Ritualità d’alta quota, tra politiche culturali e sostenibilità

Laura Bonato

Università di Torino (Italy), Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne

Indice

Amenità
Tenacità
Solidità
Polarità
Riferimenti bibliografici

Abstract. The Italian Western Alpine chain in the last three decades witnessed a considerable process of depopulation, demographic decline and reduction to marginal lands. Recently some local associations aim at protecting their surrounding environment but also at revitalizing regional economy through the reintroduction of local and historically documented cultivations, implementing - sometimes even unconsciously - a real capitalization of what was the know-how but also the community moments that revolved around different practices. In particular, the activity of devoting a specific celebration to ancient crafts, artifacts and traditional clothes, but also to the products of specific crops is a means of attracting tourists and implementing the tourist market.

Keywords: Alps; Entrepreneurial competences; Festival; Sustainability; Value chains

In questo contributo intendo far dialogare uno dei più importanti terreni di ricerca delle discipline demoetnoantropologiche in Italia, l’istituto della festa, e un ambito che mi impegna da qualche anno, l’antropologia alpina, per cercare di delineare le forme che assume la vita comunitaria nelle terre alte e le dinamiche relazionali, materiali e culturali, insieme alle strategie che le stanno ridisegnando. Anche se sono ravvisabili elementi di continuità con il vecchio ciclo calendariale, oggi le feste non sono più lo strumento principale della domesticazione del tempo da parte della comunità, ciononostante molte di quelle che definiamo tradizionali hanno conservato una notevole vitalità: intrecciando nuove funzioni e finalità, rappresentano radici ed esigenze. E le feste di recente impianto risultano spesso organizzate intorno agli assi delle stagioni e ad un’attività produttiva legata a ritmi naturali [Bravo 2013]. Alcuni esempi nelle prossime pagine dimostreranno ancora una volta che il mondo alpino, interessato da secoli sia a traiettorie di mobilità interna sia a flussi migratori, in entrata e in uscita, è più che mai in fermento, grazie anche alla presenza di “nuovi montanari” – provenienti dalle città o, comunque, da zone extra-montane – che, socializzati in larga parte altrove, portano con sé un bagaglio di valori, consuetudini, competenze per lo più differenti dai locali [Dematteis 2011].

Una serie di studi etnografici di comunità ha caratterizzato – a grandi linee – la prima fase della storia dell’antropologia alpina a livello internazionale, verso la fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, come pure in Italia a partire dal decennio successivo. Ma nel nostro paese, dalla seconda metà degli anni Settanta, gli studiosi torinesi si sono orientati verso la mappatura delle feste, collegando il fenomeno della riproposta della ritualità tradizionale «alla complessa ricostruzione identitaria post-industrializzazione e al processo di “tradizionalizzazione della modernità”» [Porcellana 2009, 41-42]. Identità, musei e rappresentazioni sono i concetti intorno ai quali negli ultimi anni sta operando l’antropologia alpina, che secondo Viazzo [2014] è entrata in una terza fase, ponendo sempre più l’attenzione sulla composizione delle comunità locali e, di conseguenza, sui cambiamenti da un punto di vista non solo demografico ma anche socioeconomico; come pure sul fenomeno di ritorno verso le terre alte: indagarne il potere sociale mette in luce l’importanza di un recupero culturale che passa ad esempio attraverso il ripristino di attività commerciali cadute in disuso, la riapertura di rifugi, il restauro di edifici e di intere borgate abbandonate, la ripresa di colture abbandonate – come nel caso qui indagato –, la riproposta di feste dimenticate, contestualmente ad una crescente attenzione all’ambiente e alla nascita di un turismo sostenibile, responsabile, dolce. Questo spontaneo recupero, che è al contempo economico, culturale e turistico, gioca un ruolo significativo – e fortificante, a mio parere – nell’interazione, nella collaborazione e negli scambi tra le comunità locali e funziona da trait d’union fra tradizione e contemporaneità.

L’antropologia alpina ha iniziato ad indagare tematiche quali, ad esempio, il rapporto tra abitanti e ambiente, lo sviluppo sostenibile e l’innovazione territoriale, il recupero di attività agricole e artigianali e la patrimonializzazione di saperi e saper fare, che hanno stimolato l’invenzione di nuove feste: anzi, per la precisione, si tratta di pratiche in passato quotidiane, oramai desuete, che si sono trasformate in significativi momenti di aggregazione e socialità.

Amenità

Nel nostro paese gli anni del boom economico sembravano aver decretato la fine della festa perché «i nuovi modelli della cultura di massa spingevano […] al rifiuto della tradizione» [Satta 1988, 202]. Ma alla fine degli anni Settanta, inizio degli anni Ottanta, del secolo scorso alcune ricerche condotte da Gian Luigi Bravo e da un gruppo di giovani ricercatori torinesi in diverse località montane e collinari piemontesi evidenziavano fenomeni non tanto di residuale persistenza quanto soprattutto di attiva riproposta e rivitalizzazione delle tradizioni popolari. Notando che la vivacità dell’apparato festivo non era «tanto connessa a territori isolati e protetti dall’impatto dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione […] quanto piuttosto a zone coinvolte in processi di scambio con il contesto più ampio e con la città» [Bravo 2005, 57], e prendendo le mosse dall’analisi della riproposta nel 1978 di una sacra rappresentazione a Belvedere Langhe (CN), la Passione di Cristo, Bravo focalizza la propria attenzione su protagonisti e promotori di tali iniziative – persone attive nelle istituzioni e negli apparati produttivi delle strutture sociali contemporanee – che definisce “pendolari”: sono i non residenti stanziali, coloro cioè che quotidianamente non solo si spostano sul territorio per motivi professionali o di studio, ma che agiscono in contesti socioculturali differenti sfruttandone l’inedita permeabilità e compresenza. Gli stessi risultati ottenuti da indagini ripetute in altre località piemontesi, dove i più attivi sia come organizzatori sia come attori erano i pendolari, inducono Bravo a teorizzare che quelle quotidiane e molteplici opportunità di vita, quella multiappartenenza, determinavano una perdita di orientamento in chi pendolava strumentalmente all’interno della società assumendo ruoli distinti, cercando di massimizzare i propri interessi, i propri profitti: quanto più elevata è la pendolarità «tanto più labile risulta l’identità dei soggetti interessati, e tanto più intenso dovrebbe pertanto risultare il loro tentativo di recuperarla o ricostruirla» [Bravo 1984, 12]. Ecco allora che secondo Bravo la partecipazione alla festa è la risposta attiva – e creativa – a problemi della società complessa. Piercarlo Grimaldi aggiunge che:

