L’italica, etno-avventurosa vulgata del mare

1940-2000

Alberto Baldi

Università degli Studi di Napoli Federico II>

Indice

Incipit
Scrivere del mare tra tradizione e innovazione
Enciclopedie del mare quale metafora di un’immersione e di un approfondimento della dimensione equorea anche etnograficamente intesa
Etnografia del naviglio: dal fascinoso archetipo di ogni imbarcazione, la piroga, agli oceani da e con essa “navigati”
Verso più olistici mari e più partecipate, marinare etnografie
Bibliografia

Abstract.  Between the first and second half of the twentieth century, a literature of mingled origins and nature springs in opposition to an Italian Anthropology not too focused on the marine dimension. It is the answer to the "need for the sea" that the industry, the cultural one too, instilled in large layers of the population, being them middle and lower class, as a result of the strong push to consumerism that followed the economic boom and subsequently identifies in the marine dimension a new and thriving business. The publication of technical manuals in order to explain to these "new Neptune" how to swim, dive, fish, sail, surf, drive a motorboat go hand in hand with naturalistic, historical and cultural monographs together with encyclopaedic works.  Tales of navigation and of maritime and coastal peoples also encompass elements with a strong ethnographic connotation. This context paves the way to authors with a complex and composite background: writers, journalists, photographers, documentary filmmakers, underwater fishermen, archaeologists, biologists, navigators and sailors who, in their expeditions to the seas around the globe, discover an ethnographic vein, a penchant  for observation, often the result of the long time spent on the field. The authors we are specifically dealing with, certainly contribute to document an important object of investigation: the sea, in which Italian professional anthropologists were little interested.

Keywords: ‘piroga’; ‘il faut aller voir’ ; ‘sovrannaturale marino’; ‘Kon-Tiki’; ‘Calypso’; ‘tonnara’; ‘olismo’.

Incipit

In Italia, nel periodo considerato, siamo al cospetto di un’antropologia che lambisce il tema del mare, che non molte conoscenze produce sull’argomento, che può contare su un ristretto numero di studiosi in grado di mostrare una qualche dimestichezza con la dimensione equorea, studiosi peraltro poco avvezzi a un’osservazione partecipante sostituita, per così dire, da un’esplorazione di superficie, “in banchina”, all’asciutto, con i piedi a terra, saltuaria ed eminentemente circoscritta all’oralità.

Nel determinarsi e nel protrarsi di una tale situazione agisce certamente un dato di natura meramente ambientale: chi pesca e naviga si sottrae anche solo a un’indagine a volo d’uccello. Quando in porto, all’ormeggio, delle proprie attività il marittimo svela parte assai minoritaria. Il pescatore sarcisce con abili e ripetitivi movimenti della cucella la rete, la monda e rassetta a bordo e in banchina, l’imbarcato picchetta la bolla di ruggine ricoprendola di minio, adduglia i cavi di ormeggio e le sagole con i pugni di scimmia, ramazza i ponti, resta inghiottito nelle viscere della nave, in sala macchine, nelle cucine, nelle stive. Poco si mostra.

La gente di mare, soprattutto quella che si impiega nella pesca, nella navigazione mercantile, su gasiere, petroliere e porta container, adusa all’assenza di relazioni che non siano quelle legate all’espletamento delle proprie mansioni, assenza dovuta anche a equipaggi risicati, equipaggi “multietnici” frammentati da barriere linguistiche, assenza che si trasmuta perciò in silente esistenza, non è adusa a parlare. L’ordine secco, preciso, essenziale del comandante distilla procedure comunicative altrettanto basiche e scarne. Non c’è tempo per discorsi infiorettati. In mare poco si parla.

Gli anni Sessanta e Settanta vedono peraltro gli antropologi di casa nostra intenti a una lettura marxista e gramsciana del folklore, un folklore di matrice essenzialmente rurale, da cui si cerca di estrarre prove a favore di un mondo contadino che abbia in sé germi e potenzialità se non di una struttura di classe, almeno di un “istinto di classe”. Si dibatte sul «folclore come protesta» o sul «folclore di protesta» [Cirese 1976, Lombardi Satriani 1968]. Dall’analisi di poesie e canti di protesta si cercano di porre in evidenza e codificare forme di “contestazione implicita” valutando se tali forme siano presenti non solo nell’Italia centro settentrionale, adusa da tempo alla mezzadria e al lavoro cooperativistico, ma pure nel sud ove la componente contadina è maggiormente atomizzata e dispersa sul territorio, prevalentemente soggiogata al bracciantato e alla repressione padronale. