Il Glorioso San Giovannino di Gesù

Culto familiare e devozione popolare

Vincenzo Spera

Università degli Studi di Siena

Indice

Nota bibliografica

Abstract.  The article proposes some considerations on the cult that arose in a town in Campania, Cimitile, in the years between the two world wars. The body of Giovanni Esposito, who died at the age of eighteen, is exhumed: the body is surprisingly mummified. A local cult of the boy, renamed Saint Giovannino of Gesù, is born. In a culture constantly waiting for evident and powerful manifestations of the divine dimension, a series of popular devotional practices become common and shared.

Keywords: potentia; corpo santo; corpo mummificato; historia fabulari; gloriato.

Nelle annotazioni e considerazioni che seguono utilizzo i materiali etnografici raccolti da un mio allievo, Alberto Iandoli, il quale, partendo dalla ricerca di Annabella Rossi [Rossi 1969][1], è ritornato sul campo analizzando la persistenza attuale di tre culti popolari per alcuni corpi mummificati conservati in chiese e in cappelle cimiteriali. I risultati sono confluiti nella tesi di laurea in cui, oltre a quello di Giovannino di Gesù (Giovanni Esposito), Alberto Iandoli presenta una documentazione etnografica anche sui culti di Vincenzo Camuso e del Beato Giulio, già oggetto di attenzione di Annabella Rossi, anche questi ancora attivi in Campania [Iandoli 2003].[2]

Riconsiderare quanto è accaduto a Cimitile (Napoli) dal 1930, anno della morte del diciottenne Giovanni Esposito, può consentire non solo di proporre l’approfondimento di un fenomeno concernente l’affermazione di alcune autonome espressioni della religione popolare, di cui questo è uno dei molti esempi; ma può anche far comprendere i meccanismi antropologici e gli stereotipi culturali, sociali, psicologici e di semplice inventio mitica individuale, condivisa da una comunità ristretta, che entrano in scena partendo da sollecitazioni familiari.

L’introduzione della devozione del culto di Giovannino di Gesù nasce dall’irrisolto dolore materno e dal mancato superamento del lutto che, probabilmente, si radica anche in un possibile senso di colpa della donna che non avrebbe dissolto un dubbio del figlio.[3] Condizione, questa, che si definisce in una sorta di disagio che la donna cerca di superare con la dipendenza totale, espressa sotto forma di devozione e di culto, per la memoria e, più concretamente, per il corpo del figlio. Gli atteggiamenti di soggezione alla memoria-devozione del figlio si diffondono inizialmente a un certo numero d’individui vicini alla famiglia, che condividono il disagio e accettano gli atteggiamenti che la donna inizia a elaborare e a imporre, prima in famiglia e, subito dopo, al resto della comunità.

Con l’accettazione da parte dei primi devoti delle aspirazioni della madre, che tratta il cadavere del figlio come fosse ancora presente, prende corpo l’elaborazione di alcune delle forme con cui è espresso e reso funzionale un culto che, sebbene prodotto nel privato, propone i modelli della narrazione della vita dei Santi e dei loro miracoli. Si origina, in tal modo, un vero e proprio susseguirsi di azioni stereotipate, comunemente conosciute e possedute, che innescano, sorreggono e legittimano, in una cultura continuamente in attesa di manifestazioni potenti del sacro, la nascita di una devozione e, più esattamente, lo stabilizzarsi di pratiche devozionali che diventano comuni e condivise.

A riguardo, ricordo che la devozione e il culto, ben distinti nelle forme liturgiche ed espressioni religiose ufficiali, che nella religione popolare sono indistinti e rimandano a un medesimo atteggiamento verso il sacro, anch’esso acquisito indistinto dal santo e dal divino. Le pratiche di culto, e tutto quanto si riferisce a chi è oggetto di attenzione perché riconosciuto portatore di potentia, sono volte non solo al riconoscimento del personaggio destinatario e attore primo della devozione, ma anche e in particolare, alla costituzione dello specifico mito fondativo che ne definisce e diffonde il ruolo di santo, sia pure con una terminologia non ufficiale di “glorioso”, com’è detto nell’accezione popolare. Quest’operazione, di solito originata individualmente, tende a rendere espressione significante di culto tutte le pratiche devozionali prodotte e accettate al di fuori dell’ufficialità e del riconoscimento delle autorità ecclesiastiche, a volte anche con atteggiamenti apertamente conflittuali. Questa è una delle caratteristiche peculiari non solo della cosiddetta religiosità popolare, che si muove e spesso si afferma esternamente e autonomamente dalla prassi riconosciuta dalle istituzioni della Chiesa ufficiale, pur ripetendone forme, modi e comportamenti.

Giovannino Esposito, detto il “Glorioso S. Giovannino di Gesù”,[4] nacque a Cimitile il 15 agosto del 1912, dove morì il 20 agosto del 1930. Per comprendere la nascita e lo sviluppo del culto, ritengo utile riportare la breve scheda biografica che ne descrive i passaggi principali; così come sono stati riferiti da Annabella Rossi. Le notizie raccolte da Annabella Rossi, messe in relazione con quanto rilevato nel 2003 da Alberto Iandoli, permettono di comprendere meglio i meccanismi narrativi e testimoniali che, nel frattempo, hanno preso corpo e consistenza tali da trasformare la storia della vita del giovane morto prematuramente in una narrazione agiografica.

