Abitare il margine, raccontare luoghi invisibili

Le autobiografie dei detenuti per mafia nella Casa Circondariale Catania Bicocca.

Giulia Bitto

Università degli Studi di Messina, Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne, Messina

Indice

Introduzione
Definire i luoghi marginali: uno sguardo agli spazi periurbani
L’area metropolitana catanese
La percezione dei luoghi di vita: i racconti dei detenuti
Bibliografia
Sitografia

Abstract. This paper aims to explore the theme of the perception and experience of peri-urban and marginal places through the autobiographies written by mafia inmates in the Catania Bicocca Prison, who have joined a project I started inside the prison in the context of ethnography of detention. In the first part of this work, the notion of a peri-urban place is presented, to understand the context in which the prisoners lived. Subsequently, the Catania metropolitan area is analyzed in detail; finally, the experience and perception of these places of life are examined by following the stories of the prisoners.

Keywords. Autobiography; prison; places; marginality; peri-urban.

Introduzione

Alla fine del 2017 il gruppo degli educatori che opera all’interno della Casa Circondariale Bicocca di Catania e l’istituto Karol Wojtyla, che cura la didattica all’interno dello stesso carcere, hanno presentato un progetto di ricerca al Ministero della Giustizia e alla Direzione del penitenziario. Il progetto è stato affidato all’Università di Messina, Dipartimento di Civiltà antiche e moderne, al tempo diretto da Mario Bolognari. Le attività sono state avviate nel mese di gennaio 2018. Del gruppo di ricerca sono stata chiamata a fare parte anch’io, per occuparmi di una parte specifica del progetto stesso, il quale era incentrato sulle politiche di recupero e di reinserimento nella società dei reclusi, una volta scontata la pena. La peculiarità del progetto riguardava la caratteristica dell’istituto Bicocca, destinato ai condannati o ai detenuti in attesa di giudizio per il reato previsto dall’art. 416 bis del Codice penale, che punisce l’appartenenza a una associazione di tipo mafioso. Il reinserimento sociale di un soggetto così caratterizzato risulta difficile, in quanto “marchiato” da una condizione che prescinde dai singoli reati contro la persona o il patrimonio e ha una forte implicazione identitaria, che la società ritiene non facilmente superabile anche dopo aver scontato la pena. Non solo, ma il condizionamento associativo prevale su ogni altra considerazione, proprio in ragione della peculiare forza culturale ed economica attribuita alla associazione mafiosa. Innanzitutto, il progetto intendeva superare questi pregiudizi e operare sulla coscienza dei detenuti per far superare loro proprio quelle resistenze che essi avevano incorporato e la sfiducia che inevitabilmente essi manifestavano nei riguardi di ogni iniziativa finalizzata al loro recupero.

In questo quadro, approvato dalla Direzione locale e dal Ministero, a me è stato assegnato il compito di curare un aspetto specifico: raccogliere le autobiografie dei detenuti, attraverso uno schema di ricostruzione cronologica della loro vita, scandita dalle persone, dai luoghi, dalle attività, dalle istituzioni che avevano segnato le tappe fondamentali del loro percorso affettivo, emozionale, ideologico, e anche criminale. Soprattutto, l’obiettivo era di fornire loro uno strumento narrativo alternativo alla vicenda giudiziaria, esaltando la soggettività che l’autobiografia può esprimere. Gli incontri si sono svolti nei primi sei mesi del 2018, con cadenza settimanale, consentendo di stabilire un proficuo rapporto di fiducia, avendo circa due ore di tempo per ciascun incontro durante il quale era possibile introdurre gli argomenti del giorno e fornire qualche esempio di svolgimento dei temi.

In questo contributo esaminerò gli scritti che i detenuti hanno dedicato alla descrizione dei luoghi di vita e dei lavori svolti. Il contesto in cui si sono dispiegate queste storie, infatti, è forse l’elemento più importante per comprendere a fondo alcuni aspetti della vita criminale degli autori delle autobiografie: vivendo ed essendo nata in Sicilia ho in un primo momento trascurato una approfondita analisi dei contesti, dando per scontato che bastasse indicare semplicemente un’area geografica, quella del catanese (e, in qualche caso, quella al confine con la provincia di Messina, sul versante etneo), elencando paesi quali, ad esempio, Biancavilla, Palagonia, Moio Alcantara, Raddusa e altri ancora. Quando mi sono confrontata con studiosi e ricercatori operanti in altre parti di Italia e in Europa, tuttavia, mi sono resa conto che occorreva soffermarsi più di quanto avessi previsto sul contesto, sui luoghi, sui mestieri, per spiegare e far comprendere a dovere le storie dei detenuti. Nel corso di questi confronti mi è stato più volte domandato da dove provenissero precisamente gli autori delle autobiografie: rispondendo a tali, ora si può dire, scontate, curiosità, si è fatta avanti la necessità di approfondire tematiche che finora avevo appena scalfito.

I piccoli paesi etnei da cui provengono i detenuti hanno tutti qualcosa in comune: sono luoghi marginali, luoghi subalterni. E questi luoghi sono a loro volta inseriti in un altro contesto marginale e subalterno: il profondo Meridione di Italia, lì dove sono nate le mafie tradizionali. All’interno di questi paesi collinari e isolati vigono scarsi livelli di istruzione, povertà, assenza di risorse, di collegamenti, di investimenti, di pianificazione urbanistica: e vige, dunque, un tipo di mafia diverso rispetto a quello che si trova, ad esempio, nella cima della piramide mafiosa, laddove è necessario possedere grandi abilità comunicative e destreggiarsi tra politici, professionisti e imprenditori. Tale marginalità estrema si lega poi indissolubilmente a un’altra marginalità: quella carceraria. Non va dimenticato infatti né il luogo dal quale provengono queste persone né il luogo dal quale ora scrivono: il penitenziario è il luogo di invisibilità per eccellenza [Romano 2011; Reiter 2014; Wacquant 2012], che, come in una matrioska, si trova in fondo a questo susseguirsi di contesti marginali, ristretti, subalterni, dimenticati, invisibili, chiusi, scomodi. Sebbene non possa soffermarmi su una trattazione puntuale del luogo-carcere, è tuttavia fondamentale domandarsi che tipo di luogo sia il penitenziario: si può parlare, ad esempio, del carcere come di un nonluogo, seguendo la definizione di Marc Augè [2018]? Se da un lato il penitenziario è certamente uno spazio alienante e anonimo in cui è difficile sviluppare cultura e rapporti umani e, come ha notato Vincenzo Binetti [2005], si configura come nonluogo di una soggettività negata, dall’altro esso è connotato da sospensione più che da accelerazione del tempo, da permanenza e staticità più che da transito. In tal senso il carcere si configura come un luogo del tutto peculiare, un “nonluogo totale” (per tentare una sintesi tra Marc Augè ed Erwing Goffman [1968]), che merita sicuramente occasioni di confronto e dibattito in misura maggiore rispetto a quanto gli sono attualmente dedicate.

