Etnografia del fare

Note culturali su un contesto urbano dell’Italia centrale

Lia Giancristofaro

Università degli Studi “G. D’Annunzio”, Chieti

Indice

Ragioni e metodi dell’indagine
Fare in casa: etnografando gli spazi
La casa e il garage: laboratori della quotidianità
Fare in casa come comportamento d’onore
Fare in casa come investimento nel futuro
Bibliografia

Abstract.  The essay presents a comparative ethnographic research about the social life in the public housing buildings in an italian town, Lanciano (CH), and in the residential neighborhoods of the same city. The object of analysis is the positive representation of the "home producing" of food and tools. The essay theorises a consistent cultural elasticity in the public housing area, in which the creativity in tackling the economic degrowth would be expressed by recycling some local themes of rural folklore, such as the ability to maintain the spaces and to prepare many kind of foods for immediate consumption or for storage. The here described activities are aimed at family members, and are particularly displayed in hospitality ceremonies, as honour behaviors. The intent of the author is to experience a new reading (and design) of those areas starting precisely from the use that the protagonists make of houses, and from the qualification that they, by living, impart to houses and public spaces.

Keywords: Hurban life; home; production; sense of belonging; rural traditions.

Ragioni e metodi dell’indagine

Questa è una ricerca etnografica comparativa tra la vita sociale nei quartieri di edilizia popolare in una media città dell’Italia centrale (Lanciano, in provincia di Chieti) e nei quartieri residenziali della medesima città. L’oggetto di analisi è la rappresentazione simbolica positiva delle forme di produzione casalinga di cibi e oggetti di uso pratico. Il lavoro teorizza una consistente elasticità culturale presso le zone di edilizia popolare, nelle quali si esprimerebbe una creatività capace di affrontare la decrescita economica attualizzando alcuni temi locali del folklore rurale, come la capacità di fare la manutenzione degli spazi e di preparare autonomamente i cibi di consumo immediato o adatti alla conservazione. Le attività qui descritte sono dirette ai membri della famiglia ma diventano oggetto di particolare ostentazione nelle cerimonie dell’ospitalità.

La presente etnografia è nata dalla mia esplorazione urbana di due quartieri della città dove sono nata e dove ho vissuto fino al 1989. La presenza dei quartieri di edilizia popolare e la loro delimitazione “etnica”, pur essendo la città di non oltre quarantamila abitanti, mi è sembrata, già in quegli anni, molto interessante perché ci pone di fronte a un doppio problema. Il primo problema è la costruzione di uno stereotipo negativo, legato alla percezione della “estraneità” dei suoi abitanti. Il secondo problema è il confronto tra lo stereotipo e quello che noi potremmo vedere come piano di una pratica reale e quotidiana. L’immagine “etnica” degli abitanti dei quartieri di edilizia popolare, negli anni Settanta e Ottanta, essenzializzava la rappresentazione urbana degli abitanti degli altri quartieri con una onnicomprensività di cui sono andata pian piano accorgendomi. Gli elementi che costruivano l’immagine “etnica” del quartiere erano di ordine psicologico e culturale ed erano riferiti alla “estraneità” degli abitanti, ovvero al fatto di provenire dai piccoli paesi, dunque di essere “immigrati”[1]. Agli abitanti dei quartieri di edilizia popolare e soprattutto agli abitanti del quartiere “Santa Rita”, infatti, era attribuito il “limite sociale” di provenire dai paesi limitrofi, soprattutto montani; di non possedere una casa di proprietà; di appartenere al ceto operaio o comunque medio-basso; di avere un livello di scolarizzazione elementare o di avviamento professionale; di parlare in dialetto; di vestire in modo pacchiano; di non avere buon gusto; di essere “retrogradi”, chiusi di mente, ostinatamente ancorati a idee o consuetudini del passato. Ovviamente si trattava di uno stereotipo, che però caratterizzava anche i ruoli di genere di questa particolare categoria urbana, con particolare insistenza sulla specificità del ruolo femminile: per esempio, era diffuso lo stereotipo della ragazza del quartiere popolare che il sabato si recava in centro abbigliata in modo pacchiano, ma, diversamente dalle “borgatare” della Capitale, era interessata a cercare un fidanzato. Si favoleggiava di prosperose ragazze che, lasciata la scuola, cercavano di conquistare i “ragazzi del centro urbano”, in particolare i figli dei medici e degli avvocati, portando in dono maestosi vassoi di brioche alla crema fatte in casa, così educate dalle madri che, “massaie” e illetterate, incarnavano l’angelo del focolare, depositarie dell’arte di fare la pasta in casa e di “prendere gli uomini per la gola”. Dei ragazzi si diceva che fossero rudi, ignoranti, antiquati e adusi all’alcool, e che usassero fare pericolose corse con le loro moto (truccate per aumentarne la cilindrata) negli stradoni deserti del quartiere. I maschi li ho sovente sentiti appellare come “cafoni” e “contadini”, pur non essendo essi impegnati nel lavoro agricolo, ma nel lavoro industriale e del terziario. Anche alle ragazze purtroppo spettava l’epiteto di “cafonette” e “contadinelle”. Questa classificazione, fondata sullo sguardo egemone della città verso la campagna e i piccoli paesi, era presente nel ceto urbano già alla fine dell’Ottocento[2], e si è invertita nel corso degli ultimi vent’anni, in quanto l’arrivo degli stranieri ha calamitato la negatività precedentemente incarnata dagli abitanti dei quartieri ATER.