Annabella Rossi, sulla base di quanto riferito dai devoti del nuovo culto, scrive [Rossi 1969, 65]:

Era un ragazzo docile, molto religioso, paziente. Alla sua morte, la madre, Elvira Margherita, sembrò uscire di senno dal dolore e ritrovò un suo equilibrio del tutto particolare nella convinzione che il figlio fosse un santo e che anche lei, perché sua madre, fosse una santa. Il ragazzo venne seppellito nel cimitero del paese e, soprattutto dopo la riesumazione del corpo e la sua collocazione in una barca di rame all’interno di una monumentale tomba di marmo, situata nella cappella del cimitero, divenne mèta di pellegrinaggi, di richieste di grazie, elargendo, a detta della gente, favori e grazie, operando miracoli. La madre, ispirata dal figlio, iniziò una vera e propria attività taumaturgica; a lei si rivolgevano infermi, famiglie di carcerati, delusi in amore che trovavano “soluzioni” esistenziali nelle parole della donna, nei suoi gesti, e nell’olio e negli altri liquidi da lei distribuiti.

Dopo averlo disseppellito e disposto in una barca di rame, la madre ne aveva avvolto il corpo «con un asciugamano disposto come un lenzuolo, protetto il cranio con ovatta e con un foulard». Operazione di particolare interesse, che pone alcuni interrogativi sull’atteggiamento della chiesa e delle autorità civili locali sulla libertà con cui la madre abbia potuto disseppellire e presentare il corpo del giovane non come il cadavere di un defunto, ma come il corpo di un santo perché mummificato e dunque, già per questo, riconosciuto come degno di culto.

Altro particolare che conferma il progetto della donna di connotare il cadavere del figlio non solo come “corpo santo”, ma anche come reliquia vivente, è che abbia «collocato due occhi di vetro nelle orbite vuote». Grazie a questo intervento, al cadavere di Giovannino veniva riconosciuta una sorta di esistenza attiva, e il suo sguardo, sia pure di vetro, poteva essere incrociato, dunque letto e interpretato dai devoti che potevano stabilire e mantenere un contatto fisico con il corpo mummificato. Lì dove, com’è dato rilevare nelle pratiche delle culture tradizionali e popolari e in specie in quella meridionale, lo sguardo è un’azione materialmente determinata, per cui guardare qualcosa o qualcuno significa toccare fisicamente, entrare in contatto con l’oggetto dello sguardo. A riguardo basti ricordare il potere dello sguardo nelle varie espressioni, “affascino”, malocchio, occhiatura [De Martino 1973,13] e, anche, con valore positivo, la potenza benefica attribuita allo sguardo del Santo che “guarda”, cioè protegge i propri devoti che si dispongono dinanzi alle loro immagini di culto, direttamente o attraverso le offerte votive e gli ex voto che li rappresentano realisticamente [Spera 1996,1997,1998]. Va anche ricordato, con riferimento al potere di contatto fisico attribuito allo sguardo, quanto ancora oggi, nelle relazioni interindividuali, è attribuito allo sguardo fisso rivolto verso qualcuno: atteggiamento che è causa di aggressione da parte di chi è guardato con insistenza e fissità, perché dallo sguardo si sente “toccato”.

La connotazione di fisicità presente nella devozione dei devoti di Giovannino e in particolare della madre, che tratta il cadavere del figlio come fosse ancora vivo, è ben esplicita nella forma e nella natura delle offerte che lei e i devoti pongono sulle e nella tomba del giovane [Rossi 1969, 65-66]:

Le offerte, finché la madre era in vita [1967], erano assai più numerose; quasi ogni giorno la donna apriva il sarcofago e deponeva all’interno bottiglie di vino, liquori, orzate, aranciate, biscotti, gomme americane, quarti di pollo arrostito, sostenendo, con chi si stupiva, che, come il profumo dei fiori raggiunge i defunti, ugualmente l’odore dei cibi e delle bevande riesce gradito a chi non è più. Ancora oggi [1969], all’interno della tomba vi sono bottiglie, biscotti e quanto Elvira, sentendo prossima la fine, aveva previdentemente messo accanto al figlio nella barca di rame.

Quelle offerte sono ancora presenti nel 2003 [Iandoli 2003 ,123]. Siamo di fronte a una serie di azioni e comportamenti che richiamano non solo alcune espressioni della devozione e del culto verso personalità che la religione popolare riconosce come sante, ma siamo anche di fronte a una forma di permanenza dello stesso processo d’individuazione, di riconoscimento della santità, collegati al culto tributato al corpo di un individuo ritenuto santo, anche solo perché mummificato.

Il procedimento che porta al riconoscimento del santo è confermato (a volte cercato e originato) dal disseppellimento del cadavere. Pratica ancora in uso ai nostri giorni, per compiere le ispezioni previste, ma solo dopo alcuni decenni, nei procedimenti ufficiali per la definizione della qualifica di Beato e per la successiva canonizzazione. La santità, cercata o supposta, veniva e viene certificata e legittimata automaticamente qualora il corpo si presenti incorrotto. Da qui, dunque, l’azione della madre di Giovanni Esposito di trattare e presentare il corpo del figlio come mummia, e dunque esibirla come reliquia che conferma quanto ancora oggi accade nelle culture a fondamento manifestativo e mitico-rituale, di cui il cristianesimo, in specie nelle confessioni cattoliche e ortodosse, è espressione compiuta.

Un tale atteggiamento, in rapporto ai corpi mummificati, è ancora ampiamente presente, significante e documentato nella cultura tradizionale, così come si è presentata e ancora si presenta nelle espressioni della religione popolare, e non solo popolare, moderna e contemporanea. Penso, a riguardo, al modo in cui sono stati scrutati i corpi di santi, per esempio e citando quasi a caso, da Chiara di Montefalco e Rita da Cascia fino a Giuseppe Moscati o, più recentemente, a Padre Pio. Così come avviene per i corpi mummificati nelle cripte dei vari conventi dei Cappuccini, che possono essere oggetto di particolari attenzioni mistiche e di devozione. Come, per esempio accade a Palermo, in cui il corpicino mummificato della piccola Rosalia è continuamente osservato, ritenendo che possa trasmettere messaggi attraverso il movimento delle palpebre, che alcuni affermano di scorgere; così com’è narrato per il movimento di una gamba e per l’apertura degli occhi di santa Rita da Cascia [Giacalone 1996,19]. Inoltre, uno dei comportamenti in cui viene espressa la devozione verso i corpi dei santi, tra i tanti altri che sarebbe possibile ricordate, è esemplare quello verso la mummia di santa Rosa di Viterbo, che non solo è esposto al culto in un’urna di vetro, ma è portata in processione, scoperta e senza urna, per le strade della città il giorno della sua festa.

Stesso atteggiamento di stupore si è manifestato e mantenuto in due altri casi documentati da Annabella Rossi, riguardanti due mummie oggetto di culto: una esposta nel santuario di Montevergine, del Beato Giulio; l’altra a Bonito, di Vincenzo Camuso; entrambe nell’avellinese e poco distanti da Cimitile.

Si tratta di concezioni che definiscono, in ambito devozionale e sacrale, la relazione con i cadaveri di personalità esemplari riconosciute dalla Chiesa e accettate come santi; dunque strumenti di grande potenza. In questa concezione il processo della mummificazione naturale è considerato un evento meraviglioso, cioè miracoloso, voluto da Dio, attraverso cui la potenza divina interagisce con l’umano. Queste concezioni continuano a essere attive e legittimate nella stessa religione ufficiale, di cui costituiscono base fondativa, per cui si può parlare di una vera e propria permanenza del culto verso i cadaveri; pratica, del resto, ampiamente documentata a livello etnografico per religioni non cristiane. Lo stesso atteggiamento è valido per i cadaveri, a tale scopo riesumati, mummificati anche solo in parte; come sembra sia accaduto per il corpo di Giovanni Esposito [Rossi 1969, 231-233; Lützenkirchen 2012]. Questa pratica rimanda a quanto posto all’origine del culto dei santi [Brown 1983,12]:

L’origine del culto cristiano dei santi ebbe luogo nei grandi cimiteri, oltre le mura delle città del mondo romano e per quanto riguarda il conato con corpi morti, tale culto comportò ben presto il disseppellimento, la traslazione, lo smembrare - per non parlare di chi avidamente toccava e baciava - le ossa dei morti, con la conseguenza che spesso esse furono collocate in aree da cui prima i morti erano esclusi.

Particolarmente interessante, secondo il racconto della signora Concetta Peluso,[5] il rapporto che la madre, finché era in vita, intratteneva con il corpo di Giovannino. Quasi quotidianamente lei lo estraeva da una porticina di legno, praticata in uno dei lati più stretti del sarcofago [Iandoli 2003,122], e «non solo si affaccendava a sistemare il corpo del figlio, ma le premure, le coccole, non mancavano di certo». La donna, entrata a contatto diretto con il corpo del figlio, gli riferiva le richieste che i devoti le trasmettevano [Idem 116]. Dalla stesa porticina, inoltre, erano introdotte «alcune bottiglie contenenti bevande e liquidi vari» perché la madre, secondo una convinzione diffusa nei comportamenti che permetterebbero di comunicare con i morti, «riteneva che, così come i profumi dei fiori raggiungono i defunti, ugualmente l’odore dei cibi e delle bevande riesce gradito a chi non è più» [Idem 123].[6]

La storia della breve vita e di come la morte di un ragazzo sia stata elaborata e trasmessa dalla madre, accettata dai parenti e dalle persone della cerchia dei conoscenti, fino a estendersi nel circondario di Cimitile e oltre, è certamente singolare. Si può prendere a campione per l’esemplarità con cui si è posta e sviluppata fino a essere, ancora oggi dopo ottantacinque anni, oggetto d’interesse. E lo è perché la vita di Giovannino è ritenuta una risposta alla continua e mai quieta attesa del miracoloso, che continua a dare senso esistenziale nelle culture a fondamento mitico-rituale e manifestativo.

