Libertà, dignità, autorità

Il processo rivoluzionario tunisino e l’attivismo islamico in una prospettiva politico-antropologica

Domenico Copertino

Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo, Università della Basilicata

Indice

Attivismo sociopolitico islamico
Interpretare la democrazia
Libertà e dignità
Pluralismo
Governo islamico
Moderazione
Conclusioni. Soggetti autorevoli
Riferimenti bibliografici

Abstract. The practical and theoretical elaboration of the concepts of democracy and pluralism, pursued by the Tunisian Islamic public, is an aspect of contemporary Islamic discursive traditions and is part of a broader project focused on the declination of a specific form of Tunisian Islamic modernity. I suggest a combined effort of the anthropological and political approaches to social and political activism, to analyze in a more complex way the dynamic interactions between Islamist and da‘wa movements in the MENA region. I refer to both these kinds of activism as the Tunisian Islamic public. I analyze in an anthropological perspective such concepts as pluralism, moderation, democracy. The interpretive paradigm allows to balance the experience-distant concepts of political-anthropological analysis with the experience-near concepts of Tunisian social actors involved in the revolutionary process: I tried to locate the analytical concept of democracy against the background of the ideological and practical tools of the protagonists of the revolutionary process. The sub-categories covered under the broader concept of democracy are closer to social actors’ own experience: I refer to such concepts as freedom, dignity, social justice, pluralism, toleration, governmentality, that are analyzed with reference to both their explicit formulation and implicit understandings by the individuals and groups involved in the revolutionary process. I interpret the quest for an Islamic understanding of such concepts, carried out by the Tunisian Islamic movements after the 2011 Revolution, as part of an authorizing discourse [Asad 1986] about the Tunisian specificity, aimed to legitimate the social and political commitment in the name of Islam. This discourse draws on the local interpretations of Islamic practices, on the work of modern and classical Islamic thinkers, and on the reasoning about democracy and human rights.

Keywords: Islamic public; activism; Arab spring; Tunisian revolution; Interpretativism.

Attivismo sociopolitico islamico

In questo articolo discuto in chiave antropologica le pratiche discorsive relative a democrazia e pluralismo sviluppate dal pubblico islamico tunisino. Lo studio parte da una ricerca sul campo condotta in Tunisia tra il 2012 e il 2015, che è stata svolta grazie a un assegno di ricerca dell’Università di Milano-Bicocca, di cui era coordinatore Ugo Fabietti, e in collaborazione con l’Institut de Recherche sur le Maghreb Contemporain di Tunisi. Il progetto iniziale dell’assegno prevedeva una ricerca sul campo in Siria, finalizzata ad approfondire i temi delle politiche del patrimonio culturale, delle trasformazioni degli spazi urbani e delle relazioni tra le comunità rurali dell’oasi di Damasco e la capitale stessa. Questo progetto era stato ideato a partire dai risultati di una ricerca condotta in precedenza in Siria, durante il dottorato nella medesima università. Tuttavia, negli stessi giorni in cui il mio assegno di ricerca partiva (dicembre 2010), in Tunisia l’autoimmolazione di Mohamed Bouazizi innescava le proteste che portarono alla rivoluzione tunisina, a quella egiziana e alle cosiddette “primavere arabe”, che si manifestarono in Siria inizialmente con le proteste dei “Venerdì della collera”, a partire dal 4 febbraio 2011 [MSNBC 2011; Collier 2011]. Ero consapevole che questi eventi dirompenti richiedevano un ripensamento del mio progetto, che indagava delle questioni completamente diverse e che andava riformulato alla luce dell’enorme cambiamento storico, che portava migliaia di cittadini a praticare forme di partecipazione e contestazione del potere politico ritenute impensabili fino a qualche mese prima. In precedenza, durante il dottorato, ero stato indotto a scegliere argomenti (apparentemente) apolitici proprio a causa dei controlli dei temibili servizi di sicurezza siriani, che mi avevano interrogato ripetutamente durante il mio lungo soggiorno. La nuova forma di contropotere che stava emergendo in Siria nei primi mesi del 2020 sulla scia delle altre “primavere” mi indusse a riformulare il tema (ma non a cambiare il sito) di ricerca, incentrandolo sulla partecipazione politica diretta e sull’emergere di un soggetto complesso, intergenerazionale, interclassista, interetnico e interreligioso, che si autodefiniva “il popolo siriano”. Tuttavia, le proteste furono represse duramente dalle forze dell’ordine e dall’esercito, che arrestarono e torturarono centinaia di manifestanti [MacFarquhar, Stack 2011; RFI 2011; BBC 2011; Human Right Watch 2011; Borri 2014]. Le proteste degenerarono in scontri sempre più volenti tra oppositori e forze di sicurezza del regime; a luglio 2011 gli scontri si erano ormai trasformati in una guerra civile tra gruppi ribelli e forze armate fedeli al regime di Bashar al-Asad. L’infiltrazione di gruppi jihadisti da altre parti del Medio Oriente (nel 2013) e l’invasione del nord della Siria da parte dello Stato Islamico trasformarono la guerra civile in un conflitto di scala regionale.

Tutto questo rese impossibile proseguire il progetto di ricerca in Siria. Contemporaneamente, avevo iniziato a prendere in considerazione l’idea di spostare il campo di ricerca in Tunisia, paese nel quale la rivoluzione proseguiva in modo pacifico e sembrava perseguire gli obiettivi formulati dai soggetti politici protagonisti delle grandi dimostrazioni di dicembre 2010 - gennaio 2011. Dopo una sospensione semestrale dell’assegno, finalizzata a documentarmi e a riscrivere il progetto, e dopo un soggiorno di pre-campo in Tunisia, finalizzato a prendere i primi contatti e a mettere alla prova la mia conoscenza della lingua araba, decisi finalmente di condurre la mia ricerca in questo paese. Stabilendomi inizialmente a Keyrouane e successivamente a Borj Cedria, un sobborgo di Tunisi, assistetti all’inatteso emergere, in Tunisia, di un attore politico che era sembrato assente durante le prime fasi rivoluzionarie: il pubblico islamico[1]. Questo soggetto collettivo multiforme è costituito da una parte dagli attivisti della da‘wa contemporanea, impegnati a diffondere nella società gli stili di vita e i metodi di ragionamento incentrati sulla devozione; dall’altra, dai militanti islamici (o islamiyyun = islamisti) e dagli intellettuali impegnati direttamente nella ricostruzione democratica del paese dopo la rivoluzione del 2010-2011. Il pubblico islamico costituisce una sfera pubblica[2] che attraversa i confini della società politica e civile[3].

La ricerca è stata condotta tra queste persone, con le quali ho interagito attraverso conversazioni libere e interviste in francese, italiano e arabo – sebbene la mia ‘ammiyya (variante mediorientale dell’arabo) siriana, comprensibile ai Tunisini, spesso non mi consentisse di comprendere la darija (variante maghrebina) tunisina - e attraverso l’osservazione di alcune manifestazioni pubbliche, dibattiti e pratiche della da‘wa. Ho scelto i miei interlocutori a partire dalla conoscenza comune di altre persone, secondo una pratica nota come snowball sampling, che avevo utilizzato in precedenza in Siria, dove si era rivelata molto efficace, perché mi consentiva di essere introdotto a nuovi interlocutori da persone che mi conoscevano bene, che non avevano dubbi riguardo alla trasparenza della mia ricerca e delle quali mi fidavo. In questo modo, ho potuto ricostruire liberamente uno schema delle interrelazioni che legano persone e gruppi diversi, all’interno dell’ampia categoria del pubblico islamico.

I principali contributi teorici nel campo dell’antropologia dell’Islam non contemplano l’analisi dell’attivismo sociale e politico islamico[4]. Questo probabilmente è dovuto alla tradizionale distinzione tra i campi dell’antropologia del Medio Oriente e gli studi politologici sulla stessa area. Eppure gli ideorami [Appadurai 2001] politici sul mondo islamico - ad esempio islamismo, salafismo, zaidismo, califfato, potere sultanale, eccezione araba, secolarismo procedurale o integrale, eccetera - circolano nella sfera pubblica e diventano parte del discorso pubblico e della cultura popolare. In questo modo, essi entrano nel vocabolario della gente comune, il soggetto dell’interesse antropologico. In particolare, in Tunisia il discorso pubblico sull’Islam fa parte delle pratiche e dei dibattiti di quei settori della società civile che costituiscono il pubblico islamico contemporaneo.

