Pandemia, imago mortis e sue migrazioni digitali

Alberto Baldi

Dipartimento di Scienze Sociali, Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice

Quando la morte doveva essere fotografata
Morte per Covid, morte da digitalizzare
Bibliografia

Abstract. The pandemic disrupted not only daily existence but, in its most acute phase, also the traditional customs for commemorating those who lost their lives to Covid. The virus erased the celebration of mourning. In a situation where the obligation to stay at home has prevented vigils and funerals, the Internet has offered alternatives through applications that have been managing the accounts of the deceased for some years now, proposing digital ways of remembering the dead.

Keywords: Imago mortis, consolo, death manager, funerali in streaming, figurazione dell’afigurale, social.

In questo tribolato momento storico trascorso sotto la minacciosa scure del Covid-19 i supporti offertici dalla rete sono stati indubbiamente significativi attivando modalità di comunicazione sostanzialmente in linea con una pluricentenaria e consolidata abitudine a parlarci anche a distanza con il supporto di “figure”, dunque già nell’epoca dell’analogico e oggi del digitale.

Postulando quindi, come avveniva in pregresse ere analogiche l’agire pure oggi nell’utenza digitale di una diffusa autorialità che si sovrappone o comunque mostra di dialogare con le strutture comunicative e con i contenitori predisposti ab ovo dai social e sui social per dirigere il nostro cercarci, incontrarci e parlarci, va notato come un anno abbondante di pandemia abbia e stia sollecitando e stigmatizzando ulteriori strategie per riarticolare una condizione di reiterata presenza assente. Alludiamo a strategie che nascono al contempo e per così dire dal basso e dall’alto, dal mondo dei consumatori e fruitori dei social e da chi intercetta, accoglie, e predispone strumenti per navigare nel web.

Codesti spazi di manovra si sono grosso modo sostanziati in due direzioni.

La prima risponde sul piano pratico, operativo, informativo a una “domesticazione” del momento di crisi attraverso l’incessante tam tam in cui si incrociano notizie e narrazioni di eterogenea provenienza che spaziano dal sentito dire al comunicato stampa, all’articolo scientifico o divulgativo, al “visto” in televisione, al detto e predisposto dal governo da cui emerge una “parabola” del Covid-19, un “così vi dico” che dovrebbe orientare il concreto da farsi sempre energicamente supportato da un patchwork iconico che va dalla rappresentazione grafica del virus, a tabelle, a powerpoint, a figure e fumetti, a cartoon che definiscono i comportamenti da tenere, agli istogrammi con l’andamento della curva dei contagi e via dicendo. A puro titolo di esempio segnaliamo come la permanenza reiterata sulla rete abbia permesso, presso le oramai numerosissime comunità native presenti sul web mediante loro anche assai sofisticati siti, sia sul piano tecnico che su quello del trattamento dei contenuti, di monitorare la pandemia, fornendo servizi utili a rintuzzare il Covid mediante sostegni concreti, informativi, comportamentali e psicologici, mediante il parlarsi anche negli spazi di una schermata, di un “francobollo”. Cose simili si sono determinate anche presso i nativi digitali, per così dire, di casa nostra, giovani nati e cresciuti dinnanzi a un pc, a un tablet, a un cellulare, giovani capaci di modellare un rapporto plastico e personale con l’odierna tecnologia informatica.

Da cotale calderone figurale e testuale ognuno ha estratto e parimenti immesso il proprio contributo, ha espunto e riconfigurato gli elementi utili a collocarsi in questa inedita temperie nella vita pratica di ogni giorno.

Altrettanti spazi di manovra prendono invece un’altra strada che investe ben più complesse procedure di rifondazione identitaria, di riarticolazione dell’assenza, di sua rimemorazione e ripresentificazione. La violenza, la brutalità con cui il virus ha crudamente e spietatamente resecato legami affettivi e familiari portando rapidamente alla morte oramai più di centomila persone nella sola Italia è andata di pari passo alla sparizione improvvisa e improvvida dei propri cari schiantando e annientando dalla mattina alla sera gli istituti tradizionalmente preposti alla gestione dell’evento luttuoso, in primis la veglia funebre, il cordoglio, la messa, l’accompagnamento della salma al cimitero, la sua inumazione, istituti, come vedremo tra poco, peraltro parzialmente svuotati della loro antica efficacia segnica, simbolica, reintegrativa. Le porte del pronto soccorso si sono mutate in impenetrabili mura stigie da cui molti non hanno più fatto ritorno, sul cui delimitare l’immagine dei propri cari è venuta improvvisamente meno e con essa la loro vita. Il virus ha creato un baratro impenetrabile e oscuro che ha inghiottito corpi su corpi negando e cancellando le immagini di chi quei corpi aveva abitato e lasciando ancor più nello sgomento una popolazione già tendenzialmente “inesperta” della morte, non più culturalmente preparata e predisposta a fronteggiarla.