Analizzare alcuni elementi centrali del caso di Giovannino di Gesù consente di comprendere e verificare i meccanismi con cui nella cultura tradizionale e, quindi, nella cosiddetta religiosità popolare, vengano elaborati i processi d’individuazione ed elaborazione delle caratteristiche che consentono di proporre il percorso verso il riconoscimento e la dichiarazione della santità. Attività che, dal punto di vista demo-antropologico, prescinde dalla considerazione che si tratti di vera o presunta o ufficialmente non riconosciuta santità.

Il riconoscimento, da parte dei nuovi fedeli-devoti, avviene attraverso l’applicazione di modelli, comunemente ri-conosciuti, tratti dalle leggende agiografiche e dagli stereotipi che ne definiscono la struttura narrativa; le une e gli altri ampiamente diffusi nella tradizione orale, in particolare nella trasmissione della miracolistica e delle pratiche devozionali popolari. L’adozione di tali modelli, che si possono individuare in una sorta di formalizzazione riconosciuta (inizialmente indotta) anche dalla religione ufficiale, consente un vero e proprio processo di inventio mitica che diviene la base fondativa del nuovo fenomeno mistico.

Il processo, che chiunque nella cultura popolare può attivare in una configurazione comunicativa stereotipata, diventa l’attestazione giustificativa su cui si articola il mito del nuovo riferimento proposto all’attenzione dei credenti. Se il mito e la sua narrazione reggono nel tempo e rispondono alle attese delle manifestazioni del sacro, quel mito, a prescindere dalla sua accettazione liturgica ufficiale, può diventare base fondativa di un nuovo culto.

La nascita e l’affermazione di ogni nuovo culto, ufficiale o extraliturgico che sia, serve direttamente o indirettamente all’affermazione dei culti precedenti; che siano ufficiali o non ufficiali, laici ed extraliturgici i nuovi culti confermano la stessa religione ufficiale che si arricchisce del nuovo portato di fede.

Il riconoscimento nella nuova inventio mitica, che aderisce a uno o a più modelli, così come sono conosciuti e trasmessi nelle narrazioni agiografiche, permette l’adesione della nuova narrazione alle narrazioni simili già codificate nella tradizione e rivelatesi efficaci. Si tratta d’interventi richiesti e ottenuti, di visioni, di corresponsione dialogante con le immagini e della frequentazione di luoghi relativi all’oggetto del nuovo culto. Atteggiamenti e pratiche che si materializzano nella produzione di ex voto e nella narrazione, ripetizione e trasmissione di tutto quanto richiami la presenza operativa, in questo caso, della mummia. A tutto ciò si aggiungono celebrazioni di messe, pellegrinaggi e comportamenti devozionali attivi nei luoghi in cui il nuovo santo è vissuto. Tutte azioni già codificate e ugualmente attive per altri santi e luoghi di culto.

L’individuazione dei modelli cui il nuovo caso aderisce esplicita la natura eccezionale riconosciuta in analogia con altri personaggi, che la tradizione devozionale ha individuato e proposto come Santi o anche come riferimenti specifici in cui si manifesta la stessa potentia sacrale. Così come accade, per esempio, per particolari immagini di Santi e Madonne, diventate oggetto di culto e devozione, perché le narrazioni che le riguardano contengono gli stereotipi specifici che inducono al riconoscimento della loro natura e qualità santa: connotazioni fondamentali perché se ne possa utilizzare il potere.

Il dato storico - qui inteso in senso di citazione della relazione con il contesto ambientale e umano - è limitato alla biografia scoperta (spesso anche inventata) post-mortem, fissata in forma stereotipata. Ogni elemento realistico e attestativo della potenza sacrale, in un processo di continua re-invenzione mitica e affabulatoria, è individuato nei vissuti del personaggio oggetto di attenzione e nei vissuti di chi ne sostiene l’evidenza. Questi ultimi, testimoni diretti e indiretti, con la loro attività di continua narrazione di tutto quanto in vario modo attiene all’oggetto della loro attenzione mistica, costituiscono una sorta di circolo di eletti, partecipi del riflesso della qualità manifestativa del protagonista delle loro narrazioni testimoniali. Tale attività, che produce e fonda una vera e propria historia fabularis, in cui è presente tutto il contesto storico, socio-culturale e la dimensione religiosa in cui è generata, costituisce una delle principali forme di diffusione di ogni culto.

La necessita di possedere e poter toccare, attraverso un’esperienza diretta, la qualità e la natura corporea di un personaggio di cui si conosce il vissuto, generano un procedimento di forte capacità comunicativa. Tale processo, che indico come affabulazione mitica, è quello in cui si determinano la progressiva scoperta e la definizione delle particolarità degli eventi che, del personaggio oggetto d’individuazione mistica, ne rendono evidenti e ne enfatizzano la qualità di “Gloriato”. Definizione che in ambito demologico è sostitutiva, ma anche introduttiva, alla categorizzazione della santità. Questa “qualità” si afferma anche perché il personaggio “Gloriato” è riconosciuto come possibile o reale portatore di potentia; quindi direttamente utilizzabile per alleviare e sostenere i vissuti di chi non può partecipare direttamente alla gestione del sacro ufficiale.

