persone in cui i lavoratori operano in ambienti ideali dove esercitano la propria creatività condividendo i medesimi spazi architettonici, oltreché gli stessi diritti e tutele, la maggior parte di tali imprese, in realtà, è dislocata in più strutture, dispersa in «zone grigie» dove prevalgono forme di cottimizzazione del lavoro, lavoro coordinato attraverso algoritmi, sul quale l’azienda esercita un controllo quasi assoluto in mancanza di un sistema di relazioni industriali adeguato a regolamentare la digitalizzazione del lavoro nella sua complessità. Il modello di business della piattaforma, termine che non a caso evoca versatilità, adattabilità, flessibilità [Guyer 2016], prevede l’interazione di molteplici sistemi di organizzazione del lavoro, per mezzo dei quali i dati sono trasformati in conoscenze, servizi e prodotti da vendere. Così, in anni recenti sono sorte nuove piattaforme, immobiliari, pubblicitarie, di servizi di cloud, di musica e prodotti di intrattenimento che hanno generato enormi profitti integrando lavoro digitale con quello «materiale», beneficiando di questa area grigia poco o per nulla regolamentata. Questo intreccio, fra materialità della produzione, controllo algoritmico e lavoro digitale è ancora tutto da esplorare anche dal punto di vista etnografico; ma per comprendere la complessità e la variabilità di questi meccanismi, per quanto concerne sia l’organizzazione del lavoro, sia i processi di controllo e governamentalità algoritmica, l’antropologia deve necessariamente dotarsi di ulteriori conoscenze e metodologie. Qui si gioca a nostro avviso una parte del futuro della ricerca antropologica sul lavoro tecnologico dei prossimi anni, perché, come già sottolineato in precedenza e descritto in alcuni degli articoli di questo volume, queste innovazioni si ripercuoteranno a cascata anche sul settore manifatturiero, sulla pubblica amministrazione e nel terzo settore, seppur in modalità diverse. Per far luce sulle zone grigie del lavoro, sulle relazioni di potere e le nuove gerarchie, sulle strategie di resistenza, sulle tattiche di sabotaggio e quelle di elusione del conflitto nei sistemi di lavoro complesso, sistemi che si evolvono molto velocemente man mano che i sistemi di intelligenza artificiale si perfezionano e si diffondono ulteriormente, non si potrà prescindere dal metodo etnografico. Tuttavia, esso dovrà adattarsi al campo di ricerca che, nell’ambito del lavoro, appare già estremamente eterogeneo, laddove per esempio il lavoro si esplica attraverso contestuali modalità innovative e «tradizionali» per creare valore. Lo smart-working, citato più volte, produce «da remoto» gli stessi output del lavoro «in presenza», ma gli outcome che ne conseguono sono ben diversi, si pensi all’uso del tempo e dello spazio (domiciliare), alle nuove forme di consumo e di acquisto, alla mobilità sostenibile, ecc.

L’etnografia, inoltre, può svolgere un ruolo essenziale nel ricondurre gli algoritmi che regolano l’economia delle piattaforme, alla loro dimensione «concretamente» culturale. Gli algoritmi non sono altro che una serie di istruzioni che una macchina, per esempio un computer o un robot, deve seguire per completare un determinato compito. Si compone di logiche eterodirette, mai autonome, elaborate da programmatori, cioè persone, con propri valori, convinzioni, pregiudizi e obiettivi. Gli algoritmi sono dunque prodotti sociali e culturali, imperfetti ed etnocentrici come i loro creatori e, in quanto tali, sottoposti a continue modificazioni. Ricondurre dunque l’intelligenza artificiale dentro l’ambito più famigliare della cultura è un’operazione legittima oltreché necessaria. Discutendo di tecnologia, l’antropologo Pfaffenberger si era già espresso in termini analoghi:

Technology is not an independent, non-social variable that has an 'impact' on society or culture. On the contrary, any technology is a set of social behaviours and a system of meanings. To restate the point: when we examine the “impact” of technology on society, we are talking about the impact of one kind of social behaviour on another [Pfaffenberger 1988, 241].