Tale situazione si è fatta perciò ancor più critica e disorientante nella misura in cui si è sovrapposta alla consuetudine oggi ampiamente invalsa di rintuzzare e “contenere” la morte entro confini sempre più ristretti, entro rituali di congedo frettolosi e sincopati. Il Covid-19, quasi per paradosso, ha accelerato incredibilmente codesta attuale deriva, ne ha messo in evidenza l’insopportabile algore ma soprattutto la nostra inanità. Già si era oramai da tempo disarmati dinnanzi agli eventi luttuosi ed oggi lo si è ancora di più.

Si è dovuto convenire che pur non potendo ritornare alle pratiche di un cordoglio diffuso e protratto che virava naturalmente nel “consolo”, anch’esso sovente disteso nell’arco di più settimane, ove il morire si faceva più “dolce”, o almeno più sopportabile, nel periglioso mare della finita esistenza umana, la pandemia ha fatto della morte improvvisa, dell’agonia non accompagnabile, della negazione della veglia per seguire il proprio congiunto sino alla fine, al suo ultimo respiro, una cesura insopportabile, spaesante.

Ed ecco allora, imperioso, il ritorno all’immagine unico e solo simulacro per ritessere e soprattutto per restituire evidenza a un’esistenza immantinente disparita.

Ed ecco, in parallelo, il web per ridare “materia”, per conferire nuova “corporeità”, per garantire una visibilità condivisibile ai molti falciati ex abrupto dal pandemico e ferale insulto.

Quando la morte doveva essere fotografata

A essere precisi nulla, però, nasce dal nulla e quanto accade oggi tra utenza e rete associate nel creare nuove strade su cui distendere il cordoglio, strade di cui parleremo più avanti, ha dei significativi precedenti.

Alludiamo all’implicazione della pratica fotografica nel lutto, genere pienamente riconducibile nel più ampio alveo della foto vernacolare già essa caricata della funzione di eternare la famiglia[1]. Quale ennesimo esempio del rito di un rito, come nel matrimonio e così pure al cospetto di una dipartita, il fotografo entrava in scena chiamato da chi aveva appena perso un proprio caro. Gli si chiedeva di ritrarre la salma composta sul letto di morte con i familiari disposti ai due lati del giaciglio, mettendo altresì in evidenza, nel rispetto delle tradizioni locali, i prescritti segni del lutto. In certuni casi sfruttando il rigor mortis si collocava il defunto in posizione eretta, sostenuto compostamente per le braccia dai congiunti con il preciso obiettivo di realizzare un ulteriore ritratto di famiglia in cui tutto il nucleo dei congiunti sottraeva, almeno nell’atto di quest’ultimo scatto, il proprio trapassato alla morte riconducendolo e trattenendolo, ancora per un istante, in vita [Baldi 2004, 38-39, 64-65]. Batuffoli di cotone imbevuti nell’acqua calda consentivano la riapertura delle palpebre per restituire un residuo afflato vitale al deceduto. Altre volte e sempre con il medesimo intento la salma era sollevata rimanendo collocata nella bara. Tale variante era introdotta per una “foto ricordo” scattata all’uscita dalla chiesa, sul suo sagrato, al termine della funzione religiosa, non solo con i familiari ma con parenti, amici e compaesani disposti a corona ai lati del feretro.

Con una certa frequenza il fotografo documentava anche i momenti salienti della messa funebre e, a seguire, il trasporto funebre per le vie del paese avendo cura di riprendere tutti i partecipanti unitamente a dei “figuranti”, nella fattispecie bambine e bambini di collegi religiosi e di orfanatrofi, musicanti quando non bande musicali al completo. Come per le nozze anche le esequie diventavano inoltre un momento in cui si misurava il peso sociale ed economico della famiglia colpita dal lutto, la sua capacità di organizzare una cerimonia funebre con tutti i crismi, con vistosa partecipazione del paese o del quartiere. Potendo, il fotoreportage proseguiva sulla via del cimitero “immortalando”, è quasi il caso di dirlo, l’acme più critico e dolente del rito, l’inumazione della salma.

Qui si dava una circostanza sui generis di foto nella foto. Prima di chiudere la cassa, sul corpo del defunto venivano posti santini e fotografie, queste ultime sovente con messaggi vergati sul retro. Si trattava di ritratti di persone scomparse in precedenza i cui familiari, desiderando rimettersi in contatto con esse, chiedendo intercessioni divine ma pure volendo informare i propri trapassati di eventi e accadimenti determinatisi nella compagine familiare, “approfittavano”, per così dire del defunto in attesa di essere inumato perché, giunto nell’oltremondano, potesse farsi latore di codesti messaggi, di codeste impetrazioni, di siffatte e multiformi richieste. Le foto collocate nella bara dovevano consentirgli di riconoscere i destinatari delle missive senza tema di errore[2]. Questa pratica poteva rispondere anche a ulteriori istanze che contribuivano a confermare la funzione preminente esercitata dall’icona[3] in tali frangenti.

Il nostro passato rurale mette in chiarissima evidenza in qual modo la fotografia assolvesse a funzioni ampiamente relazionali di efficace relè magico religioso tra dimensione mondana ed extramondana dove la ritualità funebre codificata e condivisa viene volentieri integrata e rifunzionalizzata dalle “innovative” opportunità garantite dal mezzo fotografico.