L’approccio politico-antropologico analizza lo sviluppo delle istituzioni politiche in riferimento ai testi islamici, il Corano, gli Hadith e le opere giuridiche e politiche islamiche, cercando di comprendere come i musulmani trasformino questi testi in modelli di comportamento e organizzazione sociale adeguati per specifici contesti culturali [Asad 1986; Bowen 2012].

Ho seguito le attività di un’associazione della da‘wa chiamata Rabita ash- Shabab ar-Rissali (Lega dei giovani messaggeri). La da ‘wa è intesa in senso stretto come l’invito a pregare rivolto ai musulmani non praticanti, e, in senso più ampio, come la diffusione della cultura, dell’istruzione e della conoscenza dell’Islam e della storia del pensiero e della civiltà islamica, condotta da associazioni della società civile, impegnate nella diffusione del messaggio islamico “dal basso“. Essa era proibita o rigidamente controllata durante il regime di Zine el-Abidine Ben Ali. Dopo la rivoluzione del 2010-2011 e la conseguente apertura democratica, essa si è diffusa ampiamente nella società tunisina. La da ‘wa diffonde le pratiche sociali e le forme di ragionamento appropriate per un modo di vivere rispondente ai principi islamici di vita sociale (mu‘amalat).

La da‘wa è praticata in Tunisia da molte organizzazioni della società civile [Merone, Soli 2013; Sigillò 2016], alcune delle quali erano attive prima della rivoluzione del 2010-2011, sotto il controllo degli apparati di sicurezza e in chiave di sussidiarietà nella gestione del welfare. Dopo la rivoluzione, le organizzazioni della da‘wa sono emerse come

un nuovo attore sociale [...] che era percepito come orientato verso la “moralità islamica”, (motivato) da valori sociali islamici e da un approccio di tipo religioso [...]. Queste nuove reti di beneficenza sono islamiche perchè sono basate sull’attivazione di valori islamici, come la zakat e la devozione religiosa” [Merone, Soli 2013].

Sebbene nessuna delle associazioni della da‘wa tunisina sia direttamente impegnata nell’attività politica formale e il principale movimento-partito islamico tunisino, Ennahda, abbia recentemente rimarcato la necessità di tenere distinte le pratiche della da‘wa da quelle politiche [Grewal 2018; Kherigi 2016; McCarthy 2018; Ounissi 2016], la da‘wa è un’attività che coinvolge la sfera pubblica e affronta questioni politiche, come la salute pubblica, l’istruzione, il benessere sociale, il lavoro, le relazioni di genere. In particolare, alcune organizzazioni svolgono alcune attività che prevedono il coinvolgimento diretto dei dirigenti e militanti dell’Islamismo formale e sono composte da du‘at (attivisti della da wa, sing. du‘ ai) che hanno interrelazioni personali con gli islamiyyun.

Poiché nella mia ricerca sul campo in Tunisia ero interessato a osservare le convergenze tra da‘wa e Islam politico formale, decisi di concentrare l’attenzione su un’associazione, la Rabata ash-Shabbat ar-Rissali, nella quale le sovrapposizioni fra i due campi di pratica e interesse erano evidenti. Il contatto con i fondatori di questa associazione furono facilitati da un militante e parlamentare islamico, Osama as-Saghir, che avevo conosciuto in precedenza. L’osservazione delle interrelazioni tra i due gruppi e della condivisione della medesima cornice concettuale e dello stesso vocabolario (libertà, dignità, diritti umani, eccetera, interpretati in chiave islamica), suggerisce che la netta distinzione tra l’attivismo politico e sociale ispirato da ideali islamici deve essere sfumata.

La Rabit a ash-Shabab ar-Rissali fu fondata subito dopo la rivoluzione; i membri della Rabitaerano soprattutto giovani professionisti e studenti (secondo lo statuto dell’associazione, il limite dell’età dei membri è di 35 anni), figli della classe media di Tunisi che ha conquistato uno spazio di espressione pubblica con la rivoluzione. Ho passato molto tempo conversando con alcuni di loro, come i giovani du at: Yahia che studiava ingegneria nel periodo della mia ricerca, Ridwan laureato in economia e specializzando in finanza islamica alla moschea-università Zeytouna e Achref, un ingegnere, anch’egli specializzando in finanza islamica. Per dare un esempio di cosa intendano i du‘at per adottare pratiche appropriate a modelli di vita islamica, tutti e tre questi giovani coltivavano l’ambizione di cambiare il sistema finanziario tunisino coerentemente con le norme islamiche, sebbene almeno uno di loro, Achref, lavorasse in una banca che non seguiva la shari‘a.

Gli Shabab ar-Rissali si considerano parte del pubblico islamico tunisino, così come gli islamiyyun; la mia ricerca è stata condotta anche tra questi ultimi e in particolare tra i militanti e intellettuali del partito Ennahda (Rinascita), considerato in passato come l’espressione tunisina della Società dei Fratelli Musulmani, sebbene se ne sia allontanata da tempo[5]. Il partito fu fondato nel 1981 dal leader del Movimento della Tendenza Islamica, lo sheykh Rached Ghannouchi, ed è stato illegale fino al 2011. Il pubblico islamico tunisino mira a diffondere un modello di vita pubblica basato sulla re-islamizzazione della società e sull’identità arabo-islamica, allontanandosi dalle ideologie modernizzatrici europee.

Interpretare la democrazia

Il concetto di democrazia può essere esaminato come un “concetto distante dall’esperienza” [Geertz 1987], ovvero uno strumento teorico proprio dell’analisi politico-antropologica, la cui complessità va compresa sulla base dell’interpretazione di “concetti vicini all’esperienza” degli attori sociali, riconducibili al medesimo campo di esperienza; in questo caso, si tratta dei concetti vicini all’esperienza degli attori sociali tunisini coinvolti dal processo rivoluzionario. In una prospettiva interpretativa[6], l’etnografia non è intesa come “afferrare il punto di vista dei nativi”, ma come il tentativo di ridurre le distanze tra i punti di vista dell’antropologo e dei suoi interlocutori. Nella prospettiva interpretativa, l’osservazione partecipante è intesa come un incontro a metà strada tra le visioni del mondo di due soggetti. Questo incontro si consegue bilanciando i “concetti vicini” all’esperienza delle persone e quelli lontani da essa, cioè da una parte le idee a cui le persone ricorrono per interpretare le loro interazioni quotidiane (vicine all’esperienza) e dall’altra il retroterra intellettuale dell’antropologo (distante dall’esperienza delle persone)[7].

Di conseguenza, il concetto analitico di democrazia viene qui discusso in relazione agli strumenti ideologici e pratici dei protagonisti del processo rivoluzionario[8]. In Tunisia, diverse pratiche di partecipazione democratica informano il dibattito pubblico contemporaneo. Lo spazio pubblico della Tunisia post-rivoluzionaria è aperto ad attività e discussioni politiche estremamente differenziate, ciò che dimostra la complessità del cambiamento storico introdotto dalla fase rivoluzionaria del dicembre 2010 - gennaio 2011[9]. Gli studiosi stanno ricostruendo il complesso quadro della sfera pubblica tunisina contemporanea, in riferimento a diverse forme di partecipazione democratica, come l’attivismo giovanile nei dibattiti condotti tramite i social media, le manifestazioni nelle strade, la lotta per la libertà politica condotte dai partiti tradizionali, sia laici che islamici, il coinvolgimento delle classi medie nei movimenti per il cambiamento, le lotte popolari per i diritti dei lavoratori, la giustizia sociale e l’uguaglianza[10]. Inoltre, la prospettiva antropologica analizza concetti e pratiche che, partendo da una definizione ristretta di democrazia, potrebbero apparire antitetiche rispetto a questa, come la partecipazione dell’esercito nel processo democratico e l’egemonia post-rivoluzionaria dell’Islam pubblico[11].

