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Abstract. This essay aims to analyze the representations of the Sicilians of Tunisia of the twentieth century. The background of their daily life was a plural Tunisia in terms of nationality, religions, social components, even if it was veined by imbalance in power (the French protectorate first, the independent State since 1956 after). Dynamics of separation and mixing ambiguously characterized the social relations of Sicilian people. They tended to share their experiences with the French, Tunisians and other nationalities, but on the other hand they tightened the borders on an "ethnic closure", too.
Keywords: sicilian people; Tunisia; migration; diaspora; symbolic representation.
Il presente saggio ha come obiettivo un’analisi delle rappresentazioni dei siciliani di Tunisia che hanno abitato per il periodo di tempo che comprende gli ultimi due decenni del XIX secolo sino alla metà degli anni Sessanta del successivo alcune aree del paese nordafricano che si caratterizzarono per un consistente mescolamento tra nazionalità, religioni e componenti sociali. Angolatura privilegiata sarà il punto di vista dei siciliani stessi, che in tale contesto hanno costituito un gruppo sostanzioso nei numeri e “coeso”[1] nei modi di presentarsi e di essere rappresentati [Melfa 2008; Russo 2016, 2018]. Tale obiettivo si riverbera nella scelta di utilizzare in gran parte fonti orali inedite “di prima mano”[2] in cui a “parlare” sono soprattutto siciliani di Tunisia, ovvero discendenti di migrati provenienti dalla Sicilia di generazioni diverse, come si preciserà nel seguito. Si tratta di testimonianze che rientrano in un più ampio lavoro etnografico che ho condotto a più riprese in Tunisia tra 2012 e 2017 in cui sono state registrate 67 interviste, 9 a tunisini e 58 a italiani di Tunisia. Altri elementi utili sono emersi da colloqui informali e dalla frequentazione degli ambienti di vita degli interlocutori. Ho condotto due periodi di campo con Marta Scialdone tra luglio e agosto del 2012 e tra luglio e agosto del 2013 in cui abbiamo registrato 53 interviste a italiani di Tunisia [3] con l’ausilio di un temario non restrittivo che mirava a indagare i temi seguenti: ricostruzione dei percorsi migratori, origini delle famiglie, tempi, modi e ragioni dei percorsi migratori, luoghi di insediamento, lavori e mansioni svolti dagli avi in Tunisia, vita familiare, sociale, politica e religiosa, memoria di tappe storiche quali guerre, fascismo, indipendenza, nazionalizzazione dei beni, ricostruzioni di percorsi identitari e nazionali. Successivamente ho condotto una seconda campagna di ricerca tra 2014 e 2017 per il lavoro finalizzato alla mia tesi di dottorato.
I testimoni sono stati scelti in modo da includere elementi “in vista” della comunità – per l’attivismo nelle organizzazioni associative e politiche, per le mansioni lavorative, per i rapporti con le istituzioni italiane presenti sul territorio tunisino – e persone “comuni”. Le età variano tra i 25 e i 90 anni. Circa i rapporti tra i sessi, le donne intervistate sono 36 e gli uomini 31. Degli interlocutori che si sono dichiarati siciliani[4] alcuni vivono in Tunisia, altri, risiedendo in Italia o in Francia, trascorrono abitualmente parte dell’estate nel paese nordafricano. I luoghi in cui le interviste sono state registrate sono in prevalenza Tunisi e i suoi sobborghi costieri: La Goulette, Khereddine, Le Kram, Salambo, Carthage, Sidi Bou Said, La Marsa. Una parte minoritaria è stata realizzata a Hammamet (circa 65 km a sud-ovest di Tunisi), Ariana (circa 10 km a nord della Capitale) e nella piccola città portuale di Radès (meno di 10 km a sud-ovest di Tunisi), nel governatorato di Ben Arous, sede di un ospizio in cui vive un gruppo di anziani siciliani. Dei nove tunisini intervistati, tre vivono nel Lazio (due a Roma e uno a Tarano, nel Reatino), mentre tre siciliani sono stati intervistati a Roma, città in cui risiedono.
Discutere degli interlocutori permette una prima riflessione su un punto nodale che si affronterà meglio più avanti: la loro percezione di sicilianità riguarda il modo in cui nell’oggi essi ricordano, riplasmano rappresentazioni e si immaginano. Nonostante il costante riferimento al passato, è nell’agire imperniato sul presente che si invera la memoria collettiva dei siciliani di Tunisia [Fabietti, Matera 1999, 10-11].
La parzialità prospettica emica dovuta allo sbilanciamento verso fonti siciliane è da un lato uno degli obiettivi di questo contributo, interessato alle rappresentazioni “dall’interno” e alle forme retoriche con cui i siciliani di Tunisia tendono a mostrarsi. D’altra parte verrà mitigata dalle testimonianze tunisine, da quelle di altri italiani di Tunisia e da riferimenti bibliografici. Particolare attenzione sarà riservata ad alcune fonti che indagano o veicolano le etero-identità assegnate da parte francese. In un contesto di sperequazioni economiche e disparità nei diritti come quello protettorale erano i “dominatori” francesi a detenere e arrogarsi autorità per ridefinire una identità siciliana data dall’esterno [Cuche 2006 (1998), 109], costruita su stereotipi di cui i siciliani non riescono a liberarsi appieno neppure nel presente.
È necessario analizzare brevemente le dimensioni temporali e spaziali entro le quali si intende inquadrare le vicende identitarie della sicilianità. La storiografia più avvertita segnala nell’anno dell’instaurazione del protettorato francese, il 1881, la data simbolica e materiale in cui ha inizio l’arrivo significativo di immigrati attratti dalle grandi opere di modernizzazione promosse dall’amministrazione francese, provenienti da varie parti del Mediterraneo e perlopiù afferenti alle classi lavoratrici di bassa estrazione sociale [Loth 1905; Melfa 2008, 167; Pasotti 1971, 52-54; Pendola 2007, 60-61]. Da quel momento alcune aree del paese furono interessate dalla coesistenza di differenti nazionalità: tunisini, francesi, italiani – di cui molti siciliani – maltesi, greci, turchi, albanesi, spagnoli – soprattutto anarchici – [Sghaier 1997], portoghesi, russi fuggiti dalla Rivoluzione bolscevica, in misura minore europei centrosettentrionali e balcanici, immigrati dal Nord Africa e dalle aree subsahariane [Valensi 2000, 24]. In parallelo, il pluralismo si declinava sul piano religioso, con la convivenza tra musulmani, cristiani, di cui i cattolici costituivano la maggioranza, ed ebrei, sia europei che “autoctoni”. La metà degli anni Sessanta del XX secolo è convenzionalmente indicata come la fine della “Tunisia plurale”. In quegli anni lo Stato tunisino, acquisita l’indipendenza nel 1956, iniziò a attuare politiche restrittive verso la popolazione europea o d’origine europea, in qualche modo incoraggiata ad emigrare [Finzi 2016, 56]. È dunque questo il periodo cui ci si riferisce nel presente saggio.
Circa l’aspetto territoriale, le aree tunisine caratterizzate dalle presenze siciliane e coinvolte nei processi di coesistenza tra diverse componenti nazionali e religiose si concentravano tra Tunisi e i suoi sobborghi, soprattutto costieri, allargandosi verso nord-ovest fino a Biserta e i suoi dintorni, nelle aree rurali interne come Béja (circa 100 km a ovest della Capitale) e Zaghouan (circa 60 km a sud di Tunisi); nella fascia costiera nordorientale che, includendo il Cap Bon, si estende verso sud sino a Sfax, comprendendo due centri importanti come Sousse e Mahdia, e gli insediamenti agricoli circostanti [Campisi 2018].
Va detto che non per tutto l’arco di tempo di sopra menzionato la convivenza fu pacifica e stabile. Alcuni eventi storici scossero i rapporti intercomunitari. Durante il ventennio, il regime fascista con le sue rivendicazioni contribuì ad acuire decennali attriti con la Francia [Lewis 2014]. La Seconda guerra mondiale, le sue battaglie dei primi anni Quaranta, i campi in cui furono detenuti prima gli ebrei, poi i prigionieri dell’Asse, tra cui molti italiani, perturbarono ancora i rapporti [Fedorowich, Moore 2002, 3-7].
D’altra parte, le mélange culturel tunisien si poneva quale prosecuzione di processi decennali e secolari rilevabili in un’ottica di lunga durata [Speziale 2016, 18]. Le presenze turche, greche, albanesi e balcaniche erano eredità dell’Impero ottomano. Tra i secoli XVI e XIX giunsero in Tunisia, in modo temporaneo o stabile, mercanti e pescatori europei, genovesi (stabilitisi a Tabarka), ebrei “livornesi” in maggioranza di provenienza sefardita, musulmani andalusi, schiavi catturati nell’Europa meridionale nelle guerre di corsa, religiosi cattolici, soprattutto cappuccini [Bono 2005, 102-104; Loth 1905, 319-320; Melfa 2008, 49-50; Pasotti 1971, 15-16; Pendola 2007, 10-17, 59-60; Speziale 2016, 21-29]. Lo statuto di dhimma permise alle genti del Libro – ahl al-kitāb, termine che comprendeva ebrei e cristiani – di godere di diritti di minoranze “protette”, seppure in regime non paritetico, sotto le amministrazioni turche e nella Reggenza.
La Tunisie Mosaïque citata nel titolo è quella di un volume pubblicato nel 2000 a cura di Jacques Alexandropoulos e Patrick Cabanel, il cui sottotitolo è esplicativo: Diasporas, cosmopolitisme, archéologies de l'identité. L’idea del mosaico, dei pezzi diversi che si incastrano, ben descrive la molteplicità delle forme nazionali, sociali, culturali e religiose di una parte della società tunisina del periodo di tempo indicato di sopra. Il mosaico non garantiva una condizione di pari dignità alle varie componenti, poiché lo sfondo politico, sia quello del protettorato francese che dello Stato indipendente, era marcato da dinamiche di potere che si perpetravano nelle asimmetrie.
Il tema della Tunisie Mosaïque, avendo perso vigore con le politiche di tunisificazione accennate, riacquista energia nell’attualità più stringente. Protraendosi nei recenti anni “post-rivoluzionari”, si pone al centro dell’acceso dibattito che agita politica e società civile tra i fautori di un arroccamento su una monolitica identità arabo-islamica e i sostenitori di una tunisianità mediterranea, favorevoli alla valorizzazione degli apporti esogeni di sopra citati, a tutela delle diversità di ogni tipo e dei diritti delle minoranze.
Un altro obiettivo di questo contributo risiede nel sottolineare la complessità sociale e relazionale, la molteplicità plurale del contesto tunisino degli scorsi decenni in rapporto alla diversità come condizione “naturale”, trasversale e diffusa. Restituire la presenza siciliana in Tunisia e la mixité culturelle tunisienne alla storia e all’antropologia significa metterne in valore il portato politico, «riconsiderare, all’interno di un’ottica di lunghissima durata, il Mediterraneo come terra di mezzo, “pianura liquida”, area privilegiata da migrazioni pluridirezionali e reciproche» [Speziale 2016, 18], riproponendo attuali quesiti in prospettive capovolte.
La sicilianità emerge come fattore quantitativo preminente nel contesto tunisino della prima metà del XX secolo. In Tunisia tra il 1905 e i primi anni Quaranta la popolazione italiana si attestò tra le 80.000 e le 95.000 unità[5] [Pasotti 1971, 89], di cui i siciliani costituirono una cospicua maggioranza, variabile tra il 55% e il 75% [Loth 1906, 104; Speziale 2016, 35]. Ancora nel 1959 un censimento del Consolato d’Italia rilevò 51.702 italiani, l’86,3% dei quali veniva ascritto a un’appartenenza siciliana [Finzi 2016, 58].
Seppure l’incidenza numerica contribuisca alle rappresentazioni mentali di coloro che si autodefiniscono siciliani di Tunisia, è secondaria rispetto alle percezioni di condividere un’identità di gruppo. Il tratto comune più tangibile su cui tale identità si fonda è il riconoscersi in due tópoi: la Sicilia, “patria originaria”, luogo da cui si è esperita la migrazione o più spesso da cui provengono i propri avi, con cui si rivendica un legame «di sangue» eppure simbolico [Russo 2016, 103-104]; la Tunisia, dove si è nati e vissuti – almeno negli anni dell’infanzia e della giovinezza, coincidenti in larga parte con gli anni Quaranta e Sessanta dello scorso secolo, tra la fine del protettorato e l’inizio dello Stato indipendente – che ha accolto i propri avi. I legami con i due territori sono talvolta “mitizzati” e ri-memorizzati [Halbwachs 1925; Fabietti, Matera 1999; Candau 2002 (1998)]. Molte persone, di età diversa, che ancora oggi si definiscono siciliane non hanno conosciuto la Sicilia che per via indiretta. La stessa Tunisia è spesso il paese in cui si è vissuto solo per pochi anni a causa della strategia statale “di tunisificazione” promossa negli anni post-indipendenza. Il 12 maggio del 1964 la collettività italiana fu duramente colpita dalla promulgazione delle leggi sulla nazionalizzazione delle terre dei coloni europei [Pasotti 1971, 165], in seguito alla quale nel corso dello stesso anno si ridusse a 10.000 individui [Finzi 2016, 56], con una diminuzione del 70% in due anni. Le partenze dalla metà degli anni Sessanta coinvolsero molti siciliani, senza scalfirne la percezione di considerarsi ”siciliani di Tunisia”, che da quel momento in poi ha denotato soprattutto un sentimento di appartenenza a una comunità diasporica e immaginata [Anderson 1983, Fabietti 2013] capace di andare oltre il luogo fisico – la Tunisia in cui non si viveva più – e quello simbolico “originario”: le storie di vita rivelano che quasi mai l’espatrio si risolse con il “ritorno” in Sicilia. Coloro che optarono per trasferirsi in Italia preferirono zone ad alta densità industriale del Centro-Nord, come quelle di Torino e Milano o le provincie della Pianura Padana; grandi città “calde” come Roma e Napoli; la Pianura pontina, per la disponibilità di terreni agricoli. Nella gran parte dei casi meta privilegiata fu la Francia: dato da ricondurre all’istruzione scolastica in lingua francese cui molti siciliani erano stati costretti per la chiusura imposta alle scuole italiane dal Secondo dopoguerra [Finzi 2016, 48] e rivelatore dell’ambivalenza dei rapporti con i colonisateurs. In altri casi ci si rivolse all’Europa centro-settentrionale o alle Americhe.