Profondamente ambivalente, la fotografia – evocatrice di vita e di morte – è anche mezzo perché la memoria si realizzi autoalimentandosi e recependo via via i nuovi contenuti dell’esistenza nel suo concreto dispiegarsi. La memoria evoca l’immagine dell’altro ma perché possa mantenersi ha bisogno che l’immagine dell’altro le restituisca vita e vigore. Una memoria senza immagini sarebbe preda del suo antagonista: l’oblio, come un’immagine che non si radichi nella memoria rischia di sbiadire nella muta fissità di un documento ormai incomprensibile [Lombardi Satriani 1988, 161].

L’immagine si fa dunque potente strumento di riscatto della vita sulla morte destinato a durare nel tempo, generazione dopo generazione, se però sostenuta da debiti puntelli interni alla medesima pratica fotografica. Collaborava a tale scopo, ancora una volta al pari del matrimonio, un album di morte con le foto prescelte per preservare dall’oblio la dipartita dei propri cari debitamente celebrata in seno alla comunità. L’incorruttibile potenza evocatrice dell’immagine, per dirla con Faeta, dell’imago mortis [Faeta, Malabotti 1980], tale in virtù della sua natura metastorica, ripresentifica vividamente il trapassato riannettendolo ai suoi cari. Concorre a ciò la foto in cornice appesa in cucina e inclinata verso il basso per far sì che i propri cari ivi ritratti, e ora eletti, in quanto defunti, al rango di numi tutelari, meglio possano vegliare sui vivi, sui loro discendenti, nell’ambiente della casa ove tradizionalmente si passa più tempo, ci si riunisce intorno al desco, si incontrano parenti e amici. Da ulteriori collocazioni, più ascose e intime, nel medaglione appeso al petto, nel portafogli, sul comodino o nel suo cassetto, collocazioni tutte più fisiche ed “epidermiche”, le foto dei trapassati, attraverso tale relazione particolarmente stretta e cogente con chi esse si porta appresso, attivano una prossimità che meglio rinfocola e rischiara i processi di rimemorazione, parimenti corroborando e fortificando le funzioni apotropaiche e augurali[4]. Ci sembra qui di ravvisare un’assonanza con gli ex voto fotografici definiti da Spera come «materiali d’immagine» la cui doppia condizione, materica e iconica, contribuisce all’ «oggettivazione di un immaginario magico-religioso» che esprime una «funzione talismanica» [Spera 1991, 91].

Dai trascorsi di un mondo contadino emerge in qual modo il rapporto con la morte non solo venga mediato dai molteplici usi, dalle plurime presenze e funzioni della fotografia chiamata a “contenere” l’horror vacui della fine stemperandolo e ricollocandolo in un orizzonte terreno e secolare; emerge altresì come tali strategie siano perennemente attive, ottundendo il dolore per la perdita di un congiunto proprio attraverso il recupero della sua presenza surrogata dalla foto.

Il ritratto fotografico riattiva infatti, mantenendolo vivo nel corso del tempo, il ricordo dell’estinto abituando i familiari sopravvissuti al suo mutato status di visibile e al contempo di latente “compresente”.

Il ritratto fotografico permette quindi una feconda e duratura coabitazione del livello mondano con quello ultramondano, del percepibile e dell’impercettibile, assieme fusi.

Al ricordo orale e alle memorie legate agli oggetti si aggiunge a un certo punto della storia la perturbante presenza di un doppio di sé. Ancor più che nelle loro raffigurazioni pittoriche e scultoree le persone fotografate suscitano inquietudine. Ci guardano con gli stessi occhi con cui noi le osserviamo. Non sono mai soggetti inerti, né si limitano a “rinviare a” o “evocare” qualcosa che non è presente. Sono percepite come presenze vive o altrimenti come finestre sull’invisibile. Come per le rappresentazioni sacre, per la fotografia nel suo uso popolare, immagine e referente sono diluiti in un continuum che riassume e non disgiunge [Buttitta 2000, 12].

Il Covid-19, calando giù come una mannaia improvvisa e inarrestabile, è intervenuto su un corpo sociale innanzitutto oramai culturalmente poco incline e poco “attrezzato” nello stabilire legami di continuità, di prossimità con la morte. L’impoverimento e il raggrinzirsi delle pratiche del cordoglio, da espletare velocemente nell’arco delle ventiquattro ore dal decesso, lasciano la gestione della morte prevalentemente ristretta all’ambito della famiglia colpita dal lutto, alle capacità ma pure alle incapacità dei singoli individui di improvvisare proprie incerte vie di rimemorazione, nemmeno condivise e condivisibili. Il virus ha colpito con durezza una oramai intrinseca debolezza umana, quella che non ci rende più in grado di inquadrare la morte entro coordinate culturali sia partecipate che dotate di una qualche efficacia reintegrativa e riorientativa.

