Retoriche xenofobe e migrazioni

La percezione di razzismo e discriminazione fra donne somale a Napoli

Milena Greco

Università degli Studi di Napoli Federico II

Indice

Introduzione
La presenza somala sul territorio
Le storie e i punti di vista di rifugiate e richiedenti asilo fra accoglienza e pregiudizio
Segregazione e stereotipi islamofobici tra le donne che hanno intrapreso percorsi di stabilizzazione
Violenza di genere e discriminazione istituzionale nelle esperienze delle richiedenti asilo
Islamofobia, percezione del razzismo e identità ibride: la testimonianza di una giovane di seconda generazione
Considerazioni conclusive
Bibliografia

Abstract. This article intends to reflect on the rhetoric connected with neo-racism and islamophobia, based on the experience and perception of prejudice, stereotypes and discrimination amongst Somali refugees and asylum seekers in Naples. This was achieved by matching the viewpoints of those women having been in the area since longer with those of the newcomers. This research, enacted by an anthropological approach and started in 2018, was implemented through participant observation, thematic interviews to the representatives of the main local Somali associations and by interviewing the female asylum seekers and refugees in depth.

Keywords: Neo-racism; islamophobia; gender; Somali immigration; female asylum seekers and refugees.

Introduzione

Il panorama migratorio italiano complesso, dinamico, in cui si intrecciano nuovi e vecchi flussi migratori è stato caratterizzato, fin da principio, da una considerevole componente femminile, che a sua volta, costituisce un universo variegato e articolato[1]. Gli stranieri, d’altro canto, sono stati, sempre più, negli ultimi anni, bersaglio di retoriche politiche e sociali legate al neo-razzismo,[2] all’islamofobia,[3] sovente strumentalizzate in ambito politico ed amplificate dai media. Retoriche che hanno alimentato una rinnovata percezione di insicurezza, dando linfa ad una sindrome da invasione [Macioti, Pugliese 2010] divenuta, ad oggi, ancor più pervasiva rispetto al passato, così come ad immaginari sfociati, talora, a vere e proprie azioni di stampo razzista [Aime 2016, Alietti 2018; Idos 2019; Naletto 2009; Lunaria 2017; Rivera 2009; 2017; Palidda 2009][4].

Le migrazioni, in ogni caso, come ha evidenziato Sayad [2002] in quanto «rivelatrici delle più profonde contraddizioni di una società, della sua organizzazione politica, delle sue relazioni con altre società» [Sayad 2002, X] possono rappresentare un punto di osservazione privilegiato per riflettere su questioni e problematiche legate a forme di stigmatizzazione e di xenofobia, che, in una prospettiva di genere, costituiscono lo specifico focus di questo testo.

Ampio ed articolato è il dibattito teorico che ruota attorno alle dinamiche del razzismo,[5] che investendo una molteplicità di dimensioni, può essere considerato, secondo alcuni studi, un «fatto sociale totale» [Rivera 2001, 208], difficile da ricondurre, come ha evidenziato Signorelli, a «basi razionali», in quanto agisce soprattutto a livello simbolico [Signorelli 2006, 210]. Diverse indagini, d’altronde, hanno evidenziato l’importanza di tener conto della dimensione storica nella sua analisi [Signorelli 2006, 207; Balibar 1989], mentre Balibar ha ribadito come sia possibile individuare più forme di razzismo le cui configurazioni e frontiere, mai fisse o stabili, si ricollegano agli «equilibri di forze nelle formazioni sociali» [Balibar 1989, 8].

Questo articolo, che nasce da una ricerca avviata nel corso del 2018 e ripresa, in una prospettiva longitudinale, nel gennaio del 2020, intende approfondire le esperienze e la percezione di forme di razzismo e pregiudizio fra rifugiate e richiedenti asilo di origine somala, residenti nel contesto urbano della città di Napoli. Donne di questa nazionalità, infatti, possono essere interessate a diversi stereotipi o discriminazioni, che si esplicano nel loro vissuto quotidiano, per questioni legate all’identità di genere [Ambrosini 2011], all’origine africana,[6] perché di religione musulmana ed infine, quali richiedenti asilo e rifugiate, anche in relazione ai più recenti provvedimenti normativi (come quelli previsti, ad esempio, dalla Legge n. 32/2018, che ha convertito il D.l. 113/2018, su immigrazione e sicurezza)[7].

La ricerca, svolta con un approccio antropologico, ha previsto attività di osservazione partecipante presso l’Associazione Comunità Somala in Italia,[8] assieme ad interviste tematiche rivolte, quali informatrici privilegiate, a mediatrici interculturali di origine somala e alle presidenti delle associazioni del territorio[9]. Sono state realizzate, inoltre, interviste in profondità che hanno coinvolto rifugiate e richiedenti asilo con l’intento di mettere a confronto i punti di vista delle donne che risiedono da più tempo sul territorio e che hanno intrapreso percorsi di stabilizzazione ed integrazione e quelli di coloro che vi sono giunte, invece, più di recente[10]. Le migranti sono state contattate principalmente presso i locali dell’Associazione Comunità Somala in Italia con un campionamento non probabilistico (snow-ball)[11]. Fra queste, in particolare, cinque donne risiedono in Italia dagli inizi degli anni Ottanta, tre vi sono giunte agli inizi del Duemila e quattro richiedenti asilo, ospitate in strutture di accoglienza del territorio, sono arrivate a Napoli in anni più recenti. A tali interviste si aggiunge la testimonianza di una giovane di origine somala nata e cresciuta in Italia, che pur non essendo rappresentativa dell’intero universo delle seconde generazioni, appare particolarmente significativa in riferimento alle esperienze inerenti discriminazione e islamofobia.

Dopo aver delineato le principali caratteristiche della presenza somala sul territorio, a partire dalle voci delle migranti intervistate, ripercorrendone le memorie passate, ricostruendone le storie, ci si soffermerà sul loro complesso posizionamento rispetto alle forme di segregazione e ai processi di razzializzazione nello spazio sociale, in relazione a identità di genere, religiosa o nazionale. Saranno avanzate, infine, alcune riflessioni e considerazioni in riferimento al ruolo svolto, sui loro percorsi, da pregiudizi, stereotipi e forme di discriminazione nel contesto migratorio.

La presenza somala sul territorio

La diaspora somala, diffusa in numerosi paesi del mondo,[12] rappresenta nella città di Napoli, così come a livello nazionale, una delle collettività straniere storiche ed oramai, radicate. Le donne di questa nazionalità, impiegate principalmente in attività legate all’assistenza e alla collaborazione domestica ed inserite in fitte reti transnazionali, hanno assunto, fin da principio, un ruolo di protagoniste, richiamando, sovente, amici e familiari [Decimo 1998, 2005, 2007]. Le reti migratorie femminili, infatti, come hanno evidenziato precedenti indagini, svolgono un ruolo di fondamentale importanza, in quanto le immigrate stabiliscono relazioni di solidarietà multiple che consentono loro di far fronte alle situazioni di crisi o alle difficoltà, sebbene possano rappresentare, talvolta, anche un vincolo [Ambrosini 2006; Decimo 1998, 2005, 2007]. Il flusso migratorio dalla Somalia che inizialmente si ricollegava ai legami coloniali storici con l’Italia, in ogni caso, è mutato considerevolmente nel tempo, attraversando diverse fasi e ad oggi, è particolarmente stratificato[13]. É stato possibile riscontrare, così, come vi sia una considerevole eterogeneità di situazioni e condizioni.

La presenza di cittadini di questa nazionalità a Napoli, che costituiscono lo 0,17% della popolazione straniera residente [Istat 01/01/2019],[14] tuttavia, è diminuita considerevolmente rispetto agli anni Ottanta e Novanta. In molti, infatti, come si evince dalle interviste, considerando l’Italia, ma anche il contesto urbano del capoluogo campano, soprattutto come una meta transitoria, sono emigrati in località che offrissero loro maggiori possibilità occupazionali e tutele in termini di welfare[15].

Alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli Ottanta, inoltre, come è emerso nel corso delle interviste, le donne di origine somala raggiungevano l’Italia soprattutto per ragioni legate a studio o lavoro, in condizioni molto diverse rispetto a quanto accade oggi alle loro connazionali, partendo sovente con visti turistici, «abiti eleganti» e in «aereo» [Interviste e colloqui informali con donne somale].

Nel tempo questo flusso migratorio ha assunto, sempre più, le caratteristiche di una migrazione forzata legata alla situazione di profonda instabilità sociale, politica ed economica della Somalia, attraversata dalla guerra civile e da violenze inter-claniche[16]. Dagli inizi degli anni Novanta il ruolo delle donne diviene centrale nelle reti transnazionali e nel fornire supporto ai familiari rimasti in patria, sebbene le loro condizioni nel mercato del lavoro napoletano siano estremamente precarie [Decimo 1998, 3]. In tale contesto, come ha evidenziato Decimo [1998], hanno assunto una considerevole valenza i network migratori femminili di scambio e comunicazione tesi a fornire informazioni, risorse materiali ed ausilio nel reperire, ad esempio, lavoro o alloggio. La studiosa per altro, ne ha delineato le caratteristiche evidenziando come si ricolleghino a diverse modalità di vivere lo spazio urbano e l’esperienza migratoria, alle condizioni sociali delle donne, a dinamiche identitarie[17].