Seppure le vite dei testimoni da me intervistati si svolgano degli ultimi decenni, i significati di appartenenza al gruppo dei “siciliani di Tunisia” si inseriscono in un contesto temporale più ampio. Le autonarrazioni iscrivono le proprie genealogie e il radicamento in Sicilia ripercorrendo le storie migratorie dei loro avi, che avvennero in tempi piuttosto lunghi e vari, intensificandosi tra la seconda metà del XIX secolo[6] e la prima del successivo [Pasotti 1971, 52-54; Pendola 2007, 60-61; Melfa 2008, 167]. A partire dall’Isola furono persone di generazioni differenti: molti siciliani di Tunisia erano nati nel paese nordafricano e spesso lo erano i loro genitori, i nonni, talvolta antenati più lontani.
I testimoni in molti casi tengono a mostrare il gruppo dei siciliani di Tunisia come un gruppo chiuso, quasi endogamico. Allo scopo di rafforzarne il carattere identitario e di preservarne la “purezza etnica” enfatizzano il ricordo di prescrizioni sociali che avrebbero limitato i matrimoni ai soli corregionali. Persino i contatti amicali, secondo alcuni, sarebbero stati di esclusiva pertinenza siciliana. Nonostante le retoriche, nella gran parte delle genealogie si presentano intrecci e mescolamenti in cui la sicilianità incontra provenienze da altre regioni italiane e nazionalità straniere, via via più fitte rimontando le generazioni. Presentarsi, come avveniva e avviene, come siciliani di Tunisia significa decidere di enfatizzare una linea genealogica, una afferenza culturale e sacrificarne altre [Fabietti, Matera 1999, 17]. Nella nostra indagine di campo, di cinquantotto italiani solo il 17% risale ad avi di unica origine siciliana: non a caso si tratta dei figli di coppie nate in Sicilia e immigrate in Tunisia. Al contrario, tutti gli altri hanno un genitore, un nonno, un bisnonno o un avo antecedente proveniente da Toscana, Puglia, Lazio, Abruzzo ecc. Nel 43% dei casi le genealogie rivelano almeno un antenato straniero: tunisino, algerino, turco, greco, maltese, albanese, francese.
Se sembra più comprensibile l’autopresentazione quali siciliani di Tunisia per coloro che “vantano” tre nonni siciliani su quattro, meno logica appare l’attribuzione dell’appartenenza esclusiva all’Isola quando a essere siciliano è uno solo dei due genitori. In questi casi sarebbe del tutto ragionevole definirsi analogamente “toscani di Tunisia” o “greci di Tunisia”, eppure è sulla sicilianità che si pone l’accento, al più presentandosi come «siciliano di padre calabrese»[7] o precisando: «sono siciliana, ma mia madre aveva mamma greca e papà turco»[8]. In qualche modo, la scelta dell’identità siciliana è un arbitrio con cui si vuole privilegiare una prospettiva tra quelle possibili. È una “essenza etnica”, non una provenienza geografica, che si vuole sottolineare. La Sicilia non è tanto un “territorio reale” quanto un orizzonte simbolico con il quale ci si identifica. Il “gruppo dei siciliani di Tunisia” diviene preminente per meglio descrivere e descriversi, non solo per ragioni quantitative ma per l’intrinseca capacità di rimandare a un “nucleo duro”, un habitus [Bourdieu 1980, 88] in grado di fondare una serie di caratteristiche sulle quali la sicilianità può strutturarsi e dalla quale viene strutturata.
Nei loro racconti i siciliani tendono a connotare la Tunisia in cui vissero infanzia e giovinezza – come detto, tra gli anni Quaranta e Sessanta – evidenziandone i tratti plurali, parlando con toni nostalgici di un mondo idealizzato e “romantico” che non c’è più: «c’era di tutto. Eravamo proprio una grande famiglia. Senza distinzione, né di razze, né di nazionalità, né di linguaggio»[9]. «C’era un rispetto reciproco, una tolleranza straordinaria. Tra noi non c’è mai stato: tu sei ebreo, tu sei italiano, tu sei francese, tu sei… con un tono spregevole, di disprezzo»[10]. Le testimonianze sottolineano una pacifica convivenza delle differenze. Al ricorrente rifiuto del razzismo e delle discriminazioni si aggiunge una ricorrente esaltazione di un vissuto comune concretato dalla condivisione degli spazi. Le abitazioni vengono presentate come luoghi in cui all’intimità familiare si intrecciava la spontanea inclusione del prossimo. Quasi sempre si parla di case “aperte” in cui ciascuno era ospitato con piacere e giovialità: «una casa lì c’era un italiano, lì c’era un maltese, lì c’era un ebreo, lì c’era un tunisino e tutto. E si cenava assieme, si mangiava assieme, se c’era una festa tunisina si faceva assieme, una festa francese assieme»[11]. Reciproci inviti caratterizzavano le giornate festive ebraiche, cristiane e musulmane. La partecipazione alle processioni della Madonna di Trapani, soprattutto a quella de La Goulette, vedevano presenze interreligiose anche per un senso di comune appartenenza e per il significato ludico [Russo 2017, 2020].
