«Mi fai fare un giro con la webcam?»

Storie di malattia da un’etnografia digitale in Marocco

Eugenio Zito

Dipartimento di Scienze Sociali, Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice

Etnografia tradizionale, digitale o ibrida?
Fare etnografia in Marocco durante la pandemia di Covid-19 tra spazi digitali, web e social media
«Ciao, come stai? Che sta succedendo in Italia?»
«Sono stati mesi difficili…»
«Non ho mai visto una casa italiana…»
«Sono tornata al mio villaggio…»
Conclusioni
Riferimenti bibliografici

Abstract. In this paper the author, starting from his research in medical anthropology on chronicity in Morocco, discusses, also according to contemporary debate on the anthropology of the web, its extension and re-adaptation digitally, following the limitations imposed on travel by Covid-19 in 2020 and 2021. The difficulties and potential of hybrid ethnography in the digital age, and in the course of a un-precedented so pervasive pandemic as the one we are living, are examined. The illness stories collected remotely with the interlocutors known on fieldwork before the pandemic show some aspects of the recent intense digital acceleration of our social life. Moreover these stories allow on the one hand to critically analyze some methodological aspects connected to digital and hybrid ethnography, and on the other to continue, despite physical distance, the research previously started in presence, albeit some adaptations and methodological updates.

Keywords. Web; digital/hybrid ethnography; Morocco; pandemia; illness stories.

Etnografia tradizionale, digitale o ibrida?

«[…] più vicino al villaggio si vive,

meglio si riesce ad osservare gli indigeni […]».

[Malinowski 1915, 501]

Come rilevato da Stocking [1983], e come si evince dalla citazione appena riportata in epigrafe, già durante il suo soggiorno a Mailu tra il 1914 e il 1915, precedentemente allo spostamento alle Isole Trobriand, Bronislaw Malinowski aveva compreso l’importanza, per la ricerca antropologica, dell’osservazione diretta, prima e ancora più della partecipazione, quest’ultima di fatto più difficile da realizzare pienamente. Tutta la storia dell’antropologia successiva è stata caratterizzata da una problematizzazione e messa a punto in modo sempre più attento di una specifica metodologia della ricerca centrata proprio sull’osservazione e sulla partecipazione – in un mondo che nelle sue dimensioni contemporanee, divenuto intanto ecumene globale [Kopytoff 1987], regione di interazione e scambio culturale costante, si è progressivamente e sempre più profondamente modificato [Appadurai 2012, 2014] – pur con una serie di contrasti e rallentamenti come, per esempio, quelli relativi in molti contesti al tardivo interesse degli antropologi per i media e poi i new media. In proposito Markham [2013], un po’ provocatoriamente, si chiede che cosa avrebbe fatto proprio Malinowski nel suo lavoro di ricerca se avesse avuto a disposizione internet. Dal canto suo Enzo Matera, in un recente testo in collaborazione con Angela Biscaldi, scrive:

D’altra parte, la storia dell’etnografia appare come una successione di contrasti: al tradizionale lavoro sul campo “esotico”, nel corso del Novecento si è metaforicamente contrapposto il lavoro nei centri urbani, nelle aree industrializzate, nei siti turistici, di fronte al quale non pochi studiosi ortodossi erano soliti storcere il naso; oggi un analogo “fastidio” si registra nei confronti dell’etnografia della rete [Biscaldi, Matera 2019, 85-86].

Proprio ripensando all’impresa malinowskiana e alla leggendaria retorica da Malinowski in poi del “campo” come “rito di passaggio” [Rabinow 1977; Markham 2013] e quindi all’idea dell’etnografia tradizionale basata su contatti diretti e prolungati con le persone nei contesti delle loro vite quotidiane, il più recente approccio etnografico digitale [Miller 2011, 2018; Horst, Miller 2012; Postill, Pink 2012; Pink et al. 2016; Beneito-Montagut, Begueria, Cassiá 2017; Markham 2017; Aouragh 2018; Caliandro 2018; Costa, Condie 2018; Miller et al. 2018; Walton 2018; Fuhrmann, Pfeifer 2020; Przybylski 2020; Miller, Horst 2021] comporta certamente una trasformazione delle pratiche di ricerca convenzionali. «Il contatto con le persone non è faccia a faccia, l’ascolto diventa lettura, le percezioni e le interazioni sono di tipo diverso» [Biscaldi, Matera 2019, 89]. D’altro canto, per quanto proposto da Miller [2011, 2018] e Boellstorff [2012, 2021], sembra si possa tranquillamente sostenere, per esempio, che, nell’epoca del traffico delle culture transnazionali e delocalizzate [Hannerz 2012], la frequentazione del web consenta potenzialmente un’esperienza conoscitiva in qualche modo assimilabile a quella dell’osservazione partecipante.

Più in generale ci sarebbe da chiedersi cosa resta in piena fase pandemica per il Covid-19 della possibilità, per gli antropologi, fuori e dentro la metafora, di “vivere vicino al villaggio”, o di “piantare la propria tenda giusto al centro del villaggio”, per poter osservare e in un certo senso partecipare alla vita sociale della comunità che si è scelto di studiare, anche considerando in senso più ampio la problematicità della nozione stessa di “campo” [Hannerz 2003, 2012; Herzfeld 2006; Marcus 2009; Gellner 2012; Fillitz 2013; Matera 2013, 2020] e la sua evoluzione storica rispetto alla complessità del mondo contemporaneo globale e interconnesso [Appadurai 2012, 2014]. In particolare con la pandemia di Covid-19 in questo ultimo anno e mezzo si è assistito a una riduzione significativa dei contatti sociali in presenza. Tali inedite e pesanti restrizioni, oltre a danneggiare la nostra vita sociale, hanno di fatto reso spesso impossibile o molto difficile, ad antropologi e ad altri scienziati sociali, continuare le proprie ricerche in presenza, sul campo, nel senso classico del termine. D’altro canto già da alcuni anni, indipendentemente dalla pandemia e piuttosto in relazione con il processo di digitalizzazione del mondo contemporaneo, c’è stato, anche se con qualche ritardo in alcuni contesti rispetto ad altri settori delle scienze umane e sociali, un certo sviluppo dell’antropologia della rete e dell’etnografia digitale [Miller 2011, 2018; Horst, Miller 2012; Postill, Pink 2012; Markham 2013, 2017; Pink et al. 2016; Beneito-Montagut, Begueria, Cassiá 2017; Costa, Condie 2018; Miller et al. 2018; Walton 2018; Fuhrmann, Pfeifer 2020; Przybylski 2020; Geismar, Knox 2021] che in questa ultima fase sembra aver avuto un ulteriore cospicuo incremento proprio per l’impossibilità di praticare il campo in carne e ossa. «L’etnografia, da rappresentazione dell’alterità “orale”, rischia (o promette) di diventare rappresentazione dell’alterità “digitale”» [Biscaldi, Matera 2019, 85].

Intanto, riprendendo il lavoro di Hine [2015], può essere utile sottolineare che internet presenta tre aspetti strettamente intrecciati: è embedded, cioè imbricato nei contesti di vita degli individui, è embodied, nella misura in cui l’essere online è un’estensione e condizione del nostro essere al mondo, infine è everyday, cioè presente nella vita di tutti i giorni ovunque. Date queste premesse, discusse criticamente da Biscaldi e Matera, «è quindi inevitabile che la ricerca etnografica venga sollecitata a ripensare e ridefinire concetti e metodi, ma anche a rileggersi e a interrogarsi a partire dagli stimoli che i nuovi campi online offrono» [2019, 11].

In questo tempo difficile per la vita sociale e la ricerca sociale molti antropologi si sono chiesti, in particolare, come avviare delle nuove etnografie digitali, ma anche come entrare nel loro campo in modo digitale e trasformare così le loro etnografie da convenzionali in digitali, o integrarle e ibridarle. In proposito ancora Biscaldi e Matera scrivono:

Per i ricercatori la sfida è quella di dotarsi di nuovi strumenti di analisi, senza cadere nel facile errore di ritenere del tutto nuovo ciò che invece molto spesso mostra linee di continuità e matrici comuni non trascurabili e senza lasciarsi catturare dall’ottimismo tecnofilo o, all’opposto, dal pessimismo tecnofobico [2019, 11].