Attualmente i percorsi di vita delle richiedenti asilo somale, a differenza di un tempo, possono essere profondamente segnati dalle violenze subite nel paese di origine perpetrate, talora, da esponenti dei gruppi afferenti alle milizie Al Shabaab, legate all’Isis. Queste, infatti, dalla metà del primo decennio del Duemila si sono contrapposte al governo provvisorio, dando avvio ad una nuova fase della guerra civile che imperversa storicamente nel paese.

Le donne, inoltre, per via di politiche migratorie sempre più restrittive partono, per lo più, in maniera irregolare, non potendo far altro che affidarsi ai trafficanti di persone, seguendo la rotta libica ed attraversando il deserto del Sahara, prima, ed il Mediterraneo, in seguito, sui cosiddetti barconi, per poi richiedere e il più delle volte, ottenere uno status di protezione internazionale in Italia. Qui sono ospitate nelle strutture di accoglienza del territorio, che hanno parzialmente sostituito il ruolo svolto in passato dalle reti femminili di connazionali nelle prime fasi della migrazione [Decimo 1998; 2005a][18]. Nel corso della ricerca, in ogni caso, è stato possibile riscontrare come tali network continuino a rivestire un importante supporto, anche in queste fasi del percorso migratorio, assumendo, talora, un carattere comunitario. Le associazioni presenti sul territorio, infatti, rappresentano importanti punti di riferimento, svolgendo, alle volte, attività di mediazione informale con le strutture di accoglienza o con i servizi del territorio, per questioni burocratiche, per problematiche insorte in ambito sanitario o abitativo oppure per offrire alle nuove arrivate ausilio e sostegno psicologico. Nella città di Napoli sono presenti tre associazioni, delle quali i presidenti sono rappresentati da donne residenti in Italia da molti anni, a testimoniare ancora una volta il protagonismo femminile. L’Associazione Comunità Somala in Italia, in particolare, sorta nel 2003, rivolge le sue attività sia alle donne che agli uomini e ha sede ufficiale presso la moschea di Piazza Mercato, uno dei quartieri più popolari del cuore cittadino ed ufficiosa nel negozio della sua presidente, ubicato dinanzi ad essa. Il locale rappresenta un luogo di incontro per i cittadini somali del territorio campano, dove poter gustare piatti tradizionali, come il sambusi, chiacchierare o guardare la tv somala. Vi sono, poi, associazioni caratterizzate da una maggiore laicità, quali la Comunità Donne Somale, fondata nel primo decennio del Duemila, che si rivolge soprattutto a un’utenza femminile e l’Associazione Iskafiri, fondata nel 1998, che ha promosso, per altro, attività formative ed informative in diversi ambiti, ad esempio, in riferimento alle mutilazioni genitali femminili.[19]

Le storie e i punti di vista di rifugiate e richiedenti asilo fra accoglienza e pregiudizio

Nel corso della ricerca,[20] fra le donne intervistate, è stato possibile riscontrare una considerevole eterogeneità di considerazioni, esperienze, punti di vista in riferimento a pregiudizi o forme di discriminazione nei loro confronti, che si ricollega alla singolarità dei percorsi migratori, alla stabilizzazione sul territorio, alle condizioni lavorative o giuridiche, ma anche ai vissuti e dunque, alla “visibilità” negli spazi pubblici. Le loro traiettorie migratorie, d’altronde, possono essere particolarmente articolate e dispiegarsi fra diverse località in Somalia, in altri paesi africani, lungo direttrici transnazionali, ma anche fra diverse città italiane. Andiamo a considerare, più nello specifico, tali dimensioni evidenziando le differenze fra le generazioni in riferimento ai processi di razzializzazione[21].

Segregazione e stereotipi islamofobici tra le donne che hanno intrapreso percorsi di stabilizzazione

Una delle principali problematiche emersa nel corso delle interviste rivolte alle rifugiate e alle richiedenti asilo, fa riferimento alla segregazione occupazionale nell’ambito di attività domestiche o di assistenza e cura, che si ricollega a dinamiche discriminatorie ed accomuna la loro condizione a quella di gran parte delle residenti straniere[22]. Nella gerarchia di questo ambito occupazionale particolarmente segmentato, tuttavia, le donne di origine somala sono impiegate prevalentemente in attività "full-time", con un salario più basso rispetto ad immigrate di altra provenienza, anche in relazione a pregiudizi, stereotipi a forme di neorazzismo[23]. È molto difficile, invece, riuscire ad inserirsi in settori più qualificati, come ha evidenziato, a riguardo, la presidente dell’Associazione Comunità Somala, affermando:

Quando vedono noi dicono: “Voi rubate il nostro lavoro!” Ma noi qui lavoriamo in famiglia, invece altri paesi sono avanzati. In Italia non ho mai visto un somalo che guida un autobus. In Germania, Inghilterra, Olanda sì. Noi lavoriamo solo in famiglia con vostra madre, vostro padre, puliamo, eppure danno pochi soldi, non ce la facciamo a vivere … E allora dicono: “Voi prendete nostro lavoro!” “Andate vostro paese!” Questa è una cosa brutta (Presidente dell’Associazione Comunità Somala in Italia).

La vita sociale di gran parte delle donne intervistate che risiedono in Italia da più tempo e sono impiegate in attività domestiche o di cura si snoda, il più delle volte, fra l’abitazione in cui vivono e lavorano e i locali dell’associazione somala, dove possono incontrare i loro connazionali, trascorrere qualche ora di svago nei pochi momenti liberi e al contempo rivivere sapori e tradizioni del paese di origine. I rapporti con i servizi del territorio, in caso di necessità, possono essere mediati dagli stessi datori di lavoro, dalle associazioni somale o da connazionali giunte in precedenza sul territorio[24]. Le reti di queste migranti, così, sono principalmente «incapsulate» [Decimo 1998], ovvero costituite dall’universo sociale dei connazionali, sebbene non manchino situazioni più complesse e articolate.

Episodi legati a pregiudizi emersi nel corso delle loro testimonianze possono attenere a diversi ambiti del quotidiano, quale quello lavorativo, sanitario o far riferimento agli spazi pubblici. La presidente dell’Associazione Comunità Somala in Italia, ad esempio, in relazione alle esperienze di alcuni connazionali, ha ribadito: «A qualcuno danno fastidio in autobus o in treno. Dicono “Perché non andate in vostro paese!” Ma anche gli italiani sono venuti nel nostro paese!» (Presidente dell’Associazione Comunità Somala in Italia).

Visioni stereotipate della religione, così come della donna musulmana, inoltre, in tali ambiti possono tradursi in battute riferite all’hijab, che come hanno evidenziato precedenti studi, è inteso, sovente, quale simbolo ed emblema di una diversità culturale e religiosa considerata non integrabile, distante [Andrisani 2017; Naletto 2019; Rivera 2005, 2016, 2017]. Null’altro che un foulard, come ha ribadito Rivera, il velo islamico è, infatti, «percepito quale minaccia ai valori occidentali e considerato simbolo di oppressione e oscurantismo» [Rivera 2017].

Dalle parole di gran parte delle immigrate intervistate, tuttavia, si evince come l’hijab rappresenti una scelta di fede, tramutatasi negli anni in abitudine, costituendo, in ogni caso, la normalità. Nala, ad esempio, giunta in Italia nel 2010 ribadisce: «Io sono abituata, lo porto da quando ho otto anni in Somalia e quando non lo porto mi sento nuda!» (Nala, 29 anni, divorziata)

Mariam, invece, che vive a Napoli dal 2012, in riferimento ad esso, sostiene: «Qualcuno dice che bella, qualcuno dice che brutta! Ma uguale! Non cambio strada! Qualcuno dice “Lei è musulmana tutta coperta” … Ma Dio dice così e non cambio vestiti. Qualcuno dice lascia … Ma non ho paura di persone, io ho paura di Dio» (Mariam, 49 anni, divorziata).

Originaria di Mogadiscio, dove svolgeva l’attività di insegnante, Mariam, come molte migranti somale, è stata costretta a lasciare il suo paese di origine a causa della guerra civile, rifugiandosi con i suoi familiari e le sue due figlie in Kenya, prima di decidere di partire per l’Europa. Ad oggi, le figlie, oramai adolescenti, sono rientrate in Somalia e vivono con sua madre, ma Mariam impiegata come badante, ha rinunciato al ricongiungimento familiare a causa dell’attività lavorativa che svolge, sebbene tutti i suoi sacrifici siano rivolti esclusivamente alle ragazze.