Le nuove epifanie del sacro non solo sono ben accolte, ma sono continuamente cercate per il desiderio di poter essere testimoni diretti e viventi nella contemporaneità del loro manifestarsi. Tutto ciò si compie in un atteggiamento coerente con lo stesso senso che la liturgia ufficiale attribuisce, per esempio, alla celebrazione dell’Eucarestia, in cui i fedeli sono chiamati a essere compartecipi del sacrificio della Messa e testimoni attivi – in una realtà rituale di attualizzazione mitica - dell’ultima cena.

Il senso culturale e religioso delle nuove devozioni e, quindi, dei nuovi culti è assunto come conferma della presenza operativa nel quotidiano esistere di ciascuno, nel qui e ora determinati e storici, della potenza del divino e, dunque, dell’evento miracoloso che continuamente si rinnova ed entra nel tempo storico del vissuto vivente dei devoti. Tale convinzione è una delle caratteristiche peculiari della religiosità popolare in cui il sacro e la potenza del divino devono sempre e continuamente mostrarsi e rifondarsi per essere credibili e tangibili, cioè mantenere senso realistico e quindi essere fruibili dai credenti che ne diventano partecipi.

L’allargamento del ventaglio delle manifestazioni e delle possibilità di entrare in contatto con il sacro e il divino miracoloso, di cui ogni credente spera di essere testimone, serve a rifondare e rinnovare le premesse e le attese dell’adesione ai principali miti che, rinnovandosi e riproponendosi di continuo, sostanziano e rendono concreta l’appartenenza devozionale e di fede. Le migliaia di ex voto che affollano i santuari sono una testimonianza di quest’attesa.

Nella religiosità o, meglio, nelle espressioni religiose popolari, l’appartenenza e l’adesione al significato confessionale si traduce, nelle pratiche devozionali e di culto, come adesione alla storia personale di chi è proposto all’attenzione dei possibili devoti. I quali accettano e ripropongono l’esemplarità del nuovo personaggio, oggetto di rinnovata attenzione devota, secondo le stereotipie proprie del processo di riconoscimento della santità, che si manifesta sempre fisicamente; come accade, per esempio, nell’immagine di devozione e di culto che risponde allo sguardo dei devoti, con l’appesantimento dell’urna in occasione di uno spostamento, nelle apparizioni oniriche e nei fenomeni d’intervento materiale, di preveggenza e in tutto quanto rientra nel già conosciuto attraverso la narrazione mitica. [Iandoli 2003, 111, 114-115].

I nuovi devoti diventano partecipi e comprimari sulla scena del percorso di glorificazione, con cui la cultura della devozione popolare inizia il procedimento, che potremmo definire autogestito, verso la sacralizzazione di chi ne è riconosciuto portatore e, dunque, già solo per questo verso la santificazione.

Le pratiche devozionali e le pratiche di culto coincidono identificandosi le une con e nelle altre. Così come, per altro verso, il sacro è identificato con il santo, che resta persona fisica nella sua umanità reale, analogamente a quanto accade nelle pratica popolare, in cui il sacro e il santo sono tali se riconoscibili e definiti, volutamente e necessariamente, nelle espressioni concrete e tangibili. Su questa base la cosiddetta religiosità popolare può essere compresa nella sua possibilità di essere agita, perché realisticamente e liberamente utilizzabile da ciascun devoto in un rapporto diretto e personale. Rileva a riguardo Giuseppe Galasso [Galasso 1997,82]:

Nel Mezzogiorno la sacralità non vive che come santità. La religione e la Chiesa fanno comunicare col sacro proprio e solo in quanto fanno comunicare col santo. La sacralità assume e perciò una fisionomia totalmente personalizzata. Il culto del sacro è culto della personalità di un santo. Un rapporto con la sfera del sacro che prescinda dal rapporto con qualche santo non rientra nell’esperienza – e, forse, si potrebbe più ancora dire: nella disposizione mentale e morale – del fedele meridionale.

Proporre un’analisi e una definizione del modo con cui viene concepita la santità e la sua assunzione come bene individuale e comune, risulta un percorso molto complesso in cui diviene necessaria la continua contestualizzazione del caso e del fenomeno considerato. Tuttavia, pur entro tale complessità è possibile proporre alcune considerazioni già avanzate da storici del Mezzogiorno. L’analisi della continua esigenza e del riconoscimento della santità e tutto quanto a essa riferibile, può aiutare e comprendere il senso di quello che definirei “corpo devozionale” nella religione cristiano-cattolica, così come funziona e interagisce nelle sue connotazioni popolari.

Penso, a riguardo, sia utile rileggere quanto Gabriele De Rosa scriveva in anni molto vicini alle ricerche condotte da Annabella Rossi; anche se l’annotazione dello storico campano si riferisce a forme ed espressioni di culto osservate nella vicina Basilicata [De Rosa 1978, 80]:

[…] l’analisi della santità è tra quelle fondamentali per intendere la storia sociale, oltre che religiosa, del Mezzogiorno e della Basilicata in particolare. Il santo con i suoi miracoli non rappresenta una storia a parte, la sua vita non sta al di fuori della vicenda quotidiana delle popolazioni locali, non è un’evasione o un’appendice folkloristica, ma fa parte pienamente della struttura della società, la compenetra di sé e a suo modo l’esprime, nel segno ovviamente della sua singolare dimensione culturale.