Ho inteso chiedermi, tornando alla costellazione dei paesi etnei dei detenuti del Bicocca, cosa pensano i soggetti coinvolti in merito ai luoghi in cui si svolgono le loro relazioni e i loro rapporti di lavoro, seguendo una suggestione fornita da Antonio Vesco [2019]: lo studioso nota come ultimamente, negli studi di mafia, si possa ravvisare un’attenzione sempre più marcata per i contesti, e questa attenzione nasce dall’esigenza di «contrastare la diffusione e il successo di categorie analitiche che hanno contribuito a separare l’operato delle organizzazioni mafiose dal corpo sociale circostante» [Vesco 2019, 46]. Obiettivo del mio studio è pertanto focalizzare nuovamente l’attenzione sui contesti, sui luoghi, sui teatri in cui effettivamente vengono messe in scena le reti mafiose e le dinamiche che ne derivano, al fine di dare rilevanza a cosa significhi vivere ed essere calati in un contesto sociale ristretto e marginale. È necessario dunque chiamare in causa l’analisi locale, domandandosi anche quali siano le “regole del disordine” di cui parla Angela Giglia [2011] e ovvero le regole, gli usi, gli orizzonti di senso sottesi alle pratiche e alle biografie degli abitanti di questi paesi dell’area etnea «al di là della trasgressione generalizzata dei regolamenti formalmente in vigore» [Giglia 2011, 78]. Il tipo di spazio che mi accingo ad analizzare e che verrà da me definito come periurbano può essere concepito come un territorio di frontiera che ha subito profonde trasformazioni sia architettoniche sia sociali, dalle quali deriva la sua attuale natura ibrida, a metà tra l’urbano e un contesto puramente rurale: vivere in un luogo simile significa attivare certi aspetti della cultura e non altri, e soprattutto «riconoscere certe regole di convivenza e non altre, specialmente in ciò che riguarda il rapporto fra lo spazio privato e lo spazio pubblico» [Giglia 2011, 75].

Come appaiono questi luoghi? Approfittando della riapertura, nell’estate del 2020, dei confini comunali (che erano stati chiusi temporaneamente come misura di contrasto alla diffusione della pandemia di Covid-19), ho desiderato visitare alcuni dei paesi di provenienza dei detenuti (mi sono recata in particolare a Biancavilla, Palagonia e Moio Alcantara, ma sono anche altri i luoghi di vita dei ristretti che qui non elenco tutti): essi sono costituiti solitamente da due zone, una di recente urbanizzazione e una più antica. La zona più recente è caratterizzata da strade reticolari e urbanisticamente regolari, abbastanza ampie da contenere due carreggiate, lungo le quali si sviluppano anonimi palazzi di tre o quattro piani risalenti agli anni ’60-’70. Molti edifici presentano facciate non completate; spostandosi ai margini del paese, o raggiungendo la sua parte più antica (dipende, chiaramente, dalla conformazione del paese in questione), cominciano a intravedersi ruderi abbandonati, mentre le strade diventano sempre più strette, sempre più ripide, sempre meno regolari. In molti casi non esiste un centro storico vero e proprio, né una piazza degna di nota, e anche quando questi elementi sono presenti non risultano comunque sufficienti a bilanciare il resto: siamo ben lontani dai paesini siciliani che sono soliti attirare i turisti, con il classico centro storico e le viuzze attorno in cui comprare prodotti tipici e souvenir.

Definire i luoghi marginali: uno sguardo agli spazi periurbani

L’espansione urbana e l’inurbamento di massa sono fenomeni che, in Italia, si verificano in netto ritardo rispetto ad altri Paesi europei (quali ad esempio Francia e Gran Bretagna): l’interesse per lo spazio urbano e la sociologia urbana, di conseguenza, nasce parallelamente a questi processi negli anni Cinquanta e Sessanta, mediante la traduzione di classici americani, francesi e inglesi [Giglia 1989]. L’interesse per la dimensione urbana in antropologia, come spiegano Angela Giglia [1989] e Amalia Signorelli [1999], emerge in Italia come campo di ricerca definito solo all’inizio degli anni Ottanta, essendo la ricerca, prima di questa data, ancora fortemente orientata al mondo contadino tradizionale: una forte critica a questa impostazione della ricerca demologica italiana si può ravvisare già in un famoso documento del 1958 intitolato “L’antropologia culturale. Appunti per un memorandum”, ove Amalia Signorelli e altri eminenti studiosi iniziavano a ripensare criticamente i fini e i valori dell’impresa antropologica [Lutri 2020]. Se la nascita degli studi sulla città, sia da una prospettiva sociologica sia da una prospettiva antropologica, è quindi abbastanza tardiva, l’interesse per le realtà a cavallo tra l’urbano e il non urbano è ancora posteriore, per i motivi che verranno ivi discussi.

Per tentare di classificare i piccoli paesi abitati dai detenuti del carcere Bicocca, provando a definire cosa contraddistingue precisamente questi luoghi marginali, periferici, rurali, collinari, lontani dai centri economici e decisionali, ho adottato in un primo momento una prospettiva “da lontano”, accogliendo le suggestioni di quegli studiosi che si sono focalizzati su aree simili a quelle che mi interessano, e cioè a quei paesi che sorgono in aree rurali, a vocazione agricola o ex-agricola (o che ancora oscillano tra le due), poco densamente abitati, collegati male dai mezzi di trasporto pubblici e lontani dai centri del potere economico-decisionale, per poi spostarmi, in seguito, all’area metropolitana catenese e alle sue peculiarità.

