Editoriale n. 2 - 2021

Alberto Baldi

Dipartimento di Scienze Sociali, Università degli Studi di Napoli Federico II

Eugenio Zito

Dipartimento di Scienze Sociali, Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice

Antropologia culturale, social media, rete
Miscellanea
Recensioni
Medaglione in ricordo di Gian Luigi Bravo

Il numero 2/2021 della rivista EtnoAntropologia, che qui di seguito presentiamo sinteticamente, ospita una sezione monografica curata da Gaetano Mangiameli ed Eugenio Zito e composta da un’introduzione e cinque contributi dedicati al tema dell’antropologia culturale, dei social media e della rete.

Il numero include anche cinque ulteriori articoli di ricerca nell’area miscellanea insieme a tre recensioni e ad un ricordo di Gian Luigi Bravo. Di essi si riportano di seguito brevi cenni rimandando alla loro lettura.

Antropologia culturale, social media, rete

La sezione monografica “Antropologia culturale, social media, rete”, introdotta dai curatori Gaetano Mangiameli ed Eugenio Zito, costituisce un’occasione di riflessione antropologica, a più voci e con diverse prospettive, sul mondo della rete, dei social media e più in generale del digitale che caratterizza in modo sempre più pervasivo la vita culturale e sociale della nostra contemporaneità.

Tale sezione monografica, oltre l’introduzione firmata dai curatori include in totale cinque saggi, rispettivamente di Domenico Copertino, Franco Lai, Vito Laterza, Gaetano Mangiameli ed Eugenio Zito. Questi contributi, facendo riferimento a riflessioni teoriche e ricerche etnografiche svolte in diversi contesti, contribuiscono al dibattito sull’antropologia della rete in varie direzioni, toccando molte tematiche. Nel loro insieme propongono infatti una rassegna degli studi sul tema, approfondendo alcune questioni metodologiche relative all’etnografia digitale e ibrida, esplorano strategie e metodi di adattamento in diversi contesti rispetto all’uso dei social media e del web, forniscono interpretazioni sulle molteplici dimensioni del cambiamento, pensano ai social media come al contenuto che le persone postano più che come contenitore, infine discutono degli svariati usi dei social media, come per esempio quelli politici e relazionali.

Più nello specifico in questi saggi si passa così da un’analisi delle attività di un gruppo di conservazionisti siriani, che si svolgono sia su Facebook che offline, per mettere in evidenza come la dimensione “virtuale” dei social media non comporti l’abbandono di quella “reale” del loro attivismo (Domenico Copertino), ad un’interessante interpretazione della produzione e della circolazione dei memi come parodia del discorso politico e mediatico italiano durante la pandemia (Franco Lai). Ci si muove da interrogativi su quale contributo possa oggi dare l’antropologia culturale al contemporaneo dibattito a proposito degli effetti negativi dei social media sugli esseri umani (Vito Laterza), ad una proposta di alcune riflessioni preliminari su certi aspetti delle interazioni di Facebook rispetto a questioni politiche intese nella loro accezione più ampia (Gaetano Mangiameli), fino a discutere, anche alla luce del contemporaneo dibattito sull’antropologia della rete di cui si riporta un ampio spaccato, difficoltà e potenzialità di un’etnografia “ibrida” sui temi della salute e malattia in Marocco ai tempi del digitale e nel corso di un’inedita e così pervasiva pandemia come quella di Covid-19 tutt’ora in corso (Eugenio Zito).

Miscellanea

Nella miscellanea trovano posto, come anticipato, cinque saggi su tematiche varie.