Fra le donne intervistate sono in poche a non indossare l’hijab nel quotidiano[25]. Emigrate da molti anni e sposate con un italiano, queste ultime, hanno ribadito come la loro scelta possa ricollegarsi ad un modo diverso di vivere la religione e al fatto che, anche quando risiedevano nel loro paese di origine, il velo non rappresentasse un obbligo, a differenza di quanto avviene oggi.[26] Si tratta, inoltre, di donne che vivono lo spazio urbano fra reti sociali «integrate» o che magari, hanno acquisito la cittadinanza italiana [Decimo 1998]. Fra queste, una mediatrice interculturale che vive in Italia da oltre trent’anni, ha evidenziato come la Somalia sia attualmente attraversata da una fase di maggiore radicalizzazione della fede musulmana rispetto al passato, sostenendo:

Io non ho mai messo il velo in Somalia. […] Si sapeva che la donna musulmana era obbligata a prendere il copricapo, ma non c’era questa imposizione, c’era libertà. La rivoluzione religiosa ha portato anche un cambiamento nel modo di vestire delle donne. Tutte queste ragazze che arrivano dal paese e sono nate dopo la guerra sono obbligate già da quando sono piccole e crescono proprio con il copricapo. Invece ai miei tempi camminavo come volevo. Prima in pochi approfondivano la lettura del Corano […] Dopo la guerra gli uomini, soprattutto, ma anche le donne vanno alla scuola coranica, quindi praticano di più. Anche a una certa età. Anche da adulte, perché vogliono conoscere la lettura. Adesso la Somalia è molto religiosa. E allora devi mettere per forza l’hijab, non puoi camminare senza […] Noi a scuola avevamo la divisa. Adesso tutti portano la gonna lunga, la cultura è cambiata! (Mediatrice interculturale somala)[27].

L’hijab, d’altro canto può avere, in relazione alle circostanze, per le donne, anche una funzione protettiva ed è emblematico che la stessa mediatrice interculturale abbia raccontato come sia preferibile indossarlo nel paese di origine, poiché, sostiene sarebbe pericoloso fare altrimenti (Mediatrice interculturale somala).

Le esperienze, nel contesto migratorio, in riferimento a stereotipi di matrice islamofobica o a battute inerenti l'hijab, ricorrenti in molte interviste, possono essere, comunque, diversificate e sfociare, talvolta, in atteggiamenti razzisti o aggressivi, in relazione alle reazioni delle donne o al loro posizionamento nello spazio sociale ed urbano. Nala, ad esempio, ha raccontato: «Quando c’è caldo dicono “Mamma mia, ma non hai caldo?” Quando prendo metrò … Però in inverno non dicono niente! Solo in estate! Loro dicono: “Mamma mia non senti caldo, tu sei giovane! E io rido!» (Nala, 29 anni, divorziata).

Differente è invece, a riguardo, l’esperienza di Bilan che rammenta:

Uscita dalla cumana stavo salendo con ascensore e un signore ha detto: “Ma non senti caldo?” Io ho detto: “Vedi quanti anni ho io! Se ciascuno facesse fatti suoi il mondo era pace!” Poi si è arrabbiato perché non voleva battute da me e allora si è arrabbiato, è diventato razzista, perché avevo risposto. (Bilan, 63 anni, divorziata).

Bilan è una delle prime migranti di origine somala giunte a Napoli. È partita, infatti, assieme al marito alla fine degli anni Settanta, ma si è separata da lui quando era in attesa di suo figlio, che ha cresciuto da sola, fra molteplici difficoltà. A causa dei problemi economici, è stata costretta a lasciarlo in clinica alle cure delle ostetriche per diversi mesi ed in seguito, dopo aver trovato un lavoro da badante, ad affidarlo per circa un anno e mezzo, a una famiglia napoletana, alla quale versava una quota mensile. È poi riuscita riprenderlo con sé cambiando datore di lavoro. Oggi, oramai anziana, vive grazie alla pensione di invalidità ed è riuscita ad acquistare una piccola abitazione a Napoli, mentre suo figlio ha lasciato l’Italia per trasferirsi in Inghilterra con il suo nucleo familiare. Nonostante il percorso migratorio della donna sia volto alla stabilizzazione, il suo network sociale è tuttavia, rappresentato, soprattutto, dalle connazionali.

Nelle testimonianze delle migranti che risiedono in Italia da più tempo, in ogni caso, si evince la percezione di un peggioramento della situazione rispetto al passato, legata alla diffusione, anche a livello mediatico, di pregiudizi di matrice islamofobica, in seguito agli attentati terroristici jihadisti dei primi anni del nuovo millennio e che hanno attraversato l’Europa dal 2015[28]. Dalle loro parole, d’altro canto, emerge anche la consapevolezza che tali retoriche xenofobe si intreccino a quelle rivolte a migranti di origine africana, che hanno preso vigore con l’aumento dei flussi migratori provenienti da questo continente.

Particolarmente significativa a riguardo, l’esperienza della presidente della Comunità Somala in Italia, che ha ribadito:

La maggior parte delle persone è serena con noi. Però oggi c’è gente che ti guarda con sospetto. Ti capita che ti dicano “Vai via terrorista, torna al tuo Paese!”. Ma in quale paese devo tornare, se il mio posto è questo? Vivo qui da trentacinque anni, in un palazzo dove tutti mi conoscono. La mia quarta figlia, morta molto giovane di tumore, è sepolta a Roma. Non c’è un cimitero per i somali a Napoli, così quando uno di noi muore occorrono anche cifre salate per il trasferimento della salma. […] Quando io sono arrivata non c’era problema, sei musulmana, sei cattolica, sei non credente nessuno dava fastidio. Quando successe in America, fino ad oggi, un problema grave e ogni anno sempre peggio! (Presidente dell’Associazione Comunità Somala in Italia)

Oramai sessantenne, la donna è partita dalla Somalia nel 1982, raggiungendo alcuni familiari che risiedevano a Napoli e sperando di poter proseguire gli studi una volta in Italia. È stata costretta, tuttavia, ad iniziare a lavorare e dopo il matrimonio ha avuto quattro figlie. Attualmente, oltre a svolgere i suoi impegni in ambito associativo, gestisce, in un quartiere centrale della città, un negozio etnico, dove vende abiti per i propri connazionali, prodotti di bellezza, rimedi medici tradizionali. In riferimento a battute o pregiudizi relativi al velo, rammenta:

Il velo, hijab, anche quando c’era Bin Laden, quando c’era il problema nel 2001, a me sempre danno fastidio … perché rovinato anche da giornalismo. Considerano tutti i musulmani terroristi [...] Ma questa è una cosa brutta. Non ci conoscono. Se uno sbaglia, se sbaglia un cattolico, io non posso giudicare tutte le persone cattoliche! (Presidente dell’Associazione Comunità Somala in Italia)

La presidente dell’associazione, d’altro canto, inserita una in una rete sociale che si snoda fra diversi ambiti del contesto migratorio ed include tanto cittadini di origine somala che napoletani, ha ribadito come i pregiudizi xenofobi o legati all’islamofobia possano essere superati attraverso la conoscenza reciproca, lo scambio culturale, come tenta di fare nell’ambito delle sue attività associative, oltre che nel quotidiano[29]. Afferma, infatti:

Due, tre giorni fa accompagnai mia figlia per iscriverla a scuola guida e … hanno detto: “Sei venuta per fare male? Farci saltare in aria?” Io ho detto: “Io voglio iscrivere mia figlia per scuola guida!” Ho detto: “Ma come mai pensi questa cosa?” Lui ha detto: “No, io scherzavo!” Ma questa non è una cosa da scherzare! Subito attaccano, sentono la televisione … Quando sai la lingua loro cambiano… Poi mi conoscono e cambiano idea … Io conosco molti e chi non mi conosce io vorrei conoscere, per dire noi non abbiamo gente cattiva, noi vogliamo conoscerci, così facciamo scambio di cultura. […] Se no, così, non andiamo mai avanti! (Presidente dell’Associazione Comunità Somala in Italia)

Gran parte delle migranti intervistate, in ogni caso, ritiene che Napoli non rappresenti un contesto particolarmente razzista o che sia più accogliente rispetto ad altre località del Nord Italia, seppure se ne riconoscano le problematiche, soprattutto in riferimento alle difficoltà legate al mercato del lavoro e a quello abitativo[30]. Alcune di esse, per altro, hanno vissuto in altre città italiane, prima di trasferirsi nel capoluogo campano, raggiungendo qui conoscenti o familiari, come Nala che ha soggiornato circa due anni a Udine, dove è stata accolta presso un centro Caritas in attesa di regolarizzare i documenti per il soggiorno[31]. Questa sostiene: «Là ho trovato razzismo […] a Napoli io non ho visto molto razzismo […] Napoli non è così, finché io sto Italia starò sempre a Napoli!» (Nala, 29 anni, divorziata).

La donna, divorziata, lavora come badante "full-time" e in Somalia ha lasciato il figlio, che al momento dell’intervista aveva dodici anni. Delle sue parole, come nel caso di Mariam e di molte connazionali, si evince il dolore di un vissuto legato alla separazione familiare e alla maternità transnazionale, ma anche la consapevolezza delle difficoltà nel potersi ricongiungere a lui, per via dell’attività lavorativa che svolge. Racconta, infatti:

Io mando soldi e lui sta con i miei genitori. Sempre piango … Ma io qua lavoro notte e giorno, con un’anziana, come faccio a mantenere e seguire mio figlio? Ogni persona vuole stare sua casa, ma se a casa sua non c’è pace come si fa? Allora Italia seconda casa nostra! Per il momento non ho intenzione di tornare! (Nala, 29 anni, divorziata).