Da quanto osservato e rilevato in ambito demologico ed etnografico, l’affermazione è valida per l’intera galassia delle espressioni devozionali di connotazione cristiana, e non solo, in cui hanno spazio e senso tutti quei comportamenti genericamente definiti, dalle forme religiose istituzionali, come religiosità o, più limitatamente e con atteggiamento marginalizzante, “pietà popolare” [C.C.D.D.S. 2002, 19]. I comportamenti, le pratiche devozionali e di culto, così come sono presentati nelle definizioni, fortemente culturocentriche, autoritarie e dogmatiche non sono accettabili nell’ottica dell’analisi demo-antropologica dei fenomeni religiosi, intesi quali documenti significanti dell’intero contesto storico e socio-culturale che li esprime. Nelle pratiche devozionali e di culto, sempre coerenti con la dimensione manifestativa e mitico-rituale della religione popolare, tutti gli appartenenti a una data confessione si possono riconoscere, a prescindere dal rapporto stabilito o anche imposto dalla liturgia espressa dalla e nella sua formalizzazione ufficiale.

Nella concezione devozionale e religiosa popolare, l’attribuzione della qualità e connotazione di “Gloriato” costituisce la prima tappa verso il riconoscimento della santità e potrebbe equivalere a quella ufficiale di Venerabile. Con la qualifica di “Gloriato”, anche se rimane in sé concluso e non procede verso l’ufficialità, si pone in essere un riconoscimento che prescinde da qualsiasi forma di procedimento ecclesiastico ufficiale; su cui, tuttavia, la nuova forma di devozione popolare esercita pressioni attraverso la diffusione dell’affabulazione mitica e stereotipata e dell’esibizione votiva; così com’è documentato nei santuari e nei luoghi di culto ufficiali. Esemplare a riguardo la ricchezza di offerte votive, presenti nel santuario dedicato al culto extraliturgico di Alberto Glorioso voluto dalla zia, Giuseppina Gonnella che si poneva come tramite tra i devoti e lo spirito del nipote [Rossi 1969]. Quelle centinaia di ex-voto e migliaia di foto tessera deposti nel luogo dedicato al culto devono essere, comunque, acquisiti nella loro funzione di attestazione e riconoscimento della potentia taumaturgica del personaggio cui sono dedicati.

La qualità e natura del “Gloriato”, di cui si vuole il riconoscimento della santità, sono sempre poste e scoperte, ovviamente a posteriori, come divinamente predeterminate e tali che ne rendono riconoscibile la santità, o quanto meno la particolarità ed eccezionalità. Così com’è dato rilevare in tutte le agiografie dei santi, riconosciute in ambito ecclesiastico ufficiale: tutte generate e diffuse, in prima espressione, in un procedimento narrativo orale. Tali caratteristiche con la ripetizione dell’affabulazione mitica, auto-referenziata, si potenziano e si auto-legittimano creando consenso e ampliamento della cerchia dei devoti. I quali, attraverso la partecipazione alla divulgazione della narrazione, diventano testimoni testuali e storici. Basti pensare alle tante Historiae Sanctorum, o solamente alla diffusissima Legenda Aurea di Jacopo da Varazze e a tutte le narrazioni agiografiche e affabulazioni mitiche, diventate attestazioni scritte, che ne hanno preceduto e seguito l’esempio. Per non dire delle modalità con cui sono state trasmesse e raccolte le molteplici narrazioni bibliche ed evangeliche.

Lo stesso meccanismo del processo dell’ufficialità ecclesiastica, necessario al riconoscimento della santità, che passa attraverso i tre principali stadi di attribuzione di “Venerabile”, “Beato” e quindi porta alla canonizzazione e al riconoscimento della santità, si fonda sulla raccolta di testimonianze, inizialmente orali, che diventano testo scritto, formalizzato e patrimonio base del culto dei Santi.

Entrare nella progressiva affabulazione mitica rende un possibile devoto partecipe e coprotagonista della stessa affabulazione, nella cui affermazione assume un ruolo attivo, per cui viene assunto e ascoltato come testimone, quindi come partecipe della santità, e dunque della potentia che si vuol riconoscere a chi è oggetto della narrazione mitica. Il meccanismo è del tutto simile a quello individuato nelle motivazioni che determinano e significano i comportamenti devozionali che sfociano nella produzione delle immagini di devozione, di culto e degli ex-voto.[7]

La funzione dell’oggetto ex voto è attestazione di un intervento con cui il Santo si è manifestato operativo verso un suo devoto, ma è anche attestazione, con connotazioni identificative individuali e personali, della potenza sacrale attiva in un dato luogo, in una specifica immagine. Gli ex voto, inoltre, che devono essere necessariamente esposti nello spazio sacro in cui il Santo risiede, non è rivolto solo a lui. È anche, nello stesso modo e con la medesima valenza attestativa, rivolto a chi ha beneficiato del contatto con il santo e a chi ne osserva l’esibizione – spesso toccandoli come reliquie - all’interno dei luoghi di culto che, con la loro presenza di testimonianza, confermano la sacralità della “persona santa” cui le testimonianze votive sono rivolte [Spera 1996, 1997, 2008, 2010].