“Abitare il margine, raccontare luoghi invisibili: le autobiografie dei detenuti per mafia nella Casa Circondariale Catania Bicocca” è il primo, a firma di Giulia Bitto. L’autrice, in seno a una ricerca condotta nella casa circondariale di Catania Bicocca in Sicilia, valuta in qual modo la provenienza da luoghi che si caratterizzano per marcato disagio sociale e conseguente emarginazione culturale si configuri come una delle principali cause di una devianza anche se non principalmente di tipo mafioso. I detenuti, al di là della marginalità dei contesti in cui sono nati, operando su un discrimine tra legalità e illegalità, dimostrano un’affezione radicata per i “luoghi di vita” in cui parimenti si genera e si articola l’agire mafioso. Tra questi si fa più specifico riferimento ai paesi di Biancavilla, Palagonia e Moio Alcantara, dove i tradizionali e per certi aspetti desueti concetti di “periferico”, “marginale” e anche “rurale” debbono essere sostituiti da quello di “periurbanità”, che l’autrice mutua da Fabio Converti e Piera Della Morte. Secondo Bitto è opportuno in tal senso andare oltre il concetto di campagna vista come sfondo e humus originario e di città vista monoliticamente quale radicale alternativa abitativa e produttiva, pensando invece a una periurbanità come qualcosa che non è né pienamente città, né pienamente campagna. Questa terra di mezzo è quella che fa da volano a imprese criminose dove lo zoccolo duro contadino incontra un tessuto lavorativo e produttivo sì di matrice urbana, ma poroso, capace di stabilire e riconfigurare specifici sistemi di potere per il controllo e l’espansione di un agire malavitoso. Un esempio è quello del Sicilia Outlet Village, un centro commerciale di imponenti dimensioni, con brand di lusso sorto da poco tempo nell’area di Agira/Dittaino, nell’ennese, una zona in passato carente di mezzi di trasporto pubblici, adeguata viabilità e di molte altre infrastrutture e che ora “surclassa”, supera e rovescia la relazione tra Enna, la “città” e Agira, la “campagna”. La riformulazione e rifunzionalizzazione del luogo ha creato importanti sommovimenti produttivi ed economici, incidendo peraltro sull’antica vocazione agricola del contesto marginalizzata da una grande distribuzione che l’alimentare fa giungere da altri consessi regionali ed extraregionali. La criminalità locale, anche se intenzionata a non perdere il rapporto con i suoi tradizionali territori di origine, si è mostrata capace di “calarsi” e riconvertirsi in tale coacervo “dimensionale” e ambientale. Bitto, attraverso lo strumento dell’autobiografia che alcuni detenuti hanno deciso di redigere, individua nelle storie individuali la declinazione di questo mutato rapporto con i luoghi di nascita e provenienza ove, ancora una volta, la mafia dimostra di volgere a proprio vantaggio l’odierna locale situazione in divenire.

Il secondo contributo, di Serena Caroselli, dal titolo “Una mobilità esasperante, una vita a più tempi” propone la storia e il percorso migratorio di Beauty, una donna nigeriana coinvolta in una tratta ove la dimensione del tempo e la questione del debito assurgono al ruolo di categorie fondative del processo di soggettivazione di questa drammatica esperienza migratoria. Tale soggettivazione agisce, riconfigura e reinterpreta la vita reale, gli immaginari e anche la sfera emotiva di una donna alle prese con la riconquista di una propria indipendenza economica, sociale e culturale. L’autrice pone al centro della sua indagine la dimensione della temporalità indispensabile per leggere la vicenda migratoria di Beauty attraverso gli snodi determinatisi nel corso della sua esistenza, ivi compreso il transito nella condizione di “trafficata”. In tale situazione emerge un altro rilevante e condizionante aspetto, quello del debito quale categoria di produzione dell’identità personale. Rifacendosi a Pier Giorgio Solinas, Caroselli intende il debito quale vita-debito, muovendo già dalle relazioni familiari per giungere a quelle tra trafficanti e trafficate. Sullo sfondo di una “vita a più tempi” come recita il sottotitolo, scandita dalle relazioni di cui sopra, l’autrice chiama in causa un altro cogente aspetto, quello del confine, o meglio dei confini dinnanzi ai quali Beauty si è venuta a trovare e che hanno scandito la dimensione temporale della sua vicenda. In tal senso il tema del confine, nella sua multiforme natura materiale e simbolica, è stato assunto ed usato per la sua capacità di incidere sulla produzione delle soggettività migranti, ivi compresa quella della donna nigeriana al centro di questo articolo.