Attraverso la comparazione e la categorizzazione di queste pratiche e concetti sotto l’ampia categoria di democrazia, quest’ultima viene approfondita nella propria complessità. In una prospettiva antropologica, “democrazia” è usata come una categoria analitica abbastanza distante dalla formulazione esplicita degli attori sociali, che in alcuni casi rifiutano il concetto di dimoukratiya (traslitterazione in arabo del termine originale greco) o lo considerano un’ideologia neocoloniale occidentale. Secondo l’intellettuale tunisino Hakim Ben Hammouda, l’idea delle rivoluzioni arabe come parte di un ampio progetto di democratizzazione, modernizzazione ed emancipazione dalla dittatura, condotta nel nome del “potere post-nazionale della libertà”, è condizionata da una prospettiva eurocentrica, che identifica il movimento verso la modernità con la comune evoluzione delle società verso “un universo condiviso di libertà e diritti umani” [Ben Hammouda 2013]. Ciononostante, le sottocategorie comprese nell’ampio concetto di democrazia sono più vicine all’esperienza degli attori sociali e sono analizzate in riferimento sia alla loro formulazione esplicita, sia alle interpretazioni implicite dei soggetti coinvolti nel processo rivoluzionario.

Libertà e dignità

Probabilmente i risultati più evidenti della rivoluzione tunisina sono stati quelli collegati alle idee di libertà politica, di espressione e di associazione [Cantaro 2013; Losurdo 2013; Campanini 2013].Alcuni obiettivi a breve termine sono stati conseguiti nel giro di poche settimane: la precipitosa fuga del tiranno, che è stato il risultato concreto della principale rivendicazione dei manifestanti (“Ash-sha ‘b yurid isqat an-nizam”, il popolo vuole la caduta del regime), che aveva portato alla fondazione del movimento spontaneo Ben Ali Yezzi Fok (Ben Ali, basta!) [Meyssan 2011; Gobe 2012; Piot 2011; Ayeb 2011; Ayari, Geisser 2011; Anderson 2011]; la creazione dell’Alta autorità per la realizzazione degli obiettivi della rivoluzione, la riforma politica e la transizione democratica [Ben Achour 2012]; la sospensione della Costituzione del 1959 [Chouikha 2015]; l’abolizione dello stato d’emergenza; il rilascio degli oppositori politici. Obiettivi a medio termine, conseguiti nel giro di alcuni mesi, sono stati l’organizzazione delle prime elezioni democratiche nella storia del paese e la liberalizzazione del sistema politico. Obiettivi a lungo termine, alcuni dei quali conseguiti nel corso di alcuni anni ed altri in corso di realizzazione, sono stati la scrittura della nuova Costituzione; l’elaborazione di leggi che abolissero la censura, tutelassero la libertà d’espressione e associazione, garantissero l’indipendenza della magistratura e lo stato di diritto [Bouaouina 2013; Chouikha 2015][12].

Il preambolo della nuova Costituzione, approvata il 27 gennaio 2014, elenca tra gli obiettivi del documento la fine della tirannia, dell’ingiustizia e della corruzione e il conseguimento della libertà e della dignità. In effetti, l’arena politica ufficiale tunisina si è aperta subito a tutti i partiti che ne erano esclusi; gli oppositori del regime furono liberati dal carcere o ritornarono dall’esilio.

Oltre alla libertà, la rivoluzione tunisina è stata celebrata per aver promosso l’ideale della karama (spesso tradotto con “dignità”), un ideale che il pubblico islamico ha concepito principalmente come giustizia sociale. Secondo il parlamentare islamico Osama as-Saghir, con cui ho intrattenuto diverse conversazioni tra il 2013 e il 2015, karama significa prima di tutto uguaglianza, intesa come il risultato di un progetto volto a ridurre le differenze socioeconomiche tra i Tunisini, a migliorare le condizioni economiche e a facilitare la promozione sociale dei disoccupati e sottoccupati.

Questo obiettivo è strettamente legato a un’altra sfumatura del concetto di karama, ovvero l’idea dell’indipendenza nazionale contro le interferenze politiche ed economiche internazionali. Sebbene il movimento-partito islamico Ennahda[13] si sia a lungo battuto contro il dominio politico ed economico occidentale, dopo la rivoluzione esso ha dovuto fronteggiare pragmaticamente il rischio della fuga dei capitali europei. Negli anni in cui il partito islamico ha costituito la principale forza governativa (2011-2014), esso ha cercato di mantenere le corporazioni multinazionali nel paese, cercando allo stesso tempo di impedire che il loro potere gestionale ignorasse o infrangesse le leggi dello Stato. Come mi riferì as-Saghir,

se in passato l’Eni o la Benetton volevano fare degli affari in Tunisia, era sufficiente venire qui e parlare con qualche funzionario nominato dal regime e la cosa era fatta; il costo dell’investimento per queste imprese era minimo; la manodopera locale era sottopagata; questo al regime precedente andava bene. Ora le decisioni si prendono secondo la legge e la trasparenza; i lavoratori tunisini sono pagati il triplo di quanto venivano pagati prima. Ecco come si traduce in pratica il concetto di karama.

Il “popolo” che ha condotto la rivoluzione è un soggetto interclassista[14], composto dalle classi medie tunisine, impoverite e prive di rappresentanza politica[15], dalle classi subalterne[16], dai professionisti[17], dai giovani internauti[18]. Per questi soggetti, gli ideali di libertà e dignità hanno avuto significati diversi, ma non incompatibili.

Pluralismo

Nell’autunno del 2013, una campagna pubblicitaria governativa fu condotta in Tunisia attraverso dei cartelloni stradali che recitavano Mukhtalifin wadima mutahdin. Tunis at-tasamah (Diversi eppure uniti. Tunisia, tolleranza) e mostravano il collage dei volti sorridenti di un uomo e una donna [Fig. 1].

Fig.1. Poster in una stazione ferroviaria suburbana di Tunisi, autunno 2013. Il poster è relativo a una campagna governativa finalizzata a promuovere pluralismo e tolleranza. La scritta recita “Diversi eppure uniti. Tunisia, tolleranza”.

I cartelloni trasmettevano l’idea di un mosaico colorato e sfaccettato, emblematico della differenza culturale dei Tunisini. Contemporaneamente, osservando quest’immagine non si poteva fare a meno di notare i segni esteriori dell’appartenenza islamica delle due persone ritratte. Sebbene le loro immagini fossero sfaccettate e composte da frammenti di volti diversi, l’uomo e la donna rappresentati nel cartellone erano immediatamente riconoscibili come musulmani: l’uomo indossava la chechia,il classico copricapo tradizionale tunisino e portava la barba più o meno lunga, a seconda dei diversi pezzi del collage. Il medesimo soggetto maschile fu ritratto in seguito anche in altri cartelloni, leggermente diversi, che recitavano Mukhtalifin mosh mutakhalifin. Tunis at-tasamoh (Diversi, non arretrati. Tunisia, tolleranza) [Fig. 2].

Fig. 2. Poster collegato alla medesima campagna governativa (Tunisi, autunno 2013). L’uomo ritratto, la cui faccia è composta da frammenti di volti diversi, indossa il classico copricapo tradizionale tunisino (chechia) e porta la barba, elementi, questi, che lo identificano come musulmano. La scritta recita “Diversi, non arretrati. Tunisia, tolleranza”.

La donna indossava uno hijab (il velo femminile), uno scialle intorno al collo e un ampio vestito [Fig. 3].

Fig. 3. Poster relativo alla medesima campagna governativa. Il collage colorato e sfaccettato che compone il volto di una donna tunisina è emblematico della differenza culturale dei Tunisini. La donna che indossa un velo islamico (hijab), uno scialle intorno al collo e un ampio vestito, è dunque musulmana. La scritta recita “Diversi eppure uniti. Tunisia, tolleranza”.