Le città e le culture, infatti, sono oggetti complessi e in continuo movimento, e chi opera e riflette nei contesti urbani deve sempre confrontarsi con questa evidenza, nel tentativo di non banalizzare la complessità urbana e allo stesso tempo di costruire strumenti e approcci adatti a comprendere la vita urbana contemporanea. Solo problematizzando i temi dell’abitare e delle metamorfosi urbane con una prospettiva trans-disciplinare è possibile stimolare la dialettica tra le istituzioni pubbliche, gli studiosi e la cittadinanza, e solo ripercorrendo le narrazioni e gli incontri è possibile evidenziare il contributo che le ondate migratorie hanno dato al patrimonio culturale urbano e il continuo cambiamento di tali contributi anche simbolici, e anche a distanza di anni. Già negli anni Novanta, incuriosita da questi stereotipi circolanti in merito agli abitanti, cominciai ad osservare i quartieri di edilizia popolare della città, e soprattutto il maggiore di essi, detto “Santa Rita”. All’epoca, si chiamavano ancora quartieri IACP, ovvero Istituti Autonomi Case Popolari, ma nel 1999 vennero trasformati in Aziende Territoriali per l’Edilizia Residenziale (ATER). Per praticità, il presente saggio utilizzerà l’acronimo ATER.

Ho condotto questa lunga osservazione concentrandomi su una particolare caratteristica “etnicizzante” degli abitanti dei quartieri di edilizia popolare, ovvero la capacità di fare tutto in casa. Il fenomeno culturale dell’autoproduzione mi è sembrato abbastanza circoscritto nella città: in poche parole, nei quartieri residenziali e del centro urbano l’autoproduzione era vista, e lo è tuttora, come una diminuzione della dignità della famiglia, mentre nei quartieri ATER è un vanto e viene anche ostentata. Per mettere a nudo questo sistema di valori, ho realizzato una ricerca qualitativa autofinanziabile. L’osservazione è stata ultraventennale, si è concentrata nel 2010-2012 ed è ancora in corso. Essendo oriunda di Lanciano, sono stata avvantaggiata nell’evidenziare le tassonomie popolari e urbane e, come ogni etnologo nativo, ho dovuto faticare per esercitare una sorveglianza su me stessa. Lo strumento utilizzato è stato il colloquio informale con singoli soggetti (intervista casuale) o con gruppi familiari (focus group), i cui risultati sono stati sinteticamente riportati sotto forma di brani narrativi. Il colloquio ha completamente escluso i residenti delle contrade sparse nel comprensorio e ha coinvolto i residenti della Lanciano più urbana (down-town) in contrapposizione ai residenti dei quartieri ATER che sono sparpagliati nel tessuto urbano: il piccolo quartiere ATER di Via Monte Grappa, edificato durante il fascismo; i quartierini di Via Galvani, San Giuseppe e Olmo di Riccio, edificati negli anni Cinquanta e Sessanta; le abitazioni ATER sparse nei quartieri storici della città (edifici diruti che vengono acquisti dal Comune e riqualificati come edilizia popolare). Il più popoloso e recente dei quartieri ATER di Lanciano, cioè “Santa Rita” o “Quartiere Centosessantasette”, si è dimostrato un caso a sé e, per il suo rapido cambiamento ha risucchiato molte delle mie energie.

Infatti, il quartiere Santa Rita, che conta oggi oltre ottomila abitanti, negli ultimi anni è andato incontro ad una notevole riqualificazione e gentrificazione: esso si trova in un punto di vitale importanza per il traffico, stando a ridosso dell'autostrada e di una nuova zona industriale, è stato ristrutturato con la predisposizione di grandi viali alberati, ed è divenuto sede di uffici comunali, di un ufficio postale, di un cinema, di banche e imponenti strutture sportive (un palazzetto dello sport e una piscina olimpionica), di grandi esercizi commerciali, scuole e parchi pubblici. Il nucleo centrale è Piazza Giovanni Paolo II, con la moderna parrocchia dello Spirito Santo, e accanto alle palazzine medio-grandi sono state costruite villette a schiera che, insieme agli altri interventi, di recente hanno fatto mutare l’immagine fondata sul disagio sociale e sull’isolamento. In totale, ho osservato 28 nuclei familiari e di vicinato, trattandoli anche nell’atto di socializzare e fare autoproduzione, per un totale di circa 60 colloqui individuali nelle zone ATER, di cui ben 40 nel grande quartiere “Santa Rita”. Ho intervistato altri 30 residenti della zona down-town che si sono dichiarati estranei o contrari all’auto-produzione. Essendosi gran parte dell’investigazione svolta prima dell’emanazione del Regolamento UE 679 per la Protezione dei dati personali (2016), non ho fornito moduli per il consenso al trattamento dei dati, ma ho spiegato che il motivo della mia osservazione era finalizzato alla ricerca scientifica e le testimonianze presentate in seguito portano nomi di fantasia. Ho seguito la prassi dell’esplorazione urbana, inserendomi anche nella società civile dei quartieri (associazioni culturali, movimento ecologista No-Triv) ed entrando nei “centri” protagonisti dei processi di cambiamento messi in atto negli ultimi anni dai diversi attori locali. Molti spunti interpretativi mi sono venuti dalle precedenti ricerche di antropologia urbana e rurale svolti nella regione e soprattutto nella città di Pescara [Perrucci 1997].

Fare in casa: etnografando gli spazi

La ricerca ha seguito la strada dell’approfondimento culturalista tematico e l’obbiettivo di partenza è stato quello di ipotizzare quali forze spingessero le persone a socializzare una cultura economica che localizza in stanze dell’abitato moderno le attività produttive disallineate con la cultura contemporanea. Nel 2010-2012, il primo elemento che ha orientato l’indagine è stata la straordinaria accoglienza che ho ricevuto presso il quartiere ATER che, per via degli stereotipi, ritenevo meno interessante dal punto di vista delle relazioni, cioè quello di Santa Rita. L’ho visitato d’inverno e d’estate, tramite conoscenti, scoprendo che, dentro le palazzine anonime e tra gli stradoni costeggiati da erbacce e panchine solitarie, esisteva una brulicante vita sociale: quando le porte si aprirono, mi svelarono mondi inaspettati.