l’uomo che più esplora contesti sociali differenti […] è colui che più è alla ricerca di tratti della tradizione che per la loro autorevolezza mitica diventano elementi di stabilità e di orientamento cognitivo. […] I tratti affettivi acquisiti nella pratica della tradizione […] favoriscono l’ancoraggio ad un territorio definito che rigenera l’identità sperduta nella complessità metropolitano [Grimaldi 2005a, 12].

Come ho avuto modo di affermare in altre occasioni, il ritorno alla festa contadina nella società complessa non è semplicemente un perpetuarsi della tradizione ma l’esito della contemporaneità.

A distanza di più di trent’anni dalle prime teorizzazioni di Bravo, se pur altri attori sociali li affiancano[1], i pendolari rimangono i promotori delle feste “tradizionali” e i più attivi nella loro realizzazione, adottando diverse strategie d’azione: rivitalizzazione, rifunzionalizzazione, ripristino di elementi tradizionali caduti in disuso – «tendenza che fa sì che quello che si presenta all’osservatore come l’elemento più “arcaico” o più estraneo alla liturgia ufficiale possa essere in realtà quello introdotto più di recente» [Bravo 2013, 193] –, sino all’invenzione vera e propria. I protagonisti continuano ad essere membri attivi delle comunità locali, confermando processi non eterodiretti con ampia disponibilità locale ad investire tempo ed energie; emergono in maniera più nitida le componenti di creatività, di ricerca e ricostruzione intenzionali, «fino alla realizzazione di vere e proprie cerimonie composte su moduli che si vogliono locali e tradizionali» [Bravo 2005, 58]: indubbiamente gli attori che intervengono nella riproposta e reinvenzione di elementi della tradizione popolare

non sono dei portatori ingenui che hanno acquisito quei tratti di cultura attraverso la tradizione orale o l’osservazione; ne possiedono invece piena consapevolezza e li hanno intenzionalmente appresi ascoltando i racconti degli anziani della comunità, svolgendo ricerche […]; non di rado queste stesse persone partecipano a manifestazioni al di fuori del loro paese allo scopo di imitare e far propri elementi già collaudati con successo [Bonato 2009, 1].

Accade che «l’attore finge sapendo di fingere: e in questo contesto finzione non è sinonimo di falsità quanto, piuttosto, di costruzione» [Bonato 2011, 23]. In particolare si rileva il passaggio da un obiettivo di fruizione comunitaria «al riferimento a un pubblico esterno e a possibili flussi turistici» da attrarre, iscrivendo la riproposta in un «progetto di comunicazione e spettacolo più ampio» [Bonato 2011, 22]. A questo proposito reputo che sull’iniziale e determinata volontà dei locali di tutelare le tradizioni si sia poco per volta innescata la piena coscienza che aspetti della loro memoria, elementi della quotidianità e la ritualità del passato possono diventare una forma di comunicazione rivolta ai turisti – o comunque all’esterno della propria comunità –, un’offerta turistica di supporto all’economia locale. Ne consegue che il tessuto folklorico diventa un valore aggiunto per il territorio, atto a promuovere la comunità, le sue attività e i suoi prodotti; più in generale configura e connota «una sorta di identità locale o cosiddetta “etnica” […] che produttori, decisori, associazioni territoriali ecc. possono spendere sul piano dell’affermazione della loro presenza e della negoziazione di diritti e accesso ad altre risorse» [Bravo 2005, 86]. Si intuisce quindi la molteplicità e la varietà degli attori sociali attivi, coinvolti e decisi a sostenere la presenza e la sopravvivenza delle tradizioni locali che, in relazione ai loro stessi interessi e valori, vengono selezionate, enucleate, interpretate, se non addirittura costruite, per farne «infine oggetto di comunicazione» [Bravo 2005, 117]. Siamo al cospetto di una “imprenditorialità culturale diffusa” che impone agli antropologi di analizzare in maniera approfondita la comunità, le sue articolazioni sociali, territoriali e culturali, di riconoscerne i leader e gli imprenditori, gli amministratori locali, di informarsi sulle attività produttive, i suoi rapporti con l’esterno, di intuire le strategie identitarie in corso di attuazione. È nell’interazione con la dinamica della realtà locale che si possono progettare e realizzare lavori di interesse scientifico innovativo e di utilità sociale [Bonato 2016]. Questi inediti «organizzatori e comunicatori di cultura» interagiscono «con le industrie del turismo e dei media, con i centri di potere politico e finanziario e la produzione di consenso» [Bravo 2009, 37]. Le componenti tradizionali si configurano come risorse non solo per l’appartenenza ma anche per la visibilità, lo sviluppo locale in chiave di consumo e promozione: «c’è un tentativo di costruire una sorta di nuova vetrina per il consumo delle identità, il folklore diventa una marca»; in pratica «ogni iniziativa sembra promuovere o vendere qualche cosa», tra cui anche «l’immagine dei loro protagonisti, la loro manifesta appartenenza alla comunità e, soprattutto, l’irripetibilità, la singolarità della loro cultura» [Bonato 2009, 4]. Le tradizioni, quali risorse simboliche, operano nelle «pratiche del fare località», partecipano poi in vario modo a reti di spostamenti e circuiti trans-locali, e inoltre vivono intensamente nel rapporto con i media; gli attori sociali coinvolti sono numerosi e consapevoli di sé, «portatori attivi delle tradizioni in grado di manipolarle consapevolmente, di difenderle o sfruttarle, di trasformarle o cristallizzarle» [Apolito 2007, 15].