D’altro canto, come sottolineano Miller et al., il cui lavoro può essere considerato pietra miliare e punto di svolta proprio nello studio antropologico dei social media: «Queste tecnologie hanno cambiato noi stessi. Ci hanno offerto un potenziale per comunicare e interagire che prima non avevamo» [2018, 18]. In particolare Miller con Madianou ha sviluppato un approccio detto “polimediale” che riconosce il fatto che nessuna delle varie piattaforme social può essere correttamente compresa se considerata sola, in quanto significato ed uso di ciascuna andrebbe sempre letto in relazione alle altre [Madianou, Miller 2012]. Grazie alla “polimedialità” le persone possono impostare differenti tipi di socialità in base alla diversità delle loro piattaforme di social media. Con la sua teoria della “socialità modulabile” Miller [Miller et al. 2018], inoltre, mostra molto bene come i social media abbiano colonizzato lo spazio della socialità tra pubblico e privato e nel fare ciò abbiano creato delle scale che includono la misura del gruppo e il grado di privacy. Infine con la “teoria dell’acquisizione” Miller e Sinanan [2014] ci ricordano che queste tecnologie non creano differenze sostanziali nella nostra essenziale umanità e che quindi, contrariamente a quanto alcuni ritengono, non abbiano determinato, nei processi di comunicazione e socializzazione in cui sono coinvolti, la perdita di elementi fondamentali della nostra stessa umanità.

Personalmente, impossibilitato a continuare la mia etnografia in Marocco [Zito 2020b, 2020c, 2021], così come la avevo avviata nel 2018, sviluppata nel 2019 e nella prima parte del 2020, e come avevo immaginato di poterla proseguire con soggiorni sul terreno, tradizionali e ripetuti, a seguito dei bruschi e drammatici avvenimenti connessi al Covid-19, da marzo 2020 ho iniziato a cercare modalità alternative per (ri)entrare a distanza, da remoto, in un campo che le infauste circostanze mi avevamo improvvisamente inibito. Tali modalità hanno previsto il ricorso a piattaforme digitali, social media e relativi servizi di messaggistica, la cui scelta è risultata, in realtà, del tutto spontanea. Infatti, l’interruzione brusca della possibilità di seguire sul campo la mia ricerca, mi aveva già portato, prima ancora di pensare di poter utilizzare tali modalità in modo più sistematico e con maggiore consapevolezza metodologica, ad avviare una serie di conversazioni a distanza per mantenere i contatti con alcuni dei miei interlocutori privilegiati in Marocco, conosciuti durante le precedenti fasi di ricerca di campo. Ho appena definito “spontanea” la modalità con cui ho ripreso da remoto la ricerca a partire dalla primavera 2020 perché in realtà le pesanti notizie che nel mondo intanto si diffondevano, in particolare dall’Italia – Paese che soprattutto all’inizio sembra aver pagato uno tra i tributi più alti legati alla diffusione dell’infezione – avevano stimolato alcuni dei miei interlocutori a contattarmi, a scrivermi utilizzando Facebook, Instagram, Messenger, WhatsApp, preoccupati per quanto stava succedendo. Il loro desiderio di informarsi in merito a quanto stesse accadendo, in particolare proprio in Italia, ed eventualmente a me e alla mia famiglia, in concomitanza con la diffusione di notizie apocalittiche sul dilagare dell’infezione e su una quantità rilevante di morti proprio nel nostro Paese a poche settimane dal mio ultimo rientro da Marrakech, ha rappresentato di fatto un’occasione unica per ripensare alla mia etnografia. Infatti gradualmente ho cominciato a riflettere sulle potenzialità che questo tipo di comunicazioni mediate, da remoto, potevano avere per mantenere vivo il mio spazio di ricerca in Marocco in un momento così difficile, per lo meno con quella parte di interlocutori con cui avevo stabilito contatti più profondi nel corso dei precedenti soggiorni sul campo e che avevano mostrato più attaccamento e preoccupazione per la mia persona e curiosità per quanto stesse accadendo in Italia e in Europa.

Come interagire con le persone digitalmente, partecipare e immergersi negli ambienti digitali per fare ricerca antropologica e sociale è, come si è già detto, al centro di recenti interessanti dibattiti [Pfeifer 2019], ed ovviamente la risposta ai molti interrogativi posti sul piano epistemologico, metodologico ed etico va ben oltre l’attuale emergenza pandemica, aprendo scenari certamente interessanti rispetto al futuro della ricerca per le discipline antropologiche. In un recentissimo intervento[1] sull’etnografia digitale, per esempio, Annette Markham [2021] riflette sulla sua ricerca e si chiede, tra le altre questioni, cosa si possa guadagnare dall’osservazione e partecipazione online a contesti e ambiti cui altrimenti non si potrebbe accedere, considerando, più in generale, che il mondo sociale contemporaneo è più propriamente onlife. In proposito Miller et al. sottolineano dal canto loro quanto le distinzioni stesse tra mondo virtuale e mondo reale, online e offline, vadano infatti attentamente riconsiderate:

[…] l’online è tanto reale esattamente quanto l’offline. I social media sono diventati già parte integrante della vita quotidiana a tal punto che non ha senso considerarli separati. Analogamente nessuno oggi riterrebbe una conversazione telefonica come qualche cosa che si svolge in un mondo separato della “vita reale”. […] social media come un altro posto in cui le persone vivono, accanto alla loro vita in ufficio, a casa e nella comunità di appartenenza [2018, 24].

Certamente il trasferimento del metodo di osservazione partecipante ai contesti digitali impone di riflettere attentamente sul posizionamento digitale che può assumere un antropologo e su come si possano correttamente utilizzare eventuali profili digitali per interagire con le persone e invitarle a rispondere in modo critico nell’ambito di un percorso di ricerca.

Come ancora sottolinea acutamente Pfeifer [2019] con un’attenta riflessione metodologica, durante la creazione di profili digitali e la definizione del modo in cui si evolvono nel tempo, i ricercatori possono rendersi visibili in misura adeguata e responsabili come osservatori partecipanti, piuttosto che “spiare” o stare semplicemente a guardare. Questo appare fondamentale se si intende partecipare, relazionarsi e collaborare in modo sensibile con le persone che si incontrano in diversi contesti di ricerca online. Inoltre considerare attentamente le implicazioni dei profili di ricerca durante la loro configurazione non solo consente di rendere i processi di ricerca più trasparenti e responsabili, ma costituisce un prerequisito fondamentale se si intende partecipare in modo etico ai contesti digitali che si sceglie di esplorare.

Già nel 2016, in tempi prepandemici, Steffen Dalsgaard si interrogava sui nuovi social media diventati indispensabili per le persone di tutto il mondo come piattaforme di comunicazione e quindi di produzione di cultura entro reti di intensa socialità, quali, per esempio, in quel momento certamente Facebook più delle altre disponibili. In particolare Dalsgaard [2016], in linea con il pensiero di Miller et al. [2018], riflette sul fatto che anche piattaforme come Facebook stiano sempre più diventando strumenti cruciali per gli etnografi perché molta vita sociale è di fatto online. Si interroga così su quali tipologie di relazioni sul campo potrebbero derivare da tali etnografie guidate dai social media e su che tipo di dati queste relazioni possano offrire all’etnografo. Certamente queste ed altre domande appaiono particolarmente cruciali per poter comprendere le sfide che Facebook e gli altri social media disponibili a seconda dei contesti e dei temi affrontati [Ranisio 2014] pongono alla metodologia etnografica [Miller et al. 2018]. Nel suo lavoro Dalsgaard [2016] riflette ancora su come, per esempio, proprio Facebook possa svolgere un ruolo importante anche nel lavoro etnografico che si occupa di questioni diverse da come Facebook stesso funziona come mezzo sociale. Soprattutto il ricorso a questa, come alle altre piattaforme social disponibili, consentirebbe, tra l’altro, al ricercatore di tenersi aggiornato sul campo, così come in qualche misura è stato nel mio caso. Dalsgaard [2016] conclude il suo lavoro sostenendo che l’etnografia sia già in possesso degli strumenti metodologici per valutare criticamente la validità e il valore dei dati raccolti o prodotti tramite, per esempio, piattaforme social come Facebook, compreso l’aspetto dell’autenticità, questione pertinente per tutta l’etnografia digitale.

