Leggende di “sequestro” e di “espianto degli organi”

Uno studio tra Italia e Camerun

Pierpaolo Di Carlo

University of Buffalo, USA

Lia Giancristofaro

Università di Chieti-Pescara

Indice

L’Era dei virus: il corpo e i diversi “punti di vista”
Il COVID come complotto per espiantare organi: i dati raccolti in Italia
Il COVID e l’occulto: i dati raccolti in Camerun
Due contesti, due letture
Una lettura “eurocentrica”: la rielaborazione narrativa della pandemia da COVID-19
Una lettura “afrocentrica”: il mito popolare come reazione moralizzatrice
Bibliografia

Abstract. The survey presents ethnographic data on some conspiracy legends regarding COVID19 recorded in two different grounds: Cameroon and Italy. The authors focus on these legends with particular attention on the content and the intertextuality of the narration. The texts have repetitive patterns and argue that the pandemic is an invention of the “strong powers” to kidnap healthy people and explant their organs, in order to commercialize or make other sacrilegious, occult use of them. The myth of the “kidnapping” and “mutilation of bodies by occult powers / for occult ends” is also present in periods other than that of COVID-19 and falls within the vein of “urban legends” and “conspiracy theories” that attribute sacrilegious actions to minorities or other groups considered dangerous for their being essentially antisocial. This type of legend is therefore updated and put back into circulation today, in a moment of particular anguish. As the authors are still immersed in the pandemic, the conclusions of this analysis of imaginary production are precarious. Therefore, the main purpose of the article is to reflect on the production of popular thought.

Keywords: Covid 19 Pandemic; Ethnography; Popular Culture; Legends; Conspiracies.

L’Era dei virus: il corpo e i diversi “punti di vista”

Pierpaolo Di Carlo studia culture e linguaggi africani, io mi occupo di etnologia europea[1] e in questo periodo osservo espressioni di populismo in Italia e Belgio. Nel 2020-2021, una pandemia da COVID-19 sorprende i governi, e drastiche azioni politiche sono prese per contenere il contagio. Gli spostamenti vengono interdetti e, con essi, gli incontri fisici tra le persone e i gruppi. Il nostro lavoro sul terreno si rimodula allora soprattutto sui social network, che sono utili per mantenere i contatti faticosamente costruiti in mesi e anni di lavoro. Pierpaolo ed io, discorrendo insieme dei problemi metodologici dell’osservazione partecipante al tempo del COVID-19, rimaniamo colpiti dalla analogia tra alcuni flussi di comunicazione che esploriamo come corollario dei nostri rispettivi progetti di ricerca. Infatti, abbiamo entrambi ricevuto, dai nostri informatori, notizie, memi e filmati digitali che immaginano e spiegano in modo inedito la pandemia stessa. Questi materiali narrano di persone sane che vengono sequestrate dai medici con la scusa del COVID-19, e poi uccise e private dei loro organi, i quali vengono venduti a caro prezzo. Tali misfatti, secondo chi racconta, sono compiuti negli ospedali e nelle cliniche, con la complicità dell’intero sistema. I parenti dei malcapitati, o sedicenti tali, narrano le vicende in forma mitica e leggendaria, ma anche performativa e teatrale.

Partendo da questa analogia, siamo stati incoraggiati a procedere da altri lavori antropologici che osservano terreni diversi (da New York ai paesi africani) non per compiere fuorvianti comparazioni, ma per analizzare i processi di formazione dell’immaginario popolare nella contemporaneità [Sanders 2001, West, Sanders 2003]. Siamo stati illuminati da questo dato, emerso dalle indagini precedenti: la trasparenza è oggi la chiave del “buon governo”; essa è considerata un bene politico primario; insomma il potere è, forse, trasparente come non è mai stato in società così complesse[2]. Tuttavia, dal punto di vista dei meno privilegiati, il potere appare opaco e imprevedibile, come dimostra la vasta gamma di espressioni del complottismo che riciclano forme di sciamanesimo, stregoneria e leggende metropolitane come modi per interpretare il mondo in mezzo a processi di modernizzazione che sono rapidi e irregolari.

Il confinamento, in Italia come in Camerun, ha reso difficile, ma non impossibile la pratica dell’incontro attraverso una relazione “faccia a faccia”, pertanto abbiamo potuto ascoltare questo filone narrativo anche dalla viva voce di alcuni narratori. A me, personalmente, è accaduto facendo la fila alle poste, dove è bastata una semplice elicitazione per ricevere un paio di convinte asserzioni in merito a “ciò che succede negli ospedali: con la scusa del COVID, i medici fanno esperimenti sui corpi”. Insomma, questo tipo di narrazione non è solo un sapere incorporato nel web, ma è presente nella vita reale. Nei dati raccolti da Pierpaolo Di Carlo, questa narrazione viene addirittura agita, performata e teatralizzata, mettendo al centro il corpo di un individuo morto di COVID in ospedale. Abbiamo dunque scelto di rendere visibile l’invisibile, e di portare allo scoperto i risultati di questa osservazione. Facciamo questo nonostante le difficoltà epistemologiche che altri autori non hanno avuto, in quanto essi, pur unendo terreni diversi e lontani tra loro, hanno svolto una regolare osservazione partecipante su questi temi dell’immaginario [Sanders 2001, West, Sanders 2003]. Noi abbiamo osservato e interpretato leggende sui corpi in Italia, Belgio e Camerun, ma lo abbiamo fatto con una interlocuzione diretta ridotta al minimo: questa lacuna ci ricorda come anche l’assenza e l’invisibilità debbano essere argomentate criticamente, e ci spinge a interrogarci sui limiti dell’efficacia conoscitiva di questo lavoro. La precarietà delle conclusioni di questo tentativo di analizzare la produzione di immaginari aumenta anche per il fatto che scriviamo il presente articolo mentre siamo ancora immersi nella pandemia. Dunque, lo scopo principale dell’articolo viene circoscritto, in buona sostanza, ad una riflessione generale “classica” degli studi folklorici e antropologici, ovvero le modalità di produzione del pensiero popolare, stimolata in questo caso da un evento mondiale: la pandemia del 2020.

Per procedere, abbiamo individuato un percorso logico. La crisi pandemica, iniziata concretamente in Europa nel febbraio del 2020 (e qualche settimana più tardi in Camerun e altri paesi sub-sahariani), obbliga a ripensare gli spazi delle ricerche qualitative. Per il momento, non possiamo viaggiare, non possiamo vivere in modo prolungato nei contesti che intendiamo descrivere, ma non possiamo interrompere l’osservazione. Del resto, i metodi di ricerca qualitativa da anni affrontano, assieme al cambiamento delle pratiche di scrittura, anche il cambiamento delle tecnologie della comunicazione e l’allargamento dei concetti di “spazio” e di “tempo”, per riconsiderare in modo etico la ricerca etnografica nelle sue nuove dinamiche [Lassiter 2005].

Dunque, abbiamo scelto - o meglio, ci siamo adattati all’unica possibilità che avevamo - di usare l’etnografia digitale per portare avanti l’indagine. Nel corso degli ultimi vent’anni, i social network hanno trasformato il flusso della comunicazione interpersonale da questione privata a questione pubblica, perché il prodotto espressivo del singolo comunicatore viene, in vario modo, condiviso e rimbalzato tra innumerevoli utenti ed esposto alla fruizione di massa, intrecciandosi con essa[3]. Da questa nuova modalità di comunicare nasce la netnografia, cioè il metodo di ricerca qualitativo e riflessivo che ha per oggetto le interazioni sociali nei contesti comunicativi digitali contemporanei[4]. Noi, nel presente terreno, non abbiamo analizzato la comunicazione in sé, come vuole la netnografia, ma abbiamo semplicemente applicato la ricerca qualitativa (sotto forma di tecniche etnografiche tradizionali) in un contesto online, che è il contesto dei gruppi da noi osservati e frequentati nel corso delle nostre indagini già avviate. In parole povere, quando la pratica del terreno è diventata impossibile per via del confinamento, attraverso i social network (soprattutto WhatsApp) abbiamo continuato ad osservare le comunità, i loro discorsi e le loro percezioni. Abbiamo letto commenti e discorsi, ma abbiamo anche partecipato ad essi, interloquendo coi protagonisti e facendo domande sui sentimenti e sulle logiche narrative dell’elemento che ci colpiva e scuoteva tutti, cioè la pandemia. Insomma, l’elicitazione digitale ci ha dato la possibilità di proseguire l’etnografia e di approfondire alcuni temi divenuti improvvisamente prioritari, come quello del corpo e della sicurezza delle persone.

Non abbiamo, dunque, svolto una netnografia in senso stretto, perché questa avrebbe avuto per oggetto sia il tema o argomento dell’interazione (in questo caso, una determinata narrazione della pandemia), sia l’interazione in sé. Certamente, la nostra etnografia digitale ha alcuni punti di incontro con una possibile netnografia, perché indirettamente essa esplora anche il modo nel quale le persone hanno comunicato durante la pandemia. Tuttavia, la nostra riflessione coinvolge numeri limitati di interlocutori, e si concentra in senso olistico sulle culture e sulle società, anziché sulle riflessioni e sui dati prodotti in modo massiccio dalle comunità online: questo fattore spinge la nostra indagine nell’alveo, appunto, dell’etnografia digitale, e approfondisce un tema specifico che le persone hanno comunicato, ovvero la narrazione dell’imbroglio del COVID finalizzato ad espiantare gli organi di chi ne viene coinvolto.

Chiunque si appresti a svolgere un’etnografia digitale non può non tenere conto del fatto che un discreto numero di persone rimane tagliato fuori dalla comunicazione digitale: questo è un limite esplorativo di cui dobbiamo essere consapevoli. Tuttavia, il tema specifico che le persone hanno comunicato offre visibilità ad una situazione già largamente discussa dalle antropologie mondiali e dei “mondi non connessi”: la pandemia ha aggravato le disuguaglianze in modo esponenziale e le ha fatte emergere con maggiore chiarezza. La narrativa popolare che evidenziamo in questa indagine sembra dire che “non basta essere resilienti”. Se esserlo significa accettare insopportabili asimmetrie di potere e “normalizzare la disperazione”, è inevitabile che si scelga piuttosto di praticare una resistenza generativa di narrazioni, così come sembrano fare i protagonisti della nostra etnografia.

Ogni etnografia vuole afferrare il “punto di vista dei soggetti osservati” per comprendere la loro visione del mondo [Malinowski 1922]. L’etnografia è fatta di incontri, di fiducia, di conoscenza, di conflitti, soprattutto di “presenza” del ricercatore, che diventa essa stessa un elemento di mutazione delle dinamiche del campo. La frizione tra il punto di vista degli attori sociali e il punto di vista dell’osservatore è alla base della metodologia d’indagine. Stando in Italia e in Camerun, abbiamo osservato il fluire di questa “resistenza generativa di narrazioni” stando al sicuro nelle nostre case, ma anche ai margini di terreni difficili e pericolosi, come capita di frequente a Pierpaolo Di Carlo nelle sue missioni africane. Nel tentativo di avvicinare i nostri campi, ci siamo dati il compito di trovare analogie interpretando i fatti attraverso lo sguardo delle persone, come indica Geertz[5]. Questo compito evidenzia che la “resistenza generativa di narrazioni alternative” è una peculiare modalità di risposta alla narrazione dominante, che è quella della medicina ufficiale, ed intreccia disuguaglianze vicine e lontane, trasformando la nostra scrittura in uno strumento non neutro, bensì impregnato di significati ideologici, politici e culturali. Descrivere una o più culture comporta inevitabilmente la riduzione della sua (o loro) complessità, il suo (o loro) impoverimento, il suo (o loro) uso arbitrario e conflittuale: ma, se vogliamo provare a teorizzare qualche risposta comune alle angosce sollevate dalla pandemia, e non solo da essa, questo è un rischio che vale la pena correre.

Pur occupandosi di corpi e sicurezza, la presente indagine non usa la lente specifica dell’antropologia medica, cioè non discute, nello specifico, i temi della guarigione simbolica, del malessere e della malattia. In un periodo di governo emergenziale dei corpi attuato sia sui vivi, sia sui morti, abbiamo scelto di concentrarci sull’emersione collettiva dell’idea che il COVID-19 sia una invenzione di “poteri occulti” per sequestrare le persone sane ed espiantare i loro organi. Il mito popolare del “complotto” è un tema classico degli studi folklorici occidentali: esso è presente nelle favole e con la modernizzazione si sviluppa attraverso “leggende urbane” che attribuiscono a minoranze (gli ebrei, giusto per citare un famoso antecedente storico) l’uso di rapire le persone e commettere nefandezze sui loro corpi per scopi rituali o per trarre un sacrilego profitto economico. Gli studi letterari su queste leggende popolari non mancano, e mettono in evidenza che questi miti sono stati, e tuttora sono, la parte più esplicita di ideologie che attribuiscono comportamenti pericolosi a categorie della “diversità” a cui la cultura popolare attribuisce un benessere e un potere immeritato [Dundes 1991].

Il COVID come complotto per espiantare organi: i dati raccolti in Italia

Nel mese di marzo 2020, su un gruppo WhatsApp legato ad un lavoro di ricerca che svolgo in Alto Adige, uno dei miei informatori-collaboratori pubblica un video per dimostrare al gruppo che il COVID-19 non esiste ed è l’invenzione di non ben specificati “poteri occulti” per danneggiare o uccidere persone inermi. Il video reca la dicitura “inoltrato molte volte”. Si vede un uomo di mezza età un po’ pingue, con la barba sfatta; indossa un giaccone e ha la mascherina sanitaria abbassata sotto il mento; inquadra il suo volto tenendo il telefono con la mano (inquadratura selfie); egli racconta, con accento settentrionale e toni rabbiosi, una vicenda di rapimento allo scopo di espianto degli organi. Il racconto si svolge nella nebbia, in un parcheggio nei pressi di un ospedale che l’uomo dice essere il Niguarda di Milano. Nel tempo della registrazione, che è di circa due minuti, si sente la sirena di un’ambulanza che si avvicina. L’uomo racconta di suo padre, risultato positivo al COVID-19 e prelevato dall’ambulanza. L’anziano viene internato in ospedale senza dare notizie. Per i protocolli di sicurezza, i familiari vengono tenuti fuori dal reparto. Dopo due giorni, un’infermiera telefona per annunciare la morte dell’uomo e chiede che qualcuno vada a visionare la salma prima della cremazione. L’uomo si reca all’obitorio e scopre che la cremazione è già avvenuta. «I bastardi han detto che qualcuno ha firmato le carte. Io dico, chi è andato? Chi ha fatto il riconoscimento? Bastardi, bugiardi, assassini!». L’uomo, con toni sarcastici, afferma di non credere alla narrazione dei medici, e ipotizza che il padre sia stato ucciso per essere deprivato degli organi, nonché delle protesi odontoiatriche in oro. L’uomo conclude la performance narrativa invitando «chi vede il video» a non farsi fare il tampone e a non credere ai depistaggi dei medici: «Il virus non esiste! Se vi viene la febbre, non lo dite a nessuno! Un giorno mi ringrazierete: è un complotto, son tutti corrotti. Io ho perso mio padre, l’hanno rapito, ucciso, profanato e bruciato!». Nel crescendo drammatico, l’uomo scoppia in lacrime e interrompe il video.