Alla perentoria e subitanea dematerializzazione dei corpi imposta crudamente dalla malattia sono seguiti tentativi di resistenza spesso labili ma che tornano a resuscitare come possono relazioni con le immagini. Le retoriche in base alle quali nei palinsesti televisivi si realizzavano e si realizzano interviste ai “sopravvissuti”, alternando nel montaggio i soggetti interpellati, le immagini di corsie ospedaliere affollate di personale medico e di macchinari nelle terapie intensive, personale, si badi bene, anch’esso dematerializzato, opacizzato, reso anonimo dalle scafandrature indossate, non manca mai il momento in cui i familiari mostrano all’obiettivo dell’operatore il ritratto fotografico in cornice del defunto, o le sue immagini composte nell’album familiare. Nell’album, forse obliato da tempo, e ora frettolosamente riesumato e ricondotto al suo uso primigenio di strumento domestico di rimemorazione e reintegrazione familiare, la gente è tornata a cercarvi i ritratti del proprio caro trapassato all’improvviso, troppo all’improvviso, ridefinendone quell’immagine che da un momento all’altro l’impenetrabilità dei reparti di virologia hanno obnubilato e i nefasti esiti della malattia hanno definitivamente cancellato. Tale affannoso ricorso a un supporto, nello specifico a un ritratto della persona scomparsa, recuperato, come si è appena detto, da un album o scaricato dalla galleria di un cellulare, definisce un agire che in extremis si aggrappa a quel che trova, nella fattispecie a una testimonianza visiva necessaria per serbare una qualche traccia del defunto. È un agire che però si determina oramai fuori dai complessi orditi rituali del passato e dei quali si è più sopra brevemente detto; è un agire disarticolato che, come tale, lascia i sopravvissuti se non disarmati comunque male in arnese dinnanzi a una morte di cui, di conseguenza, non rintuzzano la devastante natura.

Morte per Covid, morte da digitalizzare

Nella precarietà di questo tremebondo e spaesato orizzonte, nel suo essersi imposto all’improvviso, in una ancora evidentemente non pervasiva relazione con la comunicazione digitale che, come vedremo, da alcuni anni ha cominciato a giocare un suo ruolo nella riconfigurazione e nella gestione degli eventi luttuosi, in molti si sono visti del tutto spersi, incapaci di fronteggiare un buco nero, insondabile e impenetrabile da qualunque angolazione lo si guardasse, un nulla ineluttabile. Non si è avuto il tempo materiale di reagire costretti a permanere in una terra di mezzo ove il ricorso a modalità antiche e tradizionali di ridare corpo al defunto mediante la sua immagine non è più pane masticabile dalla modernità, e il parallelo supporto dei social appare ancora relativamente in fieri, non certamente omogeneamente conosciuto e diffuso nella popolazione per motivi non solo meramente tecnici ma anche culturali, anagrafici e di genere. Nel complesso, è da supporre però che sia solo una questione di tempo.

Man mano che si evolvono le invenzioni tecnologiche, l’insoddisfazione per un generico perdurare dei morti nel pensiero o nell’oggetto-ricordo, muta nell’ambizioso intento di conservare realmente la loro personalità nella sua interezza. Si comincia a sottrarre alle leggi della finitezza la loro immagine tramite la fotografia […], quindi poco dopo, le loro voci tramite l’invenzione del fonografo. […] Le attuali tecnologie digitali […] mirano a rendere possibile ciò che finora è stato proibito: dare voce e corpo ai morti, rendendoli autonomi attraverso i loro ricordi digitali […] rendendo i ricordi personali indipendenti dal loro proprietario [Sisto 2020, 106,108].

Già in anni precedenti alla pandemia, sono andate prendendo forma nuove, embrionali gestioni digitali del lutto, ad esempio la messa funebre che in “dad” rientra anche tra i primi tentativi, qui da noi, di sottrarre alle morti repentine almeno la celebrazione di questo momento centrale dell’ufficio funebre[5].

Prima del Covid-19 il web aveva cominciato a fare i conti con chi non gli era sopravvissuto e neppure domani gli sopravviverà, con un’utenza sterminata di utenti passati a miglior vita ma della cui vita i profili ancora attivi sulla rete potevano parlare. Vale la pena ricordare che il 13 marzo 2016 la BBC annunciò essere oramai prossimo il superamento dei profili di utenti deceduti rispetto a quelli viventi su Facebook.

In seno ai social una galassia spaventosamente sempre più ampia e dilagante di muti account alla deriva appartenuti a persone venute meno ha finito con il sollecitare loro rinnovate forme di cura da parte dei parenti di codesto esercito di dipartiti e, parallelamente, di applicazioni “funebri”. Davide Sisto ci segnala Facebook che è intervenuta a tal proposito con obiettivi sia “normativi” che di disincantata opportunità di ripascimento e fidelizzazione di un target altrimenti non più attivo, anzi, meglio, non più interattivo.