Questa campagna governativa fu diffusa in un periodo in cui una parte dell’opinione pubblica accusava la maggioranza a guida islamica dell’Assemblea Nazionale Costituente (ANC) di connivenza con gli islamisti radicali, responsabili dei recenti omicidi politici. La campagna sintetizzava il dibattito sul pluralismo che il pubblico islamico aveva intrapreso durante il processo rivoluzionario tunisino. I vestiti dell’uomo e della donna ammiccavano alle tradizioni locali: in particolare, il copricapo dell’uomo è un oggetto che viene indossato soprattutto dagli uomini anziani in Tunisia. In realtà, l’uomo rappresentato nel cartellone (o meglio il collage di immagini di diversi uomini) era una persona dall’aspetto giovanile. Di conseguenza, la campagna veicolava un messaggio tradizionalista, piuttosto che tradizionale. Commentando quest’immagine, Achref mi disse:

secondo me quell'immagine è un'idea di tolleranza. Vuol dire che qui in Tunisia ci sono differenze. Bisogna rispettare le scelte di vita. Se ad esempio le donne vogliono usare il velo, è una loro scelta. Alcuni vogliono pregare, portare la barba, altri no. Perché queste cose non le impone l'Islam. Non è una dottrina. Ma quel poster dice anche che va rispettata la tradizione islamica del paese. Il singolo va rispettato, ma anche la maggioranza della società, che ha dei valori tradizionali. La nostra è una tradizione di un Islam pluralista e tollerante, che è stata tramandata dalla Zeytouna. Molti venivano a studiare qui dal mondo islamico. Dobbiamo riferirci a questo per fronteggiare il vuoto: far rivivere la tradizione[19].

Il tema delle tradizioni islamiche tunisine fa parte del discorso autorizzante [Asad 1986, Foucault 1973] che il pubblico islamico ha elaborato riguardo alla specificità tunisina (al-khusuiya at-tunisiya), i cui principali elementi sono l’Islam, la tolleranza, il pluralismo e la moderazione. Come mi riferì Meherzia Labidi, un’influente parlamentare e intellettuale islamista, ad aprile del 2015:

il 97% sono musulmani, per lo più ashariti e malikiti. Questo non vuol dire che dobbiamo considerare il Paese semplicemente come islamico: ci sono diverse idee di religiosità; per alcuni la religione è fondamentale nelle loro vite, per altri no. Dobbiamo inoltre considerare la nostra appartenenza al mondo arabo: senza questo riferimento non possiamo auto-identificarci. Altri sottolineano l'appartenenza della Tunisia al contesto mediterraneo. In questo senso si tratta di pluralismo religioso e culturale, che prevede diversi modi di vivere la differenza[20].

Quest’idea mi fu comunicata anche da Yahia Kchaoui, un giovane da‘ui, fondatore della Rabita ash-Shabab ar-Rissali. Secondo lui, la specificità dell’Islam tunisino risiede nell’abitudine alla differenza:

La Tunisia è piccola, ma ha conosciuto molte civiltà: i Cartaginesi, i Romani, i Fatimidi, gli Andalusi. Non abbiamo molte risorse, ma la nostra posizione geografica è strategica: gli Europei e gli occidentali per andare in Africa devono passare per la Tunisia. È per questo che qui si sono alternate molte civiltà, che sono diventate parti della cultura tunisina. E per questo l’Islam tunisino è aperto […]. Il Corano dice che non ci può essere costrizione nella religione. Questo significa che l'Islam accetta la differenza religiosa[21].

La coesistenza delle differenze è uno degli obiettivi della Rabita, nel cui statuto si legge che l’associazione mira a “promuovere il dialogo (manteq al-hawar) e la coesistenza (at-ta ish al-mushtarek)”. Come mi riferì Achref,

l’idea della coesistenza e del dialogo è diversa da quella della tolleranza: ad esempio, sotto gli imperi islamici le minoranze erano tollerate. Ma noi non abbiamo in mente un’idea di Stato islamico; questo è un paese retto dalla legge, è una Repubblica. L’Islam specifico della Tunisia è pluralista e rispetta le differenze[22].

Questa prospettiva informa il discorso pubblico islamico in Tunisia; molti attivisti e leader, che provengono dalla società civile e dalla da wa, condividono questi valori. Le idee della scelta personale, del pluralismo e della coesistenza permeano il discorso pubblico dei leader islamici [Copertino 2017; Haugbolle, Cavatorta 2012].

Il discorso della specificità tunisina fa riferimento sia al pensiero dei giuristi islamici tunisini, sia alle pratiche religiose tradizionali tunisine (at-tadayun at-taqlidi at-tunisi), come il sufismo e la venerazione dei santi. Secondo lo sheykh Ghannouchi, lo sviluppo del pensiero democratico e la secolarizzazione della sfera pubblica sono elementi della specificità tunisina. Questo discorso inquadra un progetto di modernità islamica indipendente sia del modello europeo che dai progetti dei riformisti islamici non tunisini.

Il pubblico islamico considera la moschea-università Zeytouna come il principale soggetto istituzionale di questo progetto; in epoca pre-coloniale, gli studiosi della Zeytouna avevano sviluppato un programma di modernizzazione finalizzato a inserire i benefici della scienza e dell’amministrazione moderna in una cornice pratica e teorica islamica. Il lavoro intellettuale di questi studiosi ispirò il pensiero dei riformisti tunisini ottocenteschi e, indirettamente, la stesura della Costituzione del 1864, che, per la prima volta nel mondo islamico, limitò i poteri dei governanti. Tecniche e strumenti di governo sviluppati dai pensatori liberali europei furono accolti dai riformatori tunisini, che li adattarono a un quadro teorico che comprendeva gli aspetti specifici dell’Islam tunisino.

Il pubblico islamico trae ispirazione da questo progetto di riforma; il discorso della specificità tunisina fornisce all’intellighenzia islamica un vocabolario per contribuire a questo progetto di modernità, concepito come una trasformazione culturale, sociale e politica, che oltrepassa il tradizionalismo religioso, riprende il razionalismo dei riformatori ottocenteschi e propone un modello di coesione nazionale basato non sulle Scritture e sulla shari'a come riferimenti legali immutabili, ma su un’istanza etica ispirata ai principi fondamentali (maqasid, pl. di maqsud) dell’Islam.

Secondo il da‘ui Achref, la centralità della coesistenza è il principale aspetto della specificità tunisina. Come mi riferì nel 2013:

Gli arkan (i pilastri dell’Islam) non cambiano a seconda del paese in cui i musulmani vivono, ma le proprietà delle società sono diverse in Afghanistan o in Arabia Saudita o in America. Cambiano i contesti culturali. Ad esempio, nella tradizione tunisina uomini e donne sono abituati a lavorare insieme; non è così in Arabia Saudita. Loro sostengono che l’Islam preveda la segregazione. La caratteristica principale della società tunisina è di essere pacifica, moderata. E questa è la caratteristica dell’Islam tunisino, che noi della Rabita rispettiamo pienamente: siamo moderati (wasat), siamo contrari al jihad. L’Islam tunisino è tollerante: è per questo che organizziamo discussioni aperte, con gente che crede, ma anche con non credenti. Questa è laicità; è un quadro di rispetto delle differenze. Uno Stato islamico protegge i non musulmani; il Corano dice «chi vuol credere creda, chi non vuole non lo faccia»[23].

Osama as-Saghir richiamò la mia attenzione su questo aspetto a livello politico:

Nella nuova Costituzione, il principio della libertà di coscienza ha sostituito quello del “rispetto delle altre fedi”: quest’ultimo riguarda solo la libertà religiosa, mentre il primo è più ampio[24].

Da questo si comprende che il pubblico islamico non intende il pluralismo semplicemente come coesistenza di diverse fedi e di diverse visioni dell’Islam, ma come una forma di confronto attivo con gente che non condivide alcuna convinzione religiosa. Come mi riferì Yahia, commentando il principio della Rabita riportato più sopra:

Noi promuoviamo la logica del dialogo (manteq al-hiwar), anche con i non musulmani. L’idea non è fare uno Stato islamico. Siamo in una Repubblica, l’autorità è della legge. Non ci piace il modello dell’impero islamico[25].

Governo islamico

La questione del governo islamico è stata dibattuta durante i tre anni (2011-2014) in cui il partito islamico ha rappresentato la maggioranza dell’ANC ed ha governato il paese. Il dibattito riguardava prima di tutto il riferimento alla shari‘a nella nuova Costituzione e fu promosso dagli ambienti secolaristi tunisini, che accusavano gli islamisti di mirare a fondare uno stato islamico [Labat 2013; Meddeb 2013; Hkima 2015; Benazouz 2015; Blaise 2013].

