Etnografie letterarie e Migrazioni

Scritture di Donne Migranti

Annalisa Di Nuzzo

Dipartimento di Scienze Umanistiche, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli

Indice

Per una breve riflessione teorica: poesia, letteratura dell’erranza e flussi migratori
Poesia dell’erranza in Italia
I nuovi romanzi dell’erranza e del transculturalismo
Bibliografia essenziale

Abstract. This study explores the relationship between the new migration literature and reflective anthropology. The relationship between literature and anthropology becomes more and more significant and provides fruitful reading keys for transcultural ethnography. Migration literature in Italian is investigated through first and second generation migrant writers, so much so as to define a post-colonial Italian literature. Gender, ethnicity and migration configure as the keystones of the new plural and transcultural subjectivities of post-modern Italy.

Keywords: Migration; Gender; Ethnicity; Transcultural Ethnography; Reflexive Anthropology.

Per una breve riflessione teorica: poesia, letteratura dell’erranza e flussi migratori

«La poesia riverbera in forme originali il modello culturale di un mondo e la struttura dei suoi rapporti sociali, è il “colpo d’occhio”, che condensa un tempo storico a partire da una situazione specifica e da un’angolazione particolare» [Scafoglio 2006, 14]. Il linguaggio poetico si configura come uno spazio privilegiato che assume su se stesso il valore di quella thick description che l’antropologia interpretativa ha codificato attraverso la definizione geertziana. La produzione letteraria, e in particolare la poesia, coglie quel mondo originario e le sue strutture sociali con immediatezza, pur non perdendone i dettagli. Sembrerebbe, in tal senso, uno strumento conoscitivo imprescindibile: la poesia, infatti, così come l’antropologia, nutre un interesse specifico per il particolare, sia realistico sia simbolico. Ma laddove l’antropologia aspira a dimostrare o, quantomeno, a descrivere logicamente, la poesia è intuizione e rivelazione. Ambedue, tuttavia, costituiscono modelli di relazioni e di interconnessioni, ed approdano alla rappresentazione dell’universale.

Nel corso degli ultimi decenni è emersa da un lato la necessità di utilizzare le scritture creative come strumenti necessari per definire i rapporti tra antropologia, poesia e romanzo, e dall’altro si è indagata la possibilità di impiegare tali testi quali “fonti calde” per un’interpretazione delle culture. I caratteri di questa analisi dovrebbero far luce su un fondamento comune, che possa restituire l’individuazione di un genere transculturale e formulare una etnopoetica che non sia più riservata alle culture altrema anche, ed è questo l’ambito su cui si orientano le riflessioni che seguono, alla “letteratura dell’erranza” nelle società globali.

Questa produzione non costituisce una novità assoluta nella storia delle culture, ma sempre più incisiva si ripresenta nell’età della globalizzazione. Essa rappresenta una “voce”, una coscienza altra dei migranti o trasmigranti, ed assolve, in parte, ad una atavica necessità del poetare da sempre presente nella comunità arcaiche e non. I vissuti, che spesso caratterizzano l’esistenza dei migranti, li rendono partecipi, talvolta, di ciò che tradizionalmente era considerato, segno e garanzia di doti eccezionali; tali capacità di superare difficoltà fisiche e psichiche collocavano le personalità “segnate” nell’ambito di un universo fatto di legami con il sacro, ma anche di confidenza con la marginalità e la debolezza, condizioni, queste ultime, tipiche dei vissuti del migrante. La dimensione poetica del migrante oggi ha a che fare con una necessità di sublimazione della diversità, che lo segna attraversando dolore, gioia e nuovi orizzonti di vita, tradotti in un linguaggio folgorante e intuitivo, scevro da sistemi logico-deduttivi. Paradossalmente, questo utilizzo essenziale della parola è più consono ai ritmi contemporanei della comunicazione sovrabbondante e finisce con l’essere più universalmente funzionale, pur conservando l’antico aspetto del linguaggio oracolare e divinatorio. Diventa una strada, a suo modo, liberatoria nonché strumento terapeutico allo shock culturale, tipico portato dell’erranza. Forme ataviche del poetare e post modernità si rivelano più prossimi di quanto si possa pensare, riproponendo il tema di strutture universali dell’immaginario [Durant 2009] e del vissuto dell’essere umano, configurate diversamente alla luce dei tempi storici che si determinano di volta in volta. Il progetto di un’antropologia della poesia, ma, più in generale, della letteratura, non può essere condiviso, se con questa espressione si intende un oggetto (la poesia, il romanzo, il teatro) affidato a un soggetto (l’antropologia) che lo indaga e lo studia. La poesia, così come il romanzo o un testo teatrale [Giacchè 1991], è un sistema originale del mondo dell’esperienza, con il quale occorre confrontarsi, e non un materiale da sottoporre ad analisi, con la certezza che nessuno (letterati e antropologi) perderà di vista il proprio ambito di riflessione.

I testi poetici e letterari, in senso più ampio, presentano, in particolar modo per la letteratura dell’erranza, una consistente base etnografica: rappresentazioni di modelli culturali, descrizioni di comunità, luoghi simbolici o reali forniscono materiali da esaminare. Del resto, l’incontro tra antropologia e testi letterari è parte di uno stesso orizzonte di senso: entrambi nascono in Europa in un momento in cui crollano i grandi sistemi filosofici e teologici che ordinano il mondo, e si assiste a quello che è stato definito “un decentramento antropocentrico”, si rinuncia, cioè, all’idea che la realtà possa essere colta in se stessa, e ci si orienta, più modestamente, a partire da un certo punto di vista.