L’armonia è messa in discussione da alcune voci dissonanti. Karim, 60 anni, di madre trapanese e padre tunisino, indugia sulla separazione tra colonisateurs et colonisés: «quello che raccontano la maggior parte di arabi è che vivevano insieme sono gli ebrei, gli italiani, i siciliani e anche i maltesi, che abitavano laggiù [indica una zona de La Goulette]. Però, diciamo, contro li francesi, perché era all’epoca del protettorato francese»[12]. I siciliani di Tunisia definiscono spesso la propria identità in opposizione ai francesi. In molti casi, allontanandosi dai detentori del protettorato, si rappresentano come “vicini” ai tunisini in un processo che – tenendo conto di debite distinzioni dovute alle differenze tra i contesti coloniali francesi e quelli britannici – ricorda le interpretazioni identitarie come relazione a tre termini teorizzate da Epstein [1958] nella Copperbelt e riprese da Amalia Signorelli [1986]. Una formula particolarmente fortunata che ha descritto la loro posizione è l’espressione di Albert Memmi [1985], che si riferiva in generale agli italiani, con cui osservava il situarsi a metà strada tra colonizzati e colonizzatori [Davì 2000; Memmi 1985, 42-43]. In questo modo si voleva sottolineare la tendenza dei siciliani, per necessità, opportunità e abilità, a occupare l’ampia distanza tra i dominatori francesi e i tunisini. Questa tripartizione semplificata dipendeva dalle condizioni date dal potere protettorale: indegni di parità nei confronti dei colonizzatori, i siciliani venivano posti da questi su un piano di superiorità – in quanto europei – rispetto agli “autoctoni”.
Le testimonianze siciliane riconducono di continuo a francesi e tunisini: «tra siciliani e tunisini era molto più facile avere una fratellanza, avere un buon rapporto. Ma con i francesi no. I francesi sono sempre stati visti come i colonizzatori, gli invasori del proprio territorio»[13]. La logica oppositiva alla presenza francese è richiamata anche da fonti orali tunisine: «Il rapporto tra la popolazione tunisina e gli italiani, cioè i siciliani[14], era molto più stretto che con i francesi. Era una specie di reazione contro la colonizzazione francese»[15]. È un tema su cui molti siciliani concordano, lamentando nello sguardo francese alterigia e disprezzo. La premura di volersi differenziare dal colonizzatore implicava l’avvicinamento tra siciliani e tunisini. La processione della Madonna di Trapani a La Goulette era occasione non solo religiosa ma anche politica, in cui la compartecipazione di siciliani e tunisini era in parte un “esorcismo antifrancese” capace di rinsaldare la coesione sociale dei subalterni [Russo 2017, 504-506; 2020, 107-148].
I siciliani parlano dei tunisini avendo costantemente come polo opposto i francesi, dai quali esprimono distacco: «tutti i miei fratelli hanno giocato a calcio insieme agli arabi: a dei francesi, assolutamente no. […] A scuola, noi eravamo sempre in conflitto con i francesi, a récréation quelli erano lì e noi tra di noi»[16].
La memoria siciliana circa i conflitti con i francesi non si gioca solo sul passato ma si invera nel presente. Monique, siciliana di Tunisia che oggi vive in Francia, così riattualizza gli antichi dissapori:
Noi abbiamo vissuto italiani, ebrei e tunisini insieme, ma i francesi sempre da parte. Adesso lo capisco: io vivo in Francia ma non ne posso più, non ne posso più! […]. Lo sai, quando parlo, i francesi dicono: “hanno perduto con Mussolini, italiani hanno fatto la guerra con Mussolini, italiani hanno fatto…”. Dicono sempre così i francesi. Io mi baruffo sempre e per questo tutti i giorni mangio la mozzarella. Quando ho un francese a casa: mozzarella! Sono molto cattiva! [ride][17]
La mozzarella “imposta” ai francesi assurgerebbe a simbolo di riscatto dalle umiliazioni subite.
Nei primi decenni del protettorato, soprattutto tra 1890 e 1920, venne forgiata l’idea di “razza siciliana”. Veicolata inizialmente dai vertici francesi con connotazione negativa, fu rielaborata dai siciliani stessi sovvertendone i significati, cristallizzandosi al punto che ancora oggi ne sono visibili tracce identitarie.
La rivalsa da parte siciliana verso le autorità francesi discussa nel paragrafo precedente ha un fondamento nelle asimmetrie di potere. Stampa, pubblicistica e classe politica francesi dalla fine del XIX secolo costruirono e diffusero stereotipi negativi sugli italiani. L’incidenza numerica[18] e la generale vulnerabilità degli immigrati provenienti dall’Isola li posero come capro espiatorio privilegiato. La migrazione siciliana era associata, nell’immaginario delle autorità francesi e in quello tunisino, alle classi lavoratrici capaci di impiegarsi in lavori faticosi nell’edilizia, nell’agricoltura, nella pesca, nell’artigianato e nella piccola industria[19]. I siciliani stessi producevano – e ancora oggi rivendicano con orgoglio – una narrazione edificata su resistenza al lavoro, spirito di sacrificio, sobrietà, parsimonia, praticità di idee, fermezza di propositi che avrebbero permesso alle generazioni successive di migliorare le condizioni socioeconomiche. Questa descrizione, plasmata tra dinamiche interne ed esterne, appiattiva i siciliani sulla rappresentazione di forza-lavoro poco qualificata e alimentava il malcontento di lavoratori e disoccupati francesi. Aizzati da giornalisti, politici e intellettuali francesi con il compiacimento della leadership protettorale, questi accusavano i siciliani di “concorrenza sleale” a causa della presunta preponderanza a obbedire al padrone, all’asservimento passivo, alla disponibilità di accettare salari bassi [Melfa 2008, 70-71]. La Francia aveva così identificato le péril italien nell’invasione dei siciliani, «popolo rozzo, selvaggio e irascibile, pericoloso e violento e dedito spesso alla malavita, gente che sbarca di notte illegalmente sulle nostre coste, spesso senza documenti e sotto falso nome, per la maggior parte galeotti, fuggiti alla giustizia italiana: così i giornali dell’epoca francesi, descrivevano i siciliani» [Campisi 2018]. Isolati da episodi di cronaca realmente accaduti, risse, omicidi, omertà, mafia, violenze di genere, prostituzione divenivano “tratti tipici” che fondavano una “razza” declinata al negativo: i siciliani poveri, dal basso livello di istruzione, vagabondes en guenilles, erano tacciati di essere «les éléments perturbateurs de la tranquillité publique» [Loth 1905, 336]. La criminalità siciliana veniva da un lato amplificata per catalizzare l’idea di pericolo, dall’altra ridicolizzata per accentuare la figura caricaturale del siciliano geloso, passionale, istintivo, «amante del coltello» [Melfa 2008, 96].
Il pregiudizio che le autorità francesi tentavano di diffondere si fondava sull’imposizione dello stigma delinquenziale alla totalità dei siciliani. Per altro verso, presenze mafiose siciliane in Tunisia erano realmente riscontrabili: «Une véritable maffia, analogue à celles qui fonctionnaient à Palerme et à Trapani, s’était organisée à Tunis. Il y eut des crimes qui produisirent dans toute la Colonie une impression d’autant plus profonde que leurs auteurs restaient insaisissables» [Loth 1905, 331]. Controversie terminate in omicidi e vendette pubbliche, risse tra contendenti siciliani, omertà, presenze mafiose sono documentate [Loth 1905, 329-330; Lupo 1996 (1992), 154], soprattutto nella Piccola Sicilia di Tunisi [Giudice 2003, 219]. Qui vivevano siciliani che usavano prepotenze e violenze per intimorire il prossimo, «quelli che portano sempre il coltello addosso, pronti ad usarlo senza pensarci troppo. […] Signorotti, mafiosetti, ed altri “mala cunnutta” che facevano un po’ il bello e il cattivo tempo» [Campisi, Pisanelli 2015, 120]. Alcune fonti orali siciliane riferiscono di presenze delinquenziali ambigue, inserite nel tessuto sociale siciliano con traffici illeciti, estorsioni, interventi minacciosi e atteggiamenti vessatori che si fondavano sulla certezza del silenzio delle vittime. «Tutti mafiosi, gente bassa […], malandrini» che tuttavia «non davano fastidio»[20]. La mafia aveva contribuito all’emigrazione siciliana che oggi chiameremmo “irregolare” [Melfa 2008, 230-231; Pendola 2007, 22]. Mafiosi siciliani “a riposo” in Tunisia «si sono riconvertiti, […] si sono buttati un po’ sulla prostituzione»[21], sviluppando una tratta delle minori con cui prelevavano fanciulle con inganni o lusinghe o profittando della povertà dei genitori [Russo 2018, 182-183, 186-189].
L’etnografia apre a una profonda complessità che emerge dagli interstizi di piccole e grandi contraddizioni. Permette di sfatare stereotipi e altresì di registrare sentimenti ambivalenti rispetto ai francesi. Le rappresentazioni dei tunisini verso i siciliani, e ancora quelle dei siciliani verso i tunisini, rivelano idee diversificate, in cui l’”amicizia” delineata in precedenza sfuma finanche in posizioni razziste.
Circa i rapporti con i francesi, per tutto il periodo del protettorato le dinamiche si presentavano molto diversificate. Parecchie famiglie siciliane con la Francia – o “l’idea” di Francia – intrattenevano rapporti ambigui, in cui sentimenti di odio e di rivalsa si mescolavano ad attrazioni per condizioni sociali più agiate, ammirazione per gli stili di vita, il livello di istruzione, i modelli, i valori “rivoluzionari”, le mode, i gusti.
Ad aggiungere destabilizzazione alle percezioni di identità siciliane contribuivano le politiche dell’amministrazione francese volte alle naturalizzazioni, che comportarono per alcuni siciliani l’opzione di assumere la nazionalità francese, soprattutto per nuove opportunità lavorative, mentre coloro che ne rifiutavano l’acquisizione rinforzarono un arroccamento sul sentimento di fierezza della sicilianità. In altri casi furono provvedimenti normativi a determinare le nazionalità rispetto all’anno di nascita: negli stessi nuclei familiari alcuni fratelli nascevano italiani e altri francesi [Russo 2016, 88-95]. Si era creata una frattura dentro la collettività siciliana, e italiana in genere, tra coloro che tendevano a conservare la nazionalità degli avi quale fattore imprescindibile della propria autorappresentazione e quelli «dall’identità fragile e sradicata» [Campisi, Pisanelli 2015, 26], potenziali candidati alla naturalizzazione francese.
Alcune fonti orali permettono di analizzare posizionamenti più critici da parte tunisina verso i siciliani. Enrico, proveniente dalla provincia trapanese, asserisce che nel presente le immagini che i tunisini hanno dei siciliani sono viziate da un passato stereotipato segnato dalla miseria siciliana:
Ancora c’è questa visione di povertà, di grande povertà. […] È curioso, perché in realtà è rimasta l’idea di questa povera gente che arrivava dalla Sicilia in Tunisia. E quindi Sicilia per questo è sinonimo di povertà, e continua fino ai nostri giorni. Cioè: “Sicilia, va bene, poveri disgraziati”![22]
L’equazione tra sicilianità e povertà viene confermata da parte tunisina. Nassim afferma: «ancora oggi i vecchi tunisini del mio quartiere [tra la medina e la Piccola Sicilia a Tunisi] quando gli dici che sei siciliano pensano che sei molto povero»[23]. Bechir ricorda: «Quando dissi in famiglia che volevo sposare una donna siciliana, le mie zie mi dicevano: perché vuoi sposare una donna povera?»[24].
Da parte siciliana affiorano diffidenze verso i tunisini, di cui si sottolinea l’incapacità di relazionarsi agli europei: auto-isolati e timorosi, sarebbero stati quasi consapevoli di una presupposta inferiorità nel contesto protettorale. Un particolare emerso da alcune narrazioni siciliane è indicativo dell’esclusione tunisina: l’affermazione di non aver avuto necessità di imparare l’arabo tunisino. Se in qualche caso la mancata comprensione della lingua locale è rivelatrice di relazioni che si esaurivano tra corregionali (aspetti sociali, culturali ed economici) e con i francesi (rapporti amministrativi ed economici, livello giuridico, istruzione) in altri era marcata da un rifiuto esplicito per ogni elemento attinente all’orizzonte tunisino. Da un lato i tunisini considererebbero troppo poveri i siciliani, dall’altro i siciliani sembrano arrogarsi una incondizionata superiorità. Le narrazioni siciliane danno per assodato il proprio situarsi in una posizione più elevata nella scala sociale e culturale. Uno sguardo positivista, evoluzionista e coloniale che legittima il paradosso dei tunisini “stranieri a casa loro” – al punto che gli italiani non avevano ragione di imparare la “lingua dei nativi” – ed estranei alla società europea di Tunisia, se non estranei a se stessi.
Se è più facile analizzare le ragioni per cui molti italiani di recente immigrazione stigmatizzano i tunisini secondo caratteri essenzializzati e stereotipati, soprattutto nei casi in cui gli “autoctoni” lavorano alle loro dipendenze, più sorprendente è registrare la naturalezza del tono paternalista di alcuni siciliani nati in Tunisia:
A me dà fastidio quando ci sono critiche, perché io amo i tunisini. I tunisini hanno fatto grandi sforzi, però la loro cultura è quella! Non possono dare più di quello che sono, più di quello che hanno. A un certo punto c’è un limite, e loro quando arrivano a quel limite, non possono fare di più.[25]
Rossana, imprenditrice nata in Tunisia i cui nonni erano immigrati dalla Sicilia nel paese nordafricano, si pone a difesa dei tunisini, a suo dire ingiustamente criticati da altri italiani. Nel suo apprezzamento per i «grandi sforzi» da loro compiuti, nella dichiarata capacità di comprendere il limite oltre il quale i tunisini «non possono fare di più» risiede l’inconsapevole marchio inferiorizzante che tocca il razzismo [Cuttitta 2009].