Di Alessia Fiorillo è il terzo saggio intitolato “La ricchezza della scrittura in antropologia. Possibilità inedite per i servizi socio-sanitari”. In esso l’autrice prende in considerazione la difficoltosa interazione tra approcci e conseguenti lessici propri per un verso di un decisionismo sanitario poco incline a muoversi al di là di un tecnicismo che tradizionalmente e fortemente connota l’esercizio della professione medica, e per l’altro di un orientamento che intenderebbe corroborare tale decisionismo attraverso l’assunzione di una prospettiva antropologica, formale ed informale a confronto; il primo quello delle istituzioni e il secondo perorato dall’antropologia medica. Viene qui accennato il peso derivante da logiche istituzionali che talora ingenerano una sclerotizzazione evidente nei processi di aziendalizzazione e burocratizzazione del mondo della sanità. Più nel dettaglio, e sul piano etnografico, il contributo prende in considerazione i risultati di due indagini svolte in Umbria e inerenti la salute mentale e l’assistenza all’infanzia nelle famiglie vulnerabili con l’obiettivo di riconsiderare criticamente gli strumenti di valutazione della qualità nel welfare italiano. Mediante il supporto delle testimonianze di alcuni operatori l’autrice intende sottolineare i rischi di un riduzionismo inerenti il sistema di definizione dello svantaggio, della malattia e della devianza in ambito sociosanitario.

Michela Fusaschi firma il quarto contributo dal titolo “La desarticulación social del cuerpo. Polisemia de la violación y subjetividad resistente en el genocidio ruandés”, in cui muove da una estesa conoscenza delle espressioni linguistiche che variamente e contraddittoriamente definiscono attori e azioni riferibili all’esercizio della tragica pratica della violenza, dall’abuso sessuale alla tortura e alla morte che a volte ne conseguono. Nell’appropriato corredo etnografico di cui l’autrice si dota emerge dunque la scelta di attribuire un ruolo centrale alla conoscenza di una pletora di termini con i quali, a livello locale, si stigmatizzano e declinano variamente significati e aspetti funzionali della violenza, della violazione del corpo femminile. Tale violazione viene inoltre posta in relazione a una complessa e contradditoria serie di situazioni, dal genocidio, alla tortura, agli orizzonti cosmogonici, alle pratiche sessuali e riproduttive della violenza sul corpo femminile. Fusaschi adotta quindi, partendo come detto da un approccio linguistico, punti di vista plurimi e debitamente multisituati per analizzare da differenti angolazioni il tristo fenomeno su un piano sia diacronico che sincronico, locale e globale, chiamando altresì in causa la dimensione economica, di genere, di età e di provenienza etnica.

Nell’ultimo saggio della miscellanea che è di Thea Rossi, “E poi ci siamo addormentati…Comunità sospesa tra vulnerabilità e pratiche di rigenerazione dello spazio sociale e territoriale”, si analizzano le vicende locali del comune di Montorio al Vomano in Abruzzo in seguito ai disastri naturali che hanno colpito quel territorio nel 2016 e nel 2017. L’autrice, attraverso una dettagliata etnografia, indaga sui modi mediante i quali alcuni cittadini cercano di ripristinare lo spazio sociale utilizzando le rappresentazioni teatrali basate sulle narrazioni di storie di vita. Nel saggio viene sottolineato come la pratica della memoria condivisa abbia permesso di aprire la strada a possibilità di rinascita e di risveglio sociale, in particolare, favorendo l’interazione generazionale, che ha consentito ai più giovani di scoprire o di conoscere meglio la storia e le tradizioni del proprio paese. Il laboratorio teatrale denominato “La Città Nascosta” ha incentivato il desiderio di tornare a sentirsi una comunità, sostanziandosi in un’occasione per rinfocolare il legame con il territorio e per definire con maggior consapevolezza nuove e partecipate modalità di convivenza.

Recensioni

Tre sono le recensioni presenti nel numero, firmate rispettivamente da Nicola Martellozzo, Tamara Mykhaylyak ed Eugenio Zito.

La prima propone il volume a cura di Laura Bonato e Lia Zola dal titolo Halloween. La festa delle zucche vuote, edito nel 2020 da Franco Angeli (Milano), recensito da Nicola Martellozzo. Nel libro di Bonato e Zola si analizza da varie angolazioni una delle feste di più recente “importazione”, oramai ampiamente presente in Italia, attraverso molteplici forme di ibridazione, oggetto sovente di palesi critiche, ma anche segno evidente di un’accoglienza che è oramai un dato di fatto. Si tratta, come sostiene Laura Bonato, di una ricorrenza “trasformata, riciclata, riproposta, inventata, alterata” che impone una varietà di complesse letture e di approcci analitici, anch’essi non sempre convergenti da effettuare a differenti livelli, cominciando da quelli connotativi e simbolici.