A mio parere è importante che l’antropologia riconosca il suo ruolo di decostruzione dei presupposti morali e culturali di coloro -dai lettori comuni agli studenti e ai colleghi- a cui sono indirizzati i suoi studi. Senza dubbio abbiamo una certa responsabilità nel riportare in maniera attendibile la voce di coloro che hanno da dire su di sé ma anche su di noi [Crapanzano 2007, 14].

La condizione del migrante odierno arricchisce di ulteriori categorie tutto quello che riguarda la narrazione e la possibile nuova etnografia: meticciati, ibridazioni e culture incrociate hanno modificato l’oggetto tradizionale dell’antropologia, che aveva fondato i suoi quadri teorici e le sue procedure sull’osservazione di culture separate. La figura dello straniero, in quanto autore di quelle stesse forme che lo vedono protagonista, si pone al centro di un inedito processo identitario, che ridisegna i margini della relazione tra uomo europeo e alterità, stimolando la riflessione sulla funzione mediatica della scrittura in rapporto alle pratiche di costruzione dell’immaginario collettivo. Rendendo l’esperienza dell’altrove disponibile al racconto in prima persona e con una nuova lingua, lo scrittore migrante sovverte la contrapposizione binaria noi/altri e opera uno spostamento culturale dei confini che separano due mondi distinti. La principale caratteristica di tale produzione, quantitativamente assai cospicua e differenziata sotto il profilo della provenienza geografica degli autori (Africa, America Latina, Asia, Europa dell’Est), deriva, infatti, dalla relazione, fertile nella sua problematicità, tra la lingua d’origine e quella del paese d’arrivo che, nel caso dell’italiano, si offre come sponda neutra per l’elaborazione espressiva dei testi. Applicato alla fenomenologia dello scrittore migrante, ovvero colui che, appartenendo a due culture, può smontare ogni concezione essenzialista dell’identità, alla quale contrapporre un «meticciato potenzialmente infinito, un nomadismo radicale» [Fusillo 2009, 162], l’ibridismo si pone quale categoria di riferimento utile per celebrare quel dialogo con l’alterità consentito dalla produzione letteraria di autori immigrati senza il filtro della traduzione. La contaminazione feconda tra letteratura e migrazione, è analizzabile, così, in relazione ad un processo di negoziazione identitaria, che coinvolge entrambi i termini del discorso, riscritti secondo un ordine che, in senso foucaultiano, offre ad un soggetto per lo più escluso, o pesantemente limitato nell’esercizio di tale funzione, diritto d’accesso alla parola. Come evidenzia Katia Trifirò, scrivere «nella lingua dell’altro, dal punto di vista del migrante, figura che, quasi sempre caricata di valori simbolici e ideologici, incarna antonomasticamente i miti dell’attraversamento e dello sconfinamento» [Trifirò 2013, 77]. La percezione reciproca dell’alterità culturale, nonostante l’inevitabile impatto dell’essere estraneo, determina una ricchezza di schegge identitarie e risvolti positivi comunque si configuri: semplice scoperta o sperimentazione interessata o osservazione empatica o rappresentazione reciproca. Lo straniero si trasforma da oggetto di osservazione a soggetto osservante, che analizza la società in cui inscrive la propria identità di altro.

Poesia dell’erranza in Italia

Nel nostro paese si è consolidata una letteratura dell’immigrazione in lingua italiana, coagulatasi intorno a piccole case editrici, attente e sensibili a certi fenomeni, consentendo un confronto/incontro tra immigrati, una sedimentazione di esperienze, un rilevamento della pluralità di voci sulla nuova realtà italiana. Esiste un momento fondativo di questa letteratura che viene convenzionalmente indicato nel romanzo “Io, venditore di elefanti”, del tunisino Salah Methnani [1997] pubblicato nel 1990, a cui sono seguite ininterrotte pubblicazioni sia di poesia sia di prosa da parte di piccole e grandi case editrici.

Gli ultimi vent’anni sono stati caratterizzati da un ampio dibattito intorno ai termini da adottare per definire sia la letteratura della migrazione (letteratura italofona, della diaspora, multiculturale, postcoloniale, scritture migranti, ecc.), sia i soggetti che ne sono autori (scrittori immigrati, migranti, migranti di seconda generazione, della diaspora, postcoloniali, migranti scrittori, ecc.). Come sostiene Cristina Lombardi-Diop, «The fluctuation of terminology is not merely a taxonomic issue, but serves to identify what kind of approach critics have adopted in discussing these texts» [Lombardi- Diop 2005, 65].

Uno sguardo quantitativo tra gli autori consente di rilevare un cospicuo numero di scrittrici, includendo, così, ulteriori campi di analisi, quali genere, etnia e identità. Quando il respiro delle donne riesce ad essere in sintonia con la molteplicità delle voci e dei ritmi della Babele post-moderna, contribuisce a dare originali e proficue dimensioni identitarie, frutto delle contaminazioni tra culture e di genere, tra l’Occidente eurocentrico e le radici multietniche di queste donne immigrate in Italia, che producono poesia e letteratura utilizzando l’italiano come lingua veicolare [Gnisci 2003, Comberati 2010, Benvenuti 2012, Moracee 2012].