La festa possiede una forza conservativa e rigenerativa, i suoi simboli fondanti e costanti si aggiornano regolarmente, in linea con le trasformazioni economiche, sociali e culturali del contesto in cui ha vita adeguandovisi. Coniuga tradizione e innovazione, mescolando in maniera creativa passato e presente, innestando nuove valenze su vecchi modelli, attribuendo nuovi significati a simboli del passato. Ciononostante alcuni studiosi distinguono le feste “tradizionali”, del periodo preindustriale, peculiari delle comunità agropastorali e artigiane, da quelle “nuove”, funzionali alle esigenze dei fruitori, considerando queste ultime invenzioni gratuite, legittimate solamente da ragioni di tipo commerciale e legate al business turistico: feste che sembrano non avere un passato e di cui non si trova traccia né nel calendario religioso né in quello contadino. Non è questa la sede per disquisire su tale illogica scomposizione e operare un’analisi critica: sostenuta da una comprovata esperienza etnografica, mi limito ad osservare che tutte le feste si alimentano di tradizione e quelle a cui manca si adoperano per trovarla, a tal punto da inventarla se necessario.

Tenacità

A partire dal secondo dopoguerra importanti cambiamenti del contesto socio-economico, legati principalmente a processi di urbanizzazione e industrializzazione, hanno dato il via ad un graduale spopolamento dei territori montani e a un innalzamento dell’età media della popolazione, con conseguente riduzione del numero di individui in età lavorativa. Anche il comparto agricolo è stato influenzato in modo rilevante da questi fenomeni, che hanno avuto come conseguenza la drastica riduzione del numero delle aziende del settore e la diminuzione della manodopera. Tutto ciò si è tradotto in un progressivo e generale abbandono dei terreni, a partire da quelli meno produttivi e situati nelle aree più remote. Il fenomeno dell’abbandono delle terre marginali montane è diventato evidente e spesso drammatico nella maggior parte delle regioni, anche se con significative differenze: ad esempio le Alpi occidentali e centrali sono state più penalizzate di quelle orientali, che possiedono ampie vallate favorevoli alle coltivazioni e le loro amministrazioni pubbliche – non di rado più accorte – hanno favorito un più puntuale presidio del territorio. Lo spopolamento alpino si è manifestato in Europa già a partire dal XIX secolo, anche se con tempi e modalità differenti a seconda delle aree. In Italia, in particolare, gli anni maggiormente interessati da questo fenomeno sono stati quelli compresi tra il 1961 e il 1971. Con l’abbandono delle aree alpine sono scomparse non solo figure professionali che possedevano competenze specifiche per l’economia agrosilvopastorale, ma anche quel processo di inculturazione che riguardava conoscenze e saperi di natura orale che avevano caratterizzato fino ad allora la società contadina.

Le Alpi piemontesi sono tuttora caratterizzate da regioni di spopolamento ma in alcune zone, anche come effetto dei recenti cambiamenti di atteggiamento da parte dei fruitori della montagna e delle attese dei consumatori nei confronti delle produzioni di tali territori, si stanno generando nuove pratiche e cercando soluzioni concrete per una crescita più equilibrata e sostenibile. Si tratta di un “potenziale di crescita” rilevante e ancora da scoprire attraverso elementi strategici ad esso collegati come l’ambiente, la cultura, l’agricoltura, le energie rinnovabili e il turismo, al fine di consentire un idoneo sviluppo economico delle comunità locali grazie alla conservazione dei paesaggi agro-culturali e del patrimonio storico-artistico.

In determinati contesti il rapporto tra abitanti e territorio alpino ha innescato processi virtuosi di sviluppo locale che si pongono come pratiche interessanti per l’impostazione di politiche territoriali per la montagna, effettivamente orientate ai reali bisogni degli abitanti. Si tratta di una ripresa di interesse per la montagna in gran parte caratterizzata da nuovi modi creativi di porsi nei suoi confronti per quanto riguarda l’abitare, il fare impresa, l’utilizzo delle risorse locali e la fruizione ambientale. Si consideri che serie urgenze sono rappresentate oggi da nuovi imprevisti scenari rispetto a quelli di vent’anni fa: i pascoli, i terreni e i boschi non più curati non sono una semplice nota stonata nella propaganda della montagna “da cartolina” ma costituiscono un’emergenza ambientale e culturale per i territori a valle e le pianure; i paesaggi devono diventare «“paesaggi della cura”, un atteggiamento che richiama uno stato di preoccupazione, oltre all'azione di protezione, per i quali l'uomo è investito di nuove responsabilità» [Bertolino 2017, 140]. Inoltre l’osservazione, la documentazione di nuove pratiche sostenibili in montagna necessitano di un incoraggiamento non tanto in direzione produttivistica, quanto in funzione del mantenimento del paesaggio culturale.

Un caso esemplare, in questo senso, è la nascita negli ultimi anni in alcune zone del Piemonte di associazioni o attività che stanno cercando di reintrodurre sul territorio – su piccole estensioni di terreno, al momento – colture storicamente documentate ma scomparse, riconvertendo zone marginali in aree produttive, rendendo possibile il riutilizzo di terre incolte o che hanno subito l’avanzata della zona boschiva, riattivando così sia la filiera economica sia quella culturale e territoriale, e attivando oltretutto una rete di conoscenze e competenze, di risorse economiche e umane. Alcune associazioni si sono costituite allo scopo di sostenere, sviluppare e riportare la biodiversità: è il caso di “Princípi Pellegrini DiVangAzioni”, nata nel 2013 a Sant’Ambrogio di Torino, che intende inoltre portare avanti progetti di microproduzioni locali e di riproduzione delle proprie sementi, per non dipendere dalle ditte semenziere multinazionali e per avere di nuovo i propri prodotti locali[2].

Nello specifico in Valle Susa, dove ho recentemente indagato forme di associazionismo legate ai temi dell’agricoltura e della sostenibilità[3], si sperimentano modalità di coltivazione fortemente rispettose dell’ambiente, impostate su posizioni etico-produttive vissute come militanza pratica contro il modello dell’agricoltura industriale [Rossi 2015]: rifiutano l’uso di composti chimici e i campi, in base alle sperimentazioni personali, vengono gestiti secondo i principi della biodinamica, della permacultura, del sinergico[4] [Lockyer, Veteto 2013]. In tale contesto si sta sviluppando una rete tra piccole cooperative e aziende individuali che, condividendo il loro patrimonio di conoscenze e pratiche, possono farlo fruttare sia tra di loro sia con l’esterno. E se da un lato sono quindi intervenuta come facilitatrice/mediatrice di processi già avviati, collaborando con diversi coltivatori e piccoli imprenditori, dall’altro ho assunto un ruolo di “innesco” per iniziative – gruppi di incontro e interviste – che hanno contribuito alla riscoperta e reinvenzione di saperi locali. È indubbio che strategie di conservazione e di valorizzazione dei paesaggi alpini ben organizzate permetterebbero di trasformare importanti porzioni del territorio in regioni privilegiate, come è riscontrabile in alcuni settori alpini e prealpini delle nazioni confinanti con l’Italia, dove sono innanzitutto venduti paesaggi agricoli e culturali e, con questi, tutto ciò che può garantire qualità di vita ai produttori e agli utenti, quali ad esempio i prodotti tipici che originano da tali ambienti. In considerazione del fatto che ogni territorio è un patrimonio che include memorie, fatti, relazioni, valori, individuarne le tipicità è il primo passo da compiere nell’ottica di una strategia di promozione e di sviluppo: attuare politiche volte alla tutela e alla valorizzazione dei paesaggi alpini ben elaborate e comunicate sono meglio in grado di attrarre risorse, a partire da quelle turistiche, e di presentare ai centri di potere esterni un’immagine, un marchio, che avvantaggia tutta l’attività produttiva ma anche l’iniziativa culturale locale.

Una sorta di marchio di qualità del territorio, un punto di forza per attrarre risorse, turistiche e finanziarie sono la raccolta, la tutela, l’esposizione delle testimonianze materiali e la rappresentazione del patrimonio immateriale del passato di una comunità; senza dubbio i tratti culturali che riconosciamo come tradizionali sono ingredienti sostanziali dello sviluppo di un territorio, perché instillano nuova vitalità alle comunità locali e sono in grado di attrarre dei flussi di visitatori e di turisti, spesso anche da lontano. Nella festa, in particolare, la comunità manifesta la propria specificità culturale. Il recupero di colture abbandonate è definibile come una rielaborazione socio-culturale del passato, per la quale si può usare il termine di retroinnovazione. Tale nozione concerne lo sviluppo di conoscenze e competenze che combinano elementi e pratiche del passato e del presente in una prospettiva inedita e per obiettivi originali [Stuiver 2006]. Si evidenziano legami tra vecchio e nuovo, un interagire di elementi dell’uno e dell’altro, tratti della tradizione si collegano a quelli della contemporaneità. Se le esperienze precedenti sono fondamentali affinché si metta in atto un processo di innovazione, cogliendo il suggerimento di Clifford, possiamo parlare di articolazione della tradizione[5]:

Articolazione è il connettere e disconnettere politico, il collegare e scollegare gli elementi – la concezione secondo la quale ciascun insieme socio-culturale che si presenta a noi come un nucleo intero è in realtà una sequenza di connessioni e di sconnessioni storiche. Articolazioni e disarticolazioni sono processi costanti nella formazione e ri-formazione delle culture [Clifford 2004, 50].

Solidità

Uno degli elementi più rilevanti dell’eterogenea mappa festiva che si è venuta a creare negli ultimi decenni nel nostro paese è il forte e costante sviluppo delle proposte e delle iniziative che ripresentano la cultura locale, preindustriale, contadina e artigianale. È certo che attraverso feste e cerimonie, in particolare quelle riconducibili al passato rurale e montano, passano processi di scambio importanti e che vi si impegnano attori sociali locali forti. E questa cerimonialità risponde a riconoscibili strategie identitarie e interessi locali: le comunità che hanno mantenuto, perpetuato o riproposto una festa “tradizionale” trovano nell’apparato festivo un valido strumento per offrire all’esterno un’immagine di sé e per affermarne la propria presenza in una geografia turistica o, in molti casi, culturale. Nelle Alpi occidentali alla persistenza e alla rivitalizzazione di cerimonie tradizionali si accompagna un fenomeno di invenzione di feste strettamente legate a mestieri e pratiche del passato che, oltre ad essere un luogo di incontro, confronto, collaborazione, progettualità tra i diversi soggetti dell’imprenditoria locale, offre a questi stessi l’occasione per aprirsi all’esterno. Il richiamo alla tradizione è un potente attrattore di utenti esterni, perché è un «patrimonio simbolico potenzialmente accomunante e del quale servirsi per comunicare certe esperienze, informare su certi progetti e potenzialmente ampliare la rete dei soggetti coinvolti» [Cacchioni 2016, 72].