Fabio Converti e Piera Della Morte notano come «precisare territorialmente cosa s’intenda oggi per “periferico”, “marginale” e anche “rurale” risulta estremamente complesso» [Coverti, Della Morte 2010, 37], in quanto si perverrebbe inevitabilmente a delle semplificazioni riduttive, ciascun territorio variando e mutando così velocemente da non potere stare al passo dei cambiamenti. I due studiosi utilizzano il concetto chiave di periurbanizzazione, che riguarda un particolare modo di edificare le aree rurali: nonostante il concetto di spazio periurbano non sia unanimemente accettato da architetti, urbanisti, geografi e studiosi di scienze sociali, a mio giudizio si rivela uno strumento utile per fare chiarezza sulle zone da me prese in esame e cercare di darne una definizione il più possibile completa. Bisognerebbe andare oltre il concetto di campagna vista come sfondo e di città vista come figura [Marocco 2014], e pensare a qualcosa che non è né pienamente città né pienamente campagna. Più che ricercare dei tratti caratteristici da un punto di vista cartografico, risulta più utile conoscere la percezione di chi in questi luoghi abita, lavora, intrattiene relazioni.

Il periurbano è storicamente scaturito dall’incontro tra urbano e non urbano; tale incontro non ha dato sempre esiti positivi. In tantissimi casi, specialmente nel Meridione di Italia, è più probabile che si sia data vita, negli anni ’60-’70-‘80, al paesino-tipo descritto all’inizio di questo lavoro. Non che prima dell’edificazione sfrenata tali paesi fossero necessariamente centri artistici di rilievo o potenziali attrazioni turistiche, ma di certo si presentavano diversamente. La campagna, in molti casi, ha progressivamente subìto un degrado strutturale «a causa dell’eccessiva frammentazione e isolamento delle sue parti all’interno delle reti infrastrutturali e dell’edificato» [Coverti, Della Morte 2010, 41], il quale si caratterizza per una scadente qualità urbana e architettonica. La cementificazione diffusa, poi, spesso non si è accompagnata a una valorizzazione parallela dei campi e degli spazi verdi, se non quelli direttamente utilizzati per la produzione. Le forme urbane giocano un ruolo importante sul senso di benessere di ciascuno e sulla vivibilità generale di un luogo: l’assenza di piazze, giardinetti e spazi aggregativi crea un vuoto di identità culturale oltre ad alienazione, assenza di appartenenza e connessioni stimolanti.

Le soluzioni paventate riguardano in prima istanza il coinvolgimento degli abitanti nella formulazione dei piani urbanistici, mediante un approccio che sia sensibile nei confronti sia delle tradizioni che delle nuove istanze e richieste che provengono da chi questi luoghi li abita [Coverti, Della Morte 2010]. Tuttavia, i buoni intenti e le progettazioni proposte appaiono veramente troppo distanti dalla realtà dei luoghi che ho esaminato in questo lavoro, in quanto i piccoli centri vengono percepiti anche dalle stesse istituzioni come fuori dal mondo contemporaneo [De Simonis 2016]. L’edilizia sconclusionata e non regolamentata ha poi negli anni affrontato l’ulteriore sciagura del degrado e dell’abbandono, sciagura causata, oltre che dal disinteresse delle istituzioni, anche dal progressivo decremento demografico, nazionale in generale, meridionale in particolare: è proprio da queste realtà che i giovani fuggono oramai da decenni, non trovando più stimoli e legami con la cultura contadina e con le attività a essa collegate, né trovando in tali luoghi una forte identità sociale. Se un centro non possiede «peculiarità specifiche e proprie, sentite e valorizzate anche economicamente dalla comunità che vi appartiene, pian piano esso si spopola» [Nannipieri 2016, 113]. Leggiamo le parole di Andrea, uno dei detenuti del Bicocca, in un suo scritto del 14 marzo 2018:

Il paese dove sono cresciuto si chiama *** e un piccolo paese che non arriva neanche 1000 abitanti ci vivono ormai di più anziani anche perché tutti vanno via per un futuro migliore e quindi ce poca nascita di bimbi le persone per vivere sfruttano molto la campagna. Non mi sento affatto legato al mio paese ed o sbagliato ad non andare via quando avevo compiuto 18 anni perché a poco lavoro e quindi non ce un bel futuro il paese e basato su cose vecchie e poche nuove con molte facciate di case in stile antico.

Un luogo potrebbe anche ripopolarsi in futuro, qualora si riattivino identità e funzioni caratteristiche perse nel corso degli anni [Nannipieri 2016]. Basti pensare a Matera, marginale e spopolata negli anni ‘50, e ripopolata da qualche decennio perché ha ritrovato una sua identità paesaggistica, architettonica, storica; o a quartieri marginali e spopolati come quello della Kalsa a Palermo, il quale, tramite la diffusione dell’artigianato creativo, sta «ridisegnando la fisionomia sociale e urbanistica» del luogo, mediante un’esperienza «che si propone come strumento di resistenza all’emarginazione e alla disoccupazione» [Michelini 2021, 170]: la creatività, l’“arte di arrangiarsi”, diventano così modi di agire indispensabili per vivere e sopravvivere nel quartiere, guardando anche a un futuro di rigenerazione e recupero. Tuttavia, escludendo quei luoghi che hanno trovato nel turismo il proprio traino economico e sono stati graziati nel passato da profonde trasformazioni urbanistiche, è nelle aree centrali che continua a concentrarsi tutta una serie di servizi, attrazioni, istituzioni, poli sanitari e commerciali: questa dotazione di beni e servizi rende le metropoli maggiormente appetibili, anche se da almeno due decenni nemmeno le grandi città del Meridione riescono a offrire stimoli e posizioni lavorative allettanti, spopolandosi così anch’esse e rinunciando, spesso per sempre, ai loro giovani.