Decidere di mettersi in gioco emigrando, comporta l’accettazione dell’idea che la propria identità alla fine del viaggio sarà diversa. L’esperienza della migrazione produce altre strade del vivere, parallele e coesistenti, una vita di vite di coesistenze contaminate aperte al noi.

La forte incidenza della scrittura femminile migrante evidenzia l’irrinunciabile elemento della differenza di genere in qualsiasi diversità culturale. Del resto, gli stessi flussi migratori sono caratterizzati dalla differenza di genere. Ricerche sul campo forniscono elementi illuminanti, tali da elaborare una distinzione tra modelli migratori femminili e modelli maschili [Di Nuzzo 2009; 2020] Per le donne provenienti da paesi islamici, la scelta migratoria è legata al progetto del coniuge, cui esse si riuniscono in un secondo momento; tra gli stranieri di origine est-europea, asiatica, e sudamericana, invece, le donne seguono progetti migratori personali, essendo a maggioranza nubili e con un più alto tasso di istruzione [Di Nuzzo 2009]. Cosa significa consegnare alla scrittura questa esperienza complessa della deterritorializzazione della propria identità, affidando alla pagina lo spazio dell’incontro e della definizione del sé?

Secondo Rosi Braidotti, assodato che il linguaggio è il mezzo e il luogo di costituzione del soggetto, colui che parla più lingue diventa il prototipo del soggetto postmoderno titolare di parola;

il plurilinguismo spinge a cercare un’etica che possa sopravvivere ai molti spostamenti di linguaggio e di collocazione culturale. Tuttavia, tale soggetto, turbato dalla esasperante, fulminante costatazione dell’arbitrarietà dei significati linguistici, non sprofonda nel mero cinismo, imparando a gestire questa molteplicità senza cadere nel relativismo. L’arbitrarietà non è l’assurdo; la polivalenza non significa anarchia, ma capacità di riconoscere le alterità e coniugare nuove modalità della cultura che si riplasma [Braidotti 2002, 31].

Per le donne, sembrerebbe un dato trasversale la necessità di esprimere quel desiderio di autonoma assertività, per rappresentare a se stesse e agli altri l’essenza femminile nell’ambito delle diverse culture di appartenenza; a tale bisogno si sovrappone, poi, il desiderio di esorcizzare la dimenticanza, che ogni esilio può comportare. Poesia e scrittura della memoria per chi non ha più memoria, poesia della frontiera per chi non ha più frontiere e non vuole accogliere stereotipi della femminilità, della cultura sia di appartenenza sia di accoglienza. La liminarità femminile è definita prevalentemente dalla scrittura di donne che vivono tra due o più culture, protagoniste di una diaspora etnica, culturale e identitaria. Esse hanno rinnovato i modi e i linguaggi della scrittura femminile e ridisegnato i confini di canoni preesistenti, ponendosi consapevolmente al di fuori delle forme della tradizione letteraria istituzionale, spezzando i confini rigidi tra discipline e dando voce alla propria soggettività dislocata. Il legame con le tradizioni “originarie” non è visibile o trasparente o immediato, né tantomeno la loro appartenenza a questa o quella cultura mai veramente conquistata [Gnisci 2009].

In questa breve ricognizione pare più calzante la definizione “scritture migranti” e post-coloniali, sostituendo il termine “letteratura” con “scritture”, e muovendosi nella direzione degli studi culturali e considerare questi scritti in un corpus culturale scaturito da profondi cambiamenti sociali legati, negli ultimi anni, anche alle seconde generazioni e alle nuove identità italiane. Ad una prima generazione di immigrati con tutte le tematiche legate allo shock dell’arrivo si associa una generazione di giovani autrici e autori che nascono in Italia, istruiti nelle scuole italiane, portatori di culture diverse e di vissuti di integrazione non sempre facili. Lidia Curti, ad esempio, parla di «letteratura diasporica italofona» [Curti 2006, 83], legando la produzione in italiano da parte di popolazioni originarie delle ex colonie italiane a quella di scrittori provenienti da altre diaspore. Non ultima all’interno di questo articolato fenomeno, si fa strada la necessità di considerare la provenienza geografica per i gruppi culturali che in queste due decadi hanno dato vita a i corpora letterari particolarmente consistenti: è questo il caso della letteratura africana italiana (di solito in riferimento agli scritti di immigrati provenienti dall’Africa sub-sahariana e dal Corno d’Africa e della loro discendenza) e di quella albanese-italiana. La prospettiva postcoloniale nell’analisi della cultura/letteratura italiana da una parte crea un senso di continuità temporale, evidenziando la connessione esistente tra il presente, il passato coloniale e le grandi ondate di emigrazione internazionale e intranazionale, e sottolinea come l’identità nazionale si sia costruita anche a partire da questi eventi storici. Nel caso dell’Italia il passato coloniale, la subalternità del Sud del paese, le emigrazioni internazionali e intranazionali diventano momenti fondamentali per comprendere quale senso di identità nazionale o forse post-nazionale e quali meccanismi culturali questi eventi abbiano prodotto nell’Italia contemporanea. Sembrano quanto mai profetiche le parole di Haidarj, poeta e scrittore albanese che scrive:

«rifiuto l’etichetta di extracomunitario, e anche di immigrato, tutti quanti siamo fondamentalmente stranieri e immigrati. So che non si capisce questo principio, io cerco di seguirlo. Io sono a casa in tutto il mondo come da nessuna parte del mondo» [Haidarj 1990, 15].