Ha stabilito alcune regole che permettono a ogni singolo utente di lasciare preventivamente informazioni chiare sul destino del suo profilo on line dopo la morte. […] Fornendo chiaramente questa indicazione, una volta che è stato inviato ai gestori del social network un certificato di morte, la fotografia […] un necrologio o la dichiarazione di un notaio, compare sulla parte alta del diario, accanto al nome dell’utente, la seguente scritta: “in memoria di X. Speriamo che le persone che amano X troveranno conforto nel visitare il suo profilo per ricordare lui e la sua vita” [Sisto 2018, 100-101].

Sin qui si è lavorato ex post ma l’utenza digitale per un verso, e piattaforme appositamente sviluppate per garantirci l’eternità dall’altro, stanno ora sposando una logica ex ante, prefigurando a monte interventi destinati ai viventi nella previsione della loro ineluttabile futura scomparsa, da “scongiurare” digitalmente con appositi alter ego in grado di replicarci per sempre, sfidando i tempi. È il caso di ETER9.

Una volta che vi siete iscritti, ETER9 inizia pian piano a conoscervi e assimila tutte le informazioni e i comportamenti mentre navigate. In questo modo potrete vivere in eterno, in formato digitale, perché ETER9 continuerà la vostra esistenza una volta deceduti. Il concetto di immortalità, molto discussa anche sulla piattaforma di Mark Zuckerberg, si basa semplicemente sulla relazione tra le vostre azioni e su quanto apprende l’Intelligenza Artificiale. […] Per ogni contenuto creato esiste un tag particolare: sono in tutto 10. I tag servono all’area Cortex (molto simile ad una pagina del profilo Facebook); è una memoria digitale che incamera tutti i dati e i contenuti da voi creati. La memorizzazione serve a creare la vostra Controparte, un vero e proprio utente fotocopia in digitale. Più siete attivi, più la Controparte prenderà forma. […] Una volta offline, entra in gioco la vostra Controparte, che continuerà a postare contenuti, commentare, inviare smiles agli amici o chiacchierare con loro. Una vera e propria sostituzione della vostra persona; e questo continuerà per l’eternità [Pinzi 2015].

L’uso in questa direzione dei social si tinge di proiezioni che pescano in un pensiero decisamente magico come nel caso in cui chi ha perso una persona con la quale intratteneva relazioni affettive ricorrendo ad applicazioni informatiche di messaggistica del tipo di WhatsApp, continua a inviarle “bigliettini”, pensierini e letterine immaginandosi un giorno che il doppio segno di spunta viri, dal colore grigio che segnala il recapito della missiva, al blu che ne indica invece l’effettiva lettura da parte del destinatario, in questo caso l’anima del defunto, il suo fantasma trasposto in rete[6]. La messaggistica sui social, a ben pensarci, ha già di per sé un suo carattere alquanto metafisico viaggiando sull’etere, un etere tanto tecnologico quanto, appunto, fascinoso, prodigioso, fatato da cui discende la sua facoltà di tramutarci in corpi digitali che si materializzano bidimensionalmente ma oramai, grazie a opportune applicazioni, anche tridimensionalmente. Corpi che, parimenti, come comparsi d’emblée su un display, si smaterializzano con altrettanta immediatezza, corpi che si riconvertono, si ridipingono, mutano nell’aspetto attraverso programmi di morphing e fotoritocco.

Corpi che la robotica sta imparando a sussumere ivi compresi avatar digitali che “resuscitano” i defunti, configurandosi come parenti più o meno stretti degli ologrammi, tanto diafani quanto iperrealistici, tanto inquietanti quanto seducenti.

In tal senso, da pochi anni, dal 2015, si sperimentano e si realizzano alcune versioni di chatbot le cui memorie digitali sono state riempite con immagini ma soprattutto con registrazioni e messaggi vocali desunti dai profili di persone decedute con il fine di creare degli “spettri digitali” in grado di organizzare dei dialoghi che resuscitino non solo gli eloqui, gli idioletti dei trapassati ma, con essi, loro precipue sfumature caratteriali [Sisto 2018, 38-42].

A metà tra testamento, inumazione e pure riesumazione digitale si collocano le offerte di piattaforme come eMemory, Box Tomorrow, Memories che ancora Davide Sisto ci segnala.

Ci si registra al servizio e si costruisce una specie di scatola virtuale in cui riporre fotografie, documenti, file con le credenziali di accesso. […] Ogni contenuto conservato al suo interno può […] essere accompagnato da didascalie scritte o vocali nelle quali indicare nei minimi dettagli a quale esperienza vissuta corrisponde, irrobustendo il ricordo della persona che non c’è più. […] Una volta deceduti, i beneficiari possono aprire la scatola virtuale, accedendo al materiale che gli è stato lasciato [Sisto 2018, 118].

Ci pare insomma di essere al cospetto di quella che John Berger, a proposito della pittura a olio europea soprattutto ottocentesca, ha definito come «cassaforte incassata nella parete, una cassaforte in cui si è depositato il visibile» [Berger 2015, 111], nel nostro caso un vistoso bot a mo’ di wunderkammer traboccante dei ricomposti segni del defunto, di pingue recipiente, di dialogante urna digitale ricolma delle visibili tracce dello scomparso.