Trebbiatura collettiva di grani antichi[6], passeggiate didattiche per raccogliere erbe spontanee[7], apertura degli antichi forni in pietra per cuocere il pane[8] sono “nuovi” eventi che, con un riscontro di consenso e di seguito significativo, intendono sì salvaguardare le tradizioni locali ma, allo stesso tempo, rivelano una filosofia e una scelta di vita di chi li promuove che privilegia la qualità, «ritenendo che le opportunità offerte da un contesto dove sia piacevole e non stressante vivere e crescere i propri figli siano un vantaggio superiore e non comparabile con una quantificazione economica» [Poli 2013, 20]. Sono inoltre la manifestazione pratica di un flusso di iniziative e di tendenze; gli esiti di una nuova ruralità che sperimenta tipologie di colture del territorio storicamente documentate ma scomparse che stanno diventando un valore aggiunto; il frutto di un interesse per attività che in passato sono state fondamentali per l’economia locale. È il caso, ad esempio, di canapa, lavanda e segale.

In Italia, e in tutto il mondo, dopo cinquant’anni di quasi abbandono della canapicoltura[9], si sta “riabilitando” la canapa sativa per gli effettivi vantaggi della sua coltivazione e sui suoi nuovi utilizzi negli ambiti più svariati, permettendo ad agricoltori e consumatori di reintrodursi in un’ottica di auto/eco-sostenibilità, riproponendo una coltura tradizionale ma secondo una prospettiva più attuale. In Piemonte, dove in passato in alcune zone era sostentamento essenziale per le comunità montane e pedemontane, negli ultimi anni sono sorte varie associazioni il cui obiettivo è reintrodurre e favorire sia la coltivazione sia la commercializzazione di prodotti derivati dalla canapa: cito, a titolo esemplificativo, il Coordinamento Nazionale per la Canapicoltura, o “Assocanapa”, “CanapaValleSusa”, “Canapa Valsesia”, “Canapa Alpina”. E allo stesso scopo diverse sono le iniziative intraprese in più località, come la festa della semina collettiva della canapa a Prato Sesia (NO) e a Croveo (VCO) e il ripristino del sentiero della canapa a Corio (TO), il percorso storicamente usato dalla popolazione locale per commerciare questa coltura verso i mercati del canavese[10].

La lavanda, pianta autoctona delle regioni alpine, fino alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso nelle Alpi occidentali è stata «un’importante risorsa spontanea e un bene commerciale coinvolto in un’attività diffusa di raccolta e di distillazione» [Glielmi 2017, 159] che impegnava tutta la comunità – con modalità diverse a seconda della località – da metà luglio per circa un mese. In particolare, dalla metà del XIX secolo la lavanda è diventata una risorsa economica fondamentale per la popolazione della Valle Gesso, nelle Alpi Marittime, i cui terreni calcarei erano ricchi di questa pianta. La si usava come cosmetico, detergente, medicinale – anche in campo veterinario – e termicida [Matonti 2015]. L’economia della lavanda si è esaurita a causa di diversi fattori concomitanti, tra cui la concorrenza dell’essenza ottenuta sinteticamente e l’abbandono delle occupazioni agropastorali; si aggiunga, per quanto riguarda la Valle Gesso, che parti di territorio sono state “rubate” a questa coltura dagli impianti idroelettrici e dall’apertura di cave di estrazione mineraria [Glielmi 2017]. La scomparsa fisica della lavanda[11] ha decretato anche la perdita delle conoscenze e degli usi ad essa connessi, recuperati di recente grazie alla crescente sensibilità dei consumatori per i prodotti naturali e di molti agricoltori che hanno iniziato a diversificare la propria produzione cominciando a coltivarla. Molti campi di lavanda in Piemonte si trovano in Valle Stura, principalmente a Demonte, dove è ancora attiva un’antica distilleria, famosa per la produzione di olio essenziale [Demichelis 2019], e in Valle Susa, che si configura come il limite pedologico alla crescita spontanea della pianta. Qui oggi la sua coltivazione

«avviene nel paesaggio plasmato dall’uomo, fatto di terrazzamenti molto esposti, spesso riconvertiti da precedenti colture […] e il loro recupero è anche visto con funzioni molteplici, da quelle didattiche a quelle turistiche» [Bertolino 2017, 137-138].

In un’ottica di sostenibilità lavorano anche i proprietari dei terrazzamenti coltivati a lavanda a Chiomonte, innanzitutto perché si tratta di terre marginali, abbandonate: non sono usati diserbanti o additivi chimici e la pulizia degli infestanti viene effettuata manualmente, come anche la potatura e la raccolta.

La riscoperta della lavanda ha generato un processo di patrimonializzazione dei saperi e saper fare ma anche dei momenti comunitari che la riguardavano. A Sale San Giovanni (CN), nell’Alta Langa, un piccolo centro che conta solo 171 abitanti, a fine giugno ogni anno si svolge “Non solo Erbe”, una fiera dedicata alle erbe aromatiche e officinali giunta alla XXIII edizione: per tre giorni è possibile visitare aziende agricole ed essere guidati in un percorso panoramico per vedere la lavanda in fiore. Questo evento nel 2020 è stato sospeso a causa dell’emergenza Covid-19.

Rappresentazioni della raccolta e del processo di distillazione e passeggiate enogastronomiche celebrano la lavanda ad Andonno, frazione di Valdieri (CN), in Valle Gesso. Qui il gruppo culturale Tabàs, supportato dall’Ecomuseo della Segale (cfr. infra), impegnato nel recupero della coltivazione della lavanda[12], e dal Parco Alpi Marittime, dopo un’approfondita ricerca storica dei contratti negli archivi comunali e di documenti nelle biblioteche e interviste alla popolazione locale, nel 2006[13] ha dato vita alla festa denominata “Ai tèmp d’l’izòp”[14], collocata all’interno dei festeggiamenti patronali per sant’Eusebio, generalmente la prima domenica di agosto. L’ultima edizione, la X, del 2019, proponeva un’escursione verso i luoghi di raccolta della lavanda spontanea, un mercatino di prodotti tipici e artigianali, tra cui anche quelli a base di lavanda, e la rievocazione in costume delle diverse fasi della raccolta della praticata in Valle: dall’aggiudicazione ai commercianti dei diritti di messe tramite asta pubblica al taglio e al trasporto, alla vendita con pesatura, fino alla distillazione dell’essenza. Questa festa «è un momento per presentare, oltre agli antichi mestieri, manufatti e abiti della tradizione, anche il recupero di terreni adibiti oggi alla coltivazione e per commercializzare i prodotti da essa ottenuti» [Bertolino 2017, 135].

La segale è il cereale di montagna per eccellenza, pur non essendo originaria delle Alpi, indispensabile e fondamentale per l’alimentazione e per la quotidianità fino agli anni Cinquanta del secolo scorso: pane, paglia per la lettiera degli animali, ottimo materiale, isolante e resistente, per la costruzione dei tetti [Demichelis 2019]. Non a caso un detto delle vallate cuneesi recita Lou sél l’è lou pan e lou pan l’è la vita (la segale è il pane, e il pane è la vita), e ancora oggi questo cereale può rappresentare una risorsa importante per l’economia perché se ne può ricavare farina, birra[15] e materiali isolanti destinati alla bioedilizia. Interessante è a tal riguardo il progetto “SECNALP – Recupero e Salvaguardia della Antica Segale (Secale cereale) delle Alpi Cuneesi” promosso dai Dipartimenti di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi e di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino, presentato nel giugno 2019 a Roccaforte Mondovì, Comune che ha dato il proprio Patrocinio all’iniziativa, che intende sviluppare e valorizzare la segale che fa parte della cultura rurale della Valle Ellero [<https://comizioagrario.org/il-ritorno-della-segale/].

Il Comune di Montescheno (VCO), in collaborazione con le Scuole primarie comunali e il CAI sez. di Villadossola, ha ideato il progetto “Via della Segale”, un itinerario su mulattiere e sentieri che tocca i luoghi dove sono ancora visibili tracce delle antiche coltivazioni e i forni frazionali e gli antichi torchi sono ancora quasi tutti ben conservati: il percorso permette di riscoprire le virtù di questo cereale ma anche la quotidianità di un tempo della comunità monteschese. In questa località della Val d’Ossola si tiene anche una sagra della segale – sospesa nel 2020 ma di cui esiste già il programma per giugno 2021 – che in un fine settimana prevede la presentazione della filiera del cereale, degustazioni a tema, una mostra dei lavori artigianali [<http://www.areeprotetteossola.it]. Pianta con grandi capacità di adattamento, considerata cibo per poveri se pur le sono sempre riconosciute proprietà curative e benefiche, nelle Alpi occidentali è scomparsa quasi totalmente nel XX secolo, con la progressiva conversione dei campi coltivati in prati stabili: così come per la lavanda, la sparizione di questa coltura è imputabile a vari fattori, tra cui il già citato fenomeno di spopolamento e abbandono delle terre alte e la concorrenza con le coltivazioni meccanizzate della pianura.

Il progetto di recupero della coltura della segale ha mosso enti pubblici e privati in Valle Gesso, nello specifico l’Ecomuseo della Segale, con sede a Sant’Anna di Valdieri, unico centro abitato (30 persone) permanentemente all’interno del suo ente gestore, il Parco Naturale delle Alpi Marittime: questa istituzione è una

rete di strutture, attività ed eventi distribuiti sul territorio, nati dalle aspirazioni e dalle conoscenze degli abitanti della Valle Gesso e cresciuti anno dopo anno grazie agli esperti, ai servizi e alle risorse messi a disposizione dal Parco naturale delle Alpi Marittime. Un percorso condiviso di recupero e valorizzazione culturale che ha trovato nella segale il suo ingrediente segreto [<http://www.ecomuseosegale.it]

In origine l’obiettivo era riattivare la produzione di questo cereale allo scopo di ottenere la paglia per la copertura dei tetti secondo la tradizione valliva[16]: la sperimentazione è partita da due borgate, Tàit Bartòla e Tàit Bariao, collegate da un vecchio sentiero, il Viòl di Tàit. All’iniziale coltivazione di un ecotipo locale, con steli molto lunghi e resistenti, si è affiancata quella della granella, protagonista di un percorso di valorizzazione su filiera corta che ha prodotto farina e birra.

Tra le numerose iniziative messe in atto dall’Ecomuseo[17] una delle più rilevanti è la festa della segale, che si svolge regolarmente, ogni anno, dal 1992, durante la quale si rievoca la tradizionale battitura del cereale con le cavaglie, il correggiato[18], che avveniva nelle prime settimane di agosto nei cortili, con il concorso dell'intera popolazione. Nei tre giorni dedicati all’evento si susseguono conferenze, escursioni, laboratori, concerti, balli, un mercato di prodotti gastronomici e artigianali e la sfilata in costume per la via centrale del paese. Un programma consono alle disposizioni relative al Covid-19 è stato predisposto per la XXIX edizione del 2020 (22-23 agosto): l’Ecomuseo della Segale[19] ha proposto uno spettacolo teatrale, una passeggiata sui sentieri della segale, un pranzo con menu d’asporto dedicati al tema segale da consumarsi presso le aree allestite nell’isola pedonale in centro paese.