Il luogo marginale non è solamente quello con una forma urbana meno densa o caratterizzato da determinati connotati estetici-urbanistici [Osti 2010], bensì è quel luogo che è privo di spazi atti agli scambi tra persone, come negozi, banche, servizi, giardini, mercati, bar e ristoranti, palestre (è recente la notizia di forti proteste, in Sicilia, per la chiusura di banche nei piccoli centri [Marchese 2020]) prediligendo dunque la presenza di edifici unicamente a scopo abitativo. Altro fattore chiave è quello dei trasporti: la marginalità e la subalternità di un luogo si verificano soprattutto qualora esso sia scarsamente servito da mezzi pubblici, motivo per il quale le istituzioni hanno un grosso peso nel decretare la perifericità di un luogo, decidendo spesso deliberatamente di non garantire adeguati trasporti verso zone considerate “morte”. Il territorio extraurbano è un tema di una scarsa importanza sociale e politica [Besio 2010], a meno che non sopraggiungano improvvisamente interessi di natura economica.

Un esempio lampante è quello del Sicilia Outlet Village, un gigantesco centro commerciale con marchi di lusso sorto di recente nell’area di Agira, nell’ennese, una zona in passato carente di mezzi di trasporto pubblici e di strade adeguate. Per consentire ai turisti e agli avventori di potere visitare quel luogo, diverse ditte di trasporto su gomma si sono mobilitate offrendo corse dirette e veloci da Messina, Catania, Palermo, Trapani ecc. Viceversa, Enna, il capoluogo della provincia in cui sorge l’outlet, rimane una città abbastanza scollegata e irraggiungibile anche nel periodo delle processioni della Settimana Santa, che pure attira molti turisti. Ciò ha reso Enna paradossalmente più periferica della zona di Agira, il che non fa che confermare quanto, più che da un punto di vista meramente urbanistico o politico, ciò che rende marginale un luogo è tutta una serie di mancanze di servizi e offerte, e viceversa un luogo, che un tempo era marginale (anzi, diremmo quasi invisibile), possa di punto in bianco attirare l’attenzione delle istituzioni e rendersi raggiungibile in poco tempo. E così, l’immagine del grande centro-villaggio commerciale, con i negozi di alta moda che attirano gli avventori tramite la promessa di sconti speciali, con gli immensi ristoranti, piazzette, fermate dell’autobus, turisti da ogni parte del mondo, induce «una percezione della realtà che il linguaggio dominante contribuisce a esplicitare a rafforzare» [Augé 2010, 20] quando parla di mobilità, flessibilità, modernità: un linguaggio dell’economia ideale e liberale che si rivela essere, come possiamo aspettarci, parziale e menzognero [Augé 2010].

La possibilità di mobilità (dunque la presenza di stazioni di treni e pullman con molte corse, taxi, strade in condizioni accettabili, autostrade con molte diramazioni) e la presenza di antenne, ripetitori, linea internet veloce, riduce in maniera netta il divario con il centro: basti pensare ai piccoli centri in Brianza in cui negli ultimi anni sempre più individui hanno deciso di andare a vivere pur lavorando nelle grandi città circostanti. Essi godono così di un ambiente più vivibile, di un’aria più pulita e di strade più sicure. La “campagna abitata” [Esposito 2010] si configura come un luogo in cui non si svolgono più le tradizionali attività agricole e che si è invece riadattato per essere residenziale e accogliente; si avvale dell’intensificazione delle vie di comunicazione che consentono al nuovo abitante proveniente dalla città di mantenere comunque il proprio lavoro e i propri affari nella metropoli, importando così nella campagna stili di vita urbani ma mescolandoli poi a nuove abitudini e modi di abitare. Questo tipo di trasferimento verso le campagne è stato storicamente indotto dal passaggio dalla città fordista a quella postindustriale: tuttavia, non è detto che apporti necessariamente benefici per tutti e in ogni circostanza. In alcune campagne francesi, ad esempio, spiega Marc Augé [2010], le case vengono acquistate da individui appartenenti alla media borghesia, che vi si trasferiscono stabilmente causando squilibri economici e demografici: i figli dei contadini locali non riescono a stare al passo con un nuovo costo della vita in paese, per cui o vendono le proprietà o si convertono a un’economia dei servizi abbandonando l’agricoltura. In Sicilia, differentemente da quanto accade in Brianza o in Francia, per un abitante della provincia diventa un calvario raggiungere il posto di lavoro nella grande città; chi decide di fare il pendolare va incontro a grossi disagi, pullman con poche corse giornaliere, stazioni ferroviarie semi-abbandonate, ritardi continui. Dovendo quindi optare per l’utilizzo dell’automobile, molti individui si trasferiscono nella città in questione (se possono permetterselo) o non accettano di svolgere quel determinato lavoro, rimanendo nel proprio comune. Si delinea, in questi casi, quanto enunciato da Augé quando sostiene che la libera circolazione e il libero insediamento non sono affatto la regola anche all’interno di uno stesso Paese, perché la mancanza di risorse «sottopone ad arresto domiciliare buona parte della popolazione» [Augé 2010, 20].

Nei paesi etnei menzionati in questo contributo, le attività agricole si svolgono ancora, ma non sono più appetibili per una grossa fetta della popolazione, che così decide di emigrare. Il piccolo centro viceversa non è appetibile per chi dalla metropoli è in cerca di una vita più serena, in quanto molti di questi paesi sono diventati covo di attività criminali, o semplicemente sono in una posizione fin troppo marginale, non possedendo quelle caratteristiche estetico-urbanistiche e quei sistemi di collegamento vantaggiosi che viceversa in altre aree dell’Italia attirano l’abitante della grossa metropoli. Essi sono perlopiù caratterizzati da un’edilizia tipica degli anni del boom economico, che li ha resi amorfi esteriormente, mentre parte dell’abitato, approfittando della marginalità di queste aree e degli alti profitti che si possono ottenere nel campo agricolo e della grande distribuzione, si è votato a attività mafiose e criminali rendendo poco attraente l’idea di trasferirsi in luoghi simili. Leggiamo le parole di Raffaele, in un suo scritto del 14 marzo 2018:

Io sono cresciuto a *** la magior parte delle persone che vivono nel paese lo criticano e pensano che e brutto come paese ed e arretrato di mentalita ed e considerato un paese di delinquenti, ma io non penso cosi perche tutti il mondo e paese, c’è il bene e il male, e il brutto e il bello, pero come paese c’è abbastanza lavoro con l’agricoltura si lavora tanto con le arance, limone, uva, ecc. Siamo molti criticati dai paesi vicino.