Le conversazioni si sono svolte soprattutto all’interno dei garage, stanze adibite a laboratori e luoghi di riunione che vedevano ogni giorno un via-vai di anziani, un traffico scandito dalle abitudini della giornata feriale: al mattino, gli uomini scendevano nei laboratori, mentre le donne rigovernavano “ai piani alti” delle palazzine; da mezzogiorno alle prime ore del pomeriggio c’era il coprifuoco del pranzo e della pennichella; nel pomeriggio si ricominciavano le attività, con i giochi e la partita a carte finale, fino al secondo coprifuoco, che cadeva con la cena. La vita sociale e il ricevimento degli ospiti era accompagnata dalle ritualità collettive e dalla somministrazione di caffè, limoncello, dolci e pizze, tutto rigorosamente autoprodotto e fornito con orgoglio dalle mogli, pronte a illustrare con dovizia di particolari le modalità della preparazione casalinga. Molti cibi venivano cucinati direttamente all’interno dei garage, dove c’erano lavandini e fornelli a gas con la bombola con tutto il loro set di pentole. Ricordo una formidabile frittura di zeppole di San Giuseppe che venivano cotte, zuccherate e somministrate agli ospiti sotto ai loro occhi. La principale caratteristica dei soggetti attivi nell’auto-produzione era, dunque, la particolare concentrazione e organizzazione nel quartiere Santa Rita e la collocazione di queste attività nei garage e nelle cantine che, essendo collocate al piano terra e non nei piani interrati, offrivano spazi arieggiati e luminosi, sovente attrezzati con vetrine, tende e ventole per il ricambio dell’aria, anziché con banali serrande.

La seconda caratteristica era invece comune a tutti i quartieri ATER osservati, cioè la nascita contadina o comunque periferica degli abitanti, oriundi delle aree suburbane di Lanciano e dei piccoli paesi appenninici e trasferiti nel capoluogo negli anni Sessanta e Settanta, in seguito all’impiego in fabbrica e nel terziario. Questo faceva sì che nel quartiere Santa Rita, nonostante la diversa conformazione urbanistica, si riproponesse una vera e propria “socialità paesana”, ispirata alla vita dei vicoli e delle piazzette.

La terza caratteristica, anch’essa comune, era l’appartenenza alla fascia d’età 60/85. I protagonisti dell’auto-produzione sono stati segnati dalla memoria della miseria e delle privazioni del Secondo Dopoguerra; si sono inculturati in un ambiente di lavoro paesano e autarchico, spaziante dall’agricoltura, all’attività artigianale o proto-industriale, che aveva continuato ad incorporarsi nel ménage lavorativo impiegatizio come una sorta di “secondo lavoro”. Molti, negli anni Sessanta e Settanta, avevano avuto un’esperienza di lavoro operaio anche nelle miniere e nelle fabbriche del Nord. L’integrazione nel contesto urbano di Lanciano risaliva agli anni Settanta e Ottanta, quando lo sviluppo industriale locale richiamava la forza lavoro e questi impiegati, stabilizzati con le mogli nelle case IACP, avevano potuto accrescere la loro famiglia. I loro figli hanno appreso forme di adattamento lavorativo e hanno dichiarato di essere in grado anch’essi di svolgere molti altri lavori oltre a quello “ufficiale”.

Io produco in casa i dolci, il sapone, la salsa di pomodoro, le marmellate, i sottaceti, la pasta, il pane. Sono anche sarta e parrucchiera, rammendo, cucio e sistemo i capelli a tutta la famiglia e metto i bigodini alle vicine. È la nostra tradizione: chi risparmia, guadagna! (Angela R., casalinga, 68, Santa Rita).

Sono nato contadino ad Archi, ho fatto il meccanico e il tornitore in Germania, a Torino e in Valdisangro. Siamo venuti a vivere qui nel 1987. Con la pensione, ho cominciato a fare piccoli lavori di manutenzione. Lavoro nel garage. I vicini non si lamentano, anzi sono contenti: il lavoro onorato non è vergogna, né peccato! Non chiedo soldi, il costume di questo quartiere è ripagare in merce o altri servizi (Mario D., pensionato, 75, Santa Rita).

La mia fabbrica ha chiuso, l’industria è in dismissione, mi sono adattato a fare l’aggiusta-tutto con mio padre, che è pensionato. Il ricavo è poco, non c’è margine per aprire una partita iva né per pagare l’affitto di un locale, quindi ci arrangiamo in garage. Tra vicini c’è comprensione, ognuno si attrezza come può. Solo un condomino ha protestato per il rumore della molatrice, ma gli ho fatto un lavoro gratis e si è calmato (Christian I., perito industriale, 48, Santa Rita).

Senza lavorare mi annoio. Il mio laboratorio è lo scantinato, dove trascorro le giornate d’estate, perché lì fa più fresco. Dentro c’è la vecchia cucina che avevamo in paese, con acqua, luce e gas. Ci sono attrezzi per tutte le necessità. Ci facciamo la salsa di pomodoro per l’inverno, i sottaceti, il pane, ma anche le piccole riparazioni per noi e per gli amici (Gianni P., pensionato, 77, Santa Rita).

A Santa Rita tutti lavorano nel garage, alcuni tengono pure la gabbia coi conigli e la capretta nana! Anche qui nel centro storico ci diamo da fare. É raro che qualcuno si lamenti, una signora in agosto ha protestato perché nel vicolo facevamo sterilizzare le bottiglie di salsa con la bombola del gas, lei aveva paura di un’esplosione e minacciava di chiamare i vigili (Assunta G.., casalinga, 56, case ATER del Centro Storico).

La quarta caratteristica era quella di essersi sentiti sovente stigmatizzati e segregati rispetto agli abitanti del centro urbano. Questi processi erano dovuti sia al fatto di essere “immigrati” dai paesi, sia al fatto di abitare nel quartiere ATER. Nel 2010-2012, il fenomeno era ancora percepito e mi venne esternato con delusione e rammarico. Nel corso degli ultimi anni, invece, la stigmatizzazione sembra essersi indebolita, in quanto la percezione della “estraneità” si è scaricata sugli immigrati europei ed extracomunitari, che sono presenti nella città in numeri non altissimi ma consistenti (circa 2000 persone, per la maggior parte romeni, polacchi, albanesi, africani, cinesi, dominicani).