L’interdisciplinarità evocata da Kuper implica, inoltre, maggior conoscenza di un altro aspetto non strettamente antropologico: quello, per esempio, di ripensare alle modalità di produzione e raccolta dei dati [Lane 2016]. Quando si ha a che fare con interlocutori che lavorano in settori strategici e fortemente competitivi, i dati, come abbiamo illustrato sopra, trattati attraverso procedure algoritmiche da sistemi computazionali, diventano merce con elevato valore aggiunto, o informazioni chiave per raggiungere determinati obiettivi. Si tratta di dati particolari, non personali, bensì aziendali, oppure di procedure, dispositivi, processi attraverso i quali si realizzano determinati prodotti, materiali o immateriali. Sono situazioni già sperimentate da chi fa ricerca in ambiti lavorativi, ma trattandosi di ambienti dove la sicurezza dei dati è un aspetto determinante dell’attività stessa, tutelarne la riservatezza e regolarne l’accessibilità senza pregiudicare la libertà di ricerca diventa una questione non sempre facilmente risolvibile.

Dinanzi al futuro. Scenari etnografici del lavoro e delle sue trasformazioni.

La miscellanea di saggi contenuta in questo numero attraversa settori economici e produttivi differenti, in diverse regioni italiane. Il filo rosso è quello del cambiamento, della prospettiva futura, per alcuni dell’impatto della pandemia, nelle vite lavorative dei protagonisti ma anche nel lavoro degli etnografi. L’incertezza delle prospettive e i crescenti elementi di precarietà caratterizzano, in forme diverse, tutti i contesti analizzati: sia che si tratti di settori che hanno attraversato crisi e che ne temono altre, sia di settori, come le nicchie del superlusso, che non temono al momento contrazioni di mercato, ma che sono investivi da radicali cambiamenti tecnologici e organizzativi.

L’apertura è data dalle riflessioni antropologiche di Franco Lai, rivolte alla difficoltà di tracciare una dimensione prospettica sul futuro, che ci metta in grado di individuare con chiarezza le tappe dei mutamenti in corso e le strategie per farvi fronte, per quanto attiene ai cambiamenti del lavoro e agli effetti che tali cambiamenti stanno avendo e sono destinati ancor più ad avere negli scenari di vita di tutti noi. Senza pretese di esaustività, Lai si concentra, come lucidamente preannuncia, sulla difficoltà di fare previsioni, sulla rilevanza delle trasformazioni tecnologiche in atto, sulle nuove specifiche forme di inquietudine sociale (e non meramente individuale, utile rimarcarlo) connesse alle attuali trasformazioni. Da ultimo, come egli stesso avvedutamente ammette, trae alcune – frammentarie e provvisorie – conclusioni. La sua attenzione non è rivolta dunque ai soli cambiamenti tecnologici, al processo già in atto di trasformazione di interi cicli produttivi e prodotti, di cui l’elettrificazione dell’automotive a livello internazionale è efficacissimo esempio. Questo complesso insieme di trasformazioni, primariamente quelle informatiche, ma anche quelle orientate alla cosiddetta svolta green, possono assumere i caratteri di una distruzione creativa alla Schumpeter, nelle parole dell’autore. Più ancora, però, il suo intento è provare a tracciare, ad un livello squisitamente antropologico, alcuni aspetti di come è cambiato il nostro modo di pensare e rappresentare il futuro, come si evince chiaramente dal discorso pubblico, dalla rappresentazione mediatica e anche da certi aspetti dell’industria culturale. L’imprevedibilità del reale, il progressivo impatto delle tecnologie sulle professioni, la crescente precarizzazione del lavoro, la crisi delle istituzioni scolastiche ed universitarie nell’assicurare un lavoro ci rendono, complessivamente, meno capaci di elaborare previsioni. Sempre secondo Lai, percepiamo tutta la forza e l’imponenza delle trasformazioni in atto, ma l’incertezza e l’imprevedibilità ci mettono nella condizione di una impossibilità di prefigurare il futuro. Rispetto al titolo che abbiamo scelto per la presente sessione, dunque, ciò che emerge dall’analisi di Lai è proprio come prefigurare il futuro del lavoro sia un esercizio sempre meno praticabile e, in sostanza, destinato a produrre una frustrante vanificazione. I saggi seguenti, a loro volta, concorrono, nell’insieme e coerentemente con le etnografie effettuate nei rispettivi campi ricerca, a mettere a fuoco i tratti di questa difficoltà, cogliendo un aspetto a nostro avviso cruciale delle ultime crisi e delle condizioni esistenziali che ne conseguono.