Inevitabile a questo punto il riferimento ai camposanti digitali che sono oramai una realtà tentando di surrogare e ampliare le funzioni di quelli tradizionali. Come rammenta Faeta «iI cimitero è […] un’immagine, carica di valenze normative e di intenti didascalici, della vita che lo genera» [Faeta 1989, 34], metafora con i suoi vialetti, con le cappelle, con alberi e fiori di un luogo “abitato”, di un tessuto “meta-urbano” dotato delle sue indicazioni “stradali”, di lapidi che come sul portone di un palazzo definiscono il domicilio dei corpi segnalandone nomi, evocandone immagini, ricordandone mestieri, professioni e attitudini caratteriali mediante opportuni e appositi testi commemorativi. Codeste città dei morti, nella loro configurazione urbanistica, orientano i vivi fornendo loro i luoghi e i modi con cui riattivare e tessere una relazione con i trapassati. Facendosi digitale il cimitero recupera e potenzia l’evocazione del trapassato arricchendone le opportunità di rimemorazione e rendendole navigabili e interattive. Ecco allora l’associazione alla lapide di un qr code collegato a un profilo del defunto ospitato su questo o quel social: qui parenti e amici del trapassato sono messi nella condizione di “partecipare” alla sua rimemorazione con personali contributi, lasciando messaggi, inserendo foto e clip. Lo statunitense Hereafter Institute propone

ricostruzioni fotografiche e video 3D in una stanza virtuale, sulla cui porta è scritto il nome del caro estinto. L’utente, una volta indossati gli occhiali richiesti ed entrato nella stanza virtuale, ritrova il morto, riprodotto artificialmente, che lo attende per interagire con lui [Sisto 2018, 127].

È interessante notare come codesta funzione funebre sia fisicamente offerta in cimiteri reali: si tratta di una scelta deliberata nel tentativo di restituire all’esperienza tridimensionale un’aura mistica e sacrale che promana dal luogo di sepoltura e che evaporerebbe se si fosse a casa, sul proprio divano.

Assieme ai cimiteri a traslare nella sua nuova veste digitale è, quasi conseguentemente, anche il necroforo. Negli Stati Uniti va infatti affermandosi

la nuova – e un po’ macabra- figura del death manager: un becchino digitale, in pratica, spesso non umano ma elettronico, che dovrebbe segnatamente aiutare i vivi nella gestione futura dei loro assets digitali. […] L’unica cosa certa è che, dopo la morte, un profilo o un account può, nella maggior parte dei casi e dei servizi, tranquillamente continuare a vivere on line, a esistere in tutti i rapporti virtuali che già manteneva, a ricevere notifiche a commenti risalenti, ad avere foto taggate [Ziccardi 2017, versione Kindle, posizione 222].

Il web si sta quindi apparecchiando a evocare immagini e risonanze dei defunti, creando una “eco iconica”, una traccia multimediale e attentamente costruita dei trapassati in grado di “restituirceli” in una cornice piacevole, rincuorante, anche suadente e avvolgente. Attraverso una veloce navigazione in siti e app funebri si noterà, per quanto riguarda anche soltanto la loro confezione, l’impianto grafico ad essi sotteso, come il messaggio che passa sia, con una certa frequenza, quello di una relazione soft con l’altro mondo che accantona i toni cinerei attraverso i quali in Occidente si dipinge e stigmatizza tradizionalmente la morte. Prevalgono, per ovvi motivi di marketing, ingressi rincuoranti dominati da toni pastello, da luminescenze “paradisiache” che “illuminano” il percorso all’interno di codesti portali. Il nero, poco spendibile e appartenente a un passato arcaico, è bandito.

Di tale passato Francesco Faeta ricorda «il nero dei vestiti e dei segnali funebri, il buio o la penombra […], la frammentazione dell’ordine percettivo, l’impossibilità di guardare, il velamento o la simbolica rottura degli specchi, il mascheramento degli occhi attraverso lenti oscure» [Faeta 1989, 53]: in codesta situazione, ricorda inoltre Mariano Meligrana, «la casa e gli oggetti perdono la loro abituale visibilità e lo sguardo la sua capacità di penetrazione, divenendo sempre più opaco e difficile» [Lombardi Satriani, Meligrana 1982, 156]. Tale corvino e corrusco sottofondo era però ritenuto indispensabile nella misura in cui alludendo alle oscure porte dell’Ade stabiliva con esse un’analogia, un nesso cromatico di prossimità, e dunque una più favorevole possibilità di transito indispensabile al defunto e necessaria ai suoi cari per sincerarsi del compiuto trapasso del morto e della possibilità, sempre attraverso codesto medesimo varco, di rievocarlo.

Sulla rete, molto prosaicamente, la nuova ritualità funebre digitale, che è innanzitutto un business, non ha la necessità di varcare le porte dell’Ade per andarvi a recuperare i trapassati, trapassati che invece ricostruisce in laboratorio e a pagamento: diviene allora indispensabile che la morte si faccia accattivante, che si faccia bella.