Queste campagne, dunque, non possiedono un moderno abitato urbano, composto da ex-cittadini dinamici e mobili che importano stili di vita diversi e costumi metropolitani, ma vanno incontro a un declino demografico, sociale e urbanistico pressoché inesorabile.

L’area metropolitana catanese

È importante adesso porre l’attenzione sull’area metropolitana catanese, in quanto essa presenta delle peculiarità sia rispetto alle aree metropolitane del Nord sia rispetto alle altre aree metropolitane siciliane. L’espansione della città a ridosso delle aree agricole ha coinvolto pienamente l’area del catanese; di riflesso, alcuni centri agricoli si sono adeguati negli ultimi decenni ai traffici che coinvolgono specialmente i prodotti ortofrutticoli. E tuttavia tale sinergia, come si diceva più sopra, non ha condotto a piani urbanistici sensati, né a migliorie dei servizi: questi centri vengono visti, come si era notato, più come zone di snodo che come un’attrattiva residenziale. Gli abitanti che non sono direttamente coinvolti in queste attività (e il numero di essi col tempo è andato ad aumentare), peraltro, si trovano a vivere in un contesto con poche opportunità. Così, non si può parlare per i piccoli paesi dove risiedono i detenuti del Bicocca di paesi sorti dal fenomeno della città diffusa [Coverti, Della Morte 2010], come se Catania, “esplodendo”, si fosse diffusa verso l’interno creando dei nuovi centri; bensì tali centri, già esistenti e a carattere prevalentemente agricolo, sono stati in qualche modo investiti, nel Secondo dopoguerra e anche nell’ultimissimo periodo, dalla prosperità dell’area metropolitana catanese, che in essi ha visto degli ottimi partner per il mercato agroalimentare.

Il lavoro di Luca Salvati [2015] sulle strutture urbane mediterranee ci viene in soccorso per definire meglio le caratteristiche della zona che qui interessa. Le città meridionali, nota l’autore, godono di una compattezza insediativa abbastanza peculiare se rapportata alle città del Nord e del Nord Europa. Tale compattezza ha tuttavia determinato una «enorme polarizzazione demografica» che ha creato nel tempo «spazi con forti disparità e con rapporti di egemonia difficili da riequilibrare» [Salvati 2015, 87]. Si sono venuti così a creare, nel periodo industriale e post-industriale, grandi agglomerati monocentrici con attorno delle aree rurali che, da soggetti produttori di materie prime agricole o di allevamento, sono diventate oggetto della metropoli, mero terreno di edificazione, perdendo le caratteristiche per cui erano originariamente sorte. Chi vive in queste aree spesso «non percepisce l’importanza della conservazione della base agricola prossima alla città, dal momento che i beni primari possono essere agevolmente conferiti al mercato urbano da terre molto lontane» [Salvati 2015, 87]. La globalizzazione ha fatto sì che anche in un piccolo centro si possano trovare al supermercato verdure, farine e carni più convenienti di quelle locali, facendo perdere l’interesse nella salvaguardia del prodotto locale, che fatica a trovare spazio in un mercato ultra-capitalistico e rimane perlopiù indirizzato, spesso e volentieri, a utenti lontani dal portafoglio più largo, attirati dalle diciture “biologico”, “integrale”, “grano antico”, “chilometro zero”.

In questo tipo di mercato, decisamente redditizio, si è inserita la GDO, Grande Distribuzione Organizzata di prodotti ortofrutticoli. Molti detenuti del Bicocca hanno avuto a che fare con questo genere di occupazioni legate al trasporto e alla distribuzione di agrumi, ortaggi, frutta, farine. È interessante notare come, invece, la stragrande maggioranza dei nonni e dei genitori dei detenuti abbia svolto all’interno dei paesi di provenienza lavori legati in maniera diretta alla lavorazione della terra. I detenuti che non lavorano nel settore agricolo svolgono professioni quali: ispettore ai servizi ecologici, impiegato in una ditta di depurazioni data in appalto dal comune, proprietario di padronati assistenziali, consigliere comunale, impiegato nell’edilizia, proprietario di un’agenzia di sicurezza privata, costruttore edile. Tutti questi settori, tuttavia, specialmente nella provincia di Catania, sono fortemente permeati dalla mafia, dalle pratiche del voto di scambio, dai “favori”: si tratta di un’area che è stata interessata nel corso degli ultimi decenni da uno sviluppo demografico e urbanistico impetuoso [Arcidiacono, Avola 2011], il quale, come si può immaginare, ha attirato l’attenzione delle mafie locali, sia per quanto riguarda il settore tradizionalmente mafioso dell’edilizia, sia per quanto riguarda quello più recente della GDO, in quanto si è andata sviluppando, in questa zona, una forte vocazione commerciale.

Anche il settore politico-amministrativo è stato toccato da questa espansione urbana del catanese, dato che sono stati sciolti per mafia quattro comuni della provincia: per tutta questa serie di motivi Arcidiacono e Avola parlano di «Caso Catania». L’area «sembra sempre più configurarsi come un immenso centro commerciale che dal mare si estende fino alle pendici dell’Etna» [Arcidiacono, Avola 2011, 227], e questi centri commerciali diffusi a macchia d’olio su tutto il territorio, come spiega Sebastiano Ardita [2020], sono legati a doppio filo con interessi di natura mafiosa. Il ruolo e l’importanza della GDO, in questo processo che vede diffondersi una quantità smisurata di ipermercati, ma anche di prodotti destinati all’export, ha assunto dimensioni crescenti. Nonostante la crisi dei consumi degli ultimi anni, la città di Catania si colloca tra le prime in Europa per crescita in questo settore.