Polarità

Userò poche parole per commentare la sintetica agenda delle attività a favore della ripresa di alcune colture abbandonate delineate nelle pagine precedenti. Che cosa spinge i coltivatori esperti e quelli “nuovi” a riattivare colture abbandonate? È opportuno precisare che questo tipo di iniziativa ha prosperato soprattutto in quei territori i cui abitanti ne possedevano una conoscenza e una coscienza storica, in quelle zone nelle quali in passato queste avevano rappresentato un elemento fondamentale dell’economia locale. La ricerca sul campo compiuta negli ultimi cinque anni nelle terre alte – preceduta e poi costantemente affiancata dalla ricerca bibliografica su fonti storiche riguardante l’arco alpino interessato dalla coltivazione e/o dalla crescita spontanea dei vegetali considerati – mi induce ad affermare che è possibile individuare un comune sostrato ideologico che si fonda da un lato sul desiderio di riaffermare e tutelare le proprie radici e tradizioni, dall’altro sulla volontà di aderire ad uno stile di vita sostenibile, soprattutto da un punto di vista ambientale: il ripristino di colture tradizionali non è infatti solo parte del passato e della memoria di pochi ma è una forte motivazione per agricoltori e produttori sempre più attenti – come del resto i consumatori – a questioni come la sostenibilità ambientale, la tutela del territorio ecc., pur coscienti delle diverse problematiche che i terreni di montagna presentano, soprattutto gli appezzamenti abbandonati da tempo: pendenza del suolo, presenza di piante infestanti o parti boschive e di animali selvatici, difficile accesso con macchinari standard per la trebbiatura.

Tentando di individuare le motivazioni dei neo-agricoltori, il fenomeno del “ritorno alla terra” deve essere interpretato nella sua doppia accezione di ri-abitare gli spazi alpini e di dedicarsi a mestieri dimenticati. In molti casi questo fatto assume un valore ideale, che identifica la montagna come “nuovo” orizzonte per il futuro, a scapito della “cattiva” città generatrice di crisi. Ripristinare colture abbandonate pare una risposta possibile all’attuale crisi: rientrare in un sistema semplice, come quello agropastorale, è una scelta che sembra essere condivisa da più persone, soprattutto giovani. A fronte di un sistema produttivo ed economico basato sul principio di crescita illimitata dei consumi e del PIL, ottiene sempre più consensi una prospettiva economico-sociale alternativa, dal punto di vista sia economico-sociale sia puramente esistenziale, teorizzata da Serge Latouche [2007]: la decrescita, una “filosofia” che prevede un abbassamento del PIL e che è incentrata sul miglioramento del “ben-essere”, a scapito del “ben-avere”, privilegiando aspetti extraeconomici e spesso dimenticati, quali la cultura o le relazioni umane. La decrescita non è da intendersi come crescita negativa ma come affrancamento dal mito economico della crescita, riscoprendo “antichi” valori e riorganizzando il paradigma produttivo e sociale. Questa filosofia è fortemente condivisa dal movimento neorurale, un fenomeno sociale di ritorno alla terra nella sua dimensione più intima e biologico-produttiva i cui sostenitori sono soprattutto giovani con esperienze lavorative diverse da quelle agricole o che, dopo aver conseguito un titolo di studio, decidono di coltivare la terra stimolati da un significativo interesse nei confronti di temi quali autosostenibilità, agricoltura biologica, rispetto per l’ambiente. Nel mondo rurale, quello stesso abbandonato e rifuggito dalla generazione precedente, questi giovani individuano valide opportunità lavorative ed economiche ma anche un modo per migliorare la qualità della propria vita: il ritorno all’agricoltura in montagna rientra quindi in un’idea socio-economica di sostenibilità, principalmente ambientale, che a sua volta è collegata al concetto di resilienza che, al di là della capacità umana di reagire positivamente alle sollecitazioni negative, è qui da intendersi come adozione di uno stile di vita attento all’ambiente e flessibile al cambiamento.

Concordo con Grimaldi, secondo cui «la riqualificazione del territorio rurale si ottiene recuperando un repertorio culturale popolare» [Grimaldi 2005b, 14], che nel nostro caso mette in moto un circuito di coltivazione-utilizzo-divulgazione-innovazione. E l’innovazione è innanzitutto di tipo territoriale, associata allo sviluppo sostenibile, alla riorganizzazione e alla messa in comune dei territori e al rafforzamento della rete di comunicazione interna ed esterna che può generare sviluppo economico. Ma questo nuovo uso del territorio e dei suoi prodotti manifesta a mio parere una «tradizionalizzazione della modernità» [Gallino 1984, 8] perché fondato comunque sul recupero della tradizione che si sviluppa in un originale gioco ricombinatorio. E per quanto riguarda gli eventi e le feste di cui si è dato qui conto, nessuna considerazione poteva essere più appropriata di quella di Piercarlo Grimaldi:

Le feste inventate di sana pianta, che non possiedono un codice genetico tradizionale, risultano sterili e tendono a non riprodursi sul territorio quando non sono più assistite da strumentali interessi. Le profonde analogie che ritroviamo tra la biodiversità e l’etnodiversità invitano a riflettere e a osservare come le colture e le culture i cui principi fondativi attengono alla tradizione abbiano un destino comune da difendere al presente. La salvaguardia dell’una è intimamente connessa all’altra [2020, 373].

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Sitografia

<https://comizioagrario.org/il-ritorno-della-segale/

<http://www.areeprotetteossola.it

<http://www.ecomuseosegale.it



[1] Sono nello specifico gli immigrati di ritorno, cioè gli autoctoni che tornano per le vacanze; i pensionati che scelgono di abbandonare la città e ricercano nella campagna un’identità dimenticata, o mai posseduta; i figli che mantengono un legame affettivo con il paese d’origine dei genitori e che, nonostante spesso vivano in città nel corso dell’anno, ritornano anche quando i parenti non ci sono più; talora anche i nuovi residenti [Bonato 2017].