Nei trascorsi di Nala, in ogni caso, è stato possibile riscontrare un episodio di stampo razzista relativo all’ambito lavorativo, in quanto la donna ha raccontato:

Il mio primo lavoro ho trovato un po’ di razzismo perché era una donna anziana, la manteneva sua nipote e diceva: “Ah tu sei colore! Dove siamo finiti!” Diceva: “Dove siamo finiti!” […] Avevo il contratto ma sempre mi ha picchiato la testa, quando cammino … Io ho detto: “Io ti rispetto però non mi trattare male!” Un giorno mi ha preso con scopa e mi vuole picchiare e io ho detto: “Se mi picchi un’altra volta io ti denuncio!” E allora mi ha licenziata. Sono stata con lei un anno e sette mesi. Dopo ho trovato questo lavoro che sono tre anni e mezzo… Meglio di quell’altro (Nala, 29 anni, divorziata)

Le esperienze, comunque, in riferimento al lavoro, possono essere singolari. Aamina, ad esempio, che ha trentasei anni ed è giunta in Italia nel 2008, ha ribadito: «Io non ho trovato qua razzismo! Ho trovato una famiglia bravissima» (Aamina, 36 anni, nubile). La ragazza ha lasciato la Somalia a causa dei conflitti e della guerra civile in corso e una volta a Napoli è riuscita a trovare un’occupazione, grazie all’ausilio delle reti di connazionali sul territorio, quale badante "full-time". Alla morte della donna che assisteva, tuttavia, i suoi familiari le hanno consentito di restare con loro, aiutandola a dare una svolta alla sua vita e ad iscriversi ad un corso di formazione, facendola sentire «come un membro della famiglia». Prosegue, infatti, ricordando:

Io lavoravo con la loro mamma che è morta […] Benissimo, io trovata benissimo! Madre è morta nel 2017. Allora io volevo andare da un’altra parte e loro “No!” Io vorrei imparare qualcosa e la famiglia ha detto, aiutare se non conosco… Io volevo oreficeria e loro hanno chiamato questo corso di oreficeria e la figlia ha incontrato loro e mi hanno aiutato. Adesso io vivo a casa di loro. Io sto là. Brave persone, mamma mia! […] Io sto a scuola e non ho trovato qualcuno che non salutare normale… Io non ho trovato una persona razzista! Questa famiglia se va al ristorante dice: “Vieni al ristorante!” L’altro ieri ha fatto compleanno al ristorante, “Vieni”! A Natale, per le feste loro chiama. Se giorno di nome o compleanno io andata al ristorante sempre! (Aamina, 36 anni, nubile)

Aamina, analogamente a Nala, ha lavorato qualche tempo in una città del Nord Italia, affermando: «Ho provato a Milano, ma non mi sono trovata bene, perché tutti chiusi in casa, nessuno parla … Allora io meglio qua!» (Aamina, 36 anni, nubile). La sua rete sociale sembra essere caratterizzata da due domini distinti, ovvero dai connazionali, che frequenta nei giorni liberi da lavoro e dagli italiani con i quali si rapporta in ambito lavorativo o in occasione delle attività formative. Dalle sue parole, in ogni caso, si evince la consapevolezza di condurre una vita sociale che, articolandosi fra l’associazione somala, il corso che frequenta e la sua abitazione, per certi versi le consente di essere al riparo da forme di discriminazione o pregiudizio. Inoltre non prende mai mezzi pubblici e per rapportarsi ai servizi del territorio, come quelli sanitari, può contare sull’intermediazione dei suoi datori di lavoro. A riguardo sostiene:

Io non esco fuori io sto a casa e scuola, casa e scuola, perché non ci sta tempo! […] No, perché mattina vado a scuola e torno. E basta. Entrare a casa, non esce! Perché se andata da qualche altra parte portato la famiglia con la macchina. […] Nessuno ha detto nulla è normale! Orario di caldo, luglio, agosto qualcuno ha detto “Non hai caldo?” Io non ho caldo e loro non parla. Ho sentito [di episodi di razzismo] ma non qua, in altra Italia. Qua no. Perché Napoli come Africa! Napoli non aiuta a trovare…tutti inguaiati! (Aamina, 36 anni, nubile)

Emerge, così, la complessa relazione fra pregiudizi e visibilità negli spazi urbani, sebbene anche le donne che non indossano quotidianamente il velo e sono inserite in reti sociali integrate, abbiano fatto riferimento, nel corso delle interviste, a episodi legati al razzismo, che possono investire diversi ambiti del quotidiano, in relazione al colore della pelle o ad altre forme di pregiudizio.

Violenza di genere e discriminazione istituzionale nelle esperienze delle richiedenti asilo

I vissuti delle richiedenti asilo giunte a Napoli negli anni più recenti ed intervistate nel corso della ricerca sono estremamente drammatici e per alcuni aspetti si differenziano dai profili delle immigrate che sono in Italia da più tempo[32]. Tutte indossano l’hijab. Per lo più giovani e in possesso di livelli di istruzione non particolarmente elevati,[33] portano impressi, anche nel corpo, i segni degli abusi subiti tanto nel paese di origine, quanto, durante il tragitto migratorio. Abusi di cui è difficile anche poter parlare[34]. Alle violenze di genere, sia psicologiche che fisiche, perpetrate, spesso, dalle milizie di Al Shabaab che controllavano i loro villaggi o finanche, da figure istituzionali, come poliziotti, si sono aggiunte in seguito alla partenza, quelle subite nei centri di detenzione libici[35].

È emblematica, in tal senso, la storia di Khadra che al momento dell’intervista aveva ventidue anni e in Somalia è stata sequestrata e violentata da un poliziotto che la minacciava, ricattandola di mostrare il video degli abusi ad esponenti di Al Shabaab. Questi, infatti, l’avrebbero lapidata per adulterio, dal momento che era sposata. In seguito a diverse vicissitudini e all’assassinio del padre, con il quale, una volta incinta, si era confidata, viene sequestrata dagli esponenti dei gruppi islamici radicali, riuscendo a fuggire al nono mese di gravidanza ma perdendo il bambino che aveva in grembo. Una volta tornata nel villaggio di origine, così, alcuni parenti l’aiutano a lasciare la Somalia. «Macchina dopo macchina, dopo circa tre settimane siamo arrivati in Libia» racconta.

Yasmiin e Jamilah, invece, poco più che ventenni al momento dell’intervista, hanno lasciato il loro villaggio, per non essere costrette a sposare un membro delle milizie islamiche, che ne detenevano il controllo. «Avevo paura» racconta, a riguardo, Yasmiin. «perché sapevo che se mi avessero messo nelle mani di Al Shaabab, sarei stata obbligata a fare quello che volevano loro, oppure sarei morta». Orfana di entrambi i genitori, è aiutata da un’amica della madre a lasciare il villaggio e raggiungere Mogadiscio, dove conosce un giovane con il quale si sposa ma a causa delle continue minacce di esponenti di Al Shaabab è costretta nuovamente a fuggire e passando per lo Yemen raggiunge la Libia.

Il percorso migratorio di Jamilah che ha ventisei anni, è analogo a quello delle altre due donne. Il gruppo afferente ad Al Shabaab ha assassinato la sua gemella e ferito i genitori, cosicché è stata costretta a lasciare il suo villaggio per trasferirsi a Mogadiscio, dove si è sposata ed ha avuto un bambino che, tuttavia, non riuscirà a sopravvivere. In seguito viene rapita, violentata e tenuta segregata, per circa due anni, da un poliziotto, fino a quando non riesce a fuggire e decide di intraprendere il viaggio verso la Libia.

Una volta in Libia, dove restano dai sei mesi a un anno, i racconti delle ragazze convergono. Qui subiscono, infatti, numerose violenze, sono frustate, violentate, poiché non possiedono il denaro necessario per proseguire il viaggio verso l’Europa, per poi riuscire a partire grazie all’aiuto economico o a collette di connazionali, raggiungendo le coste italiane nel novembre del 2016[36].

Nel corso delle interviste rivolte a queste donne non è emersa, in maniera esplicita, la percezione di particolari forme di pregiudizio o razzismo una volta in Italia, sebbene nelle vicende di alcune di loro sia stato possibile riscontrare forme di discriminazione, in Somalia, legate all’appartenenza a clan considerati inferiori nella stratificazione sociale. Le ragazze, tuttavia, parlano e comprendono poco la lingua italiana e la loro vita si snoda fra i centri di accoglienza e l’associazione somala. Guardano poco la tv e non sono a conoscenza delle normative vigenti nell’ambito della immigrazione, mentre i rapporti con i servizi del territorio sono, spesso, mediati dagli operatori delle strutture che le ospitano. Problematiche legate al pregiudizio, tuttavia, sono emerse in riferimento ai percorsi di accoglienza di alcune di loro. Hanno denunciato, infatti, l’atteggiamento di superiorità del gestore e dei responsabili di un CAS (Centro di Accoglienza Straordinario) della periferia Nord di Napoli, dove sono state accolte dopo lo sbarco a Lampedusa. Atteggiamento che si traduceva, talora, in insulti di stampo razzista ed è sfociato, finanche, forme di violenza fisica «Quando facevamo domande [gli operatori del centro CAS] dicevano “Qua non è terra tua!” Però prendevano i soldi!» ribadisce, a riguardo Jamilah sostenendo, finanche, che tale struttura fosse «come la Libia!».

