Antropologia e microbi

Tra umano e non umano

Eugenio Zito

Università di Napoli Federico II

Roberta Raffaetà, Antropologia dei microbi. Come la metagenomica sta riconfigurando l’umano e la salute, CISU, Roma 2020, pp. 1-284. ISBN: 978-88-7975-698-3

Nella sua presentazione al volume di Roberta Raffaetà intitolato Antropologia dei microbi. Come la metagenomica sta riconfigurando l’umano e la salute (2020) Alessandro Simonicca richiama subito l’attenzione del lettore sull’apparente “strano” accostamento tra i termini “antropologia” e “microbi”. Si sofferma, in particolare, sullo spaesamento che si produce laddove si cerchi di spiegare le difficili connessioni fra l’antropologia, disciplina che pur nella sua pluralità di voci e visioni si occupa sostanzialmente degli esseri umani nel loro abitare diversi mondi sociali, e quel ramo della biologia che studia invece molteplici popolazioni di unità viventi invisibili a occhio nudo, non riconducibili direttamente all’essere umano o alla struttura del gene. In realtà l’originalità di prospettiva dello stimolante lavoro di ricerca proposto da Raffaetà risiede proprio in questo spazio di intersezione, al margine tra mondi differenti eppure interrelati. D’altro canto la biologia, come appare ampiamente in questa ricerca, è legata a doppio filo alla cultura, e perciò le interazioni umane con i microbi sono sempre culturali e dunque possibile oggetto di analisi antropologica.

Come l’autrice ci mostra chiaramente in questo studio, conducendoci in un territorio di frontiera, affascinante, ma anche difficile da esplorare nella sua complessità, i microbi, entità estremamente più resilienti ed essenziali alla vita rispetto agli esseri umani, ci insegnano che, al di là di ogni antropocentrismo, umani, microbi stessi e non umani sono tutti interdipendenti. In particolare, come si chiarisce nelle conclusioni, l’autrice, con il suo lavoro di ricerca, ha effettivamente posto le basi per un’antropologia che si occupa dei microbi non solo nella prospettiva del complesso e ben noto rapporto natura/cultura, ma anche come occasione di confronto, e quindi di integrazione, tra sapere scientifico biotecnologico e sapere antropologico, senza contrapposizioni tra i due, esistendo una molteplicità di interpretazioni e atteggiamenti sia all’interno delle “scienze dure” che di quelle “umane”.

Nicola Segata, coordinatore del Segata Lab del Dipartimento CIBIO - Center for Integrative Biology dell’Università di Trento dove è stata svolta questa etnografia, nella sua prefazione al volume, sottolinea l’ulteriore slancio fatto verso la multidisciplinarietà, nell’aprire un dialogo anche con l’antropologia e quindi con l’antropologa Roberta Raffaetà che, dal canto suo, è riuscita con un “salto spericolato”, per usare le parole dello stesso Segata, a porre le basi per un ponte proficuo fra discipline diverse, sviluppato nell’ottica della complessità. D’altro canto, quella di istituire una collaborazione fra “scienze dure” e “scienze umane” costituisce una necessità che attraversa tutto il volume dalla vocazione fortemente applicativa in termini di integrazione nel rispetto delle reciproche differenze disciplinari. Gli scienziati del Segata Lab, attraverso il dialogo con un’antropologa, hanno, per esempio, potuto riflettere più esplicitamente su quanto la dimensione politico-sociale sia rilevante nel processo scientifico e quindi su come poterla concretamente integrare nel loro lavoro di ricerca.

Il volume, decisamente complesso nella sua architettura, ricco di stimoli e che può essere letto su più livelli e dimensioni, conducendoci con la sua visione ecosistemica al tema della salute come punto di intersezione di differenti discipline, si compone globalmente di nove capitoli in cui si snoda un affascinante e insolito viaggio etnografico tra microrganismi e scienziati.

Nel primo capitolo, introduttivo al lavoro, vengono poste una serie di interessanti questioni a fondamento della ricerca, relative al perché parlare dei microbi, al rapporto tra essi e gli umani nella prospettiva relazionale e post-umana dell’antropologia, interrogandosi in particolare su cosa significhi essere umani e cosa si intenda per antropologia dei non umani, fino a toccare la complessa questione delle trasformazioni della biopolitica. Dai microbi più in generale si passa poi a introdurre, più nello specifico, il tema del microbioma, per tracciare successivamente le coordinate metodologiche dell’etnografia svolta fra il 2014 e il 2020 presso il Segata Lab, un laboratorio di metagenomica, con infine una descrizione sintetica dei contenuti esposti nel resto del volume.

Nel secondo capitolo viene tracciata la storia sociale dei microbi, illustrando la loro parziale sintesi grazie a tecnologie sempre più recenti e avanzate. Viene così evidenziato come i microbi siano emersi, nel corso della storia, a diverse latitudini e in diverse discipline, quali veri e propri attori sociali. Infatti, nonostante la nota definizione di essi quali piccoli organismi non visibili a occhio nudo possa apparire un’operazione semplice, l’autrice mostra nel testo come il modo di intendere e “vederli” vari a seconda dei luoghi e delle epoche considerate, come risultato dell’interazione tra diverse modalità di fare scienza all’interno di differenti contesti culturali e socio-politici. Si va in questo modo alle radici della concezione biomedica occidentale dei microbi come agenti patogeni, per contrapporre a tale visione quella dei biologi russi, poi sviluppatasi nella microbiologia ambientale. Viene infine evidenziato che la metagenomica rappresenta una sorta di conciliazione tra queste due diverse interpretazioni, tale da sovvertire anche le tradizionali categorizzazioni della biologia, tra le quali quella relativa al posto degli umani nella natura e alle relazioni di parentela nel legame con i microbi.

Nel terzo capitolo viene, da un lato discusso come il microbioma, identificato con la metagenomica, consenta di definire un innovativo concetto di salute, in una visione ecosistemica, all’intersezione tra scienze biologiche e sociali e dall’altro vengono mostrate le interconnessioni tra questo nuovo modo di intendere la salute e il bagaglio concettuale e metodologico dell’antropologia. Questa nuova visione va inquadrata nell’ambito della rivoluzione postgenomica e in particolare dell’epigenetica che sostituisce il gene considerato determinante fondamentale del destino biologico degli esseri viventi con l’insieme dei più complessi e articolati processi che avvengono nell’interfaccia tra geni stessi e ambienti.

Nel quarto capitolo si dà avvio alla parte etnografica del volume, mostrando cosa significhi per i ricercatori del Segata Lab “vedere” i microbi in-vivo mediante complesse e sempre nuove tecnologie, descrivendo in dettaglio le pratiche epistemiche della wet biology, la biologia classica e quelle della dry biology, la biologia computazionale o bioinformatica e analizzandone somiglianze e differenze, per riflettere, poi, su processi di conoscenza e questioni di politica della scienza. Viene in questo modo anche evidenziato che big data e intelligenza artificiale richiedono nella loro applicazione significative capacità interpretative da parte dei ricercatori.

Nel quinto capitolo, facendo dialogare in modo originale osservazioni etnografiche con questioni e temi fondamentali della socio-antropologia della scienza, quali la realtà della scienza stessa e il rapporto tra teoria e pratica, vengono analizzate in chiave etnografica le pratiche epistemiche della biologia computazionale, mettendo in evidenza come ricercatori e tecnologie lavorino insieme, per valutare così se e come cambia l’intero processo sperimentale, quando attraverso i computer il percorso di prove ed errori viene automatizzato, essendo gestito dagli umani con l’ausilio delle macchine. Viene inoltre evidenziato che le pratiche epistemiche della biologia computazionale implicano un approccio pragmatico, tale cioè da privilegiare la realizzazione di un fine concreto, anche se imperfetto e approssimato, rispetto alla corrispondenza con principi ideali o schemi astratti. Tale approccio sperimentale risulta, inoltre, in parte condiviso con l’antropologia stessa.

Nel sesto capitolo viene discusso il significato dell’essere pragmatici, come tale approccio si apprenda e come produca specifici atteggiamenti etici e politici, riconsiderando così alcune posizioni nell’ambito della svolta ontologica, nonché le critiche sociali rispetto ai concetti di intelligenza artificiale, algoritmi e big data per riflettere infine, in modo critico, su metodi e approcci dell’antropologia stessa e sulla produttività dell’incontro di quest’ultima con la metagenomica, tra somiglianze e differenze. In questo capitolo viene in particolare analizzata, da un lato la logica con cui a partire dai dati empirici i ricercatori creano categorizzazioni, mettendo in evidenza quella dimensione politica che proprio nel confronto interdisciplinare cessa di essere silente per diventare esplicita, potendo così orientare la ricerca stessa, dall’altro viene anche mostrato come tale approccio pragmatico si declini poi nel vissuto dei ricercatori.

Nel settimo capitolo vengono discussi alcuni casi, come le applicazioni che il microbioma può avere nella medicina personalizzata con tutti i relativi interessi economici tra ricerca e mercato, in cui l’approccio pragmatico, unito alla potenza computazionale della metagenomica, pone dei rischi se non gestito con una valutazione critica dei dati. Viene evidenziata, invece, l’importanza di poter assumere un adeguato approccio riflessivo e dunque critico, che in quanto tale consenta di porre interrogativi più ampi di quelli contenuti in una “visione molecolare” dei microbi, a supporto di quello pragmatico-scientifico, ma anche specularmente a sostegno di certe analisi socio-antropologiche che, senza un adeguato coinvolgimento con gli assunti teorici ed etico-politici che ne sono a fondamento, si limitano ad analizzare le pratiche sociali.

Nell’ottavo capitolo ci si sofferma a delineare il passaggio alla visione ecosistemica, posizione fondamentale per poter rispondere in modo adeguato alle complesse sfide concettuali e multi-scala avanzate dal microbioma, analizzando i fondamenti teorici della metagenomica, mostrando come tale disciplina sia ponte tra il vecchio paradigma genetico e uno nuovo, in costruzione. Vengono infine contestualizzate le riflessioni dei ricercatori all’interno di un percorso storico che dal “secolo del gene” arriva alla nascita e sviluppo della post-genomica, mostrando che questi due paradigmi costituiscono due diverse evoluzioni di quello cibernetico, e non due realtà opposte, riflettendo infine sul fatto che metagenomica e antropologia, al di là delle differenze, hanno anche, in una certa misura, interessi molto simili.

Nel nono capitolo si affronta il concetto di “ecosistema microbico” che funzionerebbe come tecnologia relazionale, mettendo infatti in relazione determinati elementi di un sistema, diventando pure una tecnologia aspirazionale, un mezzo cioè in grado di esprimere l’aspirazione dei ricercatori di far interagire diverse scale, ponendosi quindi come una tecnologia che non solo descrive relazioni, ma le crea anche nell’atto di selezionarle e descriverle. In questa prospettiva viene proposta una collaborazione interdisciplinare tra metagenomica e antropologia in grado di riconfigurare l’approccio pragmatico nell’ambito di una riflessione su significato, scopo e impatto delle pratiche scientifiche. Infatti viene evidenziato che l’enorme complessità correlata a una prospettiva multi-scala può risultare molto difficile da gestire solo da chi lavora all’interno della metagenomica; da qui l’utilità di una collaborazione in prospettiva critica e costruttiva, nel rispetto e comprensione delle reciproche differenze, tra metagenomica e scienze sociali e in particolare con riferimento specifico all’antropologia.

Nelle conclusioni, tra le altre considerazioni già accennate e qui riprese, viene infine ribadito che i microbi ci insegnano che, per vivere bene assieme, non si possono negare le interdipendenze in nome di egocentrismi di specie, classe, nazione, genere, disciplina e così via, ma si deve al contrario porre cura e attenzione a esse, in quanto ineliminabili, come anche la pandemia di Covid-19 ci ha drammaticamente mostrato in questi ultimi mesi.

Più in generale è importante ricordare, come questa ricerca ci suggerisce, che nessun corpo umano è puramente tale, nel senso che l’umano è sempre in qualche modo “contaminato” con il non umano a causa di continui interscambi trans-corporei tra corpi stessi e ambiente con le altre forme di vita, quali batteri, microbi e virus [Zito 2018], traducendosi in un’inevitabile coesistenza di umano e non umano [Haraway 2008]. Può risultare utile in questa direzione ribadire, sulla scorta delle riflessioni critiche di Raffaetà, che, anche proprio a partire dall’approccio post-genomico, si stanno sviluppando nuovi paradigmi rispetto ai concetti di corpo e salute [Benezra, De Stefano e Gordon 2012]. In questa prospettiva il riferimento è certamente, tra gli altri, agli studi sul microbioma umano [Costello et al. 2012], per i quali la salute stessa non dipenderebbe più da un organo malato/integro, ma dalla biodiversità e dalle caratteristiche della comunità ecologica di batteri presenti nel corpo umano, mediatori con l’ambiente [Paxson e Helmreich 2014].

D’altro canto l’epoca dell’Antropocene [Crutzen 2005; Lewis e Maslin 2015; Moore 2016] e del Capitalocene [Moore 2017] in cui viviamo, a livello socio-culturale, segna infatti proprio il riconoscimento della profonda commistione tra esseri umani e natura con gli esseri non-umani. Per cui, per esempio, parlare di “salute ambientale” significa entrare in un ambito molto complesso e dai confini incerti e articolati in cui si travalicano i concetti stessi di “corpo” e di “umano” per problematizzarli in rapporto agli ambienti di cui sono parte. Ciò significa considerare la salute in un’ottica ecosistemica, intenderla cioè nella visione più ampia della convivenza tra diversi organismi umani e non. Già altrove Raffaetà [2017] ha evidenziato che diversi lavori socio-antropologici hanno concettualizzato la salute come ampiamente dipendente dall’ambiente in cui si vive, inteso quest’ultimo come un complesso assemblaggio biosociale [Ingold e Palsson 2013]. In proposito Lambert e McDonald [2009] parlano di “social bodies”, Hsu [2007] evidenzia la stretta continuità tra ciò che è dentro e ciò che è fuori i corpi umani, Ingold [2004, 2015] ri-concettualizza i corpi stessi come il prodotto delle relazioni con l’ambiente. Ingold [2004, 2015], in particolare, adotta un’ottica ecologica, in base alla quale l’ambiente non può essere inteso come un aspetto separato dagli organismi che vi si inscrivono, i quali diventano così parti di una complessa rete di interazioni che si articolano, strutturano e influenzano in modo reciproco e ricorsivo. Criticando le tradizionali dicotomie mente/corpo, natura/cultura, organismo biologico/attore sociale, Ingold [2015] propone un approccio alternativo che, intersecando antropologia culturale, biologia e fenomenologia, evidenzia e valorizza complessi e articolati nessi, relazioni e concatenazioni tra esseri umani e ambienti. È a tutt’oggi questa una grande sfida, a cui Raffaetà con la sua originale ricerca su cosa significhi essere umani dalla prospettiva microbica ci chiama e che, come antropologi, non possiamo certamente ignorare.

In conclusione, adottando un’ottica ecosistemica e avviando un serio dialogo interdisciplinare, Raffaetà ha dato un contributo significativo per indagare l’antropologia della scienza anche in Italia, lasciandoci pure intravedere in che modo i rapporti fra umani e non-umani possono essere riconsiderati, ripensando la salute in modo non antropocentrico, in un’ottica piuttosto di “umanismo critico”, inteso quest’ultimo proprio come uno scostarsi dall’antropocentrismo. In questa prospettiva il caso della pandemia di Covid-19, ma anche quello altrettanto urgente e in qualche misura connesso della crisi ambientale globale, hanno mostrato con forza quanto sia auspicabile, se non necessaria, una correlazione sempre più forte fra discipline diverse. Appare infatti evidente che il modo in cui si pensano pandemia e contagio, per esempio, riflette una specifica modalità culturalmente determinata di intendere la relazione fra umani e non-umani, mentre il virus stesso, per tutto quanto fino a ora accaduto, sembra mettere in crisi i fondamenti stessi della biopolitica contemporanea.

Riferimenti bibliografici

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