Curiosamente un punto di contatto tra le pratiche del lutto in veste “analogica” e al contempo “digitale” esiste, rappresentato, a parte i debiti distinguo di natura “commerciale”, da un comune «sforzo di figurazione dell’afigurale» [Faeta 1989, 68] che stabilisce e ribadisce i modi e i confini entro i quali rendere intellegibile e sopportabile lo scandalo della morte.

È ancora presto per comprendere in qual modo la pandemia accelererà la “traslazione” delle salme, o meglio la loro immagine ricostruita sui dispositivi di rimemorazione disponibili e venduti su Internet. Come in ogni nefasta crisi pandemica la cui virulenza assume toni atroci e catastrofici si determina una apocalisse dei corpi che diviene apocalisse visuale in seno alla quale la corporeità si eclissa immantinente, ipso facto.

Nell’arena pur ridondante, polimorfa, chiassosa, mutevole e contradditoria del digitale è dato di fatto oramai acquisito il diffondersi di siti funebri che vicariano nel bene e nel male un’assenza da rendere almeno e meno latente, rintuzzando il coitus interruptus causato dalla pandemia che ha sospeso una socialità in persona. Se l’esistenza trasposta sui dispositivi digitali parrebbe, come si diceva in precedenza, “dematerializzata”, vignettata, appannata, sempre sui dispositivi digitali potrebbe trovare vie per riconfigurarsi che probabilmente, ieri come oggi, vedranno ancora una volta al centro di ogni esperimento di “rigenerazione” l’immagine con tutto il suo potente, luminoso, ma pure ambiguo potere denotativo. Riteniamo di poter ipotizzare che proprio tale intrinseca polisemia dell’ εἰκόνα che ama giocare con indici, segni e simboli a cui rimanda e a cui variamente si lega, sia il fecondo e indispensabile punto di partenza per ampiamente “chiosare” sulle sfaccettature di facce da ricomporre digitalmente secondo espressioni diverse, dando all’avatar del defunto una mimica iperrealistica e cangiante, in tal senso tanto più convincente, consolatoria, rassicurante e, naturalmente, vendibile. Coloro che si stanno dedicando alla “riproduzione” variamente “robotica” del defunto e, al contempo, coloro che ai progettisti digitali forniscono indicazioni, documentazioni, immagini affinché il defunto venga meglio concepito e definito, nei fatti innescano in tale procedura interattiva ciò che Horst Bredekamp definisce come «atto iconico», che

consiste nell’individuare la forza che consente all’immagine di balzare, mediante una fruizione visiva o tattile, da uno stato di latenza all’efficacia esteriore nell’ambito della percezione, del pensiero, del comportamento. In tal senso, l’efficacia dell’atto iconico va intesa sul piano percettivo, del pensiero e del comportamento come qualcosa che scaturisce sia dalla forza dell’immagine stessa sia dalla reazione interattiva di colui che guarda […]. Questo genere di efficacia è proprio dell’atto iconico schematico, che si espleta nella vivacità, nell’efficacia immediata, o impiegata strumentalmente, di composizioni di corpi, automi e bioartefatti [Bredekamp, 2015, 36].

Il phasma dell’estinto gioca proprio le sue carte in funzione di conclamate capacità di relazione dialettica “vivificate” dalla sua medesima vivacità “oggettivamente” percepibile dal fruitore.

Staremo a vedere, fermo restando, all’opposto, il diritto, innegabile, all’oblio.

Bibliografia

Baldi A. 2004, Scatti per sognare. Avigliano nelle fotografie dell’archivio Pinto, Napoli: Electa.

Barillari S.M. (ed.) 1998, Immagini dell’aldilà, Roma: Meltemi.

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[1] «La pratica della fotografia esiste e sussiste in virtù fella sua funzione familiare, o meglio della funzione che le conferisce il gruppo familiare, e cioè solennizzare ed eternare i grandi momenti della vita familiare, in breve, rinsaldare l’integrazione del gruppo riaffermando il sentimento che esso ha di sé e della propria unità. Poiché la fotografia di famiglia è un rito del culto domestico in cui la famiglia è insieme soggetto e oggetto, […] il bisogno di fotografie e il bisogno di fotografare (interiorizzazione della funzione sociale di questa pratica) sono avvertiti tanto più vivamente quanto più il gruppo è integrato o vive un momento di maggiore integrazione» [Bourdieu 1972, 56].

[2] Codesta nostra etnografia e parimenti le fotografie implicate nei rituali funebri che abbiamo descritto provengono da una teca apposita del MAM, Museo Antropologico Multimediale dell’Università degli Studi di Napoli Federico II facente parte di un archivio dedicato ai generi della fotografia familiare in ambito meridionale (Campania, Basilicata, Puglia, Abruzzo).