Una serie di testimonianze segnala che le interazioni nella Tunisia del protettorato e nel primo decennio di indipendenza fossero venate da livelli di conflittualità: oltre le apparenze e la tolleranza di superficie i rapporti potevano essere segnati da irriducibili divisioni. «Il mondo era molto “compartimentato”: gli italiani con gli italiani[26], i francesi con i francesi, gli arabi con gli arabi. Quando – perché succede, perché la vita è stata così – qualcuno usciva da questo… era respinto»[27].
L’idea di una società separata in microgruppi emerge dalla naturalezza dei momenti di svago, secondo alcuni interlocutori rivelatori di chiusure etnico-nazionali. Bechir ricorda che a Sousse negli anni Cinquanta «le passeggiate erano interessanti, in quanto c'erano delle file di italiani, poi le file dei tunisini, le file dei francesi e quelle degli ebrei»[28]. La divisione fisica dei gruppi secondo nazionalità e religioni costituisce tema dibattuto da altri interlocutori, i quali rimarcano non tanto il métissage quanto la presenza nello stesso luogo di diversità che interagivano scarsamente. Bechir asserisce che nell’intimità delle confidenze casalinghe l’armonia si tramutava in sentimenti sostenuti da irriducibile etnocentrismo:
Cosa si diceva in casa? L'ebreo prendeva in giro l'arabo musulmano, che era un nulla, per lui, mentre l’ebreo stesso era il più povero di queste categorie. Parlo degli ebrei di origine tunisina, non di quelli europei. Il francese si sentiva superiore, non stava a guardare nessuno: erano "il potere", quelli protetti dal residente generale e da tutta la forza militare, le caserme. Vedi che il tunisino ammirava il francese, ma teneva in poca considerazione il siciliano, perché era quello povero, quello con poco potere, più debole rispetto alle altre comunità. L'arabo quando parlava dell’ebreo lo faceva in parole che oggi definiremmo antisemite[29].
Dopo aver rilevato la presenza di coppie “miste”, abbiamo riscontrato in altre narrazioni restrizioni matrimoniali per nazionalità e religione, la cui trasgressione culminava con la recisione dei contatti e l’oblio dalla memoria familiare:
La sorella della nonna di mia madre [attorno al 1915], si è sposata con un tunisino e da quel giorno… la famiglia ha chiuso con lei. Non so neanche come si chiamava di nome, che fine ha fatto, se ha avuto figli… non lo so. So soltanto che si è sposata con un tunisino, dunque è scomparsa nel nulla. […] Non erano tanto contenti, era un po’ così, non si parlava, non se lo diceva troppo, ma a quei tempi lì era una cosa tremenda, tremenda. Io da piccola, mi ricordo, ho sempre sentito mia madre, mia nonna, che ne so, i vecchi, dire: “con i tunisini fai quello che ti pare, amicizia, lavoro, giocare, andare a ballare, a scherzare, alla spiaggia, quello che ti pare, ma non ti devi sposare!” Era la regola, da piccola, eh?[30]
Colpisce la forte sanzione sociale. Il nome dimenticato è atto simbolico che invera l’allontanamento dalla famiglia e la cancellazione non solo dalla genealogia siciliana ma dell’esistenza stessa della donna. L’episodio non rappresenta un caso isolato: «’na volta mio nonno m’ha detto che c’era un tunisino che voleva mia mamma: c’ha dato ‘o schiaffo, l’ha fatto girare du’ volte! [ride] Nun è più venuto»[31].
Nassim rovescia il punto di vista, poiché nella famiglia materna ci sono stati due matrimoni con donne italiane,
di cui una che ha conosciuto lo zio di mia madre, che hanno lavorato insieme in una fabbrica a Tunisi. Si sono conosciuti, si sono amati, e quando lui ha chiesto la mano alla sua famiglia, la sua famiglia non aveva accettato: “impossibile, nostra figlia sposa uno che non è italiano e non è cristiano!” Lei era innamorata di lui, lui di lei. Così alla fine al matrimonio lei era da sola. Quindi è stata proprio eliminata dalla famiglia. Aveva rotto con la sua famiglia[32].
L’intervistato ricorda che la zia italiana si convertì da sola all’islam, diventando «la donna più pia, più religiosa della famiglia […]. Lei andava sempre in moschea. Lei è andata a fare il pellegrinaggio alla Mecca, gli altri no»[33]. Il comportamento della zia italiana strideva con quello degli altri familiari tunisini, che a detta di Nassim neppure si preoccupavano di pregare con regolarità. Dell’altra zia italiana l’interlocutore afferma: «non so come si chiamava in italiano, noi la chiamavano Zehiya. Anche lei si era convertita all'islam, era una donna molto, molto rispettata»[34].
Il quartiere dove ha vissuto Nassim a Tunisi, tra la medina e la Piccola Sicilia, era un luogo segnato, nel XX secolo, dalle relazioni ambigue tra mescolamento etnico-religioso e separazione. C'erano molti siciliani e italiani che, convertitisi all’islam, rompevano in modo definitivo con la famiglia di origine.
Mia madre mi parla di un'amica sua che si era convertita. Si chiama Giorgetta. Giorgetta si è convertita da sola, e quando suo padre era sul letto di morte, si ricorda mia madre che lei piangeva e gli diceva: “papà, non credere alla croce!” E lui si arrabbiava: “fatela uscire dalla stanza!” Mia madre mi diceva che lei piangeva, piangeva, piangeva. Lei piangeva per il padre. Lei ha delle conoscenze superiori a quelle di mia madre. Mia madre non è andata a scuola, le sue conoscenze della religione sono più tradizionali che di studio, non ha studiato praticamente niente. Invece Giorgetta ha studiato, quindi mia madre si meravigliava di lei, che non pensava alla morte ma al padre che stava per morire da non musulmano[35].
Il padre di Nassim gli raccontava di un suo amico italiano che un giorno, all’improvviso, abbandonò la casa paterna. Tornò dopo quindici anni, attorno al 1940:
è tornato con un vestito arabo, di una zona che si chiama Testour, una città di origine andalusa, con una moglie con un vestito tradizionale tunisino e con vari bambini. Quindi era tornata un'altra persona! Quando è tornato a casa, il padre era rimasto a bocca aperta: “ah, questo è mio figlio? Non ti riconosco più! Vai via!” Mio padre mi diceva che il figlio era rimasto perplesso: quello era suo padre, ma lui aveva fatto un’altra scelta. Il figlio era rimasto perplesso e scioccato. Non sapeva come affrontare il problema tra la nuova famiglia musulmana e la sua vecchia famiglia. Perché lui era molto legato anche alla vecchia famiglia. E poi è sparito di nuovo. Mio padre non ha saputo più nulla di lui, non si è più saputo[36].