In realtà, l’opposizione tra i secolaristi e gli islamisti riguardo al progetto di legare la nuova Costituzione ai principi islamici non era netta. Ad esempio, il riconoscimento della morale islamica come un valore basilare e unificante per la società tunisina fu l’argomento di alcuni discorsi del Presidente della Repubblica Beji Caid Essebsi, la cui elezione era stata celebrata da alcuni osservatori come la vittoria del mondo laico che avrebbe posto fine allo “autunno islamico” che aveva seguito la “primavera araba”. Inoltre, il pubblico islamico non era unanime nell’affermare che la shari‘a dovesse informare la Costituzione. Come mi riferì Osama as-Saghir,

Che senso ha inserire il riferimento alla shari a nella Costituzione? La shari a non esiste in sé e per sé, non è un libro! Hai mai visto un libro intitolato La Sharia? Nella nostra [del partito islamico] prima proposta di bozza costituente, avevamo pensato di inserirla, ma proprio in considerazione della sua elasticità, come un fattore di apertura. Sarebbe stato un valore positivo al quale fare riferimento[26].

Questa bozza, presentata a marzo 2012, menzionava la shari‘a come una delle fonti della legge e prevedeva che un’istituzione specifica (majlis ʻala lilifta ) controllasse la rispondenza delle leggi alle norme islamiche [Ben Achour 2012]. Il dibattito che scaturì intorno a questa bozza portò il partito islamico a riconsiderare questo progetto, dal momento che il riferimento alla shari‘a avrebbe costituito un fattore di rottura nella società e avrebbe prodotto un effetto opposto rispetto a quello desiderato. Osama mi riferì:

Ci rendemmo conto che la Costituzione non aveva bisogno che vi fosse messa nero su bianco la conformità alla shari a; essa può essere male interpretata e può creare divisione, come se nella nostra società vi fossero persone pro e contro l’Islam. La società tunisina si era unita nella rivoluzione e non volevamo essere responsabili di una sua divisione. Quindi nella seconda bozza che presentammo, decidemmo di togliere il riferimento alla shari a [27].

Infatti, la successiva bozza costituzionale proposta dagli islamisti non menzionava la shari a. Essi ritennero sufficiente che non fosse emendato il primo articolo della Costituzione del 1959, che riconosceva l’Islam come la religione ufficiale del paese. Questo riferimento generale all’Islam fu accettato dall’ANC e fu riportato nel preambolo dell’attuale Costituzione, che esprime “l’attaccamento del popolo tunisino agli insegnamenti dell’Islam e alle sue finalità, caratterizzate da apertura e tolleranza” e ai “fondamenti della nostra identità arabo-islamica”[28]. Inoltre, l’articolo 1 riferisce: “La Tunisia è uno stato libero, indipendente e sovrano, l’Islam è la sua religione, l’arabo è la sua lingua e la repubblica è il suo regime. Questo articolo non è soggetto a revisione”[29].

Probabilmente, sostenere il riferimento all’Islam nella Costituzione faceva parte della ricerca, da parte del pubblico islamico, di un principio morale tale da attribuire alla classe dirigente post-rivoluzionaria l’autorità che ancora mancava ad essa, dal momento che aveva ereditato le strutture governamentali dal precedente regime[30]. In altri termini, dal 2011 al 2014 il pubblico islamico ha cercato un equilibrio tra queste strutture e un principio sovrano, l’Islam, che lo legittimasse come classe dirigente. Avendo conquistato la maggioranza nell’ANC, il partito islamico aveva ricevuto il compito di guidare la transizione dal potere autocratico di Ben Ali alla democrazia, in una fase complessa per il paese che, oltre alla stagnazione economica,[31] era sotto la minaccia crescente del terrorismo islamico internazionale, che aveva colpito il paese con violenti attacchi senza precedenti nel paese. Ben prima dei tragici massacri del Bardo e di Sousse (2015), i governi a maggioranza islamica avevano dovuto fronteggiare decine di attacchi jihadisti contro obiettivi militari e forze di polizia (i peggiori dei quali a Chaambi il 29 luglio 2013 e a Sidi Bouzid il 23 ottobre dello stesso anno) e diversi omicidi politici (tra cui quelli di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, il 6 febbraio e il 25 luglio 2013). I governi islamici, di conseguenza, accentuarono il carattere tecnocratico dell’esecutivo, concentrandosi sulle politiche securitarie, sempre più distaccate dalla società e dal controllo degli altri poteri[32].

Questa delega di potere era uno degli strumenti del regime di Ben Ali, che la legittimava attraverso lo stato di emergenza e la lotta contro il terrorismo, finalizzata ufficialmente a proteggere l’Occidente e le élite secolari dal terrorismo di matrice islamica. Tale strategia prevedeva la soppressione dell’opposizione politica e la riduzione dei media al silenzio. Una legge antiterrorismo approvata nel 2003 attribuì pieno potere alle forze di sicurezza, legittimando gli arresti arbitrari, la tortura e i processi sommari [Nawaat 2008]. Allo scopo di contrastare gli attacchi jihadisti susseguitisi tra il 2011 e il 2013, i governi guidati dal partito islamico accentuarono questo carattere governamentale del potere esecutivo[33] e rafforzarono l’apparato di sicurezza, che, nonostante il cambio di regime, era rimasto intatto dopo la rivoluzione [Bel Hadj Amor 2013][34].

Forse allo scopo di controbilanciare questa preoccupante continuità con il precedente regime, del quale il movimento islamico è stato tra i più tenaci oppositori, gli islamisti cercarono un equilibrio tra un principio morale (l’Islam) e il potere governamentale ereditato dal regime autocratico. Il riferimento alla religione nella Costituzione è finalizzato alla ricerca della sovranità della legge, la cui autorità in questo caso è collegata con il messaggio divino come fondamento del potere, malgrado la situazione di frammentazione governamentale dei poteri dello Stato.

Il riferimento religioso, in altri termini, è una tattica all’interno della ricerca di un principio autorizzante della sovranità. Si può considerare come parte di questa tattica il rifiuto, da parte dello sheykh Ghannouchi, di qualsiasi ruolo istituzionale; il presidente del partito islamico ha mantenuto il proprio ruolo di guida morale, politica e strategica per gli attivisti e i rappresentanti islamici nell’ANC. Questo ha contribuito a mantenere l’equilibrio tra le forze secolari e quelle religiose, e la triangolazione delle forme di potere.

Piuttosto che considerare la democrazia e l’autoritarismo come forme di organizzazione politica radicalmente opposte, l’analisi comparativa delle forme di potere (potere governamentale, tecnocrazia, governo islamico) mostra le convergenze tra questi sistemi e la continuità tra il potere autoritario in Tunisia e le forme di potere emergenti.

Moderazione

Un altro elemento del discorso sulla specificità tunisina è la moderazione dell’Islam locale, in contrapposizione con un Islam “esogeno“ e radicale. A marzo del 2015, un influente imam, Houcine Laabidi, fu rimosso dal proprio incarico alla moschea-università Zeytouna, con l’accusa di pronunciare sermoni (khutba) radicali e di promuovere la violenza. Questa decisione, presa dal Ministro degli affari religiosi, faceva parte di una campagna finalizzata a riportare sotto il controllo dello Stato le associazioni islamiche e le moschee “illegali”, edificate spontaneamente, senza alcun permesso pubblico. Il 3 aprile 2015 ebbe luogo la prima preghiera collettiva del Venerdì (al-jumu a) dopo la rimozione dell’imam Laabidi, alla presenza del Primo ministro Habib Essid e dello stesso Ministro degli affari religiosi. Lo spiegamento delle forze di polizia era imponente ed io stesso fu fermato e interrogato da alcuni agenti, insospettiti dal fatto che stessi scattando delle foto e girassi in cerca di un conoscente che dovevo incontrare.

La campagna governativa contro l’Islam estremista faceva parte del discorso sull’Islam specifico della Tunisia, pluralista e moderato, il cui centro di elaborazione è la moschea-università Zeytouna. Come mi riferì la deputata islamista Imen Ben Mohammed,

l'Islam tunisino è moderato. Questo lo dimostrano le opere di Yadh Ben Achour, che ha portato l'illuminismo nell'interpretazione dell'Islam e del Corano. Il nostro Islam locale è malikita ed è stato elaborato dai nostri ‘ulema’ della Zeytouna[35].