Il gruppo WhatsApp che qui descrivo è composto da persone che vivono, in massima parte, di turismo invernale; i protagonisti si sentono menomati dalle restrizioni governative che impediscono gli spostamenti e bloccano al momento il flusso turistico negli alberghi altoatesini. Dunque, la narrazione viene subito recepita come veritiera e genera resistenze al discorso ufficiale della pandemia. Riporto i commenti che, dopo aver visualizzato il video, sono stati pubblicati da parte dei miei informatori-collaboratori, i quali si sono velocemente polarizzati sulla narrazione. Tali commenti sono stati condivisi tramite messaggio vocale, tramite video registrato in modalità selfie e tramite messaggio scritto arricchito da emoticons e da altri simboli visuali indicanti approvazione, paura e pericolo.

«Ha ragione. Povero cristiano, gli hanno ammazzato il padre. Non possiamo credere a ciò che ci propina il Governo. Io dei medici non mi fido mica. Dobbiamo ribellarci!». «Il COVID non esiste, è un gigantesco imbroglio, lo ha detto un giovane ricercatore di Wuhan, che ovviamente i comunisti han fatto sparire». «È un imbroglio delle Nazioni Unite e dell’Europa, un imbroglio degli ebrei. Mia cugina dice di stare attenti: in ospedale, quando espiantano gli organi, i reni, gli occhi e il cuore, li vendono a diecimila euro. Poi cremano quello che resta e danno l’urna alla tua famiglia, che non saprà mai nulla di ciò che è successo». «È un gigantesco complotto contro la povera gente: a Bergamo prendono le persone sane, le ricoverano e le uccidono per prelevare organi ed effetti personali. Le famiglie dei morti vogliono aprire le tombe per controllare i corpi, ma quelli, furbi, han cremato le salme, per nascondere la verità». «Tutti corrotti. Medici, infermieri, autisti di ambulanze. Le ambulanze girano a vuoto». «A capo di questa organizzazione ci sono ebrei e comunisti. Ladri assassini! Ci vogliono derubare e sterminare per fare spazio agli africani, ai négher: la sostituzione razziale. Aprite gli occhi!». «Mi meraviglio che nessuno lo voglia capire. Siete pecore». «Passa parola, prima che sia troppo tardi!». [6].

Chi, come la sottoscritta, prova a esprimere una opinione diversa, viene sopraffatto dal comune convincimento del gruppo, in preda ad una convergenza radicale sulla verità più intima dei fatti. Questa visione della pandemia e dell’operato dei medici, così divergente dalla mia visione di come stiano le cose, mi spinge a interrogarmi sulla natura di queste nuove leggende e sulla loro collocazione in schemi narrativi preesistenti. Ritengo, infatti, che il protocollo del Sistema Sanitario Nazionale sia organizzato in modo efficiente, e che esso operi al fine duplice di curare gli ammalati e di evitare la propagazione del virus. Gli ammalati gravi di COVID-19 vengono ricoverati e non possono ricevere visitatori per non contagiarli. Per non contagiare i visitatori, viene tenuto in isolamento non solo il malato, ma anche il corpo di chi è morto con diagnosi (accertata o sospetta) di COVID-19[7]. Solo il personale sanitario e quello delle imprese di Onoranze Funebri possono toccare la salma; un famigliare, con mascherina chirurgica e guanti monouso, può vedere la salma per pochissimi minuti prima della chiusura della bara, accompagnato da un operatore che deve far mantenere la distanza di sicurezza (almeno un metro)[8].

Questa inusuale gestione della morte, realizzata nelle condizioni eccezionali della pandemia, oggi sembra offendere chi subisce il lutto, perché è radicalmente diversa rispetto al “saluto rituale” che ogni società organizza per i propri defunti. La nuova e temporanea gestione dei cadaveri segue pedissequamente il determinismo scientifico delle classificazioni dei virologi, che distinguono e separano il corpo infetto da quello sano, e non considera le emozioni di quanti non capiscono (e non approvano) le ragioni di queste precauzioni. Le persone colpite dalla perdita e dal lutto restano colpite dal tecnicismo col quale viene liquidato il corpo del proprio familiare. L’azione funeraria, finora fondata sulla gestione più o meno diretta ed esiziale che la famiglia fa del corpo in un momento vissuto come dramma collettivo [Hertz 1905, De Martino 1958], attualmente subisce una angosciante menomazione. L’insolita disciplina dei corpi esprime, in questo caso, l’incapacità delle istituzioni di mettersi nei panni di quanti hanno subito un lutto in famiglia, i quali non riconoscono il beneficio di questo governo igienico dei defunti e ne distorcono i confini, come sovente accade nelle esperienze traumatiche [Connerton 1999].

Dopo l’esperienza altoatesina, ho constatato l’emergere di convincimenti simili su Facebook e su tre diversi gruppi WhatsApp dove interagiscono persone che vivono in Abruzzo (primo gruppo) e in Belgio (secondo gruppo). Ho raccolto interlocuzioni espresse per iscritto, in forma di commento a memi virali o a notizie di provenienza istituzionale. Le interlocuzioni talvolta sono espresse anche tramite messaggio vocale, che trascrivo. Ecco i dati:

«COVID-19 veut dire Certificat Of Vaccination IDentity avec 19=a et 9=i, pour dire AI=Intelligence Artificielle. Ce n’est pas le nom du virus, mais celui du Plan international d’asservissement et de réduction des populations blanches élaboré depuis des dizaines d’années et lancé en janvier 2020 par les juifs. NE VOUS FAITES PAS DÉPISTER!». «Les fabricants de tests le disent, aucun des tests ne peut détecter le virus Sars-Cov-2, mais seulement une infinitude de petits virus inoffensifs ou déchets de cellule qui font naturellement partie de notre microbiote». «Leur point d’attaque: nos enfants. Leur stratégie: le dépistage». «Mio cugino ha seguito un’ambulanza che girava per Pescara, dentro non c’era nessuno. Questa è tutta una farsa, il COVID non esiste». «Nessuno muore di influenza, vanno a prendere le persone sane e le portano in ospedale, dove i medici le ammazzano per prendere gli organ. Gli organi li vendono a caro prezzo, e Conte si sta facendo i miliardi, sì, Conte, con quella faccia pulita: mi hanno detto che, vendendo gli organi, quello guadagna 5 milioni al giorno». «Perché i morti di COVID li chiudono nelle casse e non li fanno vedere ai parenti? Perché li cremano? La spiegazione è semplice: fanno sparire le prove perché… hanno prelevato gli organi! Dopo che a un morto hanno preso gli occhi, i reni, il cuore e il fegato, se lo fanno vedere ai parenti, quelli si insospettiscono. Hai capito che furbi?». «A Milano è sparita perfino una ragazza incinta. Pare che le hanno tolto il bambino e l’han venduto. Non si fermano davanti a nulla». «Il COVID-19 è un imbroglio per espiantare gli organi. Te li espiantano quando sei vivo, per non rovinarli. Li vendono a caro prezzo. Un mio amico, uno che ha studiato, un capoccione, mi ha detto che suo fratello lo han fatto sparire. Lo hanno intubato, lo han messo sull’ambulanza e non han saputo più nulla. Sparito. E lui, che è così influente, non è riuscito neanche ad avere indietro il corpo: roba da non crederci! Perciò, quando ho avuto la febbre, non ho mica detto nulla. Mia moglie voleva dirlo al dottore, io le ho detto: guarda che qua ci prendono tutti e due, ci portano in ospedale ammanettati, ci intubano, ci prendono tutto ciò che ci possono prendere, e poi gettano nel fiume ciò che resta. Aprite gli occhi!». «Non mi fido né dei medici, né degli ospedali, né dei vaccini. A capo di tutto, c’è la lobby dei giudei, degli omosessuali e delle banche. Non hai letto il Protocollo dei Savi? Fate girare, prima che sia troppo tardi». «È la verità. Vogliono solo imbrogliare la povera gente». «Una mia amica scienziata mi ha detto che il COVID è un’invenzione: ci sono interessi miliardari dietro questo piano diabolico degli ebrei e dei pedofili. A capo dei pedofili, ci sono Bill Gates e Obama, vedi che Obama è africano? Ebbene, vuole aprire le frontiere ai negri per sostituire la razza bianca. Sono tutti corrotti, solo Trump può salvarci». «Per fortuna c’è chi dice la verità. Ma siamo voci fuori dal coro. Sono tutti corrotti. Aprite gli occhi!»[9].

Questo filone narrativo del “rapimento” e del “furto degli organi” si intreccia con la negazione dell’esistenza del pernicioso virus influenzale, il quale viene interpretato come una invenzione dei medici per danneggiare le persone e derubarle delle loro parti più intime e vitali. Tra quanti si convincono di essere vittima di un sistema ingiusto, si crea una sorprendente intimità culturale, tanto che una di esse riconosce come “amico” il protagonista del video che abbiamo descritto: in tutta probabilità, il video gli è arrivato tramite i social network, ma l’informatore ne parla come di un suo reale conoscente, al punto da commuoversi.

Ad un mio amico di Milano hanno preso suo padre con la scusa che aveva il COVID. Non era mica vero che era malato, non aveva nulla. L’ambulanza è entrata nei seminterrati del Niguarda, nessuno ha saputo più nulla. Dopo tre giorni, gli hanno detto che era morto e che l’avevano già cremato. Gli hanno preso gli organi, i denti d’oro, il portafoglio, la fede, l’orologio. Quanta cattiveria ha subito quel pover’uomo: se ci penso, mi si stringe il cuore. Ho paura per quello che succederà a noi tutti[10].

Nella solitudine del fare etnografia in un terreno confinato, con una limitata possibilità di interlocuzione faccia a faccia, proviamo ad uscire dalla semplice descrizione facendo una teoria della descrizione che, grazie al prisma della differenza culturale, deve necessariamente embricarsi di una critica politica evidenziante la non neutralità del soggetto e oggetto della ricerca, i dislivelli, le conflittualità e le interrelazioni di questo tema in differenti società e differenti culture.

Un primo rilievo antropologico, in merito alla visione di una “lobby dei medici” e di una sua presunta attività fraudolenta e sacrilega sui corpi dei sequestrati, risiede nella possibilità di posizionarlo in un filone narrativo più ampio, che non si fida della scienza ufficiale, ed esagera il danno che proviene dalle sue teorie e dai suoi apparati, attribuendo ad essi la deliberata volontà di nuocere alle persone. Questa differenza culturale si fonda su una contrapposizione polarizzata tra scienza e credenza, dove la prima è “condizione” e la seconda è “relazione”. La necessità di seguire questo tipo di narrazione in modo estensivo, allontanandosi dalla mera disamina della sua funzione nell’ambito del singolo gruppo di informatori, diventa evidente quando, durante la pandemia da COVID-19, consideriamo che in Camerun si sviluppa lo stesso flusso narrativo.

Il COVID e l’occulto: i dati raccolti in Camerun

Sono Pierpaolo Di Carlo. Ho iniziato a lavorare in Camerun nell’ambito della documentazione delle lingue a rischio di scomparsa nel 2010, e da allora collaboro stabilmente con quattro università locali (Université de Yaounde I, University of Buea, University of Bamenda, Catholic University of Cameroon - Bamenda). Questo mi ha portato, negli anni, a conoscere numerosi studenti e docenti universitari camerunensi e con molti di loro sono rimasto costantemente in contatto grazie a tecnologie di messaggistica istantanea quali WhatsApp. Il mio contributo a questo articolo può definirsi netnografico in quanto il testo che presento mi è pervenuto attraverso una chat su WhatsApp; più nel dettaglio, esso mi è stato inviato da una delle studentesse camerunensi di cui sono stato supervisore di tesi. La mia partecipazione a numerose altre chat con persone camerunensi e residenti in Camerun mi ha permesso di osservare come questo testo fosse solo uno di innumerevoli testi analoghi, diffusi sotto forma di messaggi video, audio e scritti. Ho scelto questo testo tra i tanti possibili poiché, nella sua crudezza e immediatezza, offre la possibilità di riconoscere quanto del discorso pubblico sulla pandemia da COVID-19 in Camerun si intrecci indissolubilmente con matrici mitopoietiche ed ermeneutiche assai radicate e di ben maggiore profondità temporale nella tradizione popolare locale.

Si tratta di un video della durata di poco più di tre minuti girato nel mese di giugno 2020 da una donna con il proprio telefono cellulare. La scena si svolge nello spazio antistante l’obitorio di un ospedale della città di Douala, dove si è radunata una folla di circa venti persone. In primo piano, adagiata a terra, sta una bara al cui interno giace il cadavere completamente nudo di un uomo. La donna che registra il video e tutte le persone riprese urlano minacciosamente contro gli addetti dell’obitorio i quali cercano rifugio all’interno dell’edificio. L’interazione si svolge in francese e propongo qui di seguito la traduzione in italiano delle battute più chiaramente udibili: le voci registrate sono molteplici, quelle riportate qui sotto sovrastano le altre (in grassetto le frasi urlate all’indirizzo degli addetti dell’obitorio).

«(Donna XX): È stato il vostro coronavirus, eh?? [3 ripetizioni] Che tipo di coronavirus??». «(Uomo XY): Ora vorreste seppellirlo nel cimitero di […], eh??». «(Uomo XY): Il corpo non si muove da qui! Non va in nessun cimitero!». «(Uomo XYY): Dove sono gli intestini di mio fratello?? [6 ripetizioni]». «(Donna XX): Hanno operato il tuo amico, li hanno fatti uscire dall’ano!». «(Uomo XYY): Noi ce lo portiamo via!». «(Donna XX): Ha ancora i genitali?». «(Uomo XY): Sì, i testicoli sono ancora lì, hanno tolto solo gli intestini».

Nel turno 1, la donna (riecheggiata da molti altri presenti) si rivolge agli addetti dell’obitorio e chiede sarcasticamente che tipo di coronavirus avrebbe ucciso l’uomo, sottintendendo che lei non crede affatto a questa narrativa. Ai turni 2 e 3, con una ripresa al turno 6, le due persone le cui voci sono più chiaramente udibili parlano del cimitero al quale sarebbe destinato il cadavere, minacciando di non permettere a nessuno di spostarlo da lì se non per portarlo via essi stessi per il funerale e il successivo seppellimento a loro esclusiva cura. Da qui, e unendo altri dettagli raccolti in seguito, possiamo inferire che questo sia stato il motivo iniziale per cui la folla si è radunata di fronte all’obitorio: seguendo le disposizioni di gestione della pandemia, le autorità avevano disposto il seppellimento del deceduto in un cimitero di pertinenza dell’ospedale, ma i suoi familiari e amici, all’apprendere di questo piano, si sono ribellati, andando a protestare direttamente in obitorio. La letteratura specifica ha da tempo evidenziato la consistenza di questo filone narrativo di protesta, ambientato nell’obitorio, nell’ospedale o nei pressi di esso [cfr. Stephen-Hughes 1996, 5-6].

Tra il turno 3 e il turno 4 il corpo, inizialmente avvolto in un telo di plastica nera, viene girato malamente dalla posizione supina a quella prona all’interno della bara e il turno 4 rivela che al centro dell’attenzione dei partecipanti a questo punto c’è la verifica della sua profanazione. Il video ha una risoluzione bassa ma non sembra di poter individuare alcuna sutura, il che dovrebbe rassicurare le persone che il corpo non abbia subito rimozioni di alcun genere: l’unica possibilità in questo senso resta che la rimozione di organi interni sia avvenuta usando metodi non invasivi quali, secondo gli astanti, l’asportazione dell’intestino attraverso l’ano. Lo scambio finale, ai turni 7 e 8, assicura che la narrativa che anima le azioni e le parole della folla è inscritta nell’ampio repertorio di storie di amputazioni e rimozioni di parti del corpo per fini occulti documentate in Camerun e in gran parte dell’Africa sub-Sahariana [Moore, Sanders 2001]. L’asportazione dei genitali, soprattutto maschili, è forse il più tipico di questi atti mirati a trasferire per vie occulte la forza vitale di un individuo (in questo caso la sua forza riproduttiva) ad un’altra persona, come riportato anche dalla citata letteratura.

Due contesti, due letture

Presentare testi provenienti da contesti culturali tanto differenti quanto quelli presentati in questo breve contributo si presta, di per sé, a non poche critiche di fondo: a che pro? Su quali basi procedere ad una possibile valutazione comparativa? Nella vastità delle differenze morfologiche tra i testi che abbiamo presentato emergono - ed è innegabile - alcuni tratti che potrebbero essere considerati analoghi, come ad esempio il topos dell’asportazione di organi dai cadaveri avvenuta per interessi del tutto individuali (antisociali) di personale medico “corrotto” grazie al contesto emergenziale, nel quale vengono sospese le prassi e le norme che regolano il controllo sul trattamento dei cadaveri e i diritti dei familiari dei deceduti. Tuttavia, è altrettanto innegabile che la portata di queste somiglianze testuali si esaurisce ben presto al di sotto della superficie descrittiva: i saperi dai quali prendono vita questi testi e le configurazioni intertestuali che essi realizzano sono così diversi da rendere la comparazione diretta un esercizio intellettuale fittizio.

Sulla base di questa consapevolezza, abbiamo comunque deciso di tentare due letture dei testi presentati: nella prima, Lia Giancristofaro, in merito ai testi da lei raccolti, offre una possibile contestualizzazione all’interno dello spazio narrativo folklorico e mitopoietico europeo; nella seconda io, Pierpaolo Di Carlo, propongo una possibile chiave per considerare sinotticamente i testi europei e camerunensi.

Una lettura “eurocentrica”: la rielaborazione narrativa della pandemia da COVID-19

Nella scia di altri lavori antropologici che analizzano i processi di formazione dell’immaginario popolare nella contemporaneità [West, Sanders 2003][11], il presente articolo cerca di rivelare le variazioni e le somiglianze nel pensiero cospiratorio e nelle cosmologie occulte in culture diverse e gruppi diversi, evidenziando come le persone esprimono profondi sospetti nei confronti delle Nazioni Unite, dei governi, dei medici, degli scienziati, dei partiti politici, della polizia, dei tribunali, delle istituzioni finanziarie internazionali, delle banche, dei media, delle chiese, degli intellettuali e dei ricchi. In tal senso, non serve concentrarsi sulla veridicità di queste convinzioni e sulla loro sorgente primaria, ma indagare su chi ci crede, e perché. Il limite della presente riflessione, come abbiamo detto, sta nel concentrarsi esclusivamente sul contenuto di ciò che viene detto e trasmesso attraverso i social, senza poter analizzare “chi” lo ha detto, rinunciando inoltre alla ricostruzione dei percorsi di questi racconti[12]. Conviene dunque, al momento, rubricare la narrazione alternativa alla “verità ufficiale”, rigettando una visione delle teorie del complotto come “antimoderne” e “irrazionali”, ovvero rifiutando una lettura di eccessiva semplificazione e banalizzazione: le teorie del complotto meritano di essere analizzate per mostrare come queste rendano il mondo più complesso, per richiamare l’attenzione sulle disuguaglianze, e per fare luce sui modi alternativi di dare senso al mondo [West, Sanders 2003].

Possiamo ipotizzare che le teorizzazioni del complotto qui riportate siano deflagrazioni di percezioni e sentimenti popolari preesistenti, che riemergono in circostanze di particolare angoscia e insicurezza. Tali percezioni e sentimenti popolari trovano l’ideale canale espressivo nella leggenda metropolitana (o diceria): una narrazione mitica che oggi si intreccia con la modernità e con la velocizzazione delle comunicazioni, e che si riorganizza come una sorta di passaparola del villaggio [Brunvand 1983, Bonato 1998]. Dal punto di vista antropologico, questo fenomeno riporta al centro dei nostri studi un genere blasonato della letteratura folklorica, cioè la fiaba. In tal senso, questa ricerca è prodromica di studi più approfonditi che possiamo collocare su un asse teorico-interpretativo di tipo morfologico, basato sulla centralità delle analisi propperiane [Sanga 2020]. Una guerra, un’epidemia, una carestia, un disastro naturale o un qualsiasi altro segnale di cambiamento negativo, coinvolgendo gruppi consistenti di persone, sollecitano le narrazioni leggendarie sulle cause e sui retroscena della disgrazia. Le cause della sventura sono sempre attribuite al comportamento fraudolento di pochi. Anche il consumo dei prodotti industriali e la stessa modernità tecnologica possono essere oggetto di narrazioni leggendarie, che in tal caso si sviluppano per svelare imbrogli orditi tramite l’inserimento di veleno o microchip nei vaccini o nei prodotti di consumo (bagnoschiuma, cibo, bevande). Secondo le favole di ieri e di oggi, i cattivi preparano dolosamente il veleno, le radiazioni mutanti e i microchip, e li somministrano alle loro vittime. Le vittime accettano ingenuamente lo strumento di morte, proprio come Biancaneve fa con la mela. I protagonisti della narrazione desiderano interrompere la frode messa in atto da una strega cattiva che si spaccia per benefattrice. I protagonisti ritengono che, dietro le apparenze dell’ambulanza e del medico salvatore, il pericolo si insinui subdolamente nelle case e nella vita delle persone, attaccando le persone più fragili: i bambini, le giovani donne, gli anziani. I ritrovati della modernità apparentemente utili, come i vaccini, i cellulari e gli elettrodomestici, non sarebbero altro che diabolici sistemi per controllare, alterare o uccidere i malcapitati. In questo metalinguaggio, la disgrazia arriva sempre per causa di qualcuno, e la fiducia è sempre malriposta. Le strutture profonde di questa narrazione emergono attraverso un percorso decostruttivo che considera le condizioni della manifestazione di una narrazione moraleggiante, la quale ha lo scopo di allarmare gli ascoltatori e fare luce su un mondo occulto.

Possiamo cogliere le condizioni del “leggendario” soprattutto nella pragmatica della fruizione che coinvolge la competenza circolare di narratori e ascoltatori[13]. Questa pragmatica spiega i motivi della diffusione veloce: le leggende prese in esame in questo articolo parlano un linguaggio semplice e si rivolgono ad un gruppo sociale culturalmente omogeneo, che immediatamente riconosce il discorso e lo trasmette attraverso il medesimo lessico simbolico. Esse si fondano su elementi basilari come casa, famiglia, bambino, anziano, malattia, medico, ospedale, farmaco, corpo, sacralità, amico, nemico, denaro, alleanza. Esse vengono avvalorate come sperimentate in seconda persona dal narratore, che riceve le notizie da un amico o da un parente, e le diffonde in contrasto con la comunicazione ufficiale, la quale nega la verità proprio per realizzare l’imbroglio ai danni delle persone. Di qui, il carattere mistico e mitologico del racconto, che si chiude con l’invito alla diffusione del verbo: «per favore fate girare, passaparola, prima che sia troppo tardi». Il tono è allarmistico, e questo implica che, se l’azione suggerita viene ignorata, si verificheranno gravi conseguenze per le persone che stanno a cuore a chi riceve la testimonianza del pericolo[14].

La natura folklorica di questo tipo di narrazione, composta da una piccola parte di osservazione e da un pesante fardello di rielaborazione, ci spinge a classificare questo tipo di narrazione come uno dei meccanismi simbolici ancora messi in opera dal mito. Insomma, questa narrazione ci invita a riconsiderare il rapporto tra il reale e l’irreale, tra la pandemia e la ricchezza della sua rielaborazione narrativa. La cultura popolare, o folklorica, tende a porsi in modo conflittuale nei confronti dell’establishment medico, perché i messaggi degli esperti sono eccessivamente complessi, forieri di cattive notizie e spesso dichiarano di non assicurare una reale salvezza alle persone che si trovano in difficoltà; del resto, sono molte le testimonianze storiche di come, nella maggior parte delle epidemie moderne e contemporanee, la popolazione colpita si sia immediatamente coagulata e polarizzata contro i medici [Snowden 2019]. Per esempio, già nel 1853 un movimento contro le vaccinazioni viene immediatamente organizzato a Londra come risposta di resistenza dal basso al piano vaccinale pubblico, ritenuto colpevole della stessa epidemia sulla quale si stava tentando di agire, che nella percezione delle persone era stata creata dagli stessi medici per decimare la popolazione. L’alleanza dei media ufficiali con la scienza medica ne peggiora la rappresentazione pubblica e avvalora la pericolosità di questo piccolo mondo di specialisti, che nel filone narrativo che esploriamo viene addirittura colpito dalla “diffamazione del sangue”, ovvero dalla medesima accusa che per un millennio ha portato alla persecuzione di ebrei, omosessuali, banchieri, cambiavalute, artisti girovaghi e altre minoranze[15].

La diffamazione di una minoranza nasce dall’incomprensione della sua diversità, a cui viene attribuita una componente demoniaca e sacrilega. Alan Dundes, studioso americano, ha analizzato l’antigiudaismo, dimostrando come la diversità di credenze e di stili di vita stimoli l’elaborazione narrativa, e come questa, a sua volta riesca ad influenzare il senso comune e la storia[16]. Da antropologa folklorista, sono stata molto attratta da questa ricostruzione che adotta un approccio decisamente folklorico ed esamina la “diffamazione del sangue” come parte del sistema di credenze che l’Occidente cristiano sviluppa su minoranze che parlano linguaggi incomprensibili e sono molto in vista, pur essendo numericamente inconsistenti.

Oggi i medici, assieme ad una presunta lobby ebraica coinvolta nella produzione di farmaci, sono i protagonisti ideali di una narrazione che li ritiene fraudolenti, nonché immeritatamente ricchi e potenti. La narrazione folklorica della loro pericolosità si intreccia con vere e proprie campagne diffamatorie, le quali impiegano sistemi di diffusione automatizzata e tecnologie in grado di alterare fotografie e notizie giornalistiche. Insomma, è facile creare campagne di marketing e propaganda politica su temi così spontaneamente divisivi e profondamente emozionali, perché correlati alla sicurezza delle persone: sicché, dietro un video, un meme o un testo circolante in modo virale, spesso c’è un esperto di comunicazione di massa appositamente incaricato da partiti politici o organizzazioni sovversive. Per esempio, un meme avvalorato dai miei informatori afferma che un medico in Italia è stato arrestato per aver ucciso intenzionalmente tremila persone inventando che queste fossero malate di COVID, facendo sparire i loro resti nel fiume. L’azione empia è stata motivata dalla corruzione, cioè il medico avrebbe agito per favorire le lobby del farmaco. Il meme, accompagnato dalla breve e orribile storia della vicenda, chiusa con la raccomandazione di “far girare”, è in realtà impostato su un fotomontaggio. La foto mostra un medico in camice bianco che è stato effettivamente arrestato, ma facendo una breve ricerca sul web scopro che i fatti sono accaduti a Pendleton, Indiana, nel 2014, e che varie campagne propagandistiche hanno finora utilizzato la notizia in modo falso e tendenzioso, sfruttando lo schema narrativo del “dottor morte”, di facile diffusione nelle metropoli bagnate da un fiume. Secondo questo schema, il “Doctor Death” uccide centinaia di persone, soprattutto poveri, per prelevare i loro organi e trapiantarli ai ricchi dietro pagamento migliaia di dollari; i resti delle povere vittime vengono gettati nel fiume. Questa leggenda viene periodicamente rifunzionalizzata, tant’è che a me in passato è arrivata la versione indiana (ambientata a Dehli) e poi, al tempo del COVID, è arrivata la versione italiana, col riferimento a un generico Policlinico di Roma e col particolare scabroso dei resti delle vittime gettati nel Tevere. Peraltro, uno dei miei informatori riferisce un fatto analogo accaduto a Pescara al tempo del COVID, con i corpi delle vittime gettati nell’Aterno.

Questa fenomenologia della percezione popolare si accompagna ad un contenzioso socio-sanitario che in Europa, e soprattutto in Italia, è molto alto[17]. La materia è complessa e riguarda l’intreccio dei fattori che influiscono sulla decisione di intentare un contenzioso da parte di chi, durante il percorso di cura, ritiene di aver subito non solo un danno, ma un “torto” [Cipolla 2010]. È ipotizzabile, en passant, che l’impatto della diceria metropolitana nella percezione pubblica della medicina ufficiale sia notevole, intendendo questo tipo di narrazione come uno strumento tutt’altro che secondario di costruzione della realtà socio-culturale. La necessità di controllo dal basso, cioè a partire dalla quotidianità più facilmente identificabile e credibile, sostanzia il racconto nella parola di un parente, nell’ambientazione nota, nel movente di una comune angoscia o di un comune interesse. Maturano dunque le condizioni di ingresso nel mito in un iper-coinvolgimento di significati che, ieri come oggi, consentono alle persone di possedere il mondo, di organizzarlo e crearlo nel rapporto tra poteri diversi e disuguali.

Anche per questo motivo, il presente incontro etnografico ha messo a dura prova l’etica e la riflessività della ricerca. Le informazioni che abbiamo ottenuto sono connotate dalla volontà di renderle manifeste. Però, ho percepito la difficoltà del mio posizionamento rispetto all’ambiguità espressa dagli attori sociali, che incarnano l’antitesi tra legalità e illegalità, che diffamano i medici e gli autisti delle ambulanze mentre questi rischiano la loro stessa vita, e che coi loro comportamenti diffondono, di fatto, l’infezione, creando un danno per tutti[18]. Ho dunque preferito concentrarmi sulla decodifica dei significati piuttosto che sollecitare una riflessività nelle reti di relazioni, che del resto prescindono dal mio posizionamento scientifico e procedono autonomamente. Ma c’è di più: la circolazione telematica delle leggende sollecita una riflessione sulle condizioni attuali della trasmissione neo-orale. Nella storia degli studi folklorici, il punto chiave è la distinzione netta tra la cultura “ufficiale” dei ceti colti rispetto alla impersonalità e non-autorialità del mezzo orale, caratterizzante il ceto popolare. Attualmente, la comunicazione digitale consente il parziale riconoscimento della fonte e l’emersione dell’autorialità, dunque sembra difficile individuare una distinzione verso il basso. La volontà di fare una netta distinzione verso il basso aprirebbe, peraltro, ad una svolta elitaria. La tradizione scientifica degli studiosi, mentre questi indagano la realtà in termini riflessivi, si contrappone alla tradizione popolare e alle logiche dei gruppi osservati. Questa modalità di analisi, applicata ad una situazione di pericolo collettivo, rischierebbe di aprirsi alle controverse tesi dello “scontro di civiltà” di Huntington [1996], portando alle sue estreme conseguenze una nozione di tradizione come realtà storico-ontologica, e privando di senso le tradizioni, grandi o piccole, orali o neo-orali, che non soddisfano i criteri di una civiltà canonica e istituzionalizzata, derubricandole come “inadatte per affrontare la modernità”. Sarebbe dunque più utile parlare di modernità multiple, di mondi paralleli e intrecciati fra loro, concentrando la ricerca sulle piccole tradizioni e sulle loro dinamiche nel contatto con i corpi sociali più ampi. Però, dal punto di vista prospettico, questa etnografia occidentale presenta un bilancio non del tutto positivo, perché l’incontro etnografico potrebbe almeno provare a sollecitare la riflessività del terreno a partire da un piano relazionale dove si intrecciano e si confrontano culture diverse.