Siamo venuti a Lanciano per dare più opportunità ai nostri figli, in paese non c’era più nessuno, povero paese, oggi a Colledimacine sono rimasti in 150 e sono tutti anziani. Siamo arrivati che avevamo tre figli. Quando abbiamo avuto la casa popolare, abbiamo scavalcato una coppia senza figli, erano di Lanciano, e con rabbia ci hanno detto: scendono gli asini dalla montagna, e scacciano il padrone dalla sua stalla (Camillo S., pensionato, 76, Santa Rita).

Io ho fatto l’Istituto Industriale. Avrei voluto fare il Liceo Scientifico, ma avevo paura di dare troppo nell’occhio, c’erano i figli di papà del centro di Lanciano che mi avrebbero bullizzato perché venivo da Santa Rita, all’epoca si chiamava Centosessantasette, dicevano che era il quartiere degli sfigati, oggi invece è pieno di servizi e ci si vive meglio che al centro di Lanciano. In passato c’era molto razzismo tra un quartiere e l’altro, ora se la prendono soprattutto con gli stranieri (Christian I., perito industriale, 48, Santa Rita).

Noi siamo venuti da Torricella e all’inizio i lancianesi non ci potevano vedere. Ci chiamavano “li cafùne”. Ora i lancianesi hanno cambiato bersaglio e ce l’hanno con i neri e i cinesi che rubano il lavoro agli italiani, e si lamentano delle polacche e delle domenicane, che vanno in giro tutte scollate e rubano i mariti alle mogli (Assunta G.., casalinga, 56, case ATER del Centro Storico).

La quarta caratteristica dei soggetti attivi nell’auto-produzione è la loro differenziazione operativa in base al genere e all’età. Nei quartieri ATER di Lanciano, l’età media è avanzata e la famiglia tipica è composta dal marito, operaio in pensione, dalla moglie, casalinga, a cui si aggiungono i figli single o “di ritorno” dopo il divorzio o in seguito alla perdita del lavoro. Le donne si dedicano prevalentemente alle operazioni di conservazione alimentare (dispensa), sartoria e cura della persona, mentre gli uomini prediligono le riparazioni, il lavaggio degli autoveicoli, le attività di manutenzione degli spazi e degli arredi; la loro opera è generosamente prestata anche nell’interesse dell’attività femminile di trattamento degli alimenti. Per esempio, un pensionato del quartiere Santa Rita ha condizionato un motore elettrico monofase (proveniente da una lavatrice rottamata) come impastatrice e passapomodoro, per le necessità casalinghe della moglie. Ciò esprime la creatività e l’operosità artigianale che caratterizzano la generazione italiana “nativa della povertà”. Una generazione che, educata alla competitività economica nel rispetto dei valori della famiglia e del vivere comunitario, fu protagonista di una straordinaria stagione produttiva in Italia e all’estero, ispirando la riflessione culturale e letteraria [Levi 1978].

La struttura urbanistica tendenzialmente “priva di centro” del quartiere Santa Rita, ideato nei primi anni Ottanta e edificato a partire dal 1983, è stata parzialmente corretta tramite la costruzione della Chiesa parrocchiale, ma la posizione del tutto periferica non ha consentito alle famiglie di inserirsi nella vita urbana di Lanciano, i cui residenti a loro volta hanno percepito come “estranei” gli abitanti di Santa Rita. Mentre gli altri quartieri ATER erano in osmosi col centro urbano, Santa Rita venne a lungo considerato come un quartiere pericoloso, privo di vita e di attrattive, un quartiere nel quale si arrivava non a piedi ma con l’autobus, e che di giorno era abitato solo dalle donne, perché gli uomini erano tutti in fabbrica. Quando questa prima generazione di operai ha cominciato ad andare in pensione, la relazionalità si è riaggregata sul modello dei laboratori nei garage e nelle cantine, i quali sono stati progressivamente “chiusi” su richiesta dei condomini. All’atto della progettazione (1987), infatti, la maggior parte delle palazzine poggiava su piloni a vista che mantenevano libero lo spazio del piano terra, lasciato libero dal progettista o ad uso di parcheggio. Questa politica architettonica si è rivelata giusta e, offrendo la possibilità di creare i garage e le cantine, ha controbilanciato le carenze della socializzazione e dell’integrazione create dalla struttura urbanistica a strade parallele e “prive di centro”. Questo ha portato, a mio avviso, al miglioramento delle condizioni di vita nel quartiere.

La casa e il garage: laboratori della quotidianità

Quando, negli anni Novanta, gli abitanti hanno espresso la necessità di murare il “piano terra” per sfruttare meglio lo spazio, i locali così ricavati sono diventati garage, laboratori e stanze condominiali per la socializzazione e le riunioni. Solo raramente questi locali hanno ospitato attività commerciali: nel corso degli ultimi vent’anni, nel quartiere Santa Rita sono nati bar, una farmacia, una filiale bancaria, una merceria, una lavanderia e a meno di un chilometro sono presenti due super-discount. Del resto, stante la notevole capacità di auto-produzione degli abitanti e la loro condizione di pensionati ricchi non tanto di finanze, quanto di tempo libero e di capitale relazionale, alcuni tipi di servizi avrebbero vita dura.

Per questa prima generazione di pensionati, a cui oggi si affiliano i disoccupati e i precari che faticano ad arrivare alla fine del mese, il “luogo di lavoro” - inteso in modo non istituzionale ma simbolico - ha ritrovato il suo spazio ideale nel garage, che quasi mai viene adibito a rimessa per l’automobile. D’altronde, il principale quartiere ATER di Lanciano è contraddistinto da un’ampia possibilità di parcheggio in strada. Lasciando l’automobile accanto al marciapiede, la rimessa si trasforma in officina per essere sfruttata al massimo delle possibilità creative della famiglia, la quale è la cellula cooperativa delle attività di auto-produzione. Se il fulcro di queste attività sono gli anziani, esse comunque coinvolgono le generazioni successive, che nel loro stesso interesse mobilitano gli anziani.