In contesti digitali approcci diversi all’osservazione e alla partecipazione possono essere adottati: dall“appostamento” per osservare le routine quotidiane alla partecipazione più attiva e collaborativa che cerca di comprendere meglio le pratiche che ruotano intorno ai social media e la rilevanza sociale delle competenze negli incontri digitali quotidiani. Tuttavia, spesso, i rapporti di ricerca ad oggi disponibili menzionano solo brevemente come gli etnografi siano inizialmente entrati nei loro campi digitali, che tipo di profili di autoidentificazione abbiano usato quando hanno iniziato a condurre la loro ricerca e come quei profili potrebbero essersi evoluti e aver consentito l’accesso a diversi tipi di pratiche nel tempo. Un contributo certamente più approfondito e diretto alla configurazione degli account di social media per la ricerca è la guida di Liz Przybylski [2020] all’etnografia ibrida in cui si riflette sulla costruzione di una rete, sulla pubblicazione e sull’interazione con i profili dei social media. Più in generale la oramai ampia letteratura disponibile sul tema dell’antropologia della rete e dell’etnografia digitale [Miller 2011, 2018; Horst, Miller 2012; Postill, Pink 2012; Pink et al. 2016; Beneito-Montagut, Begueria, Cassiá 2017; Markham 2017; Aouragh 2018; Costa, Condie 2018; Miller et al. 2018; Walton 2018; Fuhrmann, Pfeifer 2020; Przybylski 2020; Geismar, Knox 2021; Miller, Horst 2021] sembra restituire soprattutto la presenza di una pluralità di variegati approcci, metodologie e tecniche della ricerca negli spazi digitali.

Dal canto mio, come si è detto in precedenza e come verrà ulteriormente tematizzato e discusso nei paragrafi successivi, si è trattato di una prosecuzione e riadattamento per via digitale di un percorso di ricerca in Marocco sui temi della salute e della malattia cronica già aperto nel biennio precedente, di cui analizzerò nelle pagine seguenti alcuni aspetti per mostrare le potenzialità di un’etnografia ibrida ai tempi del digitale e nel corso di una pandemia come quella di Covid-19.

Fare etnografia in Marocco durante la pandemia di Covid-19 tra spazi digitali, web e social media

L’indagine cui mi riferisco, tutt’ora in corso, verte sul tema dell’analisi in Marocco dei processi di cura del diabete mellito, quale modello di malattia cronica, nella prospettiva dell’antropologia medica [Seppilli 2014; Newman, Inhorn 2015]. La ricerca prende avvio nell’autunno del 2018 in collaborazione con gli scienziati sociali del Département de Sociologie dell’Université Cadi Ayyad di Marrakech, si allarga nel 2019 con il coinvolgimento dei medici del Département d’Endocrinologie, du Diabète, des Maladies Metaboliques et de la Nutrition, Centre Hospitalier Universitaire (CHU) Mohammed VI della medesima università e ottiene nel 2020 il riconoscimento del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale come “Missione Etnologica Italiana in Marocco” da me diretta e confermata anche per il 2021. Il mio ultimo soggiorno in Marocco risale al periodo di gennaio-febbario 2020 con un rientro poco prima dello scoppio della pandemia e del blocco della circolazione internazionale. Da allora non sono ancora riuscito a tornare nel Paese e ho progressivamente spostato la ricerca, in attesa di potervi rientrare, in modalità digitale, riadattandone alcune dimensioni. Ovviamente a modificarsi non è stata solo la modalità di condurre la ricerca, ma l’intero campo, per le obbligate complesse circostanze e per l’impatto significativo che la pandemia ha intanto avuto più specificamente sull’oggetto stesso della ricerca, cioè la cura e la gestione di una malattia cronica come il diabete in questo Paese. Infatti, con le severe restrizioni imposte dal governo per arginare il Covid-19, la vita sociale ed economica delle città marocchine ha subito profondi cambiamenti, ivi inclusa quella nei contesti sanitari. In particolare, Marrakech, insieme a Casablanca polo economico del Paese e a Rabat sua capitale, è stata tra le città più colpite dal virus e dalle conseguenti trasformazioni socio-economiche e culturali indotte dalla crisi sanitaria[2]. L’industria del turismo su cui si fonda, per esempio, l’economia di una città come Marrakech, si è completamente fermata con preoccupazioni, malcontento e proteste. Da città simbolo del Marocco e patrimonio UNESCO la cosmopolita Marrakech nel pieno della fase pandemica si è letteralmente svuotata, costretta ad affrontare una crisi durissima e senza precedenti. La sua piazza simbolo, Jemaa el-Fnaa, famosa per l’ingente numero di visitatori e per i traffici commerciali, dalle immagini reperite in rete, ma anche nella narrazione dei miei interlocutori intervistati da remoto [Zito 2021], è apparsa per lungo tempo, durante questi quasi due anni di pandemia, come un luogo fantasma, ripopolandosi parzialmente solo negli ultimi mesi, ma a singhiozzo, per alcune timide aperture seguite da brusche chiusure a causa del recente rimontare dell’infezione connesso in buona parte alle varianti Delta e Omicron e nonostante l’intensa campagna vaccinale in corso nel Paese.

Come si accennava in precedenza, le misure di isolamento per contenere la diffusione della pandemia, comuni in diverse zone del mondo, hanno comportato anche per i ricercatori sociali, e in particolare per gli antropologi che conducono ricerche sul campo, faccia a faccia, secondo il metodo etnografico tradizionale, il dover affrontare la complessa sfida di ritardare il lavoro o “reinventarne” i metodi in modo da continuare a distanza, con le tecnologie disponibili, attraverso web e social media [Ahlin, Fangfang 2019; Pfeifer 2019], almeno fino a quando tali misure non saranno allentate.

Personalmente ho trovato molto utile, in questi mesi di forzata distanza dal Marocco, oltre al contatto continuato tramite social media come Facebook, Messenger, Instagram ed e-mail, messaggi e conversazioni telefoniche in WhatsApp, con i miei interlocutori sul campo, di volta in volta disponibili e con cui nel corso dei passati soggiorni avevo stabilito buone relazioni, anche interazioni più strutturate nella forma di vere e proprie conversazioni estese e interviste in profondità, realizzate in particolare attraverso le piattaforme digitali Skype, Zoom e Facetime. Il tutto è stato possibile perché, come si è detto, un campo era stato già costruito nel corso di una serie di permanenze in città da novembre 2018 a febbraio 2020. Diversamente, credo, sarebbe stato più difficile avviare a distanza un lavoro di ricerca, attraverso interviste che forse non sarebbe stato possibile raccogliere così in profondità se non ci fosse stato un frame già consolidato, all’interno di un’adeguata rete di relazioni costruite nel tempo e di persona, vis-à-vis, e quindi su una base di conoscenza e fiducia reciproche createsi nei mesi precedenti stando in presenza sul campo [Zito 2021].

«Ciao, come stai? Che sta succedendo in Italia?»

Tra i primi a contattarmi a marzo 2020, qualche settimana dopo il mio rientro in Italia dall’ultimo soggiorno a Marrakech, e quindi a suggerirmi implicitamente l’idea di poter in qualche modo provare a continuare a mantenere il campo aperto, a distanza attraverso social media e web, è stato Serge, specializzando in endocrinologia, cittadino congolese residente in città per motivi di studio, ultratecnologico e molto social. Con lui ho stabilito un rapporto di forte vicinanza durante il mio campo marocchino, avendo svolto per me la parte di guida durante la prima fase di osservazione partecipante negli spazi clinici al CHU. Serge a metà marzo 2020 mi scrive un messaggio su Messenger di Facebook esprimendomi così la sua preoccupazione: “Ciao come stai? Che sta succedendo in Italia?” e subito dopo mi cerca anche su WhatsApp, scioccato per le drammatiche notizie e immagini intanto arrivate in Marocco in merito alla pandemia in Italia, con ingenti numeri di contagiati, ricoverati e tanti morti. Rassicurato dal fatto che con la mia famiglia sto bene Serge, durante un incontro più lungo su Skype, prende a ironizzare sull’accaduto:

[…] hai visto? Siamo arrivati al punto che adesso il paese pericoloso per le malattie infettive è diventato l’Italia e l’Europa! Tutti noi sognamo di venire a vivere in Europa, ma quello che sta succedendo è incredibile, il mondo si è “girato”, ora siete voi che trasmettete le malattie infettive gravi … o forse, come pensano molti, le avete sempre diffuse [sorride ironico con una punta di sarcasmo]. (Serge, 26 marzo 2020)