La condizione postcoloniale deve inoltre essere pensata in relazione ai fenomeni della globalizzazione, alle nuove logiche economiche che essi impongono e ai movimenti diasporici che queste logiche mettono in moto. Particolarmente efficace il racconto “Il telefono del quartiere” della etiope Gabriella Ghermandi [1999]. In questa scrittrice si stratificano elementi che possono definire una dimensione di scrittura postcoloniale anche per l’Italia; Ghermandi rifiuta per sé l’etichetta di scrittrice migrante e si definisce scrittrice postcoloniale, per ribadire l’esistenza di un passato coloniale così spesso dimenticato che ha profondamente segnato la sua vita e quella della sua famiglia (quattro generazioni di donne, secondo quanto lei stessa afferma). La scrittrice appartiene e rappresenta l’avvento delle seconde generazioni, essendo inoltre figlia di unioni miste. Ciò che ne consegue, dunque, è che per lei (come per altre) l’italiano rappresenta la prima lingua, e l’Italia – per Ghermandi, ma anche per Scego e Ali Farah – costituisce il paese di nascita. Ghermandi è nata ad Addis Abeba da madre eritrea e padre italiano, alla morte del quale si trasferisce nella sua città nativa, Bologna, dove oggi vive e lavora. Prima ancora di essere l’autrice di romanzi e di molti racconti, è una “cantora”, giacché racconta oralmente le sue storie, attività questa che assume tanto una valenza artistica, quanto una funzione sociale. Il tema delle appartenenze molteplici è rilevante, come emerge dal racconto:

«fai fatica a cambiare i tuoi ritmi, il tuo cuore è ancora chiuso, hai sempre a portata di mano i tuoi inutili schemi! […] Questo hai perso in Europa, quel ritmo lento, dilatato che apre tutte le porte. Ti farà piangere, gioire, ringraziare la tua terra. Solo così potrai ritrovarti» [Ghermandi 1999, 80].

La risoluzione del conflitto identitario è straordinariamente semplice: accogliere e lasciar coesistere il tempo italiano con i suoi ritmi e le sue accelerazioni rigorosamente monocrome, con quello delle radici e della lentezza del tempo “policromo” [Hall 1984]:

«in quel posto sacro dove conservavo il ritmo della mia terra tutto era quieto, anche quando c’era dolore. Ora potevo stare ovunque su questo pianeta, ero a casa dentro di me…e comunque, se mi fossi persa, potevo sempre telefonare» [Ghermandi 1999, 82].

Nell’universo narrativo di Ghermandi l’identità post-moderna risulta da uno sforzo funambolico che vede il soggetto in equilibrio lungo una linea senza centro né periferia, in ridefinizione continua, attraverso una sospensione fatta di pieno e di vuoto, che accoglie e seleziona, rifiuta e rielabora. Gli stessi generi letterari si rimescolano e una parte del romanzo “Regina di perle e di cuori” [2011] diventa anche una performance teatrale, da lei stessa rappresentata in giro per l’Italia e per il mondo, e in cui vengono interpolati alla narrazione canti in amarico, declamati vestendo costumi tradizionali etiopi[1].

Nel nostro paese è storicamente consolidata una letteratura dell’emigrazione italiana, ovvero una particolare forma di etnografia riflessiva legata ad una parte considerevole della scrittura letteraria; così si intersecano nella nuova scrittura postcoloniale italiana i temi delle letterature dell’emigrazione storica italiana, con le dinamiche delle attuali trasmigrazioni. Emigrati italiani in Messico dell’inizio del Novecento sono i capostipiti nel racconto di Martha Elvira Patiño “Al di là del mare” [Patiño 1998]. La genealogia familiare di una giovane donna emigrata in Italia oggi, che rievoca quei racconti mitici in cui l’Italia era una strana terra esotica di cui parlavano i suoi avi: immaginari di altrove che si confrontano, sapienze popolari e riti che vengono evocati e raccontati, l’amore come legame assoluto che governa inevitabilmente il racconto. Una sorta di antropologia del rimpatrio [Augè 2009, Clifford 2008, Montes 2006], che aiuta a definire questa scrittura letteraria come una particolare osservazione partecipante, in cui il movimento nello spazio culturale della modernità ha un esito al contempo agentivo e autoriflessivo, raccontando di specularità e rispecchiamenti in una sorta di geografia delle migrazioni che assume circolarità e globalità insospettate. In questo senso, alcune considerazioni importanti riguardano proprio il momento della scrittura e della testualizzazione dell’esperienza etnografica “rimpatriata” che assume la funzione di azione sociale, a tutti gli effetti agita in un contesto disciplinare istituzionalizzato, come quello dell’antropologia. La rete di questa contaminazione tra occidente e mondi altri ci costringe a riflettere attraverso le essenziali provocazioni linguistiche di queste migranti che ci “guardano” e ci “osservano” da quel punto di vista paradossalmente privilegiato che è lo stare dentro e fuori. La nuova identità femminile respira identità plurime, coniugando affettività, domesticità, vissuti privati e ruoli pubblici, sfuggendo a vetuste codificazioni di potere e di platonica presenza istituzionali. Scrive Rosana Crispim da Costa, autrice brasiliana: «Non mi sento che ti appartengo- sono stata diluita- fino a diventare una sola persona» [Crispim da Costa 1998, 23], disagio di una doppia appartenenza, in cui la condizione di immigrata esaspera il pericolo di non esserci, di quel vuoto d’essere che incombe sul femminile [Di Nuzzo A. 2002], di non riuscire ad avere spazi di esistenza se non attraverso i ruoli che la società di accoglienza propone: badante, collaboratrice domestica, prostituta. Il tentativo di trovare un punto di equilibrio mai stabile conduce Crispim da Costa a ripercorrere il suo mare brasiliano per trovare dimensioni identitarie del femminile antitetiche a quelle della cultura europea:

Attendo che il mare

mi dia un segnale

per capire dove arriverò.

Forse, ad un porto sicuro

o in un’isola tutta mia.

Voglio sentire la mia voce femminile:

sono stanca di fare l’uomo

e derubare con la tenerezza tutte le frontiere del cuore.

Non voglio né un amante, né un marito.

Ma sì, un’anima per tutta la vita

[Crispim da Costa 1998, 35].

La tradizionale “saudade” brasiliana si interseca con consapevolezze occidentali, che tuttavia vengono criticamente interiorizzate e in parte negate, con la sconfessione di ruoli e stereotipi della cultura di accoglienza. La necessità di raccontarsi, di ritrovare legami con i propri spazi, quelli della domesticità, dell’oralità, del gusto della creazione immaginaria, spesso esaltata dall’appartenenza al mondo sudamericano, dell’attaccamento “al genere dell’io”, sono dentro questa scrittura, una sorta di “scrittura quotidiana” che l’antropologia francese, strutturalista e post strutturalista [Heritier 2000; Irigaray,1990] ha ben delineato e che è fortemente connotata al femminile.

L’italiano privilegiato da queste scrittrici indulge ad un uso più netto di termini legati all’esaltazione del carattere relazionale della comunicazione linguistica: verbi come “sentire”, “parlare” e “chiedere” sono molto presenti, così come metafore ed evocazioni di stati d’animo sono spesso lontani da ogni forma di assertività. Crispim da Costa mette a confronto due modelli musicali, sintomi di due culture che, coesistendo, lasciano intravedere la fatica esistenziale del confronto:

Questo desiderio di libertà è quasi

incomprensibile.

Palpita il cuore al ritmo di “samba

enredo”,

e finisce per cadere di stanchezza in un

concerto

di musica classica

[Crispim da Costa 1998, 15].

Edward Said, in una pagina assai nota, ha fatto ricorso alla categoria musicale del «contrappunto» per caratterizzare il campo delle pratiche culturali, sottolineando come al suo interno

le identità non si configurino[…] come essenze date […], ma come insiemi contrappuntistici, poiché si dà il caso che nessuna identità potrà mai esistere per se stessa e senza una serie di opposti, negazioni e opposizioni: i greci hanno sempre avuto bisogno dei barbari, come gli europei degli africani, degli orientali e così via [Said 1995, 17].

Così resta il senso della nuova sintesi nei versi della raccolta di Crispim Da Costa Il mio corpo traduce molte lingue (1998):

Il mio corpo traduce

molte lingue,

la comprensione

rimane indietro.

Comunicazione tra marziani

[Crispim da Costa 1998, 19].

Nuove identità di genere che attraversano confini e frontiere e utilizzano e riconoscono, da osservatrici esterne, le logiche dell’eurocentrismo maschile, come nel racconto “Chiamatemi Mina” (1999) dell’autrice Fitahianamalala Rakotobe Andriamaro [1998], in cui la protagonista, figlia di immigrati provenienti dal Madagascar, desidera fortemente l’integrazione ed essere considerata bianca, si vergogna del suo nome impronunciabile e si interroga sulla cultura italiana. Ripete a se stessa: «l’Italia, la terra dell’intellettualizzazione, delle spiegazioni sofisticate per distrarsi dal dolore» [Rakotobe Andriamaro 1998, 152],individuando un percorso millenario della logica occidentale che ha interdetto spesso lo spazio ai sentimenti, ritenuti scomposte manifestazioni legate al femminile. C’è una stratificazione di consapevolezze, quella di utilizzare una strategia culturale occidentale nel voler rimuovere la sofferenza, ma che è criticamente percepita come modo per stabilire un contatto con la cultura di accoglienza di cui si ci può servire per mantenere viva, nonostante tutto, la propria diversità, «anche se niente è facile se il tuo nome era uno scioglilingua e tuo padre ti veniva a prendere a scuola con la Prinz verde» [Rakotobe Andriamaro 1998, 151].

La complessità delle soluzioni è ben esplicitata anche dalla scrittrice brasiliana Cristina de Caldas Brito, che legge e interpreta tale processo come evento prolungato di transculturazione, in cui una brasiliana migrante pubblica in Italia un romanzo ambientato nelle favelas di Rio de Janeiro scritto in italiano, e tradotto in portoghese, sua lingua madre, da un’italiana che vive in Brasile:

Mi domandano spesso se scrivere in italiano e raccontare il mio paese in una lingua diversa dalla lingua natale mi faccia sentire in colpa verso la mia cultura. […] Mi sono sentita a mio agio nell’aver scritto un romanzo in italiano. Vivere in Italia significa anche vivere in italiano. Scrivo nella lingua italiana perché voglio essere letta e capita dove vivo. […]. Ogni tanto ho lasciato dei termini in portoghese, certi modi tipici del parlare carioca che aiutavano a caratterizzare personaggi e situazioni del romanzo. La lingua è la veste che diamo ai nostri pensieri. […] la traduzione ha avuto per me il significato di vedere le mie idee rinnovate perché riconosciute e vestite diversamente [De Caldas Brito 2012, 255].

Come si evince, il nuovo Mediterraneo delle donne immigrate, già depositario di memorie domestiche e di saperi dimenticati, sfida antichi e nuovi stereotipi, indicandoci percorsi che danno un nuovo senso di comunità e di umanità. Un universo fatto di consapevoli assertività, di uso delle tecnologie della comunicazione, di nuove costruzioni di sistemi familiari in cui il femminile interpreta una maternità fatta di distanza e presenza, di gestione della cura anche come motore economico, che non significa dimenticare la relazione empatica con l’altro soprattutto in chiave transculturale.

I nuovi romanzi dell’erranza e del transculturalismo

Questo essenziale percorso di inconsapevole etnografia si conclude con un accenno ai romanzi autobiografici che descrivono le odierne odissee dei più disparati percorsi di provenienza. Tra questi ho scelto due romanzi autobiografici, simili e diversi allo stesso tempo. Il primo è volutamente provocatorio nel titolo - Voglio un marito italiano [Sorina 2006] -, il secondo lo è altrettanto, riferendosi ad un oggetto simbolicoche tanto ha evocato nelle storie e nelle biografie sulle migrazioni, ovvero “La valigia di Agafia” [Franceschini 2008]. Entrambi sono in parte autobiografie, seppure scritte con modalità diverse: il primo è un racconto di prima mano di Marina Sorina, trentacinquenne donna ucraina, diventato un best seller tra le sue connazionali che me lo hanno presentato come vera sintesi di tutto quanto loro hanno vissuto, provato e subito, compreso il lieto fine da romanzo d’appendice. Il secondo, intenso e drammatico, specialmente quando affronta il tema della necessità del raccontarsi e della responsabilità di chi racconta per un altro, è il risultato di una stesura a quattro mani da parte di una donna moldava, Agamia Onuta, e di Marta Franceschini, scrittrice italiana. Così scrive Franceschini:

Di solito Agafia veniva a casa mia un giorno alla settimana e si fermava per tre o quattro ore. I suoi racconti sembravano monsoni furiosi e inarrestabili. Saltava da un argomento all’altro con la foga di un bambino scatenato, dal passato al presente, dalla madre alla sorella, dall’est all’ovest [...] Quando se ne andava, mi lasciava [...] piena di dubbi: potevo davvero scrivere la storia di qualcun altro? Ne avevo il diritto? Avrei trovato la sua voce o avrei finito, inevitabilmente, per parlare di me? [Franceschini 2008, 6].

La scrittrice, in pochi tratti efficaci, sintetizza i più complessi problemi della ricerca antropologica e della responsabilità del raccontare; talvolta si avverte la volontà ferrea di chi si racconta a catturare, con la scrittura, il senso di un’esistenza altrimenti inaccettabile. Questa stesura a quattro mani investe due distinti universi femminili, realizzando così autentiche politiche interculturali. Cosi l’incipit del romanzo: «“Sto cercando una scrittrice” insistette lei. “Perché?”, le domandai, a mia volta incuriosita. “Perché se no muoio” rispose “e non posso morire con questo grido dentro”» [Franceschini 2008, 5].

Emerge così la necessità antropologica di esorcizzare la nostalgia, nell’ansia di colmare la distanza linguistica, psicologica e culturale con il nuovo paese. Un’urgenza di raccontare e la scelta di farlo nella lingua d’arrivo che, lungi dal divenire simbolo di discontinuità con il proprio vissuto, o tentativo di strapparsi alle proprie radici, si pone invece quale risorsa consapevole di ricostruzione personale. La figura dello scrittore migrante, pertanto, non si limita ad essere mero fatto letterario, ma apre decisamente la questione della funzione politica della scrittura, come «“antidoto” contro le paure e gli stereotipi che spesso sono alimentati nei confronti del “problema immigrazione”» [Camillotti 2010, 11]. La scrittura, occasione e strumento per una rielaborazione identitaria, è anche rito di inclusione: l’immigrato tenta di svolgere un ruolo attivo, come soggetto parlante nella discussione sul fenomeno dell’immigrazione, e di annullare dall’interno i pregiudizi che fanno da corollario ad essa. Facendo leva su un approccio geocritico, in un contesto globale segnato da una realtà plurale e mutevole, come afferma Bertrand Westphal, «il ruolo delle arti, che intrattengono con il mondo una relazione mimetica, rivela una rinnovata importanza, uscendo dal confinamento estetico per reintegrare il mondo» [Westphal 2009, 13]. È in questo punto che avviene la rinegoziazione delle relazioni tra i termini letteratura, identità e migrazione, poiché, se storicamente possiamo trovare illustri esempi di letterati che attraversano le lingue, i fenomeni migratori della società contemporanea fondano una contaminazione senza precedenti sul piano linguistico, culturale, identitario, liquefacendo appartenenze granitiche, e nazionalismi pervicaci.