Gli stessi interventi della polizia, successivi alle loro segnalazioni, sono stati vani, in quanto, in base ai loro racconti, i poliziotti si rapportavano esclusivamente con il gestore del centro. Il CAS, tuttavia, in seguito ad ispezioni e a un’ulteriore denuncia, dopo che una delle richiedenti asilo intervistate è stata ricoverata in urgenza in ospedale, anche per l’assenza di controlli e cure mediche, è stato chiuso. Le ragazze, così, sono state trasferite in una nuova struttura, nella quale hanno raccontato, invece, di essersi trovate bene. Questa vicenda, in ogni caso, è emblematica di come violenza di genere e pregiudizi possano associarsi alla dubbia gestione ed amministrazione di un centro di prima accoglienza del territorio.

Diversa, invece, è l’esperienza di Uba, giunta in Italia nel 2017 ed accolta, da richiedente asilo in una struttura di seconda accoglienza della rete SPRAR,[37] dove ha raccontato essersi trovata molto bene. Avendo un alto livello di istruzione, sostenuta dalle operatrici del centro, infatti, aveva iniziato anche a frequentare dei corsi universitari e dalle sue parole non si evince la percezione di forme di discriminazione o razzismo in Italia. Al momento dell’intervista, l’unica preoccupazione della donna era rappresentata dal colloquio con la Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di protezione internazionale. A riguardo, infatti, sostiene:

Sono venuta dal mio paese e qui non c’è la guerra … Quindi si sta meglio. Quando ci hanno caricato sulla barca dalla Libia lo fanno con le armi, dicono: “Scendete! Non parlate, zitti, non parlate!” […] Non è una cosa che si può dire, perché ci sono persone che maltrattano, che picchiano! Io ho visto le persone che hanno fatto il viaggio insieme a me che sono morte, li picchiano, fa paura. È una cosa che non è facile da raccontare questo! Qua non ho avuto problemi. Qua è tranquillo. Il problema qui è la Commissione, ora penso solo a questo! (Uba, 35 anni, vedova)

La donna è stata costretta a lasciare il suo paese di origine in seguito all’omicidio del marito, giornalista, affrontando un viaggio molto duro che l’ha portata ad attraversare, come le connazionali, il Sahara per poi raggiungere la Libia[38]. In Somalia ha lasciato due bambini piccoli, affidati alle cure di sua madre ed il suo progetto migratorio è volto alla stabilizzazione, in quanto spera di poter ottenere il ricongiungimento familiare per i suoi figli.

L’epilogo positivo della vicenda di Uba, in ogni caso, consente di riflettere sulle contraddizioni, sulle problematiche di un sistema di accoglienza organizzato, in prevalenza, sulla base di criteri emergenziali e sulle discriminazioni istituzionali legate a normative che impediscono, ad oggi, a richiedenti asilo come lei, di poter essere inseriti in un centro di seconda accoglienza ed intraprendere un percorso di integrazione e inserimento sociale, con un adeguato supporto[39].

Numerose, in ogni caso, sono le difficoltà che le donne, una volta ottenuto uno status legato alla protezione internazionale e al termine di tali percorsi di accoglienza, dovranno affrontare, sia in ambito abitativo che lavorativo, come hanno ribadito le informatrici privilegiate somale, tanto più, in un contesto complesso e problematico quale quello campano.

Islamofobia, percezione del razzismo e identità ibride: la testimonianza di una giovane di seconda generazione

In riferimento alla percezione di forme di razzismo e discriminazione inerenti una visione stereotipata della religione e della donna musulmana, è emblematica la testimonianza di Fatima, una ragazza in possesso di cittadinanza italiana, con madre somala e padre napoletano[40]. Questa, infatti, consente di riflettere sulle problematiche e sulle questioni identitarie delle seconde generazioni in Italia, in relazione all’islamofobia.

La diversità della giovane, rispetto ai coetanei italiani, oltre ai tratti somatici e al colore della pelle, che nei suoi racconti passano in secondo piano, è soprattutto legata alla decisione di abbracciare la fede islamica e di indossare il velo. Tale scelta, tuttavia, non ha rappresentato un problema, agli inizi, poiché, come racconta lei stessa, da adolescente continuava a portare anche i pantaloni. Cresciuta a cavallo fra due culture Fatima in Somalia, non è mai stata. La sua identità religiosa, tuttavia, che si traduce in un’alterità esibita, visibile, anche per la decisione successiva di indossare il velo integrale, jilbāb, quale «scelta di fede», diviene nel tempo, particolarmente problematica, generando una situazione, a suo dire «insostenibile», soprattutto in seguito agli attentati terroristici di matrice islamica che hanno avuto luogo in Europa, a partire dal 2015. In quel periodo, infatti, frequentava le scuole superiori e dalle sue parole si evince la sofferenza causata da innumerevoli forme di stigmatizzazione, pregiudizio, discriminazione, che l’hanno profondamente segnata. Rammenta, infatti:

Ovviamente dopo l’attentato che ci fu a Parigi io dovevo andare a scuola per forza, non è che non posso più uscire di casa! In autobus c’erano ragazzi che dicevano: “Ah ma a questa adesso la dobbiamo far saltare in aria, sta cretina!” E dicevano tutte queste cose. Come se io non li capissi. E allora io ho detto: “Guarda non ho capito, ma stai bene che mi parli in questo modo? Chi ti credi di essere?” “Eh no non stavo parlando di te!” Gli ho detto: “L’unica musulmana sul pullman sono io!” … Io rispondo sempre. Poi loro dicono “Ah ma io non sapevo che parlavi così bene l’italiano!” E quando ho detto che sono italiana dicono: “Ah veramente!” Sono sorpresi! (Fatima. 23 anni, separata).

In riferimento al suo vissuto in ambito scolastico, inoltre, ribadisce: «Per me è stato difficilissimo io ho sempre pianto, perché volevo andare via, non volevo neanche continuare gli studi». Racconta infatti:

La mia esperienza scolastica è stata pessima, l’ho vissuta molto, ma molto male. Fra me i miei compagni, ovviamente, quando sei nella classe loro ti conoscono come persona e quindi nella classe eravamo amici, anzi loro erano molto curiosi di imparare la mia religione, la mia cultura quindi, ovviamente ci sono stati lati positivi e lati negativi. I problemi iniziavano quando uscivo dalla classe e c’era sempre lo sciocco di turno che urlava “Allahu Akbar!” o mi diceva: “Guarda questa che si è messa!” O facevano finta di essere spaventati e fuggivano da me. Questo a scuola. Poi una volta che uscivo sul pullman c’erano uomini di cinquanta anni che mi dicevano: “Fai schifo!” “Tornatene nel tuo paese!” “Non ti vergogni di vestirti così!” […] Una volta cinque ragazzi che stavano nel loro negozio, appena mi videro uscirono tutti e cinque dal negozio ed iniziarono ad insultarmi. Cinque ragazzi! Io mi spaventai tantissimo e iniziai a scappare. Tornavo da scuola! (Fatima. 23 anni, separata).

Pur avendo una media scolastica alta, aveva deciso interrompere gli studi, per poi diplomarsi prima dei suoi compagni di classe, sostenendo con anticipo gli esami di maturità, superati con il massimo dei voti. Riconosce, comunque, come vi siano stati dei segnali di apertura da parte delle insegnanti, dei compagni di classe o della vicepreside che le consentiva di pregare nella sua stanza, raccontando che a scuola, fu organizzato anche un seminario informativo sulle migrazioni e la discriminazione. «In quella occasione» ricorda «mi misi a piangere e i ragazzi mi chiesero scusa. Dissero: “Noi non pensavamo che tu stavi così!”».

Sono numerosi, in ogni caso, gli episodi legati a pregiudizi islamofobici a cui Fatima ha fatto riferimento nel corso dell’intervista, che l’hanno spinta a chiudersi e a non frequentare con serenità gli spazi pubblici. Afferma, infatti: «Pensa una volta stavo aspettando il pullman da due ore, perché sai come funzionano qui i mezzi pubblici, comunque l’autista, non si è fermato, è andato via!»

Eventi analoghi, racconta, si sono verificati anche successivamente ed in altri ambiti, come quello sanitario, A riguardo, rammenta:

In seguito a un aborto spontaneo ho dovuto fare un raschiamento e la stessa caposala diceva: “Ma guarda questi vestiti come strusciano per terra, ma quanto siete poco igieniche! Voi siete in Italia, vi dovete togliere il velo!” Urlando per tutto il reparto! La caposala del reparto di maternità! E non ha avuto neanche il pensiero di dire “Sta ragazza ha appena avuto un aborto spontaneo, fammi rispettare questo momento delicato della sua vita”. No, invece di umiliarmi così davanti a tutti! Per dire proprio dove siamo arrivati come se avessero il diritto di dirti tutto, come fossi tu in torto! (Fatima. 23 anni, separata).