Da un lato, l’inconfutabilità delle statistiche e le ricostruzioni genealogiche tramite le fonti orali riferiscono di molti legami matrimoniali tra persone di nazionalità e religioni differenti. Coppie islamo-cristiane intervistate, o figli di genitori di confessioni diverse, negano difficoltà nella gestione dell’educazione della prole, sottolineando la libertà di scelta per l’opzione religiosa. Dall’altro, le testimonianze qui presentate rafforzano le appartenenze a gruppi chiusi, impermeabili agli scambi matrimoniali, pena l’estromissione dei “trasgressori” dai gruppi familiari e sociali.
Le analisi delle rappresentazioni identitarie dei siciliani di Tunisia evidenziano contrapposizioni e fertili connessioni che permettono di riflettere sulla complessità degli incroci culturali e delle convivenze. Sovvertendo stereotipi e semplificazioni, mostrano aspetti diversificati tra loro, finanche contraddittori: sintomo dell’elevato tasso di variabilità delle memorie, per ragioni insite di eterogeneità e stratificazioni, complicate dalla realtà diasporica e dalle condizioni di potere del contesto protettorale e dei primi anni dello Stato indipendente.
Nelle diverse varianti, la sicilianità appare, a seconda delle strategie, un elemento monolitico o un’estrema “ibridazione”, con confini permeabili o rigidi, in rapporto dialettico e ambivalente tra mescolamenti e “purezza”, strumentale agli obiettivi. In un processo di costruzioni e ricostruzioni, di appropriazioni e selezioni simboliche, la coesistenza di memorie contese e conflittuali non è segnale di incoerenza ma di complessità sociale [Fabietti, Matera 1999, 10-11]: le relazioni tra il sé e l’alterità non sono mai unidimensionali. Giudizi di valore positivi o negativi, allontanamenti e avvicinamenti tra “diversi”, tentativi di inglobare l’altro o di assumerne caratteri, idee e valori costituiscono aspetti complementari e compenetranti.
I diversi casi discussi nei paragrafi precedenti evidenziano che tentare di spiegare cosa significhi essere siciliani di Tunisia – e cosa sia stata la Tunisia del secolo XX – comporta non tanto adottare una “teoria univoca” nella speranza di dare omogeneità al fenomeno quanto valutarne la complessità e le diverse rappresentazioni. Assumere una prospettiva eccessivamente netta preclude la possibilità di indagare la problematicità che il lavoro di campo restituisce alla storia e all’antropologia. I siciliani si caratterizzano per identità articolate, ambigue, contrastanti, apparentemente incoerenti. Non si può affermare che i siciliani fossero poveri senza incappare in eccezioni, così come sarebbe un errore negare l’esistenza di alcuni siciliani che vivevano in condizioni di indigenza. Gli stereotipi sui siciliani, montati principalmente dai francesi per precisi scopi politici, non nascevano dal nulla, pur essendo creati con intenti diffamatori e procedimenti artificiosi.
In rapporto alle nazionalità – un po’ italiani, un po’ tunisini, un po’ francesi –, alla variabilità delle aree geografiche e culturali, i siciliani avevano percezioni diversificate, così come diversificate erano le immagini e le costruzioni che di essi avevano e diffondevano francesi e tunisini. Le singole biografie mostrano la fallacità di teorie generalizzanti e di logiche esclusive ed escludenti. Karim, portiere di uno stabile a La Goulette, sintetizza significati solo all’apparenza inconciliabili. Il padre era un uomo tunisino musulmano mentre sua madre nacque a La Goulette da una famiglia emigrata da Castelvetrano (Trapani). Cattolica, aveva lavorato come custode all’église Saint-Augustin-et-Saint-Fidèle nella cittadina portuale.
Lei frequentava la chiesa o la moschea?
Tutt’e due. La chiesa e la moschea.
Tutt’e due?
Perché, non posso andare sia in chiesa che in moschea? Con mia madre andavo in chiesa, ancora oggi ci vado. Alla moschea, andavo con mio padre e oggi ci vado ancora. Non è strano. Per me è normale. Sono abituato così[37].
Persino i rapporti tra tunisini e francesi, colti nell’intimità di un’umanità comune, denotavano relazioni di mescolamento su cui proprio la religione getta luce:
I vicini di casa di mia madre erano francesi. I genitori erano morti, e la famiglia di mia madre negli anni Cinquanta aveva preso con sé i due bambini francesi. Mia madre e i suoi fratelli sono cresciuti con questi bambini francesi. Mia madre aveva uno zio imam e i bambini francesi andavano alla moschea: era normale, non si erano convertiti e nessuno pensava di convertirli. Pure mia madre, con i suoi fratelli e coi “fratelli adottivi” andava in chiesa a sentire la messa[38].
Due polarità opposte segnano le rappresentazioni dei gruppi sociali nella Tunisie Mosaïque: i mescolamenti tra diversità – nazionali, religiose ecc. – e l’irrigidimento dei loro confini. Le pratiche matrimoniali ne testimoniano sia la fluidità che l’ambivalenza, con prescrizioni sanzionatorie e unioni tra persone di nazionalità e fedi differenti. Se da un lato si tende a promuovere la «grande famiglia» priva di distinzioni, «né di razze, né di nazionalità, né di linguaggio»[39], dall’altro si stava «assieme, ma ognuno pe’ cunto suo»[40]. O, volendo interpretare come metafora l’affermazione di un’anziana siciliana che parla di suo padre allevatore: «Pecure, pecure c’aviva. Pecure ciciliane: no pecore morische. Perché c’erano e pecure morische, e pecure francise, e pecure ciciliane. E pecure ciciliane erano megliu, pe fare lu formaggiu, a ricotta»[41].
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[1] Si tratta di una coesione che verrà problematizzata nel contributo, costruita dalle rappresentazioni, tanto emiche che da quelle di chi ha detenuto il potere, utilizzata in modo retorico dai siciliani e da altri attori sociali.
[2] Ho modificato i nominativi degli intervistati per preservarne le reali generalità. In nota vengono indicati alcuni elementi per contestualizzare ogni testimonianza.
[3] Audio e video, trascrizioni e fotografie sono depositati dall’ottobre 2014 presso il Laboratorio di Antropologia delle immagini e dei suoni “Diego Carpitella” del Dipartimento SARAS di Sapienza Università di Roma.
[4] Si affronterà nel seguito la questione dei dati numerici circa la sicilianità tra gli intervistati.