Ironie a parte, è proprio Serge, con cui nella fase di inizio della pandemia stabilisco contatti ripetuti su più piattaforme, che mi tiene costantemente aggiornato con Skype sull’andamento delle attività cliniche del Servizio di endocrinologia che avevo cominciato a osservare nei miei soggiorni sul campo e su quanto più in generale accade a Marrakech e in Marocco nei mesi successivi:

[…] qui la situazione è molto critica, nonostante il precoce lockdown purtroppo i casi continuano ad aumentare e il nostro Servizio con i suoi posti-letto è stato dedicato temporaneamente alla gestione dei ricoveri di Covid-19 […]. I pazienti endocrinologici li stiamo gestendo a distanza, con contatti telefonici e via web […] ovviamente per quello che è possibile, con alcuni è più difficile, temiamo pesanti drop-out. Qui in ospedale stiamo trattando solo casi covid. È pesante, rischioso, ma sto imparando tante cose nuove. Alcuni malati sono gravi, altri sono morti, molti sono guariti. (Serge, 28 maggio 2020)

Come emerge dal puntuale resoconto di Serge, tecnologie, telefono e web consentono anche in Marocco la gestione a distanza dei pazienti cronici come nel caso di quelli affetti da diabete e da altri disordini endocrini per far fronte all’emergenza pandemica, pur con qualche pericolosa esclusione di cui si è consapevoli, mentre sul piano personale mi permettono di tenere il filo della ricerca e i contatti con alcuni dei miei interlocutori previlegiati, dentro e fuori l’ospedale.

Qui la vita è molto cambiata, tutto è più complicato, non puoi immaginare come è cambiata l’atmosfera in città in questi mesi. […] Jemaa el-Fnaa fa impressione, è vuota, senza bancarelle, senza gente […]. Neanche tre mesi fa, quando eri qui, sarebbe stata impensabile una situazione così! Ricordi quando a febbraio scorso siamo usciti in centro il giorno prima della tua partenza? Non riuscivamo nemmeno a trovare un tavolino libero per prendere un tè e salutarci con calma, c’era gente ovunque, tutto pieno…ora non c’è più nessuno, solo i carri armati! (Serge, 28 maggio 2020)

Lo shock sperimentato per la paura della malattia, il brusco cambio della vita sociale e per lo spopolamento di luoghi simbolo della città come Jemaa el-Fnaa, ma anche per le repentine trasformazioni dei comportamenti delle persone in contrasto con una cultura come quella prevalente in Marocco ancora basata su un forte spirito di comunità e un’elevata socialità [Dupret et al. 2016], ricorda quanto accaduto in Italia e nel resto del mondo, con città, piazze e strade vuote, al più presidiate da forze dell’ordine, e un drastico taglio delle relazioni sociali in presenza. Serge, in un altro passaggio dell’intervista appena citata, mi fa presente che all’inizio della primavera, in piena pandemia e inizio del lockdown, è anche saltato il suo viaggio annuale di ritorno in Congo per salutare la famiglia, con una serie di conseguenze affettive per se e i suoi cari. Aggiunge, poi, in una conversazione svolta qualche mese dopo sempre su Skype:

[…] ci stiamo abituando a tenere le nostre relazioni a distanza, anche con la mia famiglia in Congo. Loro mi seguono su Instagram, le mie foto raccontano la mia vita qui in Marocco e poi mi collego un paio di volte a settimana su Skype e parliamo a distanza di quello che sta succedendo nelle nostre vite, così come stiamo facendo tu ed io! In questo modo ho conosciuto il mio secondo nipotino, François, il figlio di mio fratello che anche fa il medico e che è nato a metà agosto scorso. Chissà quando riuscirò a tornare in Congo per incontrarlo dal vivo…[fa un lungo sonoro sospiro], forse l’anno prossimo dopo la mia specializzazione, se tutto andrà bene […]. (Serge, 18 settembre 2020)

La pandemia ha bloccato ricongiungimenti familiari e altre relazioni ovunque nel mondo, costringendo sempre più le persone a mantenere vivi rapporti affettivi, legami familiari e amicali attraverso le varie tecnologie disponibili e i diversi sistemi di comunicazione a distanza, in un clima generale di incertezza e crisi. Ancora Serge aggiunge nella stessa occasione:

[…] poco prima della pandemia, mi ero deciso a comprare l’ultimo modello di iphone per avere uno strumento ultratecnologico che mi consentisse le migliori possibilità di comunicazione con i miei cari […] essendo già da alcuni anni abituato a rapporti a distanza, rientrando mediamente in Congo massimo una volta all’anno […]. Questo strumento così sofisticato mi ha permesso in questi mesi, nonostante tutto, di avere ottimali contatti a distanza con i miei familiari a Brazzaville… Avrei però voglia di rivederli e riabbracciarli di persona dopo quasi un anno e mezzo che non li vedo…Come hai fatto tu in Italia in questo periodo con i tuoi familiari e i tuoi amici? (Serge, 18 settembre 2020)

Dalle parole di Serge sembra emergere l’idea che la tecnologia, pur con le sue potenzialità, non riesca però a vicariare pienamente la presenza dell’altro, rendendo insoddisfacente il confronto con la vita relazionale e sociale precedente, che pertanto ne mette a nudo i limiti, oltre le notevoli possibilità che consente, mostrandoci alcune preziose perdite. Le affermazioni di Serge, in particolare, sollecitano una serie di interrogativi proprio in merito all’accelerazione digitale che stiamo vivendo, con un sempre più diffuso uso di tecnologie e social media che a queste si appoggiano [Miller et al. 2018; Biscaldi, Matera 2019], necessarie al mantenimento delle vite sociali e lavorative in tempi di pandemia con possibili rischi, però, di esclusione di alcuni.

Che sarà di tali tecnologie? Si ridurranno nel progressivo ritorno alla “normalità”, oppure il cambiamento intanto compiuto avrebbe di fatto già trasformato ampiamente il nostro modo di vivere? Come utilizzeremo il senso di estraniamento e distanza dell’ambiente digitale iper-espanso – evidente, per esempio, nel discorso di Serge – che abbiamo intanto sperimentato un po’ tutti in questi mesi di pandemia? In che modo questa intensa esperienza di crisi sanitaria e di relativo cambiamento sociale indotto potrà aiutarci a ridisegnare percorsi di vita futura onlife, tra reale e digitale? Quale può essere il contributo specifico dell’antropologia alla comprensione della vita digitale, con i suoi pro e i suoi contro, con i suoi confini e le sue pericolose esclusioni, anche in un contesto culturale come quello marocchino?

La tecnologia, da elemento di crescente importanza nella nostra vita sociale e relazionale, è diventata infatti, improvvisamente, in tempi di isolamento e distanziamento, strumento insostituibile per assicurare in qualche misura processi comunicativi e mantenere relazioni di vario tipo [Zito, 2020a], come emerge dalle parole di Serge che riesce così anche ad “incontrare” da remoto il nipotino appena nato e a partecipare alla gioia della sua famiglia per il suo arrivo, ma anche a “raccontare” la sua vita quotidiana in Marocco con immagini postate sul suo profilo Instagram attentamento seguito dai suoi cari in Congo. Più in generale, e al di là degli indubbi vantaggi personali, ci si dovrebbe anche porre il problema urgente delle sempre più subdole e complesse nuove forme di dominio politico ed economico che passano attraverso la tecnologia e dei big data che consente di accumulare, così come delle pesanti esclusioni che rischia di produrre a danno di alcuni.

Intanto, per restare sul piano della concreta vita sociale dei miei interlocutori, proprio con un messaggio su WhatsApp che ricevo nel giugno 2021, Serge mi comunica di essersi specializzato in endocrinologia e diabetologia con ottimi risultati qualche giorno prima, rimarcando così l’utilità di questi sistemi di comunicazione per la rapida circolazione di informazioni necessarie al mantenimento delle nostre relazioni.