[2] Tra le azioni messe in atto dall’Associazione c’è stata una serie di incontri – denominati “Ingraniamo” – durante i quali agricoltori e semplici appassionati condividevano le competenze acquisite e trasmettevano i loro saperi su come coltivare, in territorio montano, le antiche varietà di grano, orzo, segale e mais e per scambiarsi le sementi di queste biodiversità.

[3] Il lavoro sul campo si è sviluppato nell’ambito del progetto Marginal Areas. Sustainability and Know-how in the Alps(M.A.S.K.A.), finanziato dalla Compagnia di San Paolo e di cui ero responsabile (2015-2017), il cui obiettivo era documentare alcuni esempi di possibile risposta al concetto di terre marginali, valutandone pregi e limiti, e di collaborare con le realtà già esistenti nelle Alpi piemontesi, cercando anche di coordinare iniziative residuali di singoli operatori facendole confluire in un progetto d’insieme sostenuto dall’intera collettività.

[4] Per l’agricoltura biodinamica, che segue i cicli cosmici e lunari, la fertilità e la vitalità del terreno devono essere ottenute con mezzi naturali. La permacultura è un processo integrato di progettazione che genera un ambiente sostenibile ed equilibrato che permette l’autosufficienza delle comunità che lo vive. L’agricoltura sinergica promuove una produzione che utilizza l’auto-fertilità del suoloriducendo alminimo gli interventi e l’utilizzo dell’attività degli organismi che lo abitano.

[5] Il concetto di articolazione si deve agli studi culturali britannici, in particolare all’opera di Stuart Hall che riprende le teorie gramsciane nel saggio Notes on Deconstructing the Popular del 1981, contenuto nel volume People’s History and Socialist Theory curato da R. Samuel (London, RKP).

[6] Dal 2015 in Valle Susa l’Associazione Genuino Valsusino organizza questo evento, che prevede l’utilizzo di diversi macchinari, tra cui anche alcuni di fine '800-inizi '900, riadattati.

[7] I percorsi sono generalmente guidati da esperti naturalisti che illustrano le tecniche di ricerca e raccolta e le caratteristiche delle varie erbe selvatiche commestibili che il territorio offre. Spesso al termine della passeggiata si degustano piatti della tradizione preparati con le erbe viste, così da apprezzarne il valore nutritivo e salutistico.

[8] Alcuni esempi: a Tappia, frazione di Villadossola e a Montecretese (VCO) viene riaperto al pubblico in occasione di feste e sagre locali. Sono stati restituiti alle comunità anche i forni di Tetti Caresmin, Monte Alpet e Genola (CN), quest’ultimo impiegato esclusivamente per la preparazione delle quaquare, biscotti tradizionali a cui è dedicata una sagra a maggio. Ad Ostana (CN) si cuoce il pane ad agosto; a Signols, frazione di Oulx (TO), il forno collettivo viene usato per il pane di segale e la torta di mele. In Valle d’Aosta, a Saint Denis, in località La Plau, ogni anno a gennaio si tiene la “sagra del gran forno”: la preparazione del pane inizia la mattina presto con la preparazione dell’impasto, quindi si scalda il forno e si infornano le pagnotte su lunghe assi di legno.

[9] Nel nostro paese la coltivazione della canapa è stata vietata dal 1975, come decretato dalla legge 22 dicembre 1975, n. 685, che disciplinava gli stupefacenti e le sostanze psicotrope. Il declino della produzione canapiera ha cominciato a manifestarsi intorno al 1954 per l’elevato costo della fibra di canapa, determinato dal mancato adeguamento del sistema produttivo e dalle più moderne e vantaggiose possibilità offerte dal cotone e dalle fibre sintetiche, soprattutto per ciò che concerne le tecniche e i costi di produzione [Bonato 2015].

[10] Cito, a titolo esemplificativo, una delle tante iniziative simili nel contesto alpino orientale: in Val di Fiemme la cooperativa Terre Altre da qualche anno promuove il recupero di questa coltura.

[11] «Alcuni riportano inoltre come a partire da un minimo di industrializzazione la raccolta fu vietata. In Val Chisone, per esempio, il divieto era imposto dai Comuni» [Bertolino 2017, 134] in quanto la raccolta era appannaggio di una specifica ditta.

[12] L’intento dell’Ecomuseo era di riproporre anche la distillazione della lavanda, che si è rivelata però complicata a causa di esose lungaggini burocratiche. Però a Valdieri da qualche anno una giovane coppia di Roccavione ha avviato «un’attività di coltivazione e distillazione che si chiama La rupe» [Glielmi 2017, 167].

[13] Fatta eccezione per il 2012, l’evento si è tenuto con cadenza annuale fino al 2015, poi ogni due anni.

[14] Izòp nel dialetto locale è la lavanda.

[15] L'Ecomuseo della Segale da qualche anno promuove la coltivazione di segale anche per la produzione della birra, messa a punto nell'estate 2012: la Brunalpina, prodotta dal birrificio Troll di Vernante (CN) [<http://www.ecomuseosegale.it].

[16] Alcune coperture in paglia sono state realizzate ad Andonno.

[17] Con il sostegno del Parco Naturale Alpi Marittime e del Comune di Valdieri, e recuperando la memoria di un anziano del luogo che in gioventù l’aveva interpretato più volte, nel 2007 l’Ecomuseo ha reintrodotto nel Carnevale di Valdieri la mitica figura dell’orso di segale dopo un’assenza di quasi quarant’anni.

[18] Strumento usato in passato per la battitura dei cereali e di altre piante da seme, è formato da due bastoni uniti da una correggia di cuoio.

[19] Nell’organizzazione della manifestazione l’Ecomuseo è stato affiancato, come di consueto, da Aree Protette Alpi Marittime, Comune di Valdieri e Proloco Sant’Anna e Terme di Valdieri, con il supporto della popolazione locale.