La nostra analisi delle leggende metropolitane si limita dunque alla loro natura di testi ma, come spiegherà Pierpaolo Di Carlo nelle sue conclusioni, può aiutarle a comprenderne il segnale meta-comunicativo.

Una lettura “afrocentrica”: il mito popolare come reazione moralizzatrice

Sebbene, come già ricordato, esistano dei rischi ben evidenti e irriducibili alla comparazione diretta tra i testi italiani e quelli camerunensi, a nostro avviso esiste una possibilità di visione sinottica, ed il punto di partenza ci viene suggerito da alcuni studi sui discorsi e le pratiche dell’occulto in Africa sub-sahariana. Sanders [2001], ad esempio, nel trattare il difficile tema degli omicidi e delle mutilazioni a fini rituali occulti in Tanzania, ricorda come la densità di miti, leggende e fatti di cronaca connessi all’occulto nel discorso pubblico in gran parte dell’Africa sub-sahariana subisca delle variazioni in correlazione con particolari periodi di crisi socio-economica e morale. Nel caso specifico, Sanders ricostruisce un contesto caratterizzato da enormi cambiamenti socio-economici conseguenti all’adozione, da parte del governo della Tanzania, dei programmi di aggiustamento strutturale che il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale avevano sostanzialmente imposto a partire dalla metà degli anni ‘80 del secolo scorso. Processi quali la liberalizzazione delle concessioni governative sui beni, i flussi e i luoghi del mercato o la privatizzazione dei servizi essenziali hanno sì rapidamente “liberato” e messo in circolazione grandi capitali, ma hanno anche allo stesso tempo finito per acuire, in forme talvolta grottesche, le ineguaglianze sociali. C’è un fatto fondamentale che permette a Sanders di mettere in correlazione questa situazione di grandi cambiamenti (e sofferenze) sociali con il contemporaneo incremento di “temi occulti” nel discorso pubblico (ovvero pratiche di stregoneria, omicidi e riti propiziatori cruenti, ricorsi a specialisti dell’occulto, espansione del mercato dei feticci, ecc): il modo nel quale i programmi di aggiustamento strutturale sono stati presentati nel discorso istituzionale. A differenza della retorica sul mercato e sul capitalismo diffusa negli stati post-socialisti - dove il capitalismo diventa una sorta di “vangelo della salvezza”, un messaggio messianico nel quale risiede la sola speranza per gli emarginati e i meno abbienti [Comaroff, Comaroff 2000, 292] - quella dell’aggiustamento strutturale è una narrazione dai toni freddi, tecnocratici, dominata da cifre, acronimi (ad es. PIL) e da un sapore di “oggettività scientifica”. Questa particolare configurazione discorsiva si presta a presentare i programmi come cambiamenti necessari, inevitabili, fatti nell’interesse a lungo termine della comunità intera, e privi di qualsivoglia connotazione morale: non sono né “buoni” né “cattivi” ma naturali “come lo è il sorgere del sole ad oriente” [Sanders 2011, 166]. È quella della “non-moralità” dei piani di aggiustamento strutturale la dimensione che più di ogni altra, ad una lettura critica del contributo di Sanders, si presta ad essere connessa con l’incremento delle componenti occulte nel discorso pubblico. Infatti, nella gran parte delle cosmologie sub-sahariane, ogni forma di ineguaglianza -soprattutto ma non solo economica - si presta ad essere interpretata come possibile solo grazie al ricorso a stregoni o cruenti riti occulti da parte di chi ha di più [Geschiere 1995]. È dunque chiaro che queste credenze, materializzate nel discorso pubblico, danno voce proprio alle istanze morali centrate sull’eguaglianza che, radicate nel sentimento popolare, vengono mortificate nella realtà delle straordinarie ineguaglianze determinate dai piani di aggiustamento strutturale. Lo scenario che abbiamo di fronte, seguendo il ragionamento di Sanders, è quello nel quale non sono semplicemente i cambiamenti sociali negativi a causare un aumento della circolazione di discorsi e pratiche dell’occulto, ma il fatto che essi siano immersi in una retorica finalizzata a renderli “neutri” a livello morale: è questa apparente “inattaccabilità” (non c’è violenza, non ci sono manifesti interessi di parte in gioco) che crea le condizioni perché la moralità popolare “esploda” in forme radicalmente antagoniste al discorso istituzionale.

Questa prospettiva analitica si presta ad essere pienamente compresa se intendiamo la situazione appena descritta come un esempio di conflitto tra discorsi alternativi l’uno all’altro, dove uno, quello istituzionale, mira a costruire e consolidare forme di dominio simbolico [Bourdieu 1991] e l’altro, quello popolare, a resistervi sottraendosi alla loro portata attraverso una rappresentazione del mondo in tutto e per tutto indipendente. Vista in questa luce, la scena contenuta nel video girato di fronte all’obitorio dell’ospedale di Douala acquista una significatività di natura completamente diversa rispetto a quella alla quale si arriverebbe attraverso una sua analisi testuale: nel riferirsi sarcasticamente al coronavirus come motivo della morte del “fratello” e nell’affermare la volontà incrollabile di seppellire il suo corpo secondo la tradizione, la donna e gli altri partecipanti all’evento si fanno in effetti portavoce di un discorso di resistenza e opposizione alle norme emergenziali le quali, come i piani di aggiustamento strutturale, sono state presentate in Camerun come nel resto del mondo come “non-morali”, semplicemente necessarie, dettate dall’oggettività della conoscenza scientifica e, pertanto, non riconducibili all’interesse di alcuna delle componenti della società. Le loro frasi urlate contro gli addetti dell’obitorio nascono dalla frustrazione di vedere la propria libertà, i propri diritti, la propria condizione economica e gli affetti influenzati negativamente e profondamente da una rappresentazione della realtà, quella istituzionale della gestione della pandemia, fredda e impersonale. È qui, dunque, che nasce la rabbia popolare: dal sospetto (il quale man mano diventa convinzione) che a tutte queste rinunce e perdite nelle loro vite corrispondano guadagni e nuove opportunità per altri, i quali utilizzano la retorica impersonale della pandemia per perseguire “occultamente” i propri esclusivi interessi.

Questa possibilità ermeneutica ci sembra altrettanto rilevante per comprendere i casi italiani. Anche la nostra società è stata oggetto, negli ultimi decenni, di enormi cambiamenti causati dall’adozione da parte dei nostri governi di drastiche misure di gestione della finanza pubblica (ad es. il patto di stabilità per entrare a far parte della zona euro) e di privatizzazioni a tappeto dettate da istituzioni sovranazionali e “sovrumane” (la UE, il WTO, per non parlare degli “Invisibili Britannici” che organizzarono la famosa riunione del 2 giugno 1992 sullo yacht “Britannia”, nella quale vennero decise numerose privatizzazioni nel nostro Paese), la cui governance risulta avvolta nel mistero ai più, e i cui obiettivi, invariabilmente raccontati in termini di cifre ed altre espressioni letteralmente esoteriche (ad es. rapporto deficit/PIL), vengono vissuti dalla popolazione generale soltanto come continue richieste di sacrifici e rinunce che si materializzano, per molti, in sensibili peggioramenti della propria condizione socio-economica. Se viste all’interno di questo contesto, le varie teorie del complotto e il loro “successo” durante la pandemia nel nostro Paese si rivelano come dei dispositivi discorsivi moralizzatori, radicati nell’idea che le misure economiche fredde, impersonali e “inevitabili” siano in realtà espressione di interessi particolari—delle classi abbienti, degli Ebrei, della lobby dei medici, o del mondo della finanza globale. È in questo senso, dunque, che le “leggende metropolitane” rappresentano un importante campanello d’allarme: in Camerun come in Italia, il problema non è la presunta ignoranza o la credulità delle persone, ma il permanere di una situazione nella quale tecniche di potere simbolico che fanno leva su topoi impersonali, freddi e presuntamente “oggettivi” continuano a non produrre effetti positivi per la popolazione generale la quale, stretta tra l’ingiustizia sociale e l’incapacità di individuare con certezza quali ne siano le cause effettive, non ha altro modo per riconoscersi [Bourdieu 1991] se non attraverso lo sviluppo di narrazioni scisse, indipendenti e antagonistiche rispetto a quelle istituzionali. Da questo punto di vista, che queste correnti semio-poietiche e resistenti popolari emergano in Italia come teorie del complotto e in Camerun come credenze magiche è solo un epifenomeno dovuto alla diversa composizione degli immaginari a disposizione dell’una e dell’altra comunità.