I motivi della migrazione sono così descritti da Sorina nel suo romanzo:

Ci sono tanti motivi per decidere di andare via dalla propria terra, abbandonare la famiglia, la lingua, le abitudini di una vita. C’è chi si muove spinto dalle circostanze, chi per l’impulso dell’amore o dell’avidità, per la voglia di trovare una famiglia o il bisogno di rifuggire un passato turbolento. Arrivando in un paese nuovo c’è chi si mette in vendita e si gode il profitto, chi s’imbarca nella frustrazione di un matrimonio combinato e chi riesce a resistere in solitudine. Alcune scelgono l’emulazione e cercano di liberarsi dalle proprie radici; altre restano per sempre attaccate al passato, eternamente aliene alla vita nuova [...] guidate da un sogno profondamente radicato e non dalla disperazione o da un freddo calcolo [Sorina 2006, 11].

In questo lungo brano Sorina inserisce e rapidamente esamina tutte le possibili modalità della spinta migratoria, le riposte individuali all’impatto nel nuovo paese, la capacità di molte, che io stessa ho incontrato, di scegliere la solitudine. Le voci delle donne e il respiro che esse propongono al mondo mediterraneo, e non solo, mettono in vita una dinamica di reti discontinue di relazioni solidali che investono una nuova dimensione di legami insospettati tra locale e globale, tra tecnologia e domesticità, che individuano una capacità di vivere una frammentazione del tempo in maniera propositiva.

Nei due romanzi c’è, per esempio, un immaginario relativo all’Italia assolutamente in linea con la tradizione, e che viene poi smentito dalle vicende delle protagoniste:

Avevo un sogno segreto. E questo sogno mi proteggeva, mi aiutava … Il mio sogno era l’Italia … Eppure sembravano proprio vere quelle cartoline, con tanto di didascalie. Avevo assalito mia madre con un sacco di domande e lei ridendo aveva letto ad alta voce: Saluti da Sorrento - che cosa è Sorrento? È una città in Italia – E che cosa è l’Italia ? – Non è una cosa è un paese meraviglioso, dove ci sono mari e montagne, splende sempre il sole e non nevica mai, per questo la gente è sempre allegra e ama cantare e ballare. Da quel giorno decisi cosa volevo fare da grande: volevo fare l’italiana [Sorina 2006, 18].

Questi stereotipi configgono con le storie e gli incontri reali. Il miraggio di raggiungere l’Italia è legato ad un viaggio traumatico:

Dopo tre tentativi falliti di ottenere il passaporto pago duemila dollari, tutto quello che mi resta dopo due anni di attività, per raggiungere l‘Italia […] siamo in nove con l’autista, cinque accovacciati al posto dei sedili posteriori […] Dieci ore di viaggio per raggiungere Budapest [...] ci portano in un appartamento […] nessuno sa niente, […]Poi improvvisamente una notte vengono a prenderci con un camion ci portano al confine con la Croazia [Franceschini 2008, 66-68].

La partenza, lo shock culturale dell’incontro con la diversità, lo spaesamento, ma anche la consapevolezza di essere parte di più mondi, di potere andare e tornare, sono il bagaglio da portare:

Per anni ho girato con la vita chiusa in una valigia, trascinata da una meta all’altra. Cose, vestiti, ricordi, tutto sempre con me, ogni mese, ogni anno sempre più pesante. Macigni da spingere, issare. La mia identità chiusa con lo spago in una scatola. La mia precarietà appresso, che mi insegue, come un’ombra [Franceschini 2008, 73].

Parole dure e immaginari evocati che appartengono a molte generazioni di emigranti, ma in questa etnografia inconsapevole non si delinea il senso di una irrimediabile frattura con il proprio passato e il proprio mondo, una sorta di apocalisse culturale che spesso ha accompagnato la letteratura dell’emigrazione italiana; c’è, al contrario, il desiderio di stabilire continuità e ricostruzioni attraverso difficoltà e opportunità. Le protagoniste di queste autobiografie, tuttavia, reagiscono e ricostruiscono continuamente se stesse. Sono esempi autorevoli anche per le donne europee di come si possa avere una propositiva consapevolezza del sé oltre i ruoli e il genere:

Adesso non ho più paura. Vedo l’universo per intero, senza sgomento. E quello che vedo, lo accetto. Non è la misura delle cose a fare l’esistenza, ma il modo in cui sono vissute. Tutto cambia se cambia lo sguardo. L’unico vero delitto è tenere gli occhi chiusi. La mia non è una bella vita. Lavoro a ore nelle case dei ricchi. Permetto alle loro donne di essere libere. In cambio, ricevo dei soldi, non molti a dire il vero. Ma immagino che non sia l’unico prezzo che pagano. Metà stipendio lo mando alla mia famiglia e col resto mi arrangio. Ho quarantacinque anni, e pochi progetti per il futuro. Tornare a casa non posso, i miei morirebbero di fame, e io con loro. Oppure, restare finché le forze me lo consentono, a sgurare pavimenti in Italia. Poi si vedrà. Ma ho la pace dentro. So perché sono nata, e perché cammino su questa terra. Ho compreso. Per questo non temo più nulla. Ho gridato così forte che il Cielo alla fine mi ha risposto, e mi ha detto: ti vedo. Mi ha riconosciuta, solo adesso esisto davvero. Sono entrata nel centro dell’essere, sono arrivata a casa. Adesso un paese vale l’altro, io abito la terra [Franceschini 2008, 98].

La protagonista del romanzo di Sorina rivendica la propria indipendenza e celebra la dimensione fluida del processo migratorio: «Sono entrata nel centro dell’essere, sono arrivata a casa. Adesso un paese vale l’altro, io abito la terra» [Sorina 2006, 98]; mirabile sintesi di quanto ho cercato di sviscerare in queste brevi riflessioni, di una narrazione che contribuisce ad una etnografia che trae

vantaggio dalla competenza letteraria degli scrittori e trae da essi l’uso creativo della comunicazione scientifica del linguaggio, dilatando i confini della comunicazione scientifica : è questa la via migliore per ridare forza, ricchezza e intelligibilità a un gergo che diventa sempre più criptico ed auto referenziale, nello sforzo di comunicare a un esigua minoranza “di addetti ai lavori” quello che tutti potrebbero ascoltare [Scafoglio 2002, 12].

E che ci offre in un colpo solo la possibilità di entrare in relazione con l’alterità, di capirne le più oscure motivazioni e le più stratificate necessità.

Ma nel corso di questi ultimi vent’anni la scrittura postcoloniale ha avuto modo di dare vita ad ulteriori interpretazioni del mondo e a percorsi di scrittura in lingua italiana per continuare a scrivere partiture contrappuntistiche in un linguaggio che supera territorialità e confini. Cresce la possibilità di trovare, come in una partitura musicale, quel contrappunto che è il sale delle nuove armonie delle identità plurime e dislocate in cui coesistono mirabili meticciati e più mondi. Uno spartito contrappuntistico è sicuramente quello relativo alla vicenda della scrittrice Jhumpa Lahiri. La sua scelta linguistica restituisce un uso insospettato della scrittura italiana che non avrebbe avuto modo di esistere e che, invece, ha trovato un nuovo spazio per possibili definizioni e interpretazioni del modo. Lahiri, oggi scrittrice affermata, nata a Londra da genitori immigrati bengalesi trasferiti a New York, è una giovane neolaureata quando visita per la prima volta Firenze; appena sente parlare l’italiano capisce che le è stranamente familiare, che le è necessario e deve apprenderlo. Non sa spiegarsi il perché di un simile, repentino bisogno, ma sa che farà di tutto per soddisfarlo. Dapprima prova a studiare l’italiano nella sua città, New York, con una serie di insegnanti private, ma non basta. Anche le brevi visite successive, a Mantova, Milano, Venezia, non la appagano: vuole immergersi completamente nella realtà della nuova lingua. Si trasferisce a Roma, con tutta la famiglia, e lì comincia la vera avventura, fatta di slanci, entusiasmo e insieme di difficoltà ed estraniamento. Nasce il suo primo libro scritto direttamente in italiano da un’autrice di madrelingua bengalese che ha sempre parlato e scritto in inglese. È la testimonianza di un tenace percorso di scoperta e di apprendimento e di un obiettivo, raggiunto, di potenza e fluidità espressiva. Le storie dei suoi romanzi hanno a che fare con le vicende della sua vita e con le pluri-appartenenze che la contraddistinguono. Coesistono le origini bengalesi e la lingua originaria, e poi la società newyorkese e l’inglese, l’amore e la scelta dell’italiano. Scrittura transculturale e allo stesso tempo postcoloniale in cui entra comunque in campo l’esperienza migratoria.

La migrazione, dunque, investe tratti profondi e costitutivi dell’esistenza umana, come l’eterna paura dell’altro, il rifiuto e l’ostilità per quello che viene percepito come una costosa minaccia, anche sul piano della sicurezza. La scrittura migrante scommette proprio su questi aspetti, intervenendo sul piano di una lingua comune, tramite una narrazione diretta che azzera la distanza dell’estraneità, e ponendosi come un nuovissimo microcosmo della diversità culturale, rappresentativo delle forme della contemporaneità, caratterizzata dalla compresenza di identità plurime all’interno dello stesso soggetto, dallo spostamento di tutti i confini spazio-temporali, dalla creolizzazione, intesa, per dirla con Édouard Glissant, «pratica in atto dell’incrociarsi e del “meticciarsi” delle lingue, delle culture, dei popoli e degli individui» [Glissant 1997, Traduzione mia].

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[1] Parte di questa performance si può visualizzare sul sito http://www.gabriella-ghermandi.it/?qq=spettacoli:regina_di_fiori_e_ di_perle (ultima consultazione settembre 2019).