Questa condizione, che può riferirsi anche alla quotidianità concepita in se stessa espressione di eccezionalità se viene individuata come causata dal divino, è assunta e presentata come realizzazione di un disegno predeterminato, che i devoti scoprono o sono sollecitati a scoprire e, dunque, secondo le caratteristiche della testimonianza devota, a dover trasmettere al resto della comunità. In tal modo i devoti del nuovo culto possono partecipare con la divulgazione della loro testimonianza, diretta o indiretta, verbale o contratta nell’ex-voto, all’affermazione della presenza operativa del Santo, o di chi è considerato tale dalla comune devozione dei credenti nella presenza in quel luogo, in quel corpo di una specifica potentia divina, di cui ciascuno può esserne partecipe e protagonista.

Il caso di Giovannino di Gesù è in gran parte simile ad altri, che pure hanno interessato lo stesso contesto culturale e sociale della religiosità e devozione popolare delle regioni centro-meridionali del secolo scorso; come ben rilevato e analizzato da Annabella Rossi.

Il caso del giovane morto prematuramente, divenuto oggetto di devozione e, per certi aspetti, anche di culto per le implicazioni connesse all’attività della madre e dei familiari, è demologicamente molto interessante, perché sembra riproporre, nel XX secolo, il percorso verso il riconoscimento della santità, secondo meccanismi molto simili, se non identici, a quelli indicati da Peter Brown e riferiti alle origini del cristianesimo [Brown 1983, 12].

Sull’origine e la diffusione del culto dei Santi, si diffonde l’affermarsi di alcuni caratteri e comportamenti particolari, quali il diverso rapporto con il corpo del morto e il contatto fisico con le sue spoglie. Pratiche ancora attive nei comportamenti devozionali popolari: toccamenti, baci alle immagini, cura delle ossa, loro esposizione e, quindi, la collocazione accessibile e separata dagli altri morti, in difformità con le pratiche preesistenti.

Alcune di queste modalità di riconoscimento atte a segnalare la santità, specifiche del cristianesimo delle origini e che permangono nelle pratiche devozionali popolari, sono presenti e significanti nella vicenda che ha fatto della morte di Giovanni Esposito un caso demologicamente interessante. In questo caso, simile ad altri presenti nella regione, sono espresse alcune delle modalità che entrano in scena in un processo di glorificazione e santificazione tipico della devozione popolare e del perdurare, per esempio, dei meccanismi che conducono al riconoscimento e all’affermazione della santità.

Si tratta di un caso che, prescindendo dalla sua attendibilità, ma considerato come “narrato”, cioè racconto di vissuti particolari, diviene emblematico per il modo con cui la vicenda del giovane e la richiesta della santificazione, avanzata dalla madre alle autorità ecclesiastiche, sono state proposte, narrate e fissate nel procedimento dell’affabulazione mitica iniziata dalla madre.[8] Narrazione che viene acquisita come esemplare espressione di vissuti condivisi, accettati, amplificati, e trasmessi attraverso una sorta di staffetta familiare che dalla madre passa alla nipote e quindi, esauriti i familiari, passa a una devota scelta dalla cugina di Giovannino.

La narrazione, che ripete gli stereotipi delle narrazioni agiografiche, è accetta direttamente dai devoti e, indirettamente, anche da alcuni rappresentanti della chiesa locale, che non hanno mai veramente ostacolato il culto per un giovane “santificato”, di fatto, dalla madre che si propone anche lei come santa. Ne sono attestazione, per esempio, le messe celebrate da sacerdoti chiamati nella cappella dove è collocato il corpo di Giovannino [Iandoli 2003, 147-148], oggetto di pratiche devozionali, di culto, di richieste di grazie e dove, negli anni della ricerca condotta da Alberto Iandoli, vi erano anche alcuni ex-voto [Idem 153-158]. Oltre a ciò, esiste una produzione di testi: una novena stampata «Con approvazione ecclesiastica di M. Gerardo Giorgio Vicario Generale della Diocesi di Nola» del 1934 e alcune preghiere e canzoncine tutte riportate prima da Annabella Rossi [Rossi 1969, 126-130] e poi da Alberto Iandoli che le trova ancora attive nei gruppi di preghiera e le riporta tutte nel 2003 [Iandoli 2003, 125-133, 145-150].

In un santino, fatto stampare dalla madre nel 1954, sotto la riproduzione fotografica è scritto: «Viva il nostro Glorioso S. Giovannino di Gesù che rientra nel suo palazzo colla vittoria» e, dopo i dati anagrafici e attestazioni enfatiche, i devoti sono sollecitati a recitare «33 Credi ogni mattina a Gesù Bambino per la sua santità». Cosa ancor più interessante, che pare sia stata accettata da tutti, è che il santino è presentato quale «Ricordo di sua madre che scrive S. Elvira Vacchiano». Come in ogni altro santino, sul retro è stampato il testo di una preghiera con cui il devoto si affida «al nostro Santo Miracoloso» e quindi, dopo la preghiera, l’invito a recitare «3 Pater, 3 Ave 3 Gloria alla SS. Trinità per la sua presta Santificazione di S. Giovannino al mondo. 300 giorni di indulgenza a chi lo prega con fede». Sotto la preghiera, così come si legge in quasi tutti i santini e pubblicazioni accettate dalla chiesa, è stampato: «con approvazione ecclesiastica».