I miei genitori intrattengono i nipotini con mille attività educative, fanno il vino, le salsicce, la salsa di pomodoro, i dolci tipici, restaurano i mobili, costruiscono i giocattoli e i mobiletti con gli scarti di legname come si faceva una volta. Io commercio on line e degli oggetti che fa mio padre ne ho venduti parecchi. Fanno anche volontariato per la Chiesa, e la domenica con gli altri residenti vanno a ripulire le strade dalle erbacce. È una generazione straordinaria (Stefania M., impiegata, 46, Santa Rita).

I garage-laboratorio mi sono sembrati contemporaneamente officine e depositi di materiali di recupero: vecchi motori a due tempi e cestelli di lavatrici, damigiane, casse impilate di “vuoti a perdere” pronti per nuovi contenuti (vino, olio, salsa di pomodoro), lamiere, bulloni, molatrici, attrezzi da muratore e imbianchino, insaccati appesi a stagionare. Il materiale è ordinato, non caotico. Esso è inventariato nella memoria narrativa dei suoi protagonisti secondo il modello che lo strutturalismo definiva come “pensiero selvaggio”, e che io chiamerei anche “neo-romantico”, nostalgico della sobrietà del passato e auto-limitativo dei consumi.

Tutto quello che vedi qui dentro ha una storia: ci sono gli attrezzi di mio padre, che faceva il falegname a Tornareccio, e quelli miei di quando ero manutentore ferroviario in Svizzera. Poi ci sono le cose che mi sono state date da amici e conoscenti, o che ho trovato vicino ai cassonetti, per esempio questo set incompleto di chiavi inglesi. C’è gente che al minimo difetto butta via gli oggetti, mentre io li salvo dall’oblio per regalargli una nuova vita (Gianni P., pensionato, 77, Santa Rita).

Dal punto di vista delle scienze sociali, il vero bricoleur non è chi si limita a eseguire le istruzioni di un prodotto acquistato, tutto rivolto all’ottimizzazione della vita quotidiana sul modello commerciale e industriale; non è chi mette insieme un mobile comprato col suo kit, o chi al bisogno ordina il pezzo di ricambio originale per fare una riparazione con moderno spirito ingegneristico. Il bricoleur è chi elabora continuamente il materiale a sua disposizione e quello del mondo che lo circonda per escogitare possibilità di ricombinazione creativa degli scarti post-moderni: inconsapevolmente, incarna lo spirito eco-logico dell’economia sostenibile, che si contrappone alla continua offerta di “sostituzione” proveniente dalla macchina industriale globale. Il bricoleur non acquista, ma sceglie di riutilizzare e riciclare.

Il suo modo di procedere è retrospettivo: egli deve rivolgersi verso un insieme di utensili e di materiali, farne e rifarne l’inventario, e infine, soprattutto, impegnare con esso una sorta di dialogo, prima di scegliere una tra tutte le risposte possibili al problema [Lévi-Strauss 1962, 34].

Nello spirito libertario del bricoleur è implicito “arrangiarsi” nel sommerso, anziché aprire un’attività in proprio.

Il costo della vita è aumentato, lavoriamo per vivere onestamente. Nel mio garage ci sono pezzi di ricambio per tutte le necessità. Se cola un lavabo, ecco la guarnizione! Devi ripitturare la cucina? Ecco i pennelli. Come mi faccio ricompensare? Mi accontento di un litro d’olio buono, di un passaggio in automobile quando mi serve, ma se qualcuno non vuole portare obbligo mi va bene anche un foglio da dieci euro. Ci scambiamo piaceri nel quartiere (Lino B., pensionato, 68, Santa Rita).

Il continuo “scambio di piaceri” tiene in vita una relazionalità operosa e generosa, ma scoraggia la creazione di attività imprenditoriali. L’ATER infatti offre locali in locazione a canone calmierato per attività commerciali e artigianali ma i bricoleurs hanno espresso perplessità e scetticismo di fronte a quella che le istituzioni esaltano come una “messa in proprio”, una “crescita professionale”, una “espansione degli orizzonti”.

Se aprissi un laboratorio di riparazioni in piena regola, non riuscirei a pagare le spese. Ora con mio padre lavoro nel garage, viviamo “casa e bottega”, come una volta. C’è crisi, la gente non ha soldi. Oggi ho ridipinto inferriate tutto il giorno da una vecchietta che mi ha dato solo 35 Euro (Christian I., perito industriale, 48, Santa Rita).

Per controllare i costi, le persone tendono a rispolverare il modello tradizionale della casa-bottega, dove l’abitazione non è più, come negli anni Ottanta e Novanta, il “dormitorio” del ceto operaio o impiegatizio, bensì diventa un luogo di vita e di lavoro, così com’era nella tradizione artigianale e contadina antecedente alle rivoluzioni industriali. La tradizione di “sacrificarsi al lavoro” e il collegamento creativo-adattivo tra le mani e il cervello - peraltro evidenziati nel Rinascimento con la fioritura delle botteghe artigiane - caratterizzarono positivamente il contributo economico dato all’industria dagli ex-contadini che, nel boom economico legato alla ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, raggiunsero un certo benessere. Gli epigoni di questa fabrilità tradizionale, ora intenti a ritagliarsi uno spazio occupazionale autonomo come “paracadute” al tempo della crisi, non riescono a riconvertirsi a una “autonomia produttiva”, dati gli alti costi del modello industriale neoliberista; purtroppo, le politiche istituzionali continuano a perseguire la strada della “crescita infinita” come unica possibile, implementando un «totalitarismo soft» basato sulla dipendenza del cittadino locale dal mercato globale e dalle logiche finanziarie [Latouche 2010].

Nel contesto osservato, l’imperativo istituzionale di “acquistare il prodotto specialistico all’esterno” - in questo caso, anche l’attività artigianale a norma di legge - viene attentamente vagliato e aggirato all’interno delle famiglie. L’indirizzo prevalente, soprattutto a Santa Rita, è di sopperire alla mancanza di liquidità tramite l’autoproduzione, il ritorno all’agricoltura, la limitazione delle spese, il riciclo, lo scambio, il baratto: perciò, le soffitte delle palazzine sono “soffitte comuni” dove viene accatastato ogni sorta di bene mobile, in attesa di restauro e riutilizzo.