[3] Francesco Faeta ricorda il caso di un possidente calabrese, il conte Orazio Barone, che, nel 1946, nelle sue disposizioni testamentarie, a metà tra «tensione insieme iconoclasta e iconofila» prescrisse che tutte le raffigurazioni pittoriche e fotografiche dei suoi familiari, «tolte dalle cornici, unite e cucite in tela, venissero poste nella […] cassa con la […] salma» [Faeta 1989, 30] ciò probabilmente per serbare memoria dei suoi cari in un momento storico in cui la famiglia era prossima alla disgregazione, all’interrompersi di un asse ereditario, a un probabile e inesorabile oblio. Appare in questo caso significativo che in virtù dell’adagio omnia mea mecum porto, il nobiluomo scelga di accogliere nella bara proprio i ritratti dei suoi sulla soglia di un gattopardesco sfarinamento della sua casata. Pur nella specificità del caso in questione dove le immagini occorrono non ai vivi desiderosi di mettersi in contatto con i propri trapassati, ma al defunto prossimo venturo che ambisce a condurre con sé nell’oltretomba l’effige dei suoi cari, appare evidente, come detto, il ruolo comunque centrale e variegato assunto dalle immagini nelle pratiche funebri.

[4] Mentre dunque la cucina è il luogo di condivisione dei propri defunti ove questi ultimi sono chiamati a partecipare alla vita familiare, mediante la distribuzione evidente dei loro ritratti, la camera da letto è ambiente maggiormente riservato in cui altrettanti altarini fotografici o nuclei più ristretti di immagini prevedono una relazione esclusiva tra chi nel letto di questa camera si corica e coloro che i ritratti degli avi dispone in prossimità della testiera, vis-à-vis. Le foto «poste presso il letto coniugale hanno una forza vitale, una veridicità e una sacralità affatto speciali. Questo luogo sembra essere l’erede dell’antico larario sito all’ingresso della casa latina, sebbene sia stato sottratto alla vita relazionale che quello aveva, alle funzioni di scambio simbolico tra interno ed esterno, domestico e alieno cui assolveva. È appena il caso di rammentare le […] valenze che assume la collocazione di tale imago mortis accanto al laboratorio della vita, il messaggio di continuità dinastica che da essa promana, il rapporto Eros-Thánatos che si realizza in quello che, proprio per questa duplice immanenza, si configura come il centro culturale della casa» [Faeta 1989, 44], il luogo della procreazione, dell’inseminazione della vita che per apparente paradosso necessita di una relazione ctonia, di una protezione proveniente dall’oltremondano.

[5] Il funerale in versione streaming nasce quale opportunità spesso meramente logistica per consentire ai membri di una famiglia che la diaspora migratoria ha disseminato in contesti assai lontani gli uni dagli altri di seguire la cerimonia almeno da un monitor. Non è un caso che tra le prime aziende a sviluppare questo servizio ve ne sia una attiva in Irlanda, contesto interessato a più riprese da importanti ondate migratorie (http://funeralslive.ie). Secondo Sisto «la diretta in streaming applicata alla cerimonia funebre è, probabilmente, una delle idee più innovative dei tempi odierni, dalla quale emerge la contrapposizione costante tra la riscoperta della morte all’interno della vita di tutti i giorni e l’enfatizzazione del suo carattere mediatico e teatrale» [Sisto 2018, 130]. Cercando di rifinire il concetto, si tratterebbe di consuetudine tesa a secolarizzare l’evento luttuoso riconducendo quest’ultimo nella familiare e rassicurante cornice di un monitor, di un display su cui siamo abituati a far transitare il quotidiano profluvio di informazioni e immagini che mediano costantemente la nostra relazione con il mondano, rendendolo al tempo medesimo vicino e lontano, variamente ipostatizzato e anestetizzato. In siffatto processo di mediazione ci pare di scorgere un’istanza difensiva ma pure rimemorativa come quella che con probabilità sta dietro la ripresa video dei funerali che non è stato possibile celebrare in persona nell’attuale pandemica temperie. Funerali in streaming quale ultima spiaggia per ricondurre i lutti entro le consuete coordinate ecclesiastiche alle quali eravamo comunque adusi, stancamente o più empaticamente.

Al funerale, quando non digitalizzato, va inoltre connesso l’uso di scattarsi selfie che verranno poi condivisi tra presenti e assenti, ivi compresi ritratti con il defunto nella bara: anche qui niente da “eccepire” avendo già visto come codesta tendenza, solo in apparenza dissacrante, abbia radici antiche sulle cui funzioni si è già detto.

[6] Tornano qui a riaffiorare, diafani e in filigrana, i lacerti di attitudini e comportamenti popolari che prevedevano una relazione di assoluta prossimità fisica e dialettica con la divinità e in subordine con le anime purganti, con i trapassati di cui indistintamente si accarezzavano o percuotevano le effigi, con cui si parlava, si ristabiliva e si condivideva un’intimità, ma pure si inveiva, si narravano accadimenti terreni chiosandoli in guisa di pettegolezzi, con cui si contrattava un intervento salvifico da ripagare con fioretti, messe, ex voto o, all’opposto, se il santo o il caro estinto si fosse mostrato “riottoso”, se fosse stato percepito poco sensibile e “collaborativo”, con invettive, maledizioni, finanche con il percuotimento o la distruzione dell’immagine sacra, della fotografia.