In riferimento alla possibilità di segnalare o denunciare tali episodi, inoltre, sostiene:

Il problema è chi denunci? Alla fine non ti prendono mai seriamente. Ma poi chi denuncio? … Per esempio una volta ho avuto una reazione allergica e si è gonfiato tutto il viso. Mi sono recata al pronto soccorso del San Paolo e il vigilante che ti fa entrare in reparto, mi disse: “Dai togliti i vestiti, fammi vedere se sotto i vestiti hai le bombe!” […] Quindi alla fine non ti considerano neanche più come persona, ti vedono come un bersaglio da puntare! (Fatima. 23 anni, separata).

Tale situazione influisce considerevolmente sui percorsi identitari della ragazza, che afferma, inoltre: «Ho vissuto a Napoli la mia infanzia e l’adolescenza, però indossando il velo la gente non mi vedeva mai come un’italiana, quindi il fatto che io portassi il velo, automaticamente era come se per loro io fossi straniera, ecco! Non mi hanno mai considerato italiana!».

Terminati gli studi e dopo il matrimonio, così, decide di lasciare l’Italia ed in seguito di raggiungere le sorelle emigrate, prima di lei, in un altro paese europeo. A riguardo ribadisce:

Io ovviamente nel mio futuro non mi vedevo mai di vivere a Napoli. … Ma poi soprattutto io sono napoletana. L’Italia è la mia terra, dove sono nata, la mia lingua e la mia cultura … Ma il fatto è che tu non ti senti italiano, se tutti i tuoi compaesani, se così si possono chiamare, ti considerano straniera. Tu dovresti amare la tua terra, ma poi non ce la fai, perché è la tua terra che ti odia! In realtà il nostro stampo culturale [in famiglia] è proprio italiano. Questa è la cosa buffa! Perché poi ovviamente loro pensano che io sia più vicina alla Somalia ai costumi somali… Ma in realtà è proprio il contrario! (Fatima. 23 anni, separata).

La scelta di lasciare l’Italia, nel caso di Fatima, si ricollega proprio a pregiudizi, discriminazioni quotidiane di cui è stata bersaglio nel suo vivere quotidiano, [41] e pertanto afferma:

Ho scelto di partire, ma non solo per me, ma per il futuro se dovessi avere altri figli. Io non voglio che poi, loro vivano le stesse difficoltà che ho vissuto io, soprattutto se fossero femmine. Poi stiamo indietreggiando, ora come mai c’è molto più razzismo! Anche mamma lo racconta. Prima i somali erano accolti a braccia aperte, era una ex colonia ti trattavano con rispetto. Invece adesso appena vedono mia madre subito la trattano male. Se si reca al Comune … le dicono tornatene al tuo paese, pensando che lei sia la straniera, che non ha i documenti adatti. Lei ha la cittadinanza e passaporto italiano. (Fatima. 23 anni, separata).

Le sue parole, infine, consentono di riflettere sugli stereotipi diffusi in riferimento a questioni di genere e religione musulmana e sulla libertà di decidere come vestire, in relazione al credo religioso. Infatti, sostiene:

Non si riesce a comprendere che le persone devono essere libere di fare ciò che vogliono, però diciamo c’è anche la percezione che la donna musulmana indossa il velo perché obbligata ed è vista come se dovesse essere una vittima da salvare dai soprusi. (Fatima. 23 anni, separata).

E’ emblematico, dunque, e non può che far riflettere il fatto che la percezione di discriminazione ed islamofobia sia particolarmente significativa proprio nel caso di una ragazza nata a cresciuta in Italia, che vive gli spazi pubblici in misura maggiore rispetto alle donne impiegate quali badanti "full-time" o alle richiedenti asilo e rifugiate ospitate in strutture di accoglienza. Percezione che si ricollega, così, alla visibilità della sua appartenenza religiosa, ma anche alla sua identità ibrida, al suo essere cittadina italiana, che la rende più sensibile e consapevole dei pregiudizi.

Considerazioni conclusive

In conclusione è stato possibile riscontrare come nelle storie, nelle vicende delle donne intervistate forme razzismo o discriminazione istituzionale si intreccino e si sovrappongano a pregiudizi, stereotipi, retoriche xenofobe che si manifestano nel quotidiano, sovente, nelle vesti di islamofobia.

Queste possono essere analizzate in relazione al complesso posizionamento delle migranti rispetto a diverse dimensioni di assoggettamento e segregazione sociale, ai loro network sociali, ai vissuti nello spazio urbano, a processi identitari.

Nei percorsi delle donne intervistate, d’altro canto, è stato possibile rinvenire dinamiche di razzializzazione tanto in Somalia quanto in Italia, dinanzi alle quali possono mettere in atto diverse strategie, risorse, risposte. L’eterogeneità delle condizioni, delle traiettorie migratorie, delle reti sociali in cui sono inserite, in ogni caso, può influire su tali strategie, così come sulla percezione stessa di forme di razzismo e discriminazione.

Le migranti somale, in ogni caso, sembrano contrastare lo stereotipo diffuso della donna musulmana quale vittima indiscussa, mentre costruiscono reti migratorie, al femminile, di sostegno e solidarietà e al contempo, fanno ricorso alle loro capacità di resilienza, al fine di ricomporre i tasselli delle loro vite, talora, frantumati dalla violenza.

Possono essere molteplici comunque, le questioni aperte su cui è possibile riflettere o interrogarsi, a partire da tali testimonianze.

Una prima forma di discriminazione, che attiene l’ambito istituzionale, si può individuare nelle politiche di chiusura delle frontiere, che non consentono di tutelare il diritto di lasciare il proprio paese per vie legali, neppure in caso di guerra o pericolo di vita, come testimoniano le drammatiche vicende delle richiedenti asilo intervistate, alle quali, paradossalmente, solo dopo molto tempo e lunghi percorsi è riconosciuto lo status di protezione internazionale. In questi casi, infatti, la migrazione si configura quale evento necessario che consente alle donne di sottrarsi dalle violenze perpetrate nel proprio paese, per poi doverne subire delle altre durante il tragitto migratorio, come avviene, spesso, in territorio libico, in quanto non vi sono possibilità di partire regolarmente.

Appaiono, così, particolarmente attuali le riflessioni di Wallerstein che ha ribadito come «il ruolo del razzismo» sia quello di «legittimare le ineguaglianze su cui l’economia-mondo capitalistica si regge» [Wallerstein 1995, 96]. Il mondo governato dal capitale e dal mercato, infatti, ha ridotto le distanze, punta ad abbattere le barriere comunicative, per la circolazione delle merci e del capitale, ma ne erige delle altre, per le persone, garantendo il diritto di movimento solo a coloro che appartengono ai paesi del centro dell’economia-mondo [Wallerstein 1995, 96].

In riferimento alle storie delle richiedenti asilo intervistate, inoltre, ci si può interrogare sulla gestione emergenziale dei fenomeni migratori, su politiche e normative che rischiano di produrre, come ha evidenziato Avallone [2018] «soggetti deboli», in quanto impongono, spesso, un regime di vita quotidiana che ne mortifica le competenze, le conoscenze, le prospettive. Queste donne, infatti, sono relegate in percorsi di accoglienza che rappresentano, sovente, una sorta di limbo, un tempo sospeso, nel quale possono restare anni in attesa, prima di ottenere lo status di rifugiate. «É un racconto razzista» ribadisce Avallone, quello che, basandosi su tali processi di inferiorizzazione tende a declassare le persone migranti, «ricondotte ad attribuzioni e classificazioni predeterminate», a «esseri umani […] meno umani degli altri» [Avallone 2018, 153].

Un’ulteriore problematica, riscontrata nel corso della ricerca, che si ricollega a processi di razzializzazione, attiene alla segregazione occupazionale nell’ambito della collaborazione domestica o in attività di assistenza e cura "full-time" particolarmente precarie di gran parte delle donne somale intervistate. Tale situazione, come si è visto, può ripercuotersi, considerevolmente, sui loro percorsi familiari, segnati spesso, da forme di maternità transnazionale.

In riferimento ai vissuti della maggior parte delle donne intervistate, inoltre, che si dipanano quasi esclusivamente fra gli spazi associativi, condivisi con i propri connazionali e quelli domestici, che coincidono, sovente, con il luogo di lavoro o con i centri di accoglienza, sembrano particolarmente adeguate le considerazioni della Signorelli inerenti la questione dell’auto-ghettizzazione. Questa modalità di vivere il contesto migratorio, infatti, piuttosto che rappresentare un tentativo rivendicazione identitaria, può configurarsi, secondo la studiosa, come una forma di «difesa della propria presenza culturale dall’ostilità razzista» ricercata in termini spaziali, ovvero, quale «modalità simbolica ed illusoria di affrontare il negativo dell’esserci in un mondo altro e alieno», che consente di «evitare lo scontro razzista» [Signorelli 2006, 214].

Ci si può interrogare, poi, sulla rappresentazione apparentemente contraddittoria del contesto urbano di Napoli considerato, talora, nel corso delle interviste, una località più accogliente rispetto ad altre, magari del Nord Italia, seppure siano stati riscontrati, in diversi ambiti del quotidiano, episodi legati a stereotipi o a pregiudizi. Rappresentazione, che in ogni caso, si ricollega alle traiettorie e ai percorsi migratori delle donne intervistate.