Nel suo contributo di ricerca, Simone Ghezzi fa esplicito rifermento ad una difficoltà, al contempo epistemologica e metodologica, attorno alla quale la recente antropologia ha dibattuto, dettata dalle diverse temporalità della scrittura antropologica, rispetto agli eventi e processi culturali che essa si propone di rappresentare e interpretare. Per quanto si tratti di un problema emerso e affrontato già dagli anni 80, non vi è dubbio che esso permanga e si ripresenti a seguito dell’accelerazione e della compressione spazio/temporale, tipica della fase più recente della globalizzazione. Nella restituzione di Ghezzi, emerge con chiarezza come la pandemia abbia ulteriormente complicato le cose, vieppiù se l’oggetto di ricerca antropologica è rappresentato da attività economiche produttive e da processi del lavoro, come è nel caso di tutti gli scritti di questo numero monografico. Tali attività economiche, come è noto, sono state interrotte nella fase di lockdown, ed è anche a partire da queste interruzioni che Ghezzi si trova a riflettere sulle trasformazioni che hanno investito la sua area di ricerca, il distretto del mobile della Brianza. I tre casi di imprese analizzati si riferiscono ad attività già travolte dalla crisi finanziaria del 2007/2008, che a questa avevano reagito innovando le prospettive di vendita attraverso un riposizionamento dei loro prodotti sui mercati internazionali, affrontando al contempo le criticità legate alla crisi delle maestranze e delle loro competenze artigianali, alla trasmissione familiare delle attività di impresa, fronteggiando infine la frantumazione e dispersione delle reti di fornitura. Il suo resoconto etnografico restituisce così l’immagine di un tessuto di imprese che si muove nella forma di uno slalom entro il susseguirsi di fasi critiche. Nella prima, quella del 2007/08, lo scenario di una polarizzazione sembrava contrapporre imprese meglio in grado di reagire ed altre che, in condizioni di maggiore perifericità nella filiera produttiva, si barcamenavano sul crinale di un possibile fallimento. Nella crisi pandemica, invece, il nuovo ricorso alle banche e le strozzature del credito aprono nuove grandi difficoltà, in un panorama in cui anche le istituzioni bancarie hanno subito trasformazioni, nella direzione di nuove concentrazioni, con profonde ricadute su sistemi di credito. Parallelamente, anche l’atteggiamento dei protagonisti verso l’antropologo si è modificato, con aperte resistenze ed elusioni delle domande, che concorrono a mettere in crisi la capacità di restituzione e di analisi della prospettiva etnografica, dinanzi alla densità e complessità degli eventi in atto.

Nel ripercorrere la storia delle lotte operaie alla acciaieria di Terni, Matteo Saltalippi evidenzia il senso e il valore culturale delle lotte operaie, che dal principio del secolo scorso, passando per il secondo dopoguerra e l’autunno caldo, arrivano fino all’ultima contrapposizione tra lavoratori ed azienda, nel 2014/15, in uno scenario industriale ed economico globale che vede orami l’impresa configurarsi come un semplice tassello della produzione distribuita a livello internazionale. La cornice è infatti divenuta quella di una multinazionale distante e anonima, configurata più nelle sedi de-territorializzate delle transazioni finanziarie che non negli stabilimenti geograficamente situati. Nell’ottica antropologica di Saltalippi, pur nel mutare delle condizioni storiche ed economiche, cui hanno fatto seguito trasformazioni delle modalità di contrapposizione, la lotta conserva però il suo valore di dato culturale, che per certi versi sembra attraversare le contingenze storiche, riproponendosi come memoria che funge da collante, che rigenera coesione di classe, che ripropone volontà e tenacia di resistenza. Non si tratta ovviamente di un valore assoluto, come tale uguale e sé stesso ed immutabile, quanto piuttosto di una spinta in grado di performare e riconfigurare nuove identità operaie, andando a supportare un impegno nella lotta che si adatta a nuovi contesti (la proprietà tedesca, lo scenario globale), che parla nuovi linguaggi (giovanili e da stadio) e combatte nuovi nemici (i mercati finanziari, più che i vecchi “padroni”). Nell’ultima fase dell’etnografia svolta da Saltalippi, il racconto fa emergere anche le nuove configurazioni delle organizzazioni sindacali, cioè quelle extra-confederali, che delineano a loro volta le nuove contraddizioni del tardo-capitalismo, in primis quella tra tutela ambientale e salute nel lavoro Nella pandemia, che ha rimarcato questa contraddizione, Terni ha allora rinnovato il ricorso al più tradizionale strumento di lotta, lo sciopero, questa volta adoperato per ottenere un pronto adeguamento degli ambienti alle condizioni del tutto nuove della pandemia, in funzione di obiettivi nuovi.