L’Islam “esogeno” e fondamentalista, ispirato al wahabismo, è ritenuto responsabile dei numerosi atti di violenza contro alcuni luoghi tradizionali di venerazione, come le sedi delle confraternite sufi (zaouiat) e le tombe dei santi, che si sono susseguiti dal 2011. Durante una conferenza sulla tolleranza religiosa, che si svolse a Tunisi il 16 febbraio 2013, Mazen Cherif, vice-presidente dell’Unione delle confraternite sufi, riferì della distruzione di alcuni mausolei e della violenza contro i pellegrini, perpetrati da giovani indottrinati da predicatori wahabiti, che avevano frequentemente visitato la Tunisia e costretto molti imam locali ad adeguarsi alle loro visioni politiche e religiose. Molte moschee, tra le quali proprio la Zeytouna, erano cadute sotto il controllo di questi predicatori.

L’opposizione tra l’Islam locale e quello esogeno è stata sottolineata dopo gli attacchi al museo del Bardo, a marzo 2015. Come mi riferì Achref,

bisogna uscire con gente diversa, parlare con chi la pensa diversamente. Bisogna dimostrare apertura e fiducia (ṣada qa), sorridere. Perché il musulmano è uno che spiega le cose per cui vive e soffre. Se uno mi dice che sono un terrorista, non rimango chiuso in casa, ma esco e gli spiego le mie ragioni […] L'Islam tunisino è pacifico e tollerante; è contrario alla violenza e al jihad[36].

Il mio informatore Ridwan, parlando del rifiuto della violenza e degli accessi da parte dell’Islam pubblico tunisino, utilizzò un hadith, riportato da Abu Dawud, secondo il quale il Profeta Muhammad ammonì i propri Compagni (as-sahabah) dicendo: “Guai a quelli che si abbandonano agli eccessi! (al-mutanatti’un)”. Ridwan contrappuntò il suo riferimento alla Sunna con una citazione dal Corano: “Non eccedete. Dio non ama quelli che eccedono” [Cor 5, 87]. Infatti, uno degli obiettivi della Rabita, di cui egli faceva parte, recita: “Diffondere i valori della moderazione (al-wasatiyya), definire i significati autentici (al-haq iqiyya) e tentare di purificarli dalle deformazioni (tashuwiyya) e distorsioni (tahrif)”. Come mi spiegò il mio informatore Yahia,

c’è una definizione sbagliata di wasatiyya. Molti dicono di essere al centro dell’Islam, ma cosa vogliono dire? Per questo noi dobbiamo afferrare il senso autentico delle Scritture e correggere queste interpretazioni sbagliate[37].

Da questo si comprende come i giovani du at sentano il dovere di impegnarsi in un progetto educativo, finalizzato a diffondere i valori che essi considerano caratteristici dell’Islam specifico della Tunisia: il pluralismo, la moderazione, la democrazia.

Conclusioni. Soggetti autorevoli

Nella mia ricerca tra gli attivisti del pubblico islamico tunisino, ho constatato che molti musulmani partono dallo studio dei testi sacri e dalle opere giuridiche e politiche islamiche classiche e moderne e collegano questi testi alle questioni sociali e politiche nazionali contemporanee (libertà, uguaglianza, diritti umani, pluralismo, autorità, sovranità). Questi attori sociopolitici si considerano i continuatori di una tradizione particolare (l’Islam specifico della Tunisia), collegato al quadro generale dell’universalità dell’Islam. I significati culturali collegati con l’essere musulmani nella Tunisia postrivoluzionaria emergono da questa relazione locale/universale. I grandi temi politici e giuridici dell’Islam sono manipolati e collegati al contesto specifico, ai valori e bisogni della Tunisia contemporanea e suscitano dibattiti tra i musulmani tunisini su quali elementi di questa manipolazione possano essere legittimamente considerati islamici.

Piuttosto che affermare semplicisticamente che nell’Islam le sfere della politica e della religione siano fuse, bisogna chiedersi - in chiave antropologica - cosa si veda, quando si osservano le attività di persone che legittimano il proprio impegno sociale e politico attraverso il riferimento alla religione [Strenski 2010]. In altri termini, osservando le (e partecipando alle) attività di un islamiy o di un da’ui, si vedono (e si partecipa ad) attività politiche o religiose? A questa questione centrale, alla quale la ricerca etnografica tra il pubblico islamico contemporaneo cerca di rispondere, fanno da corollario altre domande: si può determinare l’interpretazione appropriata delle scritture islamiche, allo scopo di comprendere se l’Islam giustifichi l’attivismo sociale e politico? Degli studiosi, attivisti e politici laici possono considerare se stessi (ed essere considerati dagli altri musulmani) interpreti autorevoli delle fonti islamiche?

L’interpretazione autorevole dipende dal consenso (al-ijma') della maggioranza dei musulmani. Le ricerche antropologiche hanno mostrato l’ampia circolazione nel mondo islamico contemporaneo, in particolare in Medio Oriente, di voci che considerano se stesse e sono riconosciute come autorevoli da maggioranze multiformi di musulmani. Molte società musulmane non concordano sull’autorità di singoli studiosi e sui termini nei quali i comuni musulmani dovrebbero accettare le loro affermazioni [Hefner 2005].

La recente re-islamizzazione di molte società musulmane - come la Tunisia - crea spazio per il dibattito, la contestazione e la partecipazione democratica.

L’interpretazione indipendente delle fonti da parte del singolo studioso per delineare i modelli di comportamento impostato sulla devozione, ciò che viene definito ijtihad, ha un’ampia base sociale in Tunisia, considerando l’alta percentuale di persone alfabetizzate e con un’istruzione superiore, che pone il sistema educativo tunisino ai massimi livelli nel mondo arabo [Anderson 2011], e tenendo presente l’ampia diffusione di competenze di lettura e comprensione delle fonti religiose, spesso conseguita attraverso metodi autodidattici, libri economici, cassette e nuovi media [Eickelman, Anderson 2003]. Questo probabilmente significa che la distinzione verticale delle tradizioni discorsive islamiche (da una parte le idee e pratiche dei comuni musulmani e dall’altra le raffinate riflessioni delle élite degli studiosi di religione) in Tunisia è più sfumata rispetto ad altri contesti islamici. Gli intellettuali islamici con cui ho lavorato, avendo studiato in università tunisine e occidentali secolari, non si sono specializzati nel sistema educativo tradizionale delle madrase e delle moschee-università, ma hanno approfondito le discipline islamiche da autodidatti, attraverso le letture collettive e i dibattiti pubblici. Di conseguenza, essi sono capaci di collegare i testi islamici ad argomenti contemporanei, come lo sviluppo scientifico e tecnologico, la democrazia e i diritti umani. Essi fanno parte di una classe transnazionale di nuovi intellettuali islamici [Eickelman, Piscatori 1996; Esposito, Voll 2001], professionisti, insegnanti e predicatori la cui educazione, i cui metodi e obiettivi sono diversi da quelli degli "ulema" tradizionali.

La da‘wa contemporanea è praticata da un pubblico colto. Infatti le pratiche testuali dei du‘at prevedono il riferimento scritturale come base per il dibattito sulla appropriatezza di una certa pratica. I du at sono capaci di collegare le pratiche di devozione con la conoscenza delle scritture. Ad esempio, durante una conversazione sul giudizio divino e umano, Yahia citò a memoria due versi del Corano, secondo i quali Dio mostrerà agli esseri umani il risultato delle loro azioni nel Giorno del giudizio: “Chi avrà fatto anche solo il peso di un atomo di bene, lo vedrà. E chi avrà fatto anche solo il peso di un atomo di male, lo vedrà” [Cor 99: 7-8].

Gli obiettivi della Rabita Ash-Shabab ar-Rissali comprendono lo studio e l’insegnamento dei principi islamici e il dibattito pubblico in tutti i contesti della vita quotidiana. Oltre al Corano, nelle nostre conversazioni essi spesso facevano riferimento alle opere dei pensatori islamici classici e contemporanei. Parlando delle relazioni tra l’Islam e altre religioni, Ridwan citò un passaggio da un giurista islamico: shari‘ a min qublana huwa shar ‘ia linna mahi ikhalifna (la legge dei nostri predecessori è la nostra legge, se questa non ne è contraddetta).