La seconda recensione a firma di Tamara Mykhaylyak è dedicata al volume di Alberto Baldi edito nel 2021 da Squilibri (Roma) intitolato Emigranti cineasti. Regie di un successo. Basilicata-America, 1900-1950. In esso l’autore propone alcune vicende davvero sorprendenti di emigrati lucani in America tra la fine dell’Ottocento e i Cinquanta del Novecento riusciti nell’intento di coronare degnamente il loro progetto migratorio. Dire che abbiano avuto fortuna è addirittura riduttivo se solo si pensa a uno di loro, che, sul finire dell’Ottocento, partito come semplice scalpellino da Castelmezzano sulle Dolomiti lucane divenne a New York uno dei più conosciuti costruttori edili nell’epoca d’oro dei grattacieli. Non è tanto né solo la specifica fortunata vicenda di codesti intraprendenti basilischi che Baldi ha inteso analizzare, quanto soprattutto la riproposizione fortemente visiva e altamente tecnologica che essi vollero architettare per riproporre ai paesani rimasti al borgo natio, nel corso di momentanei rientri, l’avvenuto successo. Fin dall’epoca del pre-cinema questi lungimiranti emigranti si ripresentarono nei luoghi di origine con stereoscopi per visioni tridimensionali, grammofoni a tromba, album con le “spiazzanti” foto delle opulente metropoli americane, pizze 16 mm con i loro girati negli States, soprattutto a New York e Chicago, cineprese e proiettori. Due di loro trascorsero l’estate nei rispettivi e aviti paesi, stendendo sui muri di slarghi e piazzette delle lenzuola su cui proiettare compiaciuti l’America “conquistata”, fatta propria. L’autore, senza voler certo negare quanto nefasta e tragica sia stata la diaspora migratoria d’oltre oceano, ritiene, all’opposto, che non possano però essere taciute “storie” a lieto fine, assai più numerose di quanto si creda, lette e valutate in termini di ricche e variegate rappresentazioni costruite e “proiettate” cinepresa alla mano. Siamo perciò al cospetto di un lavoro che rientra sul piano euristico, metodologico e interpretativo negli specifici ambiti dell’antropologia visuale. In tal senso non si tratta però soltanto di un libro, essendo anche corredato da un’autonoma e densa parte fotografica con 289 immagini in quadricromia, di un documentario di 50 minuti su DVD e di altri quattro mediometraggi visibili mediante QR code indicato. Si tratta perciò di un esperimento molto articolato che fa interagire a monte strumenti euristici e a valle mezzi di comunicazione diversi, ognuno dei quali impegnato a mettere in luce un aspetto determinato della ricerca, ora in chiave più analitica, ora maggiormente divulgativa e coinvolgente.

L’ultima recensione redatta da Eugenio Zito inerisce il volume di Chiara Quagliariello intitolato L’isola dove non si nasce. Lampedusa tra esperienze procreative, genere, migrazioni, edito nel 2021 da Unicopli (Milano). In esso l’autrice si propone di riflettere sulla storia di Lampedusa e sui processi migratori che l’hanno caratterizzata, attraverso però il punto di vista delle donne, ad ora poco esplorato. Al centro del volume ci sono infatti le storie di diverse generazioni di donne dell’isola, ma anche di migranti in stato di gravidanza. La prospettiva di analisi è dunque esplicitamente di genere, in un più ampio approccio intersezionale, utilizzando come lente di lettura quella dell’esperienza procreativa, categoria riferita a concepimento, gravidanza, parto, allattamento e interruzione di gravidanza. La ricerca presentata nel volume, parte di un più ampio progetto europeo ERC starting grant finalizzato allo studio dell’esperienza procreativa tra donne migranti accolte nei territori delle frontiere meridionali dell’Europa, si focalizza sullo specifico legame tra politiche volte al controllo dei confini, percorsi migratori femminili e possibilità di accesso ai servizi di salute sessuale e riproduttiva. In definitiva, il volume, esito di un intenso e sentito percorso di ricerca, fa emergere alcune questioni che sono un utile stimolo per riflettere in modo critico sul complesso intreccio tra forme contemporanee di assistenza a gravidanza e parto, percorsi di mobilità femminili, disuguaglianze territoriali e processi di razzializzazione vissuti da molte migranti.

Medaglione in ricordo di Gian Luigi Bravo

Chiude il numero, a firma dei suoi allievi di Torino, un ricordo tanto lucido e analitico quanto affettuoso ed intimo di Gian Luigi Bravo recentemente scomparso.