Il saggio di chi scrive (D’Aloisio) è rivolto a quell’insieme di trasformazioni tecnologiche denominate industria 4.0, che sono al centro di precisi programmi nazionali di politica industriale, che vedono in prima posizione la Germania e sono stati poi recepiti ed ampliati nei programmi di finanziamento internazionali dell’Unione Europea. Il caso di Automobili Lamborghini, oggetto di ricerca per circa quattro anni, ha consentito di osservare un reparto di montaggio automobilistico che risponde pienamente alle caratteristiche tecnologiche del 4.0, avanguardistico per il settore auto a livello globale. Giovandosi di un’impresa che si situa nella nicchia del super-lusso, con un sistema di relazioni industriali che fornisce solidi strumenti di contrattazione e di regolazione dei processi del lavoro, i nuovi operai 4.0 (digital blu collars, nella letteratura internazionale), si confrontano con nuove tecnologie, con l’internet delle cose, con una linea di montaggio ormai fortemente automatizzata. Al contempo le nuove competenze richieste si confrontano con le più recenti forme di contratti di lavoro interinali, quindi precari e caratterizzati da elevato turnover. Anche il prodotto del reparto 4.0, il SUV di lusso denominato Urus, presenta non solo un’auto altamente tecnologica, ma ancor più vede modificarsi l’ingegneria di processo, nella misura in cui nuovi imput raccolti dai clienti, relativi alle loro preferenze e i loro desideri, retroagiscono sul processo produttivo, modificando il prodotto e rendendolo più attrattivo, attraverso una configurazione on demand. Il reparto rappresenta un interessante tassello, di certo non in grado di rappresentare a pieno l’insieme dei processi del 4.0 anche solo nell’ambito automobilistico, entro un panorama di per sé variegato ed eterogeneo: il tassello di un più generale processo che è destinato a modificare la produzione manifatturiera e ad accelerare quei cambiamenti dei sistemi di produzione, che fanno da sfondo a molte delle riflessioni inerenti il lavoro contemporaneo.

Mentre l’industria si accinge alla sua quarta rivoluzione industriale, come i primi tre saggi appena descritti mostrano, sembra quasi fare da contrappeso l’insieme di dinamiche complesse che Michele Fontefrancesco mette in luce nel suo saggio, sotto la categoria del ritorno all’agricoltura. Anche in questo caso, la molteplicità delle definizioni apre un contenitore di processi eterogenei e non sempre assimilabili, trasformatisi lungo l’arco storico almeno in due tipi di neo-ruralismo: partendo negli anni 90 da una figura romantica di imprenditore agricolo, per poi arrivare, nel primo ventennio del XXI secolo, a considerare gli aspetti più specificamente economici, che sottendono nuove forme di dissenso verso le forme economiche dominanti e il relativo consumismo. L’etnografia è qui rivolta al caso della provincia di Alessandria e vede protagonisti giovani imprenditori intorno ai 40 anni. All’analisi antropologica, la stessa categoria di ritorno all’agricoltura appare restrittiva e fuorviante, le testimonianze al contrario non collimano con la chiusura di un ideale cerchio apertosi nel dopoguerra, attraverso il progressivo allontanamento dal settore primario, per arrivare poi al ricongiungimento odierno. Dopo lo spopolamento progressivo delle aree rurali, cui è corrisposto un progressivo decremento dell’occupazione nel settore primario, il terzo millennio vede infatti affermarsi il turismo gastronomico e più in generale un rinnovato interesse turistico per le aree rurali. Tuttavia, i protagonisti tracciano pur sempre una continuità col passato, più che una frattura, con alla base però l’indisponibilità o il fallimento di altre prospettive e la conseguente precarietà. Più che la sovversione di un orizzonte egemonico, nelle parole dell’autore, si delinea allora una scelta strumentale, sostitutiva o compensativa della possibilità di inserirsi al meglio nel mercato del lavoro. Come conclude l’autore, più che evocare immagini bucoliche di resistenza o forme di reazione all’economia neoliberista, il ritorno all’agricoltura si può leggere «come una risposta degli individui consequenziale al disequilibrio tra l’incremento marginale della ricchezza dell’agricoltore contro la profittabilità proposta da altri tipi di occupazione offerti dal contesto urbano».