[5] Le statistiche evidenziano discrepanze circa “i numeri” delle presenze italiane in Tunisia in dipendenza delle fonti utilizzate. Le cause sono dovute in parte a imprecisioni di calcolo, più spesso a manipolazioni e strumentalizzazioni politiche, sia da parte italiana che francese [Speziale 2016, 40].
[6] In qualche caso, gli intervistati risalgono ad avi approdati in Tunisia prima dell’inizio del protettorato francese.
[7] Intervista del 09.08.2012, Tunisi, a Fabio, circa 70 anni, coniugato, un figlio, titolare di una attività commerciale, di origine siciliana per via materna.
[8] Intervista del 19.08.2012, Hammamet, a Monique, circa 70 anni, coniugata, pensionata, di padre siciliano e madre turca, vive in Francia.
[9] Intervista del 08.08.2012, Le Kram, a Gualtiero, circa 50 anni, coniugato, un figlio, impiegato presso un organismo pubblico italiano, entrambi i genitori di origine siciliana.
[10] Intervista del 12.08.2012, Khereddine, a Michele, circa 90 anni, coniugato, due figli, imprenditore in pensione, entrambi i genitori di origine siciliana.
[11] Intervista del 09.08.2012, Tunisi, a Fabio, cit.
[12] Intervista del 11.08.2013, La Goulette, a Karim, circa 60 anni, celibe, portiere di uno stabile, di madre trapanese e padre tunisino.
[13] Intervista del 26.09.2015, Roma, a Stefano, circa 60 anni, coniugato, un figlio, imprenditore, entrambi i genitori di origine trapanese, emigrato in Italia dalla fine degli anni Settanta del XX secolo.
[14] In questo e in altri casi, gli interlocutori utilizzano i termini “siciliano” e “italiano” confondendoli o considerandoli in stretta relazione. Si rimanda al paragrafo successivo e alla nota 26 per alcune spiegazioni.
[15] Intervista del 13.04.2016, Ariana, a Ferjani, circa 70 anni, coniugato, due figli, tunisino, pensionato dopo essere stato impiegato presso una banca a Tunisi.
[16] Intervista del 10.08.2012, Tunisi, a Mario, circa 70 anni, coniugato, imprenditore, entrambi i genitori di origine siciliana.
[17] Intervista del 19.08.2012, Hammamet, a Monique, cit.
[18] Nell’anno di instaurazione del protettorato francese, il 1881, risiedevano in Tunisia 11.200 italiani a fronte di 700 francesi. Questa discrepanza numerica permase, con proporzioni differenti, per lungo tempo. Nel 1896 gli italiani erano 55.000 e i francesi 16.000. Nel 1911 il confronto evidenzia 88.000 presenze italiane e 46.000 francesi [Pasotti 1971, 50]. Si è detto che tra gli italiani le presenze siciliane si attestarono tra il 55% e il 75% [Loth 1906, 104; Speziale 2016, 35].
[19] Un’indagine del Consolato d’Italia del 1903 rilevò su 4.000 individui di nazionalità italiana la seguente classificazione lavorativa: 40% operai, 15% industriali, 14% agricoltori, 8% commercianti, 5% impiegati, 5% marinai e pescatori, 4% domestici, 2% liberi professionisti o artisti, 2% lavoratori nei trasporti, 5% inoccupati. Nello stesso periodo la Direction de la Sûreté rilevò su 6.354 italiani le percentuali che seguono: sterratori e manovali 22,5%, artigiani 18,2%, muratori e tagliatori di pietre 14,5%, commercianti e industriali 11,5%, agricoltori 8,4%, pescatori 7,7%, minatori 7,7%, domestici 4,3%, operai non qualificati 3,1%, liberi professionisti 0,8%, artisti di teatro 0,8%, mansioni non conosciute 0,5% [Loth 1906, 131].
[20] Intervista del 03.08.2012, Radès, a Gioacchino, circa 80 anni, celibe, sarto in pensione, entrambi i genitori di origine trapanese.
[21] Intervista del 09.08.2012, Tunisi, a Fabio, cit.
[22] Intervista del 30.07.2013, La Marsa, a Enrico, circa 50 anni, celibe, docente, immigrato dalla provincia di Trapani alla fine degli anni Novanta.
[23] Intervista del 22.03.2014, Roma, a Nassim, circa 50 anni, coniugato, un figlio, tunisino, libero professionista.
[24] Intervista del 09.01.2016, Tarano (RI), a Bechir, circa 70 anni, divorziato, due figli, imprenditore in pensione, tunisino. È nato a Sousse, da cui è partito per Parigi per gli studi universitari. Ha vissuto in Francia e oggi risiede in Italia.
[25] Intervista del 19.08.2012, Hammamet, a Rossana, circa 65 anni, coniugata, tre figli, imprenditrice, entrambi i genitori di origini trapanesi.
[26] Il rapporto tra sicilianità e italianità nella Tunisia del periodo considerato è articolato. A seconda delle percezioni, delle rappresentazioni e delle retoriche, i siciliani erano considerati talvolta “una parte” degli italiani, i più numerosi, altre volte le due categorie sfumavano sino a coincidere. In qualche caso l’identità siciliana si frammenta nelle appartenenze specifiche alle varie aree dell’Isola, come accadeva nel caso dei panteschi. Tra gli altri italiani, la comunità ebraica era considerata l’élite intellettuale, imprenditoriale, politica, finanziaria. Impiegata nell’esercizio dell’avvocatura, della medicina e della farmacia, era impegnata nell’associazionismo benefico e in attività di sostegno verso gli italiani più poveri, tra cui figurava parte dei siciliani [Russo 2016].
[27] Intervista del 04.08.2012, Carthage, a Valeria, circa 60 anni, coniugata, due figli, di origine siciliana da parte paterna, vive in Francia.
[28] Intervista del 09.01.2016, Tarano (RI), a Bechir, cit.
[29] Ibidem.
[30] Intervista del 04.08.2012, Carthage, a Valeria, cit.
[31] Intervista del 19.08.2012, Hammamet, a Lorena, circa 70 anni, divorziata, casalinga, entrambi i genitori di origine siciliana.
[32] Intervista del 22.03.2014, Roma, a Nassim, cit.
[33] Ibidem.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem.
[36] Ibidem.
[37] Intervista del 11.08.2013, La Goulette, a Karim, cit.
[38] Intervista del 14.04.2016, Ariana, a Emna, circa 65 anni, coniugata, due figli, tunisina, casalinga.
[39] Intervista del 09.08.2012, Tunisi, a Fabio, cit.
[40] Intervista del 16.01.2016, Roma, a Giovanna, cit.
[41] Intervista del 09.08.2012, La Goulette, a Lucia, circa 80 anni, nubile, entrambi i genitori di origine siciliana.