In questo quartiere non si butta via nulla, tutto si scambia o si ricicla. Il mese scorso è morta una nostra vicina. I figli, dovendo liberare casa, ci hanno dato le chiavi e ognuno ha portato via qualcosa. Era roba vecchia ma è stata risistemata, tornando a nuova vita. È un modo per ricordarci di chi non c’è più, e comunque gettare quelle cose sarebbe stato un peccato. (Antonia G., casalinga, 59, Santa Rita)

Noi facciamo ogni anno la salsa sterilizzata con le bottiglie riciclate, è la giornata più importante dell’estate, coinvolge la famiglia e il vicinato. Compriamo 3-4 quintali di pomodoro, la lavorazione si fa nel piazzale, poi si pulisce tutto. Nessuno ha mai protestato o chiamato l’ufficio d’igiene. In un condominio di Santa Rita fanno 800 bottiglie in cooperazione, sono 10 famiglie: hanno una spremi-pomodoro industriale con imbuto gigante e una tappatrice ad aria compressa. (Patrizia D., 45, casalinga, case ATER San Giuseppe)

L’arte di arrangiarsi e le iniziative di auto-produzione sono meno marcate, se non assenti, nei quartieri residenziali. Certe “esclusioni radicali” da parte di questi intervistati potrebbero motivarsi col bisogno di darsi un tono sociale e “di quartiere”.

Per me la casa è il luogo del relax: non mi servono garage e cantina, non ho bisogno di scorte alimentari né di attrezzi per il fai da te. Se devo lavare la macchina, mi rivolgo al servizio specializzato. La salsa di pomodoro la compro al supermercato e i capelli me li fa la parrucchiera. A casa cucino ma i fritti li compro già fatti perché altrimenti la casa prenderebbe un cattivo odore (Daniela M., professionista, 52, Lanciano).

Quando ho bisogno di una riparazione, mi rivolgo a un professionista: il meccanico, l’imbianchino, l’idraulico. Il garage è occupato dall’automobile. Non abbiamo attitudine al lavoro manuale, compriamo ciò che ci serve. Mia moglie va dal parrucchiere, in casa non ha neanche il phon, e non cucina per non sporcare (Vincenzo S., funzionario, 62, Lanciano)

Nel nostro garage ci sono le automobili, gli scooter e le attrezzature sportive dei figli. Non siamo tipi da bricolage: ci rivolgiamo agli specialisti, oppure gettiamo l’oggetto rotto e lo ricompriamo. In casa non faccio quasi nulla, del resto ci stiamo pochissimo (Deborah V., impiegata, 49, Lanciano).

La famiglia semiotica di “essere a casa”, “sentirsi a casa”, ma anche “padroni della propria casa”, o “giocare in casa” qui rivela, in termini antropologici, una demarcazione fondamentale tra quanti vivono pienamente gli spazi domestici, come gli abitanti di Santa Rita, e quanti invece ne sono, in qualche modo, inibiti da alcune convenzioni di classe e di cultura. Nella demarcazione tra quanti vivono pienamente la “casa” come sistema concettuale «vicino all’esperienza» e tra quanti la vivono con un certo scarto differenziale nasce il sapere sulla diversità culturale [Geertz 1988, 73].

Fare in casa come comportamento d’onore

I bricoleurs sono memori e consapevoli della loro storia familiare e del loro legame con la tradizione dell’auto-sussistenza, che oggi viene scelta ogni giorno come soluzione vincente. Prima la popolazione doveva quotidianamente fare i conti col senso del limite, perciò amministrava i beni con misura, fatta salva qualche stagionale possibilità di eccedere, coagulata in rituali festosi [Cocchiara 1981]. La megalomania del modello neoliberista, che ha concesso alle masse l’illusione di poter eccedere ogni giorno, contiene intrinsecamente l’incapacità di continuare a crescere a livello produttivo. La sobrietà tradizionale, apparentemente distrutta dal boom economico e dalle sue utopie della crescita infinita, viene quotidianamente rimessa in circolo dalla tradizione del bricolage intesa come “scelta” e “opportunità”.

La carica tradizionale del bricolage viene avvalorata dal meccanismo mitico-rituale, che è una manipolazione e addomesticazione del tempo e dello spazio perché la ripetizione, attraverso gesti, formule, narrazioni, consente la destorificazione del negativo [De Martino 1959]. Perciò, mentre l’ideologia industriale (che nell’indagine viene in carnata dagli abitanti del centro urbano) avvalora il proprio modus vivendi con la novità e l’efficienza, nel contesto di Santa Rita la tradizione del fare in casa costituisce un insieme eterogeneo di “rottami del passato” riciclati come “buoni” e avvalorati dell’essere già usati e sperimentati da parte delle generazioni precedenti. L’auto-produzione, in quanto tradizione, si carica di plusvalori che vanno dall’espiazione del benessere al prestigio, e che contengono intrinsecamente una forma di religiosità, tant’è che gettare oggetti inservibili senza provare a ripararli o riciclarli sarebbe un “peccato”. L’auto-produzione, insomma, rientra nei comportamenti d’onore, e ha certamente un ruolo nell’ambito dei principi popolari impliciti dell’ottimizzazione relazionale. In apparenza, chi dà perde, ma guadagna in termini onorifici ed esistenziali.

Nel nostro quartiere, chi non sa fare è malvisto. Le donne sono una vera potenza. Tra vicine, fanno a gara a chi è più brava e generosa (Massimo I., 49, impiegato, Santa Rita).