Il caso del culto per San Giovannino di Gesù, non unico nelle modalità con cui si è concretizzato nella società e cultura meridionale degli anni a cavallo del secondo dopoguerra, prende e mantiene corpo e senso devozionale in una sorta di paradosso concettuale. La fede, espressa attraverso specifici comportamenti e creazioni di riferimenti cultuali e religiosi, autonomi e autodeterminati, è concepita e vissuta, in coerenza col dettato cristiano così com’è acquisito a livello popolare quale bene comune.

L’individuazione della santità, reale o presunta, si compie in quasi totale autonomia dal protocollo del riconoscimento e accettazione ufficiale. Si tratta di uno dei molti esempi di riconoscimento di santità e di manifestazione del divino concepito sempre attivo, che si manifesta nel quotidiano, cui ciascuno può attingere. Non solo. Il caso di s. Giovannino di Gesù, come gli altri simili, può anche proporsi ed essere assunto, in un’ottica demo-antropologica, quale riferimento significante di una sorta di liberalismo religioso, che potremmo ritenere come una forma di originaria e primitiva democrazia, autarchica e familiare, della ricerca, della scoperta e del riconoscimento del sacro. In questo sacro non ufficiale e carico di vissuti individuali e marginali, coincidente col numinoso, ciascuno può individuare, “toccare”, quindi utilizzare e gestire direttamente il divino. Quest’atteggiamento rende i testimoni e i devoti del nuovo culto una sorta di “usufruttuari” privilegiati del sacro domestico. I devoti di queste personalità, in cui si ritiene sia manifesto il potere divino, si pongono e si accettano reciprocamente nella funzione che li riconosce sacerdoti laici in tutto coesi alla realtà dei devoti di Santi riconosciuti, con cui condividono l’attesa del miracoloso e della manifestazione tangibile del divino.

Il caso di Giovannino, anche oltre la follia visionaria e mistica della madre, come quelli di altri personaggi simili, va valutato come pretesto, meglio, come la strategia esistenziale che una realtà, una comunità umana, i cui vissuti e le relative attese miracolistiche sono considerate marginali, elabora per darsi senso, per affermare la propria esistenza e capacità di autonomia anche sul piano dell’elaborazione e contestualizzazione dei propri riferimenti religiosi. Attraverso il culto di S. Giovannino, la cultura cosiddetta popolare, sia pure in particolari contesti, dimostra, attraverso la propria struttura culturale, di potersi affermare come portatrice di valori e luogo in cui il divino può ugualmente e liberamente manifestarsi ed essere riconosciuto e accettato.

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[1] La rilevazione delle principali manifestazioni della religione popolare, comprendenti anche culti non ufficiali, è stata compiuta nel Lazio, Abruzzo, Molise, Marche, Umbria, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, dal 1959 al 1969.

[2] Tra i culti extraliturgici, ricordo quelli del Beato Giulio, di Vincenzo Camuso (rilevazioni 1965), e di Giovannino della Santa Croce di Gesù (rilevazione 1969) [Rossi 1969, 49-54, 55, 65-67, 124-130; Lützenkirchen, Petta, Villa 2012].

[3] A riguardo sono molto interessanti le notizie raccolte dai devoti da Alberto Iandoli, secondo le quali Giovanni si sarebbe intristito, fino alla morte, perché la madre, molto bella e molto più giovane del padre, non avrebbe risposto alla domanda «Mamma! Tu hai mai tradito papà?». Dubbio che il ragazzo aveva espresso cercando la smentita alle voci che circolavano in paese [Iandoli 2003, 93].

[4] Così è indicato sul santino fatto stampare dalla madre Elvira Margherita Vacchiano, che riproduce una foto a mezzo busto del giovane. È l’unica documentazione iconografica ripresa certamente poco prima del 1930. Nella novena a lui dedicata e voluta dalla madre, il giovane è anche indicato come “s. Giovannino della Croce di Gesù”.

[5] La signora Concetta Peluso è stata la principale e documentata fonte di informazione utilizzata da Alberto Iandoli nel 2003. La Signora Peluso aveva il compito di mantenere attivo il culto e di guidare il gruppo dei devoti di Giovannino della Santa Croce di Gesù; incarico affidatole dalla signora Filomena Nocerino, cugina di Giovanni Esposito, morta nel 2002, e figlia di una sorella di Elvira Margherita Vacchiano [Iandoli 2003, 106-105].

[6] La consuetudine di offrire alimenti e deporli sulle tombe è ben documentata nelle ricerche etnografiche sui rituali del cordoglio, come anche direttamente ho potuto osservare nei cimiteri di diversi piccoli centri lucani e come, per la Calabria, ha ben documentato Francesco Faeta [Faeta 1984].

[7] Mi riferisco alla «Lettera per la santificazione di S. Giovannino» indirizzata, in data 1949, all’Ordinario diocesano di Nola [Iandoli 2003, 135-136].

[8] Mi riferisco alla «Lettera per la santificazione di S. Giovannino» indirizzata, in data 1949, all’Ordinario diocesano di Nola [Iandoli 2003, 135-136].