L’area centrale, come risulta da queste osservazioni, è quindi predominante rispetto all’area periurbana circostante, che ha sperimentato nel secondo dopoguerra una fase di crescita rapida e massiccia, e successivamente un periodo di stallo, per poi arrivare al momento di declino demografico (seguendo certamente la tendenza nazionale ed europea, ma in maniera proporzionalmente più vistosa), quando lo scopo originario era riprodurre in piccolo un modello urbano sospinti dalla crescita demografica. Sembra che questi luoghi, che fino agli anni del boom erano «spazi di vita presente, non abbiano più una reale funzione per i motori dell’Italia, per i motori dell’Europa» [Nannipieri 2016, 112], se non per fungere da base logistica al centro e per essere i produttori di beni alimentari “di lusso” da esportare. Una diffusione deregolamentata del “modello urbano” ha anche contribuito all’incremento della vulnerabilità paesaggistica (aridità, siccità, rischio idrogeologico, contaminazione di acqua e suolo, degrado delle terre), rendendo questi piccoli paesi deboli e fragili, col tempo dipendenti dalla città piuttosto che co-città, anche per il mancato sviluppo dei trasporti e le assenti politiche in tema di edilizia e contrasto all’inquinamento. Questo spazio periurbano, che non è più campagna ma non è nemmeno città, non possiede ancora una identità ben specifica [Besio 2010]. L’intento originario è stato quello di riprodurre delle mini-città sul modello di altre, senza pianificare in maniera organica al paesaggio e aspettandosi banalmente una “evoluzione” di queste realtà verso forme più avanzate di città. Inoltre, come nota Amalia Signorelli, i futuri abitanti di questi agglomerati «non sono mai i committenti del lavoro di progettazione, sul quale anzi non esercitano nessun tipo di influenza» [1989, 13]: questa riflessione, sorta in merito ai quartieri di edilizia popolare nelle periferie delle città, ben si adatta anche ai paesi etnei qui discussi, nei quali la popolazione è risultata totalmente estranea al processo di modellamento dello spazio, trovandosi, quasi da un giorno all’altro, circondata da distese di anonime palazzine. In tal modo lo spazio rurale mediterraneo è diventato «uno specchio di paesaggio urbano» [Salvati 2015, 88], senza la possibilità di esserlo e diventarlo.

La percezione dei luoghi di vita: i racconti dei detenuti

Ho ritenuto di fondamentale importanza cercare di comprendere cosa significhi, per i detenuti del Bicocca, abitare un contesto marginale, leggendo le loro parole, impressioni, sentimenti ed esperienze. Un punto nodale per la comprensione di questi aspetti è rappresentato dal nesso tra l’esperienza degli individui e i luoghi che essi abitano. Francesco Ronzon e Ivana Bianchi [2005] assegnano grande rilevanza all’esperienza cognitiva del margine: il margine non è sempre qualcosa di netto e chiaro; esistono margini che sono percepiti anche quando assenti, e margini che scompaiono dalla percezione seppure ben delineati. In un’ottica interdisciplinare i due autori mostrano come la Fuzzy Set Theory, una teoria nata in ambito ingegneristico, possa adattarsi anche all’analisi fenomenica dell’esperienza percettiva: un margine può essere fuzzy, vago, quando ad esempio non si riesce a stabilire se un oggetto sia alto o basso, venendosi così a collocare in una zona di appartenenza sfocata e non binaria.

L’approfondimento sui margini consente di prestare maggiore attenzione critica su quei luoghi che sono spesso visti come angusti, ristretti, con confini da una parte vaghi, in quanto teoricamente valicabili e non concretamente dati (il piccolo paese), dall’altra fisicamente netti (la cella del carcere). Nel caso della cella, il margine è netto, sebbene si cerchi in ogni modo di vedere aldilà di esso; in condizioni di libertà, ma vissuta entro i confini del proprio paese, il margine non è invece dato fisicamente in quanto in via teorica si potrebbe andare ovunque si voglia, ma si rimane costretti per vari motivi entro tali spazi, che sebbene non siano cinti da un muro, diventano tuttavia percettivamente angusti. Leggiamo le parole di Giorgio, il quale, dopo una felice infanzia trascorsa in America, è costretto dal padre a fare ritorno nel paese di origine in provincia di Catania, visto da lui come una prigione dalla quale, per tutta una serie di motivi, non è potuto più scappare: così scrive il 14 marzo 2018:

Il paese *** in America è un paese di circa 60000 abitanti ed è bellissimo, con tanti parchi, scuole, e ritrovi per gli italiani. Io oggi penso che è l’unico luogo che mi rappresenta, mi sento a tutti gli effetti americano non italiano. Gli sono molto legato, e do la colpa sempre a mio padre per averci riportati in questa terra che non mi apparttiene. A *** [in America] le persone lavoravano tutti gli italiani prima lavoravano nelle fabriche ora invece hanno quasi tutti delle imprese. Invece *** in provincia di Catania e giudicata da tutti i paesi vicini, come il paese della droga e di delinguenti. Dopo la elementare sono andato alla school ***, inizio il 6° grado, dopo qualche mese i miei decidono che era meglio tornare in italia. Vengo in sicilia a *** dove avevo parenti e nonni e inizio la scuola media. Il mio parere uno schifo, venivo deriso da tutti perche non parlavo bene l’italiano e perché ero grosso nessuno mi capiva neanche i professori mi ricordo una professoressa che gli ho spiegato che ero spaventato a venire a scuola per i motivi che ho detto e mi a detto fatti grande che qua sei in sicilia. E penso che mi a detto una cosa sbagliata in cui non mi aiutava.