Ciao, come stai? Sono felice di farti sapere che qualche giorno fa, come ti avevo detto nella nostra ultima chiacchierata del mese scorso, ho superato il mio esame finale di specialista in endocrinologia e diabetologia. Ora, appena possibile, ripartirò per Brazaville e poi si vedrà dove andrò a lavorare, spero fuori dal Congo per avere migliori opportunità. (Serge, 15 giugno 2021)

«Sono stati mesi difficili…»

Latifa, 25 anni, studentessa universitaria e insegnante di italiano in una delle tante scuole private di Marrakech, con una sorella e un fratello entrambi più piccoli e diabetici, mi contatta, anche lei a marzo inoltrato del 2020, preoccupata soprattutto dalle immagini intanto giunte dall’Italia, rappresentata come epicentro della pandemia. Come Serge, Latifa utilizza Messenger di Facebook dove ci eravamo reciprocamente “aggiunti” subito dopo la nostra conoscenza, già nel 2018, all’avvio della ricerca in Marocco. Latifa, che da sempre si occupa della cura dei suoi due fratellini, mi aiuta a capire meglio, nonostante la distanza, che cosa significhi essere diabetico e come possa essere stata pesante la gestione di tale malattia cronica in Marocco durante la pandemia.

Nei mesi tra marzo 2020 ed aprile 2021 mi racconta, usando piuttosto bene la mia lingua, nel corso di diverse interviste avvenute su Skype, la problematica esperienza della sua famiglia che la vede assoluta protagonista nella gestione del diabete dei suoi fratelli durante la pandemia, sullo sfondo di una città in profonda crisi come Marrakech.

Sono stati mesi difficili […]. È stato difficile gestire, senza visite di controllo, gli sbalzi del loro diabete, anche perché sono stati a casa per la chiusura delle scuole e questo non è stato bene per diabete. In città c’è tanta confusione rispetto al Covid-19…nelle settimane scorse i laboratori di analisi sono stati invasi da richieste di test, […] la gente ha perso tanti soldi […] il negozio di mio padre è andato male e la scuola di italiano dove insegno chiusa, ora non ho più lavoro ed è pesante restare tutti a casa in attesa che la situazione migliora! (Latifa, 2 novembre 2020)

Nel corso di un’altra intervista mi racconta in dettaglio come nel periodo di lockdown il diabete nei suoi due fratelli di nove e undici anni si sia completamente scompensato:

Niente visite mediche in presenza in questi mesi, solo qualche aggiornamento telefonico con i dottori, ma il problema è che stando di più a casa i miei fratelli hanno mangiato molto e le loro glicemie si sono alzate! L’insulina non abbiamo potuto aumentarla perché le dosi disponibili in farmacia, lo sai no, sono quelle, sempre le stesse…è stata una guerra continua con loro, sempre a controllarli e a dire basta con il cibo… (Latifa, 20 febbraio 2021)

Latifa mi appare molto appesantita dal processo di cura dei suoi due fratelli che i genitori le hanno completamente delegato essendo donna e primogenita. In un passaggio di un’altra intervista avvenuta alcuni mesi dopo la precedente, e in cui sento Latifa piuttosto triste e stanca, questa mi confessa:

Non penso che verrò mai in Italia a perfezionare il mio italiano come ti avevo detto quando mi hai regalato il vocabolario nel 2019…mio padre non vuole, ha detto che devo restare qui a Marrakech e sposarmi con un bravo ragazzo, perché ora sono grande…pensa è stato contento che a causa del lockdown e poi della successiva crisi economica la scuola di italiano dove insegnavo ha chiuso, così per lui non devo più andare a lavoro e posso stare a casa ad aiutare mia madre con i miei fratelli…neanche l’università voleva che io facevo, considerandola una perdita di tempo […]. Ovviamente non potrei mai dirgli che parlo tanto tempo con te su Skype, che penserebbe di me? (Latifa, 28 aprile 2021)

Latifa, con la sua storia personale e familiare, mostra un altro aspetto problematico della crisi economica e sociale indotta dalla pandemia, che può comportare forme di reflusso di segno retrogrado, riconfermando una certa stereotipizzazione nei ruoli sociali e uno schiacciamento di quelli di cura sulle donne, con la tendenza a bloccare il loro sviluppo in società, relegandole il più possibile nello spazio domestico.

Con la vicenda di Latifa e delle aspettative dei suoi genitori verso una sua prioritaria attenzione alla gestione della malattia cronica dei due fratelli ed anche alla realizzazione di un “buon” matrimonio si ripropone in modo indiretto un dato tipico del contesto analizzato, ritrovato anche nei discorsi dei medici intervistati al CHU e cioè che in Marocco il ruolo della famiglia è centrale nella presa in carico materiale, sociale e psicologica della malattia cronica [Ababou, El Maliki 2017], malgrado tuttavia la scarsa visibilità di questo lavoro svolto prevalentemente dalla componente femminile (madri, mogli e sorelle). Si tratta di un lavoro di cura poco riconosciuto [Cresson 1991], nascosto sottotraccia nel più ampio impegno domestico che spetta alle donne marocchine.

Più avanti, nella stessa intervista prima citata, Latifa dichiara:

Se la situazione del controllo del diabete dei miei fratelli non migliora andrò da mia nonna che vive molto vicino a noi e le chiederò di accompagnarmi da un guaritore tradizionale che lei conosce bene e che frequenta spesso per risolvere molti problemi. È anziano, ma ancora attivo e molto bravo e sono sicura che potrà incontrarci anche se c’è pandemia. Ha insegnato a mia nonna come usare molte erbe mediche. (Latifa, 28 aprile 2021)

Appare utile ricordare a proposito del complesso rapporto tra genere e cura in Marocco, come emerge nel discorso di Latifa, che sono spesso proprio le donne a spingere i propri familiari a prendersi cura di se stessi anche con il ricorso alla medicina tradizionale e alle piante medicinali [Claisse-Dauchy 1996; Martinson 2011; Mateo Dieste 2013; El Mansour 2019], che, nell’ambito dei loro saperi domestici, alcune volte esse stesse imparano a gestire e amministrare all’interno di specifiche attività rituali [Claisse-Dauchy, De Foucault 2005; Hermans 2006], se non a riconoscere, raccogliere e comporre in pozioni dotate di una qualche efficacia.

«Non ho mai visto una casa italiana…»

Anche Larbi, altro giovane marocchino conosciuto sul campo e con cui ho da subito stabilito un rapporto continuativo, è lui a contattarmi a fine marzo 2020, proprio come Serge e Latifa, sempre in corrispondenza delle notizie apocalittiche e delle immagini scioccanti intanto giunte in Marocco, riferite all’Italia con il suo significativo numero di malati gravi e di morti.

Larbi ha 28 anni ed è stato tra i primi interlocutori conosciuti nel 2019 a Marrakech, dove vive a casa della famiglia insieme con i fratelli, il padre e una mamma con diabete, lavorando come insegnante di inglese in una scuola di un quartiere periferico della città. Con lui nel tempo ho mantenuto un rapporto anche a distanza, fatto di messaggi e qualche telefonata, già prima dello scoppio della pandemia. Tale rapporto si è intensificato nei primi mesi della pandemia, stimolato da un bisogno recipoco di capire meglio cosa stesse accadendo, mio rispetto al Marocco e suo rispetto all’Italia e all’Europa dove da sempre sogna di emigrare.

Dopo i primi contatti avvenuti con messaggi e alcune brevi telefonate su WhatsApp, gli propongo una prima intervista più strutturata per parlare insieme di quello che sta accadendo in Marocco, per sentire il suo punto di vista di singolare caregiver in merito a come i processi di cura per diabetici si siano estremamente complicati nel quadro della crisi pandemica. Larbi, non avendo sorelle, segue con dedizione il percorso di cura di sua madre diabetica, di cinquantasei anni e con molti scompensi glicemici, da poco assistita, proprio per le importanti complicanze intanto insorte, presso il CHU dove ho conosciuto entrambi a febbraio 2019, durante una prima fase di intensa osservazione partecipante in ospedale.