Nel corso della ricerca per altro, è emersa la complessa relazione fra pregiudizi, neo-razzismo e visibilità nello spazio urbano. In esso l’identità religiosa delle donne intervistate, che ha acquisito rilevo in seguito agli avvenimenti legati al terrorismo internazionale di matrice islamica, si palesa attraverso l’hijab. E’ emblematico che la percezione di forme di razzismo correlate ad un immaginario islamofobico, sia particolarmente significativa fra donne che, risiedendo in Italia da più tempo, possono raffrontare la situazione attuale a quella passata e ancor più, nell’esperienza di una giovane di seconda generazione, che vive gli spazi cittadini in misura maggiore rispetto alle altre immigrate intervistate e con una diversa consapevolezza. Nel suo caso, infatti, la visibilità di un’alterità, che si ricollega ai tratti somatici ereditati dalla madre e alla scelta di indossare il jilbāb, quale emblema della sua appartenenza religiosa, esibita nei luoghi pubblici, dalla scuola, agli ospedali, ai servizi del territorio, sembra esporla particolarmente ad atteggiamenti discriminatori e razzisti[42].

Il dibattito in rifermento al velo è particolarmente attuale e al contempo, complesso. Rivera, a riguardo, ha evidenziato come sia «del tutto arbitrario e politicamente irresponsabile» considerare l’hijab quale «emblema dell’islamismo radicale e jihadista», in quanto si rischia di esporre le donne che lo indossano a discriminazioni, violenze, aggressioni «dalla connotazione sessista e razzista» [Rivera 2017], come si è visto nel corso di alcune interviste. Ci si può interrogare, piuttosto, sulle differenze fra «veli imposti» e «veli liberamente scelti», così come sui confini fra tali categorie, domandandosi, come ha ribadito la ricercatrice se la «liberazione delle donne non possa passare anche per la libertà di disporre del proprio corpo e di vestire come loro aggrada» [Rivera 2017]. È possibile, per altro, concordare con la studiosa, per la quale se si facesse «laicamente, lo sforzo di relativizzare, comparare, contestualizzare e decostruire, ci si renderebbe conto che questo capo di vestiario, tutt’altro che estraneo alle nostre tradizioni» può assumere «valenze e significati diversi secondo i contesti e secondo le donne che lo indossano» [Rivera 2017]. La complessità di tali considerazioni, d’altro canto, porta anche a riflettere sulle forme di assoggettamento della donna in Somalia, sui processi sociali e politici di radicalizzazione musulmana del paese e sulle difficoltà di gestione del quotidiano in un contesto sociale disgregato, che è all’origine di questo flusso migratorio.

E’ significativo, comunque, che anche le migranti che non indossano l’hijab e sono inserite in spazi relazionali «integrati» [Decimo, 1998] abbiano ribadito l’esistenza o l’esperienza di pregiudizi neorazzisti. Ciò può essere indicativo del fatto che il razzismo costituisca una problematica attuale, pervasiva a livello sociale ed esperita trasversalmente, anche se in maniera differente, fra le diverse generazioni di donne intervistate. Esso, per altro, non rappresenta un «esito ineluttabile» o un «meccanismo spontaneo» [Rivera 2012, 287], come hanno ribadito gli studi che hanno posto l’attenzione sul ruolo svolto dai cosiddetti «imprenditori politici e mediatici della paura»[43] o che hanno evidenziato la necessità di indagare «se e in che modo, da chi e per chi i movimenti di popolazione sono egemonizzati», ovvero «da chi sono definiti e valutati» [Signorelli 2006, 225][44].

Il pensiero razzista, infine, riduce le persone alle categorie di richiedente asilo, musulmano, migrante, clandestino, tramutandole in «non persone», come ha evidenziato Dal Lago [2004]. Sarebbe così, auspicabile, ricollegandosi alle riflessioni di Ernesto de Martino [2002], storicizzare tali categorie e gli universi simbolici che trascinano con sé e disvelare i meccanismi, le dinamiche tese a creare immaginari xenofobi, per fare in modo che l’incontro con l’alterità possa divenire, come ha ribadito l’antropologo, l’occasione per «il più radicale esame di coscienza possibile per l’uomo occidentale» [de Martino 2002, 390 - 391], ma anche per coloro i quali sono portatori di altri valori.

In tal senso può essere di fondamentale importanza, il contributo critico dell’antropologia culturale sia in termini di teorici, che nel dare voce alle prospettive di coloro che subiscono forme di razzismo e pregiudizio, al fine di riflettere sulle possibilità di costruire contesti nei quali l’alterità e l’ibridazione culturale o religiosa possano essere considerate un valore.

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[1] Per gli studi di genere in ambito migratorio si rinvia a Anderson 2000; Andall 2000; de Filippo 2009; Morokvasic 2011; Parrenas 2001; Tognetti Bordogna 2012.

[2] A differenza del razzismo classico che si basa sul concetto di razza, il neo-razzismo è principalmente su base culturale e si articola, intorno al diritto alla diversità culturale che alcuni casi è considerata non integrabile. Per approfondimenti: Barker 1981; Gallisot, Kilani, Rivera 2001; Miranda Signorelli 2011; Signorelli 2006; Taguieff 1999.

[3] Razzismo, intolleranza nei confronti della cultura e della religione musulmana, che dopo ogni attacco terroristico di stampo jihadista, si è manifestato anche in forme esplicite, prendendo di mira anche le comunità immigrate. Per approfondimenti: European Commission 2003; Ehahi, Khan 2018; Gallisot, Kilani, Rivera 2001; Idos 2016, 2017, 2019; Lunaria 2017.

[4] Permane, inoltre, l'opinione che i migranti attentino alla cultura all’identità o alla tradizione italiana sulla base di una idea essenzialista di tali concetti, da intendersi, invece, come evidenziato dal dibattito antropologico, in maniera ibrida, dinamica, dialettica [Canclini 2000; Sayad 2002; Signorelli 2006].

[5] Per approfondire le teorie, le definizioni o il dibattito inerente il razzismo si rinvia a: Aime 2016; Alietti 2018; Balibar 1989, 2005; Balibar Wallerstein 1991; Burgio 2010; Faso 2010; Gilroy 1993; Guadagnucci 2010; Guillaumin 1972; Hall 2015; Idos 2019; Naletto 2009; Rivera 2009; 2017; Palidda 2009; Gallisot, Kilani, Rivera 2001; Signorelli 2006; Petrosino 1999; Taguieff 1999.

[6] Per approfondimenti in merito all’afrofobia si rinvia, fra i vari studi, a Idos 2016, 61 - 64; Enar 2014.

[7] Questa norma, che prevede l’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari e la riorganizzazione del sistema di accoglienza, ha suscitato un ampio dibattito ed è considerata da molti discriminatoria. Si rinvia, fra gli altri, a Idos 2019 e all’Associazione per gli studi giuridici sull’Immigrazione (ASGI) https://www.asgi.it/

[8] I locali dell’associazione rappresentano, infatti, un luogo di incontro e di aggregazione per le donne somale. L’osservazione partecipante è stata svolta a più riprese, nel periodo che va da maggio del 2018 a gennaio del 2020, durante il quale sono stata coinvolta in diverse attività dell’associazione, fra cui corsi di lingua italiana rivolti alle migranti.

[9] In particolare sono state intervistate le presidenti dell’Associazione Comunità Somala in Italia, con sede a Napoli, dell’Associazione Comunità Donne Somale, che svolge anche l’attività di mediatrice culturale e dell’Associazione Iskafiri, alle quali va un particolare ringraziamento.

[10] Le interviste, per le quali si è fatto uso di un registratore, hanno approfondito le storie di vita delle donne, i loro percorsi migratori, la percezione, le opinioni, le esperienze in merito a pregiudizi, stereotipi, razzismo in diversi ambiti del quotidiano (lavorativo, abitativo, negli spazi urbani, ad esempio, sui mezzi pubblici, nel rapporto con i servizi) ed i progetti futuri.

[11] Si è tentato di evitare i rischi di sovra rappresentazione impliciti nell’utilizzo di questo approccio metodologico cercando di fare in modo che il campione rispecchiasse l’eterogeneità delle situazioni e di percorsi migratori per tempo di residenza in Italia ed età. Gran parte delle interviste sono state svolte nel 2018 e riprese ed approfondite successivamente.

[12] I rifugiati somali nel mondo sono 950.000 circa e sono fra i più numerosi dopo i siriani, gli afghani, i sud sudanesi e i cittadini del Myanmar [Idos 2019, 47]. Per approfondimenti sulla diaspora somala e sulle sue articolate traiettorie si rinvia a Farah 2000; Hopkins 2006; Kusow, Bjork 2007.

[13] Secondo Picciolini [1992] una prima fase, dagli anni Venti agli anni Sessanta, ha coinvolto soprattutto militari e studenti, una seconda, con l’avvento della dittatura di Siad Barre (1969 – 1991), rifugiati politici ed una terza fase dalla fine degli anni Settanta, con la guerra civile, fasce più ampie di popolazione, per motivi politici ed economici.