Correlato al tema dell’esperienza percettiva dei luoghi vi è il concetto di identità: questa si lega inevitabilmente agli spazi, ai territori e all’ambiente. È dunque fondamentale approfondire ciò che unisce la spazialità e l’autopoiesi [Lazzarino 2011], senza circoscrivere l’analisi a un solo gruppo, zona, strada, ma dando vita a una ricerca multisituata il più possibile e che accolga una polifonia di interlocutori. Se per molti anni, come nota Lazzarino [2011], in antropologia è stato dato per assunto il legame tra identità culturale e territorio, oggi invece prevalgono termini quali delocalizzazione, perdita di identità, diaspora, cosmopolitismo, deterritorializzazione (basti citare alcuni tra i lavori più famosi, come quelli di Friedman [1996], Appadurai [2001] e Hannerz [2001]). L’elemento “spazio”, “luogo”, sembra raramente essere preso in considerazione, laddove invece vengono a crearsi coppie di termini quali locale-tradizionale o locale-globale. Risulta importante, a mio giudizio, recuperare il concetto di spazio e ambiente fisico, concreto, materiale, che diventa luogo quando ragioniamo sulle interazioni che vi si svolgono.

Queste interazioni avvengono pur sempre all’interno di spazi ben determinati, dai quali l’analisi non può prescindere: tanto che nelle ricerche antropologiche sulle migrazioni, ad esempio, ci si è resi conto, negli ultimi decenni, che è impossibile studiare singolarmente i luoghi di arrivo, partenza o transito, e che bisogna adottare una prospettiva multisituata per ovviare alle mancanze dei precedenti studi [Capello, Cingolani, Vietti 2014]. Anche nella presente ricerca sui detenuti per mafia della Casa Circondariale Catania Bicocca sarebbe veramente parziale prendere in esame solamente il contesto carcerario, trascurando il fatto che il penitenziario si trovi a Catania e che i detenuti provengano tutti dall’area del catanese. Il carcere è certamente un luogo a sé stante, un’istituzione totale e isolata il più possibile dal mondo esterno, ma rimane tuttavia un edificio calato in un determinato spazio, che accoglie persone provenienti (nel mio caso almeno) dai luoghi limitrofi.

Se da un lato la corrispondenza tra identità e territorio è stata una finzione retorica per molto tempo, dall’altra è importante «non sganciare in toto i soggetti e i gruppi da una realtà quotidiana che si srotola all’interno di una spazialità continuamente significata e risignificata in contesti puntuali di interazione, cioè dai luoghi» [Lazzarino 2011, 128], evitando dunque il rischio della “nomadologia”, ovvero l’esasperazione idealizzata della dimensione diasporica dell’uomo e delle culture contemporanee, con una visione del locale che viene ridotta a mera opposizione alla visione globale, su cui si vuole insistere forzatamente. I detenuti che hanno steso le autobiografie sono nati in un paese dell’area del catenese, sono cresciuti lì, vi hanno lavorato, si sono sposati e hanno messo su famiglia, e sempre lì sono stati poi arrestati. Leggiamo Massimo:

Non riesco a staccarmi dal mio paese dove sono nato e cresciuto; in un altro paese non so ambientarmi. Nessuno o pochi riescono a parlar male del proprio paese natio.

Gli altri, al massimo, si sono spostati da un paese all’altro, e solamente uno di loro, Giorgio, ha vissuto, in infanzia, in America. Applicare a storie del genere una visione diasporica, globale, itinerante, senza toccare con mano tali spazi, e scartare invece il locale, il luogo, e le interazioni culturali ultra-locali, sarebbe un errore concettuale e metodologico. Leggiamo uno scritto di Giacomo del 14 marzo 2018:

Mi sento legatissimo alla mia zona e parte della mia infanzia, adolescenza e essere diventato adulto in mezzo alle persone della mia zona mi è di onore. Certo avvolte da quartieri chiamiamoli molto più liberi nel modo di agire o penzare ci denigravano. Questo poco importa e oggi più che mai vorrei tornare in mezzo la mia gente e raccontare di questa esperienza che vivo di questa sofferenza che provo.

È importante dunque tornare a porre attenzione a ciò che un soggetto pensa del luogo in cui vive, in cui è nato, in cui lavora, in quanto la dimensione locale, nel suo senso più pieno, offre spesso risposta a molti quesiti di natura socio-antropologica. Anche Gianluca Ligi intende riprendere in considerazione il locale e il concetto di spazio e luogo: egli cita Geertz quando dice che, sfogliando un dizionario antropologico, raramente ci imbatteremmo nel termine “Luogo”: l’attenzione verso questo concetto va assolutamente recuperata, dal momento che «l’intensità e l’unicità dei rapporti interpersonali, la densità affettiva e sensoriale del proprio vissuto relazionale, non si manifestano nel mondo, ma […] costruiscono il mondo» [Ligi 2011, 121], sia che si parli di emozioni e ricordi positivi, sia che siano negativi e poco felici.

E proprio l’espressione di questo genere di sentimenti nei confronti di un determinato luogo è sembrata nella mia ricerca una carta di fondamentale importanza per addentrarsi nella comprensione dei contesti sia carcerari che esterni alle mura: spesso la scrittura che viene impiegata all’interno dei penitenziari è una scrittura abbastanza nostalgica e stereotipata, perlomeno relativamente a luoghi, affetti ecc.; quando però emergono dei sentimenti negativi su queste tematiche essi possono aiutare a chiarire aspetti importanti. Come abbiamo anche visto dalla testimonianza di Andrea e Giorgio, infatti, non sempre descrivere il proprio luogo di provenienza suscita emozioni positive: può capitare che a emozioni positive (legate spesso a ricordi di infanzia) si accompagnino emozioni negative legate invece alla percezione attuale di quel luogo. Leggiamo in uno scritto di Lorenzo del 14 marzo 2018:

Mi ricordo da piccolo che casa mia era frequentata, spesso da parenti, i nipoti, gli zii, i miei cugini, e si fermavano spesso a cena, anche perché a mia mamma faceva piacere cucinare e stare in compagnia e in allegria. Quando sento odori di melanzana fritta o pomodoro fresco, penso alla casa dove sono cresciuto, e penso a mia mamma ai fornelli, quando faceva la parmiggiana. Sono cresciuto a ***, un paese nella provincia di Catania. Diciamo che circa la metà delle abitazioni sono state abusive, ma oggi tutte regolamentate dalle sanatorie regionali. Non mi sento particolarmente legato al paese, anche se ho molti ricordi gratificanti. Il nostro paese non è ben visto dagli altri paesi limitrofi, principalmente per i fatti di cronaca accaduti.