Con Andrea Tollardo ci spostiamo nell’industria pesante estrattiva, in una prospettiva prevalentemente storico-antropologica. Tollardo analizza la vicenda di lunga durata del circuito estrattivo dei comuni della provincia di Trento (Albiano, Baselga di Piné, Cembra, Fornace e Lona Lases), strutturati, fin dall’età medievale, nella forma di siti estrattivi regolati sul principio del bene comune. Anche qui l’impatto dell’evento pandemico ha prodotto i suoi effetti sul lavoro dell’etnografo, oltre che nelle comunità interessate dalla ricerca, limitando fortemente l’accesso al campo e designandolo come propriamente illegale, almeno nelle fasi di lockdown. Quando nei primi decenni del 900 ebbe inizio lo sfruttamento capitalistico-industriale, imprese esterne alla regione si strutturarono nell’area. In questa fase, le imprese stabilirono un rapporto di continuità con l’economia agricola, collocandosi in territori con surplus di manodopera agricola, sulla base di contratti di lunga durata. Successivamente, nel secondo dopoguerra, il boom economico ha avviato una fase di espansione dell’estrazione di porfido, che ha attivato un nuovo processo di rafforzamento delle assegnazioni di lotti ad imprese locali, creando nuove concentrazioni. Nel quadro di queste, sostenute da un vero proprio boom della domanda, si sono però abbassati i costi del lavoro e si è rafforzato il potere delle proprietà, che hanno cominciato a trasformarsi in ereditarie. Nel complesso, le cave hanno concorso fortemente ad innalzare il reddito pro-capite della regione, allineandolo al Nord complessivo, con una parallela immissione di forza lavoro proveniente dalla migrazione interna e con una fase di intensificazione delle lotte per la conquista di diritti, che hanno condotto al primo contratto collettivo provinciale per il settore, stipulato nel 1973. Negli anni 90, sono stati invece i flussi migratori dall’estero a rimpolpare il settore, mentre la crisi globale del 2007/2008 ha visto crollare circa la metà della produzione, aprendo una profonda trasformazione dell’economia e dei redditi dell’area. Da un punto di vista antropologico, le comunità minerarie hanno attivato varie forme di gestione della constante tensione tra la proprietà delle cave e l’antica tradizione degli usi indivisi. In una ricerca ancora in corso, nel suo intreccio tra fonti storiche secondarie e fonti orali contemporanee, si rinvengono gli aspetti culturali di questa mediazione, individuati nella difesa del locale e nei tentativi reiterati di estromissione di “estranei”, sorretti sin dal dopoguerra dall’ideologia cattolica e dal potere della DC, che si è resa così la principale forza di sostegno dei legami e degli intrecci locali.