[14] I residenti somali in provincia di Napoli sono 241 e rappresentano il 2,6% del totale in Italia. Le donne costituiscono, invece, circa il 51,4%. [Istat 01/01/2019]. Ad oggi, inoltre, rispetto al passato è aumentata la presenza maschile, anche a causa dei trattati internazionali (Convenzione di Dublino) che non consentono loro di lasciare l’Italia, che spesso è il primo luogo di arrivo.

[15] Fra queste paesi europei come la Germania, l’Inghilterra, l’Olanda e la Svezia o altre città del Nord Italia. Al 1 gennaio del 2019, secondo i dati Istat, i somali in Italia sono 9.252 (lo 0,18% degli stranieri residenti) e si concentrano in prevalenza nel Lazio, in Sicilia, in Lombardia e in Piemonte. In Campania sono, invece, 362 (il 3,9% del totale), di cui 150 sono donne [Istat 2019].

[16] Con la fine della dittatura di Siad Barre (1991) la guerra interclanica, ha alimentato ulteriormente i flussi migratori e le partenze dal paese. Per ragioni redazionali e di spazio, si rinvia, per ulteriori approfondimenti, a Picciolini 1992; Decimo 1998, 2005, 2007; Farah 2000; Kusow, Bjork 2007.

[17] Decimo [1998] distingue reti «incapsulate», costituite da legami forti e multipli fra donne che vivono la socialità soprattutto fra connazionali, «segregate», qualora le migranti siano divise fra due domini rigidamente separati, intrattenendo relazioni con gli italiani all’insaputa delle connazionali e, infine, «integrate», che si dipanano fra diversi domini sociali nello spazio urbano.

[18] Questi sono rappresentati dai CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria) e da strutture di seconda accoglienza che con la L. 32/2018 rientrano nel SIPROMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati). Per approfondimenti in merito alle contraddizioni del sistema di accoglienza si rinvia, fra gli altri, ad Avallone 2018 e Idos 2019.

[19] Non rientra fra gli obiettivi di questo articolo approfondire la tematica delle mutilazioni genitali femminili. Tutte le donne intervistate, in ogni caso, anche in occasione di colloqui informali, hanno ribadito come si tratti di una pratica ancestrale, legata alle tradizioni ma non prescritta dalla religione musulmana, distanziandosi da essa.

[20] Per esigenze redazionali e questioni di spazio si farà qui riferimento soprattutto alle testimonianze più significative, in relazione allo specifico focus di questo articolo. Per questioni di privacy sono stati utilizzati degli pseudonimi e nel caso delle richiedenti asilo sono stati omessi riferimenti specifici ai villaggi e alle località di origine.

[21] Alle donne residenti a Napoli da molti anni è stato chiesto, inoltre, se, a loro parere, vi fossero stati dei mutamenti in riferimento a razzismo e forme di discriminazione, nel tempo.

[22] Tale condizione rinvia al concetto di integrazione subalterna [Ambrosini 2011; Macioti, Pugliese 2010] e si ricollega all’intreccio fra stereotipi, pregiudizi con dinamiche di welfare, del mercato del lavoro e con il ruolo svolto dai network migratori, che possono favorire fenomeni di segregazione lavorativa [Ambrosini 2006, 2011; Tognetti Bordogna 2012].

[23] Diverse indagini hanno rilevato l’esistenza di tale gerarchia in questi settori occupazionali fra le donne straniere, in relazione alla provenienza, sia in termini di salario percepito, che per le condizioni occupazionali. Ai gradini più elevati vi sono donne di origine filippina. Si rinvia ad Anderson 2000, Parrenas 2001; Greco 2004.

[24] Nel contesto urbano napoletano sono molto poche coloro che svolgono attività differenti. Fra le donne intervistate vi sono due mediatrici interculturali, delle quali una svolge anche un’attività legata alla ristorazione e la presidente della Associazione Comunità Somala in Italia, che invece gestisce un’attività autonoma.

[25] Abito tradizionale femminile della Somalia era il guntiino, costituito da un rettangolo di stoffa ampio e lungo, tenuto su da un nodo su una spalla e avvolto alla vita, che lasciava scoperto il collo e l’altra spalla; negli anni Ottanta ad esso si è affiancato il diric, un vestito scollato di tessuto trasparente, adornato con sottovesti di seta ricamate gogorad e veli garbasaar [Aden 2017].

[26] Le uniche donne intervistate che non indossano l’hijab nel quotidiano sono la presidente dell’associazione Iskafiri e le mediatrici interculturali. Aden [2017] sottolinea come il mutamento nel modo di vestire delle donne somale si ricolleghi oltre che a motivazioni religiose anche a una scelta politica e al tentativo di tutelare la loro incolumità.

[27] La donna, cinquantenne è giunta in Italia agli inizi degli anni Ottanta.

[28] Le donne intervistate hanno ribadito come anch’esse siano vittime dei gruppi estremisti del paese di origine, a causa delle violenze e degli attenti terroristici in Somalia e per il fatto che le azioni jihadiste finiscono per alimentare, nell’immaginario collettivo, una visione falsata della religione musulmana. Hanno evidenziato, infatti, come nel Corano non siano ammesse tali forme di violenza.

[29] È emblematico, a riguardo il fatto che l’Associazione Comunità Somala in Italia abbia preso parte, negli anni, ad eventi interreligiosi, di pace, assieme ad altre realtà del territorio. Con essa, inoltre, da diversi anni collaborano volontari appartenenti al gruppo cattolico del Movimento dei Focolari.

[30] Nel corso dell’attività di osservazione partecipante e in occasione dei colloqui informali, oltre che nelle interviste, la città di Napoli è stata, più volte, paragonata, fra scherzi e risa, ad altre località del Nord Italia, evidenziando le problematiche e punti di forza reciproci dei diversi contesti.

[31] Da ciò si evince la complessità delle traiettorie migratorie che non sono dirette esclusivamente verso il Nord Italia o paesi esteri, ma anche verso il Sud in relazione ai legami sociali, a circostanze economiche o allo status giuridico. Un ulteriore approfondimento di tali traiettorie non rientra fra gli obiettivi di questo articolo. Si rinvia fra gli altri a de Filippo Strozza 2015.

[32] Le interviste, per la scarsa conoscenza della lingua italiana delle richiedenti asilo, si sono svolte con l’ausilio di una connazionale residente in Italia da circa quarant’anni, che ha fatto da interprete.

[33] Ciò si ricollega delle condizioni di instabilità politica ed economica in Somalia che non facilitano le possibilità di istruzione, ma anche al fatto che gli uomini abbiano maggiore accesso ad essa.

[34] Le donne, inoltre, hanno deciso di affidarmi i copia dei documenti e dei colloqui sostenuti con la Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di protezione internazionale. Tutte hanno ottenuto, in seguito, lo status di rifugiate.

[35] Per approfondimenti sulla situazione nei centri di detenzione libici si rinvia al Dossier Libia https://dossierlibia.lasciatecientrare.it/

[36] Khadra, Yasmiin e Jamilah sono state intervistate presso la sede dell’associazione somala di Napoli e hanno fatto assieme il viaggio dalla Libia all’Italia, che le ha portate ad attraversare il Mediterraneo. In seguito sono state accolte nella stesso CAS alla periferia Nord di Napoli.

[37] A differenza dei centri di accoglienza straordinaria, gestiti dalle Prefetture, le strutture SPRAR, gestite dai Comuni, ad oggi SIPROIMI, prevedono percorsi di integrazione e di intermediazione abitativa e lavorativa, al fine di facilitare l’inserimento sociale degli utenti. Prima dell’approvazione della L. 32/2018 ad essi potevano accedere anche richiedenti asilo.

[38] La donna piange quando ricorda i momenti del viaggio, nel corso del quale ha preso la vita anche una sua amica, per cui decido di interrompere l’intervista.

[39] Le disposizioni della L. 32/2018 hanno riservato l’accesso alle strutture di seconda accoglienza SIPROIMI ai soli titolari di protezione internazionale e ai minori stranieri non accompagnati. L’intervista a Uba accolta in una struttura SPRAR (oggi SIPROIMI) prima dell’approvazione di tale norma, è stata svolta nel periodo dell’approvazione della legge. La donna ha poi ottenuto lo status di rifugiata.

[40] Non rientra fra gli obiettivi di questo articolo approfondire le dinamiche e le problematiche generali inerenti le seconde generazioni di immigrati in Italia. Per approfondimenti in merito, si rinvia fra gli altri, a Giacalone Falteri 2011; Roy, Guareschi 2017.

[41] I giovani somali di seconda generazione possono avvalersi dell’ausilio di una fitta rete transnazionale di familiari che vivono in diversi paesi del mondo [Giacalone Falteri 2011]. Dai racconti delle migranti è stato possibile riscontrare come spesso, quelli che sono giunti a Napoli per ricongiungimento familiare, abbiano poi deciso di trasferirsi altrove, in cerca di migliori possibilità occupazionali.

[42] Alcuni studi hanno, in precedenza, evidenziato il nesso fra discriminazione, pregiudizio e visibilità. Fra questi Signorelli 2006; Greco 2004.

[43] Per approfondimenti si rinvia a Rivera 2001, 287; Naletto 2009; Manconi, Resta 2017.

[44] Signorelli, in questa analisi, riprende il concetto gramsciano di egemonia [Signorelli 2006].