I luoghi a volte sono fonte di sentimenti dolorosi, anche perché «si pongono sin dall’inizio come particolarmente spersonalizzanti, anonimi e senza volto nel progetto stesso della loro costruzione, inospitali alle relazioni e alle forme di umanità» [Ligi 2011, 122]: il penitenziario, con il suo grigiore lugubre, ma soprattutto con la sua routine cadenzata e identica ogni giorno, è uno di tali luoghi per eccellenza, come ha notato anzitempo Goffman [1978]. Leggiamo in uno scritto di Giorgio del 14 marzo 2018:

Le giornate le trascorro cosi: mi alzo alle 5:30 prendo un caffe è mi rimetto a letto a leggere libri. Questo fino alle 7:00, poi mi lavo guardo il telegiornale è vado a scuola alle 8.30 fino a mezzogiorno, rientro in cella mangio un panino ed attendo 13:15 per potermi fare una doccia. Dopo rientro in cella e scrivo, leggo e guardo tv. Alle 17:30 cucino e ceniamo con il compagno di cella, finito la cena parliamo un po’ di tv a letto. Mi spaventa solo l’idea che finendo la scuola non ci sara più niente da fare. Con i detenuti i rapporti sono cordiali come sarebbe con gli sconosciuti. Mantengo le distanze non conoscendo nessuno.

In questa prospettiva ogni spazio contribuisce all’accrescimento dell’esperienza e si configura come un fatto sociale; su ogni spazio proiettiamo sentimenti ed emozioni, motivo per il quale un luogo non esiste mai in maniera puramente oggettiva, essendo comunque vissuto e interpretato in modi di volta in volta diversi. Tali diversi modi di accostarsi a un luogo, ogni individuo con la sua interpretazione di esso, formano un tessuto di interazioni sociali che produce il luogo stesso: un luogo si può dunque interpretare come un’arena di sentimenti, emozioni, storie e percezioni che emergono entro esso e gli danno una forma sociale.

Difatti, al cuore di qualunque luogo, vanno individuate delle aggregazioni sociali, relazioni ricorrenti e stabili che «non hanno bisogno di una ratifica esterna né di uno scopo formale» [Osti 2010, 22]. Ora, questa affermazione riveste una certa importanza nell’analisi dei piccoli paesini dell’area del catanese abitati dai detenuti per mafia che hanno redatto le autobiografie qui presentate: Osti prosegue la trattazione sostenendo che un criterio importante per guardare a queste aggregazioni sociali è la partecipazione civica e i risvolti pubblici, diretti al bene comune, di tali aggregazioni. Una associazione mafiosa, per definizione invisibile, nebulosa, che rifiuta di essere conosciuta dall’esterno, può definirsi una aggregazione sociale con partecipazione civica, diretta al bene della comunità? Il quesito non è retorico: dare una risposta negativa a questa domanda non terrebbe conto del pensiero che molti abitanti hanno riguardo a questo tipo di associazioni. Basti notare che le aggregazioni spontanee, secondo Osti, formano il nodo cruciale del capitale sociale, termine, quest’ultimo, che negli studi di mafia è diventato imprescindibile.

Sento di non essere invece d’accordo con l’assunto per cui «l’abitare in periferia significa vivere in contesti relazionali in cui la reciprocità è debole, gli scambi sono all’insegna della superficialità e del mutuo sfruttamento» [Osti 2010, 29] in quanto in molti di questi paesi associazioni come quelle mafiose vengono a crearsi anzi per via delle “conoscenze” tra compaesani e della fitta rete di amicizie e parentele che si può trovare in questi contesti, in cui la scarsa densità abitativa e una popolazione ridotta fanno in modo che tutti si conoscano. Leggiamo ad esempio Benedetto, che pur riconoscendo la situazione sfavorevole e disagiata del suo paese di provenienza, il 14 marzo 2018 scrive:

Il paese dove sono cresciuto e molto malfamato, abitato da persone in gran parte con poca istruzione, poco lavoro e possibilità di venirne fuori pari a zero. Ma tutto ciò non significa che io non sono legato al mio paese, lì sono nato, lì sono cresciuto e lì ho avuto la gioia di conoscere la persona più speciale al mondo che è mia moglie. Penso che molte delle persone che vivono li siano state costrette a viverci, mentre molti altri ci vivono perche amano quel posto, fatto di povertà ma pure di infinita solidarieta.

Quanto detto serve, dunque, a collocare i detenuti per mafia del Bicocca in una molteplice situazione di marginalità e invisibilità: quella dei luoghi di provenienza, quella del carcere, quella della mafia, ma anche quella del Meridione di Italia in generale. Pur non volendo additare questi detenuti come “mafiosi” (in quanto nessuno di loro ha avuto successivamente una condanna), sembra chiaro che perlomeno le indagini e l’attenzione delle forze dell’ordine siano ancora ben indirizzate su luoghi e reti simili (i classici paesi a vocazione agricola con un capitale sociale ben strutturato). L’intento del lavoro non è stabilire se i detenuti siano veramente colpevoli dei reati imputati, ma appare chiaro che il solo fatto di lavorare in questi settori in Sicilia, provenendo da piccole realtà nelle quali “ci si conosce tutti” e un favore non è neanche visto come una pratica sconcertante, abbia influito poi sulle indagini e in seguito sugli arresti da parte delle forze dell’ordine. Appare dunque di fondamentale importanza per la disciplina antropologica rinnovare l’interesse per il contesto locale e per l’analisi puntuale dei luoghi, laddove le persone oggetto della ricerca siano fortemente radicate in un territorio, in esso operandovi e abitandovi dalla nascita.

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Sitografia

<https://www.blogsicilia.it/palermo/no-alla-chiusura-di-10-agenzie-di-unicredit-in-sicilia-le-protestano-i-sindacati/517187/>