Assumendo invece il punto di vista disciplinare della sociologia economica e del lavoro, Sabrina Perra analizza il senso delle trasformazioni in atto nel lavoro della pubblica amministrazione, particolarmente investito da trasformazioni durante la pandemia, attraverso la condizione forzata del lavoro a distanza. Perra ci ricorda innanzitutto che le trasformazioni che vanno sotto l’etichetta di smart working sono in realtà di gran lunga antecedenti all’evento pandemico, e ne ricostruisce in dettaglio l’evoluzione nel quadro legislativo e dei contratti di lavoro. Il contributo si focalizza poi sul senso del lavoro pubblico espresso dai lavoratori protagonisti, attraverso una ricerca qualitativa nei contesti della pubblica amministrazione, in grado di cogliere quelle discrepanze tra le trasformazioni prescritte dalle riforme e, dall’altro versante, le prassi concrete, secondo un obiettivo condiviso dall’analisi sociale antropologica. Nella ricerca sul campo condotta dall’autrice, emerge un contesto in grande mutamento, entro cui spicca il senso dell’etica del burocrate, nel suo assolvere alla funzione pubblica così cruciale, mentre dal punto di vista dell’utenza la rappresentazione del lavoro pubblico si configura con molti stereotipi e con una sostanziale divergenza rispetto agli obiettivi delle amministrazioni: più che il mero disbrigo e la velocità delle pratiche, l’utenza aspira infatti ad una efficacia a tutto tondo della prestazione erogata. Oltre a ciò, le indagini condotte dalla stessa PA durante i lockdown hanno evidenziato come i dipendenti collocati nel lavoro a distanza abbiano apprezzato la maggiore autonomia e il minore controllo sul lavoro, ma ribadiscano al contempo l’importanza dei luoghi di lavoro, ove sfruttare i vantaggi della condivisione e della co-presenza. La valenza della relazione, tra collaboratori nel contesto di lavoro e tra cittadini e amministrazione, emerge allora in tutta la sua problematicità irrisolta: essa si sostanzia nel conflitto tra la razionalità strumentale prescritta e una razionalità orientata al valore, quest’ultima al cuore della domanda dell’utenza e al contempo delle aspirazioni dei dipendenti stessi. La costruzione di un set di valori condivisi, tra lavoratori e utenti, si profila quindi come il vero obiettivo da raggiungere, nella prospettiva dei lavoratori protagonisti.

Nelle conclusioni di questo dialogo tra punti di vista, teorici ed etnografici, che hanno attraversato settori ed aree territoriali differenti, lasciamo il passo alla prospettiva di Andrea Fumagalli, che dal punto di vista della disciplina economica, ci riconduce con le sue osservazioni alle difficoltà progressive che le scienze sociali registrano nel dare conto di quanto accade, sia in termini di comprensione a posteriori dei fenomeni e sia in quelli dell’analisi previsionale. Il suo ragionamento procede così di pari passo al tentativo di comprensione antropologica operato dagli etnografi nei contesti studiati, e appare poi ricongiungersi a quelle che possiamo considerare delle parziali conclusioni, centrate su di un mondo nella sua rapida trasformazione tecnologica, attraversato da crisi ricorrenti, le cui traiettorie di percorrenza future appaiono sempre più complesse da delineare. L’attenzione si è focalizzata allora, quale filo rosso dei ragionamenti condotti, sugli sforzi, individuali e collettivi, compiuti per dare senso ad un mondo del lavoro in sempre più rapida trasformazione, ad una dimensione produttiva che ha già assunto forme nuove, sotto la spinta dei recenti eventi critici che hanno concorso a complicare ulteriormente lo scenario: nella cornice di una dimensione globale accelerata, che gli stessi economisti, al pari degli antropologi, faticano a tratti a definire, ma i cui esiti siamo tutti chiamati a tentare di interpretare.

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[1] Questa introduzione è frutto del reiterato dialogo scientifico tra i due autori. Specificamente, i paragrafi 1 e 3 sono stati scritti da Fulvia D’Aloisio, il par. 2 è stato scritto da Simone Ghezzi.

[3] Traduzione dell’autrice.

[4] Martin Ford ha vinto il Financial Times and McKinsey Business Book of the Year Award nel 2015.

[5] Il rifermento è qui ad una intervista rivolta a Larry Page dal Finacial Times il 31 ottobre 2014, in cui egli pronosticava milioni di posti lavoro in perdita, il crollo del valore delle case al 5% del valore di quegli anni, la deflazione massiccia dei prezzi dei beni di consumo. L’intervista è reperibile sul sito: https://www.ft.com/content/3173f19e-5fbc-11e4-8c27-00144feabdc0#axzz3IVj1Ra5p