Chi offre ciò che ha, e aiuta gli altri, riempie la sua vita e sta meglio degli egoisti. Guarda le ragazze di adesso, svogliate e sempre scontente. E guarda le loro nonne, che invitano a pranzo i parenti, organizzano lavori comuni e sono sempre di buonumore! (Fausto C., 68, pensionato, Santa Rita)

Il servizio che offre il “fare” è quello di mettere ordine al mondo dei suoi protagonisti. Non si mette ordine solo assegnando significati, ma anche costruendo “fabrilmente” qualcosa. La segnicità (ossia il linguaggio) e la fabrilità (ossia il lavoro) sono compresenti in tutto l’agire umano e si sovrappongono tra loro [Cirese 1991]. Perciò l’esperienza del bricolage rimane incardinata alla sua espressione linguistica e alla sua funzione di “dare ordine al mondo”, nonostante essa tenda a differenziarsi, a sopravvivere o anche a estinguersi nei gruppi e nelle famiglie dove finora si è manifestata. La nomenclatura dell’autoproduzione, derivante dall’esperienza otto-novecentesca che ha configurato la produzione autarchica contadina e artigianale, esprime che l’esperienza, la visione del mondo e il linguaggio stanno tra loro in un rapporto di fondazione reciproca che è il credere, dunque l’esperienza religiosa più generale.

Le nicchie di “cultura economica” messe in evidenza dalle interviste sono contraddistinte dalla circolazione del “dono”: un sistema ideologico nel quale la merce ha un valore differente e nel quale la caratteristica fondamentale è la “fiducia”, che è all’origine di ogni legame socio-culturale [Godelier 1996] e costituisce la base della reciprocità.

Dall’incontro tra cultura popolare e mercato, laddove è prevalso il mercato (e non è un caso che questo, nel contesto osservato, sia accaduto nel centro cittadino) si è diffusa la cultura di massa: una cultura poco creativa, inchiodata al suo tempo presente, votata al consumo e alla mercificazione. Ma nelle aree più periferiche, come appunto il quartiere ATER Santa Rita, dove l’osmosi tra la cultura egemone e la cultura subalterna si è risolta a favore di quest’ultima, la vita quotidiana non si è lasciata fagocitare dal mercato, rielaborando le proposte esterne in modo creativo e “locale”. Il folklore che si rigenera come sapere creolo e sostenibile è, oggi più che mai, una produzione culturale da tenere in alta considerazione e da studiare scientificamente per comprendere il ruolo delle culture subalterne nella società complessa, così come veniva suggerito cent’anni or sono [Gramsci 1966].

La cultura del fare ha seguito un canale sommerso e parallelo rispetto al consumo ufficiale e standardizzato indicato dalle logiche industriali e ingegneristiche, caratterizzando come “bene superiore” la capacità di adattamento all’ambiente economico dove la moneta diminuisce e i beni pronti all’uso sono meno accessibili. Nella tradizione del “fare in casa”, la decrescita economica - intesa come un insufficiente o mancato sviluppo dei consumi commerciali e industriali - non è un frustrante ritardo nello sviluppo, né un imbarazzante retaggio della povertà, bensì un bene relazionale e conviviale [Tévoédjrè 1977).

La prima consegna di questa ricerca è che nei quartieri ATER, in modo frammentario, alcune generazioni s’identificano nella capacità di competere rigenerando la cultura del fare, appresa dalle generazioni precedenti. Questo fenomeno è parte del nuovo umanesimo post-moderno che, basato sull’autoproduzione creativa come aspetto immateriale del patrimonio culturale, si evidenzia e si consolida nel mondo [Frauenfelder 2010]. E c’è di più. L’emozione patrimoniale - che si manifesta nello scambio fiduciario e nel comportamento d’onore - potrebbe essere letta come un livello alto e politico delle più popolari forme d’indignazione, finalizzate a proteggere i valori condivisi che, pur fondando la vita umana, sono percepiti come “in via d’estinzione” parallelamente a quanto denunciano gli intellettuali. La rivalutazione delle economie del dono e della sostenibilità oggi diviene esiziale perché il capitalismo industriale globale, generando inquinamento e disuguaglianze sociali, ha messo a rischio la sopravvivenza del genere umano [Morin 2011]. La scriminante culturale delle persone che ogni giorno rinnovano il mondo culturale e fiduciario del bricolage è sostanzialmente religiosa, intendendo la religiosità come strategia umana finalizzata a dominare l’angoscia esistenziale ed economica, un meccanismo di sopravvivenza e di riparo dalla «crisi della presenza» [De Martino 1978] che si aggrava nella crisi delle cornici culturali tradizionali (Stato, movimenti, mercato). In tal senso, il sistema esperienziale, pragmatico, linguistico e comunicativo del “fare in casa” arricchisce le attività della vita quotidiana di un plus-valore salvifico e di “ricostituzione cosmica”.

Fare in casa come investimento nel futuro

Il pensiero “selvaggio” e “neo-romantico” dell’auto-limitazione si propone oggi presso le generazioni più giovani con nuove consapevolezze, nuove motivazioni sanitarie, nuove sollecitazioni economiche ed ecologiche, scavalcando le generazioni meno accorte che si sono smarrite nella “cultura del presente” e nel consumo irresponsabile del tempo e dei luoghi [Augé 1992].

Anche nei quartieri ATER, e soprattutto a Santa Rita, alcuni giovani hanno accolto la testimonianza del “fare in casa”, attivandosi nelle pratiche in modo forse meno plateale e più discreto. L’utilizzo dei media digitali consente di studiare e comprendere la vita culturale che emerge dalla società, e i social network (Facebook, Twitter) rendono visibili e accessibili le emozioni latenti. Le giovani generazioni agiscono le pratiche di scambio e di associazione soprattutto attraverso la costruzione di uno spazio digitale comune (buffer zone) e tramite la condivisione di un pensiero collettivo all’interno della rete informatica. Partecipare alla loro “intelligenza connettiva” consente di verificare la persistenza delle consuetudini fiduciarie. Grazie al gruppo Facebook Quelli che fanno le bottiglie, ho scoperto che molti giovani di Santa Rita condividono un forte legame col bricolage dei nonni e soprattutto con la produzione della salsa di pomodoro.