Il pubblico islamico tunisino usa le fonti scritturali (il Corano e gli Hadith) e le opere degli intellettuali islamici classici e moderni come una cornice per il dibattito pubblico riguardo ai modelli pratici che consentono di condurre una vita attiva e devota, impegnata nella diffusione del messaggio islamico, attraverso la lettura dei testi, il riferimento alla tradizione e l’esempio pratico. Di conseguenza, l’attività del pubblico islamico è finalizzata a riformare e ricostruire le tradizioni discorsive islamiche.

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[1] Merone, Sigillò, De Facci includono in questa definizione l’attivismo radicale e spesso violento dei gruppi cosiddetti “salafiti” [Merone, Sigillò, De Facci 2018], come Ansar ash-Sharia, che io escludo, limitando l’indagine alle forme di partecipazione democratica di ispirazione islamica. In generale, includo nel pubblico islamico coloro che adottano qualche forma di attivismo collettivo e si presentano come attori politici che si soggettivano in relazione alla propria identità musulmana.

[2] Cfr Habermas che, dopo aver escluso dalla propria definizione di sfera pubblica le espressioni pubbliche delle associazioni religiose [Habermas l974; 2005], in lavori più recenti ha ampliato la definizione, includendovi l’attivismo religioso [Habermas 2006; Habermas et al. 2010].

[3] Il concetto di “società civile” può essere analizzato come un concetto lontano dall’esperienza [Gramsci 1966], sulla base della ricerca etnografica tra queste associazioni islamiche. Infatti il concetto è stato ampiamente dibattuto in antropologia e gli studi basati su contesti nordafricani e mediorientali hanno contribuito ad approfondire la sua complessa definizione. Sebbene diversi studi sulle società civili nordafricane si concentrino principalmente sulle attività e discorsi delle organizzazioni laiche, e il dibattito pubblico tunisino si sia a lungo incentrato sulla netta polarizzazione tra i partiti politici, in crisi di legittimità e di consenso, e quella che è stata spesso definita la società civile tunisina per eccellenza (Union générale tunisienne du travail, Union Tunisienne de l'industrie, du commerce et de l'artisanat, l’Associazione nazionale degli avvocati, la Lega dei diritti umani), mi concentro qui sulle attività di partecipazione democratica delle associazioni islamiche impegnate nella diffusione delle pratiche di devozione nella popolazione, ciò che è comunemente conosciuto come da‘wa.

[4] Non mi riferisco agli studi specifici di carattere socioantropologico sull’Islam “politico” (cfr ad es. Etienne 1989, 2003; Philippon 2011; Tozy 2008, 2009), ma agli studi che si pongono l’obiettivo di definire l’Islam, in chiave antropologica, come oggetto di studio specifico. La dimensione dell’attivismo sociopolitico non è contemplata tra gli elementi che questi studi individuano come tratti comuni alle innumerevoli tradizioni comprese dalla grande categoria di “Islam”. Se questo è ovvio per gli studi teorici sull’Islam condotti prima dell’emergere dell’attivismo sociale-religioso [Gellner 1981; Asad 1986; Geertz 1968: el-Zein 1977], non lo è altrettanto per studi teorici più recenti, condotti in piena “reislamizzazione” [Gilsenan 1982; Marranci 2008; Lukens-Bull 1999; Varisco 2005; Bowen 2012].

[5] I leader e attivisti di Ennahda recentemente hanno preso le distanze in generale dall’islamismo [Bobin 2016; Hearst, Oborne 2016; Kherigi 2016].

[6] Nell’approccio di Geertz, la cultura è intesa come una rete di significati i cui nodi devono essere sciolti dall’analisi socio-culturale [Geertz 1987]; così come il linguaggio, l’azione sociale è intesa come un complesso di simboli che gli antropologi arrivano a comprendere e interpretare attraverso l’esperienza etnografica. Dal momento che la gente interpreta questi simboli nelle proprie interazioni quotidiane, l’osservazione dell’azione sociale è finalizzata a comprendere la loro interpretazione. Il primo passo della ricerca sul campo è la descrizione di queste interazioni simboliche, ciò che Geertz definisce “descrizione esile”; il passaggio successivo è l’interpretazione di queste interazioni da parte dell’etnografo. Poiché queste interazioni comprendono le interpretazioni delle persone, il lavoro dell’etnografo è concepito come una interpretazione di interpretazioni; questa si consegue attraverso la “descrizione densa”, che include l’osservazione dell’interazione, il resoconto delle interpretazioni delle persone e l’interpretazione dell’etnografo delle loro interpretazioni. Cfr. anche Fabietti 2000.

[7] L’etnografia non è intesa come una collezione di idee e pratiche esotiche, ma piuttosto come la costruzione di un terreno comune tra diverse culture. Questo porta l’antropologo a superare la percezione dell’alterità nella descrizione delle culture, un risultato particolarmente utile per lo studio antropologico delle culture mediorientali, dal momento che esso si è concentrato a lungo su quei tratti e visioni del mondo suscettibili di riprodurre esoticità e alterità. Lila Abu-Lughod ha criticato questa concentrazione di ricerche etnografiche intorno a quelle che ha definito le “zone di teoria” [Abu-Lughod 1989]: la teoria dello harem (che si occupa della segregazione dei generi), la teoria della segmentazione (riguardante il tribalismo e concentrata sull’immagine degli Arabi come homines segmentarii), l’Islam (inteso come metonimia teorica per un mondo in cui tutto è influenzato dalla religione). Queste zone di teoria interessano lo studio antropologico delle culture arabe, mentre altri “concetti guardiani” [Appadurai 1986] riguardano il contesto turco (il dispotismo) e persiano (l’economia di bazar).

[8] In questo senso, il saggio si propone come un contributo al dibattito dell’antropologia della democrazia, un campo di interesse i cui confini e argomenti sono in corso di definizione [Paley 2002]. Il principale obiettivo di questo dibattito è comprendere i significati specifici e le diverse interpretazioni del concetto di democrazia, attraverso la comparazione tra le culture e il riferimento ai discorsi globali che informano la concettualizzazione e l’esecuzione delle pratiche di partecipazione democratica in diversi contesti.

[9] Ayari e Geisser considerano il susseguirsi di manifestazioni pubbliche e lotte democratiche, verificatesi in Tunisia tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011 e culminate con la fuga dell’ex presidente Ben Ali, come una fase di un processo rivoluzionario più ampio, iniziato intorno al 2008, con le lotte dei minatori di Gafsa e probabilmente non ancora concluso [Ayari, Geisser 2011].

[10] Anderson 2011; Achcar 2013; Alfieri 2013; Ayari, Geisser 2011; Ayeb 2011; Bellin 2011; Ben Achour 2012; Ben Hammouda 2013; Campanini 2013; Cantaro 2013; Copertino 2017a, 2017b, 2018; Corrao 2011; El-Houssi 2013; Filiu 2011; Gobe 2012; Goldstone 2011; Losurdo 2013; Merone, Cavatorta 2012; Northwestern University in Qatar 2012; Piot 2011; Rizzi 2011; Rizzo 2013; Schraeder, Redissi 2011; Shaybeddine 2011; Shokr 2011; Mernissi 2001; Benhabib 2006.

[11] Salvatore e Eickelman definiscono “Islam pubblico” il complesso di attività sociali e politiche, pratiche argomentative, dibattiti e quadri teorici impostati sul riferimento religioso, che portano la religione islamica al centro della sfera pubblica di molte società mediorientali contemporanee [Salvatore, Eickelman 2004]. Il discorso islamico sulla democrazia include concetti quali nasiha (il consiglio dato dagli studiosi ai governanti), shura (l’organo elettivo della Umma), ijma’ (il consenso degli studiosi in merito alle innovazioni legislative), ‘ilmaniyya (il secolarismo in accordo con le idee islamiche di conoscenza e progresso),‘almaniyya ‘ijra ’iyya e ‘almaiyya juz ’iyya (secolarismo procedurale e parziale, ovvero la separazione dei poteri, in contrasto con il secolarismo integrale almaniyya shamila e l’esclusione della religione dalla vita pubblica), addawla al-madaniya (Stato civile, che include la religione tra i propri fondamenti, in opposizione allo Stato secolare, ad-dawla al-‘almaniyya, che esclude la religione e lo stato teocratico, che sottomette le moschee, le madrase e le altre istituzioni religiose), mujtama ‘al-madani (la società civile, che si origina nelle madrase, nei madhab giuridici, nelle confraternite sufi, nelle fondazioni religiose waqf e nelle moschee-Universitá), ‘adāla ijtim ā‘iyya (giustizia sociale), hurriyya wa karama (libertà e dignità, lo slogan della rivoluzione del 2011, intese come sovranità della Umma e la protezione della gente dell’ingiustizia sociale e dal dispotismo).