Nel corso di una lunga intervista condotta su Zoom nell’ottobre 2020, la prima di sei interviste svolte a distanza fino a settembre 2021, mi accorgo subito di come questa inedita modalità di incontro tra noi, stando io seduto alla mia scrivania, trasforma in modo rilevante alcuni aspetti della relazione con Larbi e più in generale anche con gli altri miei interlocutori, seppure di volta in volta con sfumature e caratteristiche diverse. Nei primi minuti della prima intervista, appena ci colleghiamo con audio e video, dopo gli affettuosi saluti di rito, Larbi, mostrando grande interesse per lo spazio della mia casa, mi dice esplicitamente:

[…] Non ho mai visto una casa italiana…oppure forse solo in televisione e su internet, in qualche programma e film…mi incuriosisce vedere come è fatta la tua, fino ad ora ci siamo sentiti solo a voce […]. Mi fai fare un giro con la webcam? Come si dice…un virtual tour! […]. (Larbi, 7 ottobre 2020)

La richiesta di Larbi di fare un virtual tour della mia casa mi spiazza, in effetti prima di allora non avevo pensato che aprendo la webcam e svolgendo da remoto l’intervista avrei anche aperto uno sguardo sul mio mondo che poi avrei dovuto imparare a gestire. Questa costituisce certamente una grossa novità rispetto alla ricerca di campo tradizionale dove il contesto dell’antropologo resta sostanzialmente opaco e solo deducibile o fantasticabile a partire da alcuni dettagli fisici e dell’abbigliamento della sua persona, oppure in parte scrutabile se si ha accesso ai suoi canali social. La tecnologia da un lato rende possibile proseguire, nonostante le chiusure per la pandemia, il lavoro di relazione che caratterizza il campo, dall’altro apre nuove angolature nelle relazioni e forse in qualche misura, per certi aspetti, “simmetrizza” di più la relazione stessa tra l’antropologo e i suoi interlocutori. Mentre io posso vedere lo spazio della sua camera da letto (che sceglie come luogo per connettersi con me nel corso di tutte le interviste) a casa dei suoi genitori dove vive, Larbi può entrare con il suo sguardo nel soggiorno della mia casa, mostrando una curiosità notevole per una “casa italiana”, pari a quella che più volte aveva manifestato nel corso dei nostri ripetuti incontri in presenza, in ospedale e fuori, durante il campo, in merito al mio abbigliamento, al telefono, al computer e al registratore che di volta in volta erano con me ed entravano nelle interazioni con lui stando in Marocco.

In merito alla forte curiosità di esplorare la mia casa, nella stessa intervista più avanti, mi dice:

[…] mi incuriosice molto la tua casa perché non è una casa marocchina e come ti ho detto altre volte sto cercando di venire in Europa, non in Italia però…in Germania, mi piacerebbe andare a Berlino […]. Questa estate avevo programmato di andare in Germania, per trovare un lavoro con un salario più adeguato, ci ho lavorato mesi a questo progetto, ma la mia richiesta di visto è stata rigettata […]. Credo che la situazione del Covid-19 abbia influito rendendo tutto più difficile e così per noi giovani qui a Marrakech e più in generale in Marocco le condizioni peggiorano sempre di più […]. Per quest’anno ho deciso di provare ad applicare per un dottorato, sperando così che sia più facile partire per motivi di studio…spero però di farcela ad entrare al dottorato, perchè non è facile, c’è molta competizione come sai… (Larbi, 7 ottobre 2020)

Le tecnologie che consentono, nell’ambito di un percorso di ricerca, una relazione a distanza con i propri interlocutori, come nel caso di Larbi, aprono scenari nuovi in merito alle caratteristiche di questa stessa relazione che tende così, per certi aspetti, a “simmetrizzarsi”, conducendo l’antropologo a portare involontariamente aspetti del suo contesto nella relazione con i suoi interlocutori che in altro modo non sarebbero emersi nella tradizionale gestione sul campo in presenza.

Per restare sempre nella cornice della città di Marrakech durante la pandemia, Larbi poi, più avanti nel corso della stessa intervista, parlando delle chiusure degli ultimi mesi, del crollo del turismo, del fallimento di negozi e attività, si sofferma sui problemi vissuti dalla sua famiglia e connessi alla crisi sanitaria ed economica che attanaglia non solo la sua città, ma l’intero Paese:

La mia famiglia ha avuto molti problemi economici in questi mesi, perché come ti dicevo mio padre ha dovuto chiudere la sua attività commerciale in società con suo fratello, mio zio…Le chiusure sono evidenti non solo nella medina dove molte botteghe non hanno più riaperto, ma anche nella parte nuova della città…a Gueliz tanti hanno chiuso…la depressione per la crisi economica è davvero tanta a Marrakech che, come immaginerai avendola vissuta, non può vivere senza turisti. (Larbi, 7 ottobre 2020)

È sempre Larbi in una delle ultime interviste svolta con lui su Zoom che mi mette a parte di alcune idee generali diffuse in Marocco negli ultimi mesi in merito alla qualità dei servizi sanitari e alla complessa e dibattuta questione sui vaccini per far fronte al Covid-19.

C’è molta sfiducia verso le istituzioni e in particolare verso la Sanità, per la qualità degli ospedali … le contraddizioni sono tante in questo Paese! Da una parte molti pensano che i vaccini che si sono fatti qui non sono efficaci come dimostrerebbe il rimontare forte dell’infezione connessa alla variante Delta, dall’altro per alcuni il covid non esisterebbe in Marocco…e comunque ultimamente non se ne parla tanto di covid nei luoghi pubblici, la gente ha paura, ma questa è un’altra storia!...Intanto molta gente sta senza mascherina e non rispetta tutte le norme igieniche e di distanziamento sociale prescritte per evitare il contagio, molti si comportano come se il covid non esistesse. Mio fratello che vive e lavora a Casablanca la pensava così, ma poi ha avuto il covid ed è finito in ospedale, è stato malissimo ed io sono molto preoccupato per mia madre che, a causa del diabete, ha molti problemi di salute e, se prendesse il covid, non so proprio cosa potrebbe accaderle! (Larbi, 30 luglio 2021)

Le parole di Larbi sono certamente molto illuminanti rispetto alla difficile situazione in Marocco, dove, mentre si nega la pandemia, poi se ne esprime ampia preoccupazione, ma non sempre in modo esplicito e pubblico, mostrando di fatto la difficoltà delle persone di riuscire ad adattarsi pienamente alle norme e alle indicazioni pratiche necessarie per ridurre il rischio di contagio. Il suo discorso ci lascia però anche intravedere un complesso quadro economico, politico e sociale, con un insasprimento delle misure di sorveglianza pubblica, che ruota intorno alla crisi sanitaria indotta dalla pandemia.

Giova intanto ricordare che nel panorama internazionale della crisi sanitaria legata al Covid-19, che ha visto i governi di varie nazioni realizzare diverse misure per farvi fronte, il Marocco ha attuato subito, a differenza di molti Paesi europei, significative misure di blocco delle frontiere[3]. Secondo alcuni osservatori, all’inizio della pandemia, nonostante il forte impatto economico per le chiusure e il clima di confusione generale, si sarebbe creato in Marocco, tra la maggior parte dei cittadini e l’autorità, una sorta di “patto” civile e sociale [Laaroussi 2020][4], con uno Stato che, nel suo tentativo di raggiungere ogni fascia della popolazione insieme agli enti territoriali, è inizialmente apparso protagonista dell’emergenza[5]. Più in particolare il piano approvato per contrastare la diffusione del Covid-19 ha previsto misure di rafforzamento della sanità pubblica con la creazione di nuovi posti di rianimazione e l’apertura della sanità militare ai civili contagiati dal virus, ma anche un articolato piano di quarantena e distanziamento sociale, simile a quello di alcuni Paesi europei, con un ingente impegno delle forze di sicurezza. Quello ideato è stato quindi globalmente un programma di risposta multidimensionale con misure varie per combattere la pandemia e far fronte al suo impatto economico e sociale. Gli sforzi fatti non sono tuttavia risultati sufficienti per contenerla pienamente e il Paese ha ancora una situazione critica, con un territorio spaccato in zone rosse e verdi, come in altre parti del mondo. In questi difficili mesi alcuni critici del governo sono stati arrestati per presunta diffusione di notizie false sul Covid-19, a seguito dei loro attacchi frontali all’autorità già minacciata dalle conseguenze della crisi sanitaria [Laaroussi 2020][6]. Nonostante gli iniziali segnali di uno slancio di unità e di fiducia istituzionale sono riemerse così le debolezze della politica pubblica e del sistema sanitario marocchino. Infatti, il livello di soddisfazione dei cittadini per le istituzioni politiche resta basso, e, come mi spiega Larbi, sempre più serpeggia un certo scetticismo verso le strutture sanitarie pubbliche con più della metà degli ospedali considerati inadeguati e una visione negativa della stessa campagna vaccinale. L’applicazione rigorosa dello stato di emergenza con l’obiettivo di proteggere il Paese, garantendo la sicurezza nazionale e la salute pubblica come priorità assolute, ha scatenato, in particolare, proteste in diverse città, spingendo le autorità ad approvare un disegno di legge specifico per disciplinare i trasgressori e criminalizzare le azioni che potrebbero metterlo a rischio [Laaroussi 2020]. Tali pesanti misure sono state denunciate da alcuni come espressione di una politica oppressiva e di espansione del potere dello Stato che andrebbe oltre lo scopo di contenere l’infezione, confermando piuttosto una certa correlazione tra paura della pandemia e ondata di autoritarismo [Jaldi 2020].