Questo breve contributo, in conclusione, soffre di due limitazioni: non è pienamente netnografico poiché utilizza le tecnologie digitali solo come modalità di raccolta di dati testuali e non pone la benché minima attenzione all’interazione digitale; inoltre, pur basandosi su testi provenienti da ambienti culturali estremamente diversi l’uno dall’altro, non attribuisce sufficienti elementi contestuali così da rendere giustizia alle specificità dei singoli testi. Nonostante questo, abbiamo inteso presentarlo comunque in questa sede, facendo nostra la narrazione dell’emergenza che cambia, si spera provvisoriamente, molte delle regole del nostro vivere. Auspichiamo che questo contributo possa essere foriero di stimoli ulteriori ad avvicinare gli studiosi tra loro e a spingerli a superare confini, più o meno immaginari, tra discipline e continenti. Tempi come questi, nei quali anche il concetto di ricerca di campo deve sottostare a necessarie e inedite trasfigurazioni semantiche, possono essere favorevoli a dei tentativi di sintesi, di cui il presente contributo non è che un embrionico esempio.

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[1] L’articolo è stato ideato ed elaborato dai due autori e, nello specifico, sono da attribuirsi a Lia Giancristofaro i paragrafi 1, 2, 4.1, e a Pierpaolo Di Carlo i paragrafi 3 e 4.2.

[2] Oggi gli attori politici e gli analisti internazionali valutano le istituzioni politiche ed economiche - tribunali, società commerciali, stati-nazione, organizzazioni internazionali - in base alla trasparenza delle loro procedure operative.

[3] Facebook, Twitter, Instagram, WhatsApp altri social network sono composti da gruppi pubblici dove talvolta le persone sono già legate da conoscenza, condivisione degli spazi e ideologie. Dal 2004, i gruppi umani si sono coagulati in gruppi digitali, detti communities, le quali si stabilizzano intorno a fatti, fattori o “feticci sociali” [Van Dijk 2012]. Facebook lavora sul privilegio dell’identità, perché l’accesso alle reti è fondato sull’amicizia o sulla parentela. Twitter e Instagram lavorano piuttosto sulla possibilità di diffondere informazioni nel proprio seguito personale (i followers). Attraverso i social network, le persone trasmettono idee, narrazioni e pratiche, comunicandole pubblicamente.

[4] La netnografia si serve di pratiche relative alla raccolta dei dati, alla loro analisi, all’etica della ricerca e alla rappresentazione dei significati nell’osservazione dei partecipanti. Le tracce digitali di conversazioni pubbliche naturali, essendo registrate dai network della comunicazione contemporanea, consentono la permanenza dei dati significativi sull’elaboratore elettronico. Insomma, la netnografia è un metodo di ricerca interpretativo che adatta le tecniche classiche dell’osservazione partecipante allo studio delle interazioni che si manifestano tra gli utenti della rete attraverso le comunicazioni digitali [Kozinets 2015].

[5] Lo studio della diversità assume maggiore efficacia euristica attraverso la thick description (descrizione densa), per cui l’antropologo si sforza di leggere la cultura attraverso lo sguardo delle persone a cui essa appartiene di diritto. Lo studioso suggerisce di cercare una generalizzazione antropologica attraverso la delicatezza delle distinzioni, evitando le astrazioni libere [Geertz 1973, 24-25].

[6] M. N. (anni 48), A.M. (anni 57), D.G. (anni 71), P.G. (anni 64), A.W. (anni 43). Dati raccolti tra marzo e aprile 2020 e qui riportati in ottemperanza del GDPR, Regolamento UE 2016/679, a protezione della privacy e dei dati personali.

[7] Secondo la scienza medica occidentale, con il decesso il pericolo di contagio si riduce, ma non si elimina del tutto.

[8] Questa prassi in Italia viene raccomandata o imposta dai documenti emanati nel 2020 e nel 2021 dall’Istituto Superiore di Sanità, dal Servizio Sanitario Nazionale e dal Ministero per la Salute. A livello internazionale, la medesima prassi viene raccomandata dall’Organizzazione Mondiale per la Salute, cfr. il sito https://www.who.int/publications/i/item/infection-prevention-and-control-for-the-safe-management-of-a-dead-body-in-the-context-of-covid-19-interim-guidance.

[9] Tali convincimenti sono stati espressi nel 2020, nel periodo tra marzo e aprile. Dati raccolti e riportati in ottemperanza del GDPR, Regolamento UE 2016/679.

[10] Idem.

[11] Questo principale lavoro a cui facciamo riferimento [West, Sanders 2003] raccoglie i contributi di antropologi che rivelano le variazioni e le somiglianze nel pensiero cospiratorio da luoghi diversi e terreni diversi, come Corea, Tanzania, Mozambico, New York, Indonesia, Mongolia, Nigeria e California.

[12] Per esempio, sarebbe utile esplorare su quali piattaforme circolano queste informazioni, riflettere su quali affinità, interessi, produzioni di significati esistano fra ideatori di queste teorie e fruitori, ovvero disseminatori successivi delle teorie. Sarebbe utile comprendere quali gruppi generazionali siano maggiormente coinvolti, quali siano le matrici politiche e le motivazioni della diffusione, che possono tradurre, a seconda dei casi, una ribellione politica oppure un atteggiamento scherzoso e goliardico.

[13] In Italia, Laura Bonato si è occupata per tempo di questi aspetti del folklore e ne ha osservato la circolazione urbana. «Le leggende metropolitane sono racconti i quali, a differenza delle fiabe, sono credibili e, a differenza dei miti, sono ambientati in un passato recente e hanno come protagonisti gli umani (...), non dèi o semidèi. Esse acquistano credibilità da particolari specifici o da riferimenti a particolari fonti» [Bonato 1998, 25].

[14] L’invito ad agire «prima che sia troppo tardi» riesce ad innescare panico in chi lo riceve, sollecitando la spinta emozionale a condividere il messaggio con familiari e amici.

[15] Secondo la leggenda della diffamazione del sangue, gli ebrei usano uccidere cristiani, soprattutto bambini, per fare il pane azzimo col loro sangue, e di un comportamento altrettanto sacrilego sono oggi accusati i medici.

[16] Dundes ha raccolto varie fonti leggendarie che, nel mondo occidentale, rappresentano le minoranze ebraiche come cannibali e dedite al vampirismo. La versione più antica risiede nel racconto dell’omicidio di Guglielmo di Norwich nel 1144, ragazzo cristiano barbaramente ucciso dagli ebrei [Dundes 1991].

[17] In Italia, sono centinaia di migliaia le cause presentate ogni anno contro i medici e le strutture sanitarie. Quasi tutti i procedimenti penali si esauriscono col proscioglimento, ma sollecitano la medicina difensiva o l’astensione da questioni troppo complesse, nella palese compromissione della alleanza terapeutica con i pazienti.

[18] L’Organizzazione Mondiale della Sanità affronta i problemi causati dalle fake news confutando informazioni sanitarie fuorvianti con un linguaggio semplice. Si veda il sito www.who.int/campaigns/connecting-the-world-to-combat-coronavirus/how-to-report-misinformation-online