[12] Cfr. anche <http://nawaat.org/portail/2013/05/15/tunisiela-constitution-en-10-questions/>;

<http://www.marsad.tn/fr/ vote/52d06c2f12bdaa77218c88d8>;

<http://www.hrw.org/fr/news/2013/05/13/tunisie-le-projet-de-constitution-doit-etre-revu;

[13] Il partito oggi non si definisce più “islamico”. Molti dirigenti e attivisti preferiscono la designazione di “musulmani democratici” [cfr. infra, nota 6; Ghannouchi 2016; Ounissi 2016; Kherigi 2016].

[14] Kilani propone di sostituire la nozione di popolo con quella di “moltitudine” [Kilani 2015], mutuata da Hardt e Negri per descrivere il soggetto collettivo della rivoluzione tunisina [Hardt 2002; Negri 2004].

[15] Le classi medie avevano costituito la base sociale del consenso ai regimi autocratici, che assicuravano il sostegno dello stato sociale in cambio della mancanza di libertà. Lo Stato provvedeva alle loro necessità consentendo che esse traessero alcuni benefici dal potere corruttivo. Dopo il 2000, queste classi medie si erano progressivamente impoverite; le giovani generazioni di queste classi vivevano la contraddizione di essersi formate grazie all’istruzione pubblica superiore e, contemporaneamente, di essere frustrate nella propria aspirazione all’ascesa sociale.

[16] Ad esempio, i lavoratori delle miniere di Gafsa, che avevano condotto violente proteste sin dal giugno 2008. In generale, le regioni interne della Tunisia si erano impoverite nel corso degli ultimi decenni, pur essendo ricche di risorse agricole e minerarie, che erano sfruttate a vantaggio delle élite urbane, concentrate soprattutto al nord e nelle aree costiere del paese. Molti giovani tunisini, come Mohammed Bouazizi, martire e simbolo della rivoluzione, erano costretti a vivere in condizioni inferiori alle loro aspettative, disoccupati o impegnati nel settore informale.

[17] Alle dimostrazioni del dicembre 2010 - gennaio 2011, ad esempio, parteciparono l’Ordine degli avvocati e l’Associazione dei magistrati tunisini.

[18] La partecipazione di questa componente sociale alla rivoluzione è stata inizialmente sopravvalutata, tanto da portare gli osservatori a coniare definizioni quali “Rivoluzione di Facebook”, “Rivoluzione di Twitter”, “A very techie revolution” (Ben Wedeman, CNN).

[19] Conversazione con l’autore: Tunisi, ottobre 2013.

[20] Conversazione con l’autore: Tunisi, aprile 2015.

[21] Conversazione con l’autore: Tunisi, aprile 2015.

[22] Conversazione con l’autore: Tunisi, aprile 2015.

[23] Conversazione con l’autore: Tunisi, ottobre 2013.

[24] Conversazione con l’autore: Tunisi, novembre 2013.

[25] Conversazione con l’autore: Tunisi, aprile 2015.

[26] Conversazione con l’autore: Tunisi, marzo 2015.

[27] Conversazione con l’autore: Tunisi, marzo 2015. Quest’idea era condivisa anche da Ghannouchi’s : “Nous ne voulons pas que la socié tunisienne soit divisée en deux camps opposé s id éologiquement, lun pro-charia et lautre anti-charia. Cela ne nous ré jouit pas et cest trè s grave. Nous voulons plut ô t une Constitution qui soit pour tous les Tunisiens quelles que soient leurs convictions […] Lessentiel, cest que les Tunisiens sont aujourdhui unis autour de lislam et de la d é mocratie […] Lislam nautorise pas de traiter autrui de mé cr éants” [Naudé 2012].

[28] Tunisian Constitution of 2014, Full Text, in https://www.constituteproject.org/constitution/Tunisia_2014.pdf (access 6/12/2016). Sulla questione identitaria nella nuova Costituzione tunisina Campisi [2015].

[29] Ib.

[30] Nella teoria di Foucault, la governamentalità è il potere dei regolamenti anziché della legge, ed è appannaggio del potere esecutivo piuttosto che del sovrano [Foucault 1978],. L’orientamento moralizzante di quest’ultimo è escluso dallo Stato governamentalizzato, che non ha bisogno di alcun principio etico per svolgere i propri obiettivi di governo. Allo stesso tempo, la governamentalità recupera la sovranità e la legge come tattiche di autolegittimazione [Butler 2004]. Di conseguenza, nel ragionamento di Foucault la governamentalità non esclude la sovranità e la disciplina: Foucault non teorizza un processo evolutivo lineare tra queste forme di potere. Egli individua una relazione di complementarità (o triangolazione) tra di esse, dal momento che la gestione della popolazione (l’obiettivo del potere governamentale) coinvolge la sua disciplina, e la disciplina della popolazione implica la questione del principio autorizzante che sostiene la sovranità.

[31] Oggi, a dieci anni dalla rivoluzione tunisina, questa situazione è stata aggravata ulteriormente da una serie di eventi: la guerra in Libia e la conseguente destabilizzazione del Paese, che aveva era stato a lungo meta dell’emigrazione di centinaia di migliaia di lavoratori tunisini [Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo 2019], che non possono più spostarsi nel paese confinante; la crisi economica del 2018 e la pandemia da Covid-19 hanno avuto gravi ripercussioni in Tunisia, dove la disoccupazione, soprattutto giovanile, rimane un problema che la rivoluzione non ha risolto.

[32] Secondo Butler, che ha efficacemente sintetizzato il ragionamento di Foucault, il potere governamentale si esercita attraverso regolamenti che rimpiazzano le leggi dello Stato e non sono vincolati al diritto internazionale. Di conseguenza, il potere è delegato a dirigenti pubblici che agiscono come soggetti manageriali a sovranità limitata, interpretando e mettendo in atto i regolamenti unilateralmente. La sovranità è concepita come un’autorità extralegale, che può istituire e mettere in atto leggi di propria iniziativa [Butler 2004].

[33] Ad esempio, il precedente Ministro degli interni, Ali Laarayadeh, già a capo dell’apparato di sicurezza ereditato dal precedente regime, fu nominato primo ministro, in risposta alle complicazioni dell’affaire Belaid.

[34] Inoltre, la nuova Costituzione tunisina non definisce l’equilibrio di potere tra i regolamenti governamentali e la legge: i diritti dei condannati sono enunciati in astratto e la struttura costituzionale della polizia e delle forze di sicurezza non è ben definita [Roach 2013]. La bozza della legge antiterrorismo, discussa tra il 2014 e il 2015, fu criticata da una parte dell’opinione pubblica tunisina; Human Rights Watch sostenne che essa confermava il potere arbitrario della polizia e conteneva “una definizione vaga e ambigua di attività terroristica, che consentirebbe al governo di reprimere un’ampia gamma di libertà garantite a livello internazionale” [Human Rights Watch 2015]. Inoltre, essa introdusse la pena di morte. È probabile che la legge antiterrorismo sia stata la causa scatenante del tragico attentato al museo del Bardo, avvenuto in un giorno, il 18 marzo 2015, in cui la legge veniva discussa in Parlamento, la cui sede è attigua a quella del museo.

[35] Conversazione con l’autore: Tunisi, ottobre 2013.

[36] Conversazione con l’autore: Tunisi, aprile 2015. La radice del termine jihad (J H D) è collegata allo sforzo interiore e alla lotta spirituale per comportarsi da buoni musulmani; il principale significato coranico di questo concetto complesso è di una lotta sulla via di Dio, che – nel corso della storia delle civiltà islamiche – è stata intesa come guerra d’attacco, guerra difensiva, lotta di resistenza contro il colonialismo, lotta contro i nemici dell’Isam [cfr. Fabietti 2011; Koensler 2015; Manduchi 2006; Manduchi, Melis 2019].

[37] Conversazione con l’autore: Tunisi, ottobre 2013.