A Santa Rita non c’è agosto senza buttijie (Giovanna, 51); Ho ricordi bellissimi della mia infanzia, quando facevo i lavori di casa al quartiere ATER, con i miei nonni che ora non ci sono più (Noemi, 26); Vivo a Madrid, ma il mio cuore è rimasto nel cortile delle palazzine ATER di Via Monte Grappa, dove facevo le bottiglie coi nonni (Stefano, 36).

Attraverso i gruppi telematici (soprattutto quello ecologista dedicato al blocco delle trivellazioni petrolifere nella costa adriatica), gli abitanti del quartiere hanno portato avanti anche altre istanze relative alla gestione dello spazio: per esempio, hanno chiesto al Comune l’uso dei terreni incolti circostanti le palazzine ad uso orticolo, espandendo insomma la dotazione spaziale del bricoleur.

Abbiamo fatto una petizione a Comune per fare gli orti urbani. Come gruppo, vorremmo chiedere di poter fare orti sociali e condivisi, di pubblica utilità, anche con fini didattici e terapeutici. Io vorrei aprire questa iniziativa alle scuole, ai carcerati, alle persone con disagio. Sennò diventa uno sfruttamento della terra per fini privati. Noi non navighiamo nell’oro, ma mettiamo il bene comune prima di tutto (Fausto C., 68, pensionato, Santa Rita).

Il bricolage dei quartieri ATER è legato alla memoria e soprattutto, al mondo dell’infanzia. Il modello tradizionale, d’altronde, vive nel presente attraverso la trasmissione da una generazione all’altra e l’emozione positiva che si lega alle attività giovanili, dunque alla “pedagogia familiare”. Perciò, la pratica del “fare in casa” è un investimento nel futuro e nella propria discendenza: l’obiettivo non è solo il soddisfacimento dei bisogni del presente, ma è anche l’uso che di quel sapere i giovani faranno. Le attività, coinvolgendo le giovani generazioni, sembrano avere proprio la funzione di esercitare le persone a pensare al futuro, fondendo la loro esperienza con quella della generazione non contigua. La memoria e la tradizione sono costruzioni umane generate dalla selezione di un gruppo, che nel presente sceglie il suo passato, e del suo passato, in questo caso, sceglie la parte “previdenziale” come contromisura dell’eterna ciclicità epocale. Quest’aspetto previdenziale si dilata nella dimensione religiosa. Nella progressione del tempo, coi traslochi e il cambiamento degli spazi, i gruppi devono controllare le loro coordinate esistenziali e queste pratiche permettono di ottenere lo stesso risultato che consentono di fornire i riti, cioè manipolare il tempo, manipolare lo spazio e migliorare la propria domesticità del mondo.

Il presente articolo potrebbe concludersi anche con una riflessione sui comportamenti abitativi. Per come il quartiere Santa Rita era stato strutturato (periferico e senza servizi, luogo di riunione per singoli individui e famiglie provenienti da un comprensorio vasto ed eterogeneo), esso sembrava concentrare il disagio della società contemporanea. Il quartiere Santa Rita, con i suoi palazzoni, esprime l’illusione demiurgica di poter “creare” e organizzare dall’alto la vita delle persone, che invece fanno degli spazi l’uso che ritengono. Ogni gruppo, ogni quartiere, ogni cultura esprime schemi comportamentali che li portano a gestire gli spazi in maniera totalmente originale e “locale”. Nel caso delle case ATER di Lanciano, e in modo lampante nel caso del quartiere Santa Rita, le persone hanno scelto, in modo inconsapevole, di rielaborare e riproporre le tradizioni del “casa-e-bottega”, apprestando i garage-laboratorio e permettendo a più d’una generazione di risparmiare energia psichica nella produzione dei modelli di gestione dello spazio e del tempo. La storia reale - quella dei rapporti socio-economici attuali - è il risultato della pressione delle ideologie precedenti. Gramsci e altri autori hanno avvertito questa sfasatura dialettica, quando scrivevano che il mondo delle ideologie è, nel suo complesso, più arretrato rispetto ai rapporti tecnici di produzione. Perciò, la cultura subalterna dei genitori e dei nonni, mista all’insufficienza ideologica della cultura egemone (cioè la cultura di massa), porta ad usanze “sui generis” come quelle in oggetto. Accanto alla tradizione, però, maturano forme di approccio al fare che sono più consapevoli e politiche e che, attraverso forme di riflessività, hanno fronteggiato e combattuto lo stereotipo etnico in quanto prodotto simbolico. In quanto prodotto simbolico, infatti, lo stereotipo del quartiere “povero” è stato affrontato in modo positivo, costruendo sul piano simbolico un’identità collimante con la descrizione “contadina” degli abitanti, ma in grado di superarla e oltrepassarla.

Bibliografia

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Tévoédjrè A. 1977, La Pauvreté Richesse des Peuples, Paris: Les Éditions Ouvrières.



[1] Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la città di Lanciano, in concomitanza con il suo sviluppo industriale e del settore terziario, è cresciuta attraendo abitanti dal comprensorio agricolo collinare e montano, fino a raddoppiare la sua popolazione [Giancristofaro 2000].

[2] Il demologo Gennaro Finamore, che viveva a Lanciano, questo osservava: «Mai città, mai corti, che irraggiassero all’intorno una potente azione civile. Fatta qualche eccezione, comunelli sempre in istato di reciproca indifferenza, per similarità di condizioni; ovvero, più che dalle distanze, divisi dal difetto o dalla insicurezza delle strade, nonché dalle naturali barriere di monti, di boschi e di fiumi […]. La vita municipale nostra, per centinaia di anni - aduggiata dal baronaggio, dal chiericato secolare e regolare e dal brigantaggio ‑ grama e stentata: i germi della nostra operosità, non pochi né spregevoli, fruttificanti in gran parte dove il cielo era meno nemico: scarsa la popolazione, negletta l’agricoltura, quasi nullo il commercio. Per lo più, poveri e rozzi i mestieri e le arti. Sola oasi benigna in mezzo a un ambiente avverso, la casa» [Finamore 1886, 4-6].