«Sono tornata al mio villaggio…»

Con Amal, 31 anni, diabetica dall’adolescenza e da alcuni anni in cura presso il CHU, le cose vanno diversamente. Sono io a contattarla su WhatsApp, memore della sua propensione all’uso dei social media e avendomi lei stessa aggiunto nel 2019 a un vivace gruppo WhatsApp di pazienti che avevano fatto insieme un ricovero rieducativo di un’intera settimana a cui avevo partecipato durante la mia permanenza a Marrakech [Zito 2020b], per aggiornamenti sulla sua condizione di salute in concomitanza della pandemia e delle restrizioni imposte. Amal è originaria di un villaggio distante più di cento kilometri da Marrakech, città in cui per alcuni anni si è trasferita, quando io stesso l’ho conosciuta nel 2019, vivendo nella sua parte nuova in un appartamento con altre giovani donne grazie ai proventi di un impiego di tipo amministrativo in una buona azienda cittadina.

Dopo alcuni scambi di messaggi di saluti ed informativi Amal, a settembre 2020, accetta di farsi intervistare su Facetime, aggiornandomi su come la sua situazione generale, di vita, lavoro e salute, con lo scoppio della pandemia sia molto peggiorata:

Sono tornata al mio villaggio, nonostante non fosse quello che volevo, è stata una grande sconfitta su tutti i fronti […]. Ad aprile 2020, all’inizio della pandemia, l’azienda per cui lavoravo mi ha licenziato per la forte crisi economica e così, non avendo più uno stipendio e considerando il lockdown, sono stata costretta a tornare a casa e lì mi sono depressa, senza lavoro, senza la mia vita a Marrakech, senza le mie amiche e con la mia famiglia che mi opprime. Sono l’ultima figlia e l’unica non sposata di cinque tra fratelli e sorelle. I miei genitori sono anziani e non mi capiscono, non mi hanno mai capito, mia madre è analfabeta e mio padre è diabetico come me, ma ha molti problemi di salute…in questi mesi il suo diabete e anche il mio sono peggiorati molto e così ho messo sù più di quindici chili! (Amal, 2 settembre 2020)

Amal dalla webcam mi appare con la testa avvolta in un hijab dai colori scuri che le lascia scoperto un ciuffo di capelli castani e un bel viso decisamente più rotondo di quanto ricordassi. Più avanti, nella stessa conversazione da remoto, mi confessa di essere ritornata insieme con il fidanzato di prima che lei aveva lasciato per tutti i problemi che questi nel tempo le aveva creato proprio in merito al diabete:

[…] quando sono tornata a casa è stato inevitabile rivederlo, la sua famiglia abita l’isolato accanto a quello della mia e così, piano piano, abbiamo deciso di riprovarci…la mia famiglia e anche la sua sono state felicissime. Quando l’ho lasciato ho avuto molti problemi al paese con la mia famiglia, che ha giudicato malissimo la fine del fidanzamento e anche con la sua, che ha dato a me la colpa di tutto […]. Ahmed nel frattempo non si era più fidanzato e così ora siamo di nuovo insieme, forse è la persona giusta per fare una famiglia, ha un buon lavoro e sono sicura che non mi farà mancare nulla […]. Ora non mi chiede più del diabete e anche io ci penso poco, anche se dovrei mettermi a dieta e riordinare le glicemie che sono proprio pazze da molti mesi oramai! (Amal, 2 settembre 2020)

La storia di Amal mostra come la pandemia, oltre le sue dimensioni strettamente sanitarie, con le sue conseguenze economiche e sociali, abbia prodotto per molte persone un ripiegamento di diverse scelte di vita verso modelli più tradizionali e “rassicuranti”, soprattutto nel caso di giovani donne come lei o come Latifa di cui si è parlato prima, e non solo in Marocco [de Paz et al. 2020]. Tali donne smettono di pensare ai loro progetti di autoaffermazione, crescita personale e professionale, autonomia e indipendenza dalle famiglie e/o dai loro uomini per “rientrare” entro progetti di vita più “consueti” e in linea con la volontà delle famiglie stesse.

Alla fine nemmeno me la ricordo bene la mia vita di prima, intendo prima della pandemia, quando avevo un lavoro e vivevo con le mie amiche a Marrakech lontano dalla mia famiglia […], anche se poi il diabete non andava bene neppure allora […]. Le mie amiche di prima le sento spesso, praticamente tutti i giorni, abbiamo il nostro gruppo WhatsApp di sempre, di quando vivevamo tutte nella stessa casa a Marrakech, e lì ci raccontiamo giorno per giorno quello che ci succede…anche loro hanno perso il lavoro e solo una su tre ne ha trovato un altro e ancora vive a Marrakech, ma in un’altra casa con altre persone. Le altre ragazze, come me sono ritornate al paese, in famiglia… (Amal, 2 settembre 2020)

Percepisco la rassegnazione e la “stanchezza” di Amal che sembra come arrendersi alla soluzione più “facile” e sicura che concretamente le si pone davanti, ricomponendo così, con il recupero del rapporto con il suo fidanzato di prima, un certo ordine familiare che il suo litigio con questi, seguito dal trasferimento nella grande città, avevano prodotto nella sua biografia e nell’universo simbolico della sua famiglia e della sua comunità. Eppure Amal e le sue amiche che condividono una situazione simile a seguito della pandemia riescono a conservare, proprio attraverso il gruppo WhatsApp da loro costituito ai tempi della comune vita a Marrakech, uno spazio in cui possono parlare liberamente di se stesse, dei loro “fallimenti”, di alcune questioni molto personali e private che forse non potrebbero condividere con altre persone di famiglia o con altre amicizie meno legate all’esperienza da loro fatta del vivere in città insieme e lontano dai contesti di provenienza. Si giocano in questo modo, in tale spazio digitale condiviso, aspetti importanti della loro socialità nell’ottica degli utili concetti di “socialità modulabile”, “polimedialità” e “teoria dell’acquisizione” [Madianou, Miller 2012; Miller, Sinanan 2014; Miller et al. 2018].

È bello quando ci raccontiamo i nostri fatti più personali nel gruppo, scherziamo tanto, ci prendiamo in giro, lì possiamo veramente parlare di tutto, come accadeva quando stavamo insieme a casa a Marrakech e ci capiamo pienamente, non c’è bisogno di filtri […]. Comunque per sicurezza la chat la tengo silenziata e non in evidenza, così se Ahmed prende il mio telefono non può leggere quello che ci diciamo, anche perché sono cose nostre, di donne, lui e gli altri non c’entrano […]. Questa è l’immagine che abbiamo scelto per il nostro gruppo, la riconosci? È uno dei fumetti di Zainab Fasiki[7], li hai mai visti? La conosci[8]? Zainab vive a Casablanca e i suoi fumetti sono davvero forti, guardali così ti fai un’idea…è facile, puoi seguirla su Instagram e Facebook, puoi vedere i suoi lavori e le donne che disegna come l’immagine di questo gruppo di ragazze che abbiamo scelto per la nostra chat… (Amal, 2 settembre 2020)

La storia di Amal ci mostra, più in generale, e oltre i dettagli legati alla sua specifica biografia, come l’impatto di un virus globale si declini con sfumature differenti a seconda dei contesti culturali e delle persone da cui riceve agentività, intersecandosi con le locali condizioni strutturali, materiali e sociopolitiche, con quelle di salute [Singer et al. 2017; Horton 2020], con le local biologies [Niewöhner, Lock 2018], con le specifiche strutture sanitarie, con le abitudini sociali e i frames culturali, con i modelli di genere prevalenti in un contesto [Aït Mous, Ksikes 2016; Ranisio 2018; de Paz et al. 2020; Zito 2020d] e le possibilità di vita ad essi connesse. Tutto ciò suggerisce anche l’utilità di analisi fortemente localizzate e attente a disuguaglianze e vulnerabilità sociali [Morin 2020; Napier 2020; Trout, Kleinman 2020], come per esempio quelle connesse al genere, e che possano svolgersi anche in spazi digitali.

Infatti, nella sua complessità e radicalità, la pandemia, in Marocco come in Italia e più in generale nel mondo, sollecita le scienze sociali in generale e l’antropologia in particolare in quanto scienza dei contesti, in merito alla necessità di avviare analisi e riflessioni critiche volte a leggere le trasformazioni economico-politiche e socio-culturali innescate da essa, a partire per esempio dalle narrazioni dei protagonisti e con gli adattamenti metodologici resi necessari dalle difficili circostanze di isolamento e distanziamento e resi possibili grazie all’evoluzione tecnologica e digitale del mondo contemporaneo.

Conclusioni

Lo sguardo antropologico, anche attraverso gli spazi digitali e per mezzo di strumenti tecnologici, prova così a continuare a guardare nelle storie che osserva e ascolta da remoto, come quelle di questi giovani alle prese con la gestione diretta e indiretta di una malattia cronica come il diabete, la singolarità di ogni racconto all’interno del quadro collettivo della storia più grande, mantenendo peculiarità del primo e irriducibilità della seconda, ponendo così gli antropologi stessi, anche a distanza e nell’ambito di territori digitali, nella posizione di “cantastorie” [Fassin, Le Marcis, Lethata 2008] mentre osservano e con le loro interviste raccolgono testimonianze. D’Agostino [2012] per esempio, riprendendo criticamente il pensiero di Portelli [2007] sulle fonti orali, ci ricorda proprio a proposito del termine intervista (inter/vista) che questo significa letteralmente “guardare fra”, e come tale rimanderebbe a uno scambio di sguardi. È in questo scambio, e quindi incrocio di sguardi, anche attraverso i medium digitali con le inevitabili trasformazioni che questi implicano e le relative negoziazioni che richiedono di cui si è prima discusso qualche aspetto, che diviene pienamente possibile la parola dell’altro/a, nonostante la relazione asimmetrica che caratterizza il processo conoscitivo nelle scienze sociali. In questo senso la ricerca etnografica può far emergere l’altro/a, con la sua storia, perché proprio attraverso la narrazione nella relazione con il ricercatore essa si costruisce e si rappresenta e in questo modo concorre a dare corpo alla sua identità, considerando anche che il meccanismo della memoria che ne è alla base è sempre dinamico e che la memoria stessa si ricostruisce a partire dalle sollecitazioni del presente [Zito 2019], pure in uno spazio come quello digitale dove emergono dinamiche nuove all’interno della relazione etnografica. Infatti, nei racconti autobiografici raccolti con interviste a distanza, come quelli prima presentati, che ruotano intorno a storie di malattia ma non solo, si giocano almeno due dimensioni temporali diverse che attengono al soggetto narrante, quella in cui il racconto viene sollecitato e raccolto durante l’incontro etnografico da remoto (in questo caso reso possibile dalla tecnologia e dalla presenza di una pregressa buona dimensione relazionale e di conoscenza) e quella della memoria, con i suoi articolati processi di selezione, rappresentazione e narrazione, che l’interlocutore decide di consegnare al suo ascoltatore [D’Aloisio 2014]. A ciò si aggiunga il fatto che la memoria in sé non è un tutto omogeneo, costituendo al contrario una realtà molto complessa, non solo individuale, ma anche sociale e culturale, nella quale la temporalità, proprio nell’attraversare tematiche complesse come quelle relative alla salute e alla malattia, può ancora di più incappare in errori, scarti, distorsioni, che diventano preziosi indizi di riflessione antropologica anche da remoto. D’altro canto la veloce e pervasiva diffusione del web e dei media digitali sta producendo una progressiva e rapida riorganizzazione dei processi cognitivi, delle funzioni dell’attenzione, della memoria e dell’apprendimento, che riguarda in maniera estesa l’intera umanità e dunque interessa anche gli antropologi e il loro lavoro di relazione con i propri interlocutori sul campo, ma che investe largamente pure le stesse pratiche di lettura e quelle di scrittura così centrali proprio nel processo di ricerca antropologica [Biscaldi 2019].

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[1] Si tratta di un’interessante talk disponibile su youtube, per il link si rimanda alla bibliografia alla fine di questo articolo.

[2] Come altri governi quello marocchino ha dovuto contemperare le misure di isolamento da attuare nelle città con la necessità di mantenere viva l’economia. In questi mesi, a causa proprio della crisi economica, più volte la gente è scesa in strada per protestare, chiedendo al governo aiuti più significativi.

[3] È stato così possibile, soprattutto nella fase iniziale della pandemia, un certo autoisolamento della nazione, preservando inoltre la diffusione del contagio nei Paesi limitrofi.

[4] Infatti, il governo ha cercato di raggiungere in modo capillare, con specifiche campagne di comunicazione, ogni livello della popolazione, dai contesti urbani a quelli rurali. Anche sul versante dell’educazione c’è stato un grande investimento dopo la chiusura delle scuole dal 16 marzo 2020 in poi, assicurando, attraverso un canale della televisione pubblica dedicato, percorsi formativi sostitutivi, a distanza e accessibili, evitando pericolose diseguaglianze connesse al solo accesso a internet. Sul fronte economico è stata poi fornita un’attenzione particolare alla tutela dei lavoratori con specifiche politiche per il consolidamento della produzione nazionale, cercando di avvantaggiarsi dei frutti di una buona politica economica estera.

[5] Il governo ha ufficialmente dichiarato lo stato di emergenza sanitaria il 19 marzo 2020 prorogandolo fino ad oggi e attuando nel tempo tutta una serie di provvedimenti con limitazioni alla popolazione, dopo che il re Mohammed VI aveva istituito il Fonds spécial pour la gestion de la pandémie du Coronavirus, un fondo di emergenza per la sanità e i settori economici più colpiti.

[6] D’altro canto, malcontento, incertezza, precarietà e paura sono in continua crescita per il rischio elevato di una pesante recessione economica [Chtatou 2020].

[7] Zainab Fasiki, giovane artista marocchina nata a Fez nel 1994, è attivista per i diritti delle donne, divenuta famosa a livello internazionale dopo il 2019, in seguito alla sua pubblicazione dal titolo Hshouma. Corps et sexualité au Maroc, originale e dirompente graphic novel, tradotto dall’arabo marocchino in francese e in altre lingue. Il suo lavoro di artista, che pubblica sui social media e come graphic novel, critica la censura, i tabù e le nozioni di vergogna in Marocco e quindi la cultura patriarcale ancora forte nel Paese che espone spesso le donne a molestie sessuali e ad altre forme di violenza e subalternità, promuovendo piuttosto il valore della libertà sessuale femminile. Infatti il termine “hshouma” che dà il titolo al suo contributo più famoso significa proprio, in arabo marocchino, “vergogna”. Fasiki ritrae con grande carica espressiva i corpi delle donne nell’arte e nei media senza tabù, donne svestite, forti e senza paura. Molte delle sue illustrazioni sono autoritratti, spesso nudi, ispirati a donne collocate negli spazi tradizionali come quello dell’hammam marocchino o rappresentate come personaggi forti dei fumetti quali per esempio Wonder Woman. Fasiki è già un’icona per molte donne giovani e meno giovani in Marocco, ma anche in seno alle locali comunità femministe ed LGBT proprio per la sua attenzione al valore della libertà di espressione sessuale e per l’ampia condivisione e circolazione dei suoi lavori sui social media.

[8] Ho personalmente “scoperto” i lavori di Zainab Fasiki, apprezzandone subito la potente vis espressiva e critica, nel 2018, durante un soggiorno come visiting scholar nell’ambito di un Programma Erasmus KA107 presso il Département de Sociologie dell’Université Hassan II di Casablanca grazie agli stimoli ricevuti dagli studenti di dottorato da me conosciuti durante la mia attività didattica ivi svolta e che stavano lavorando proprio su questioni di genere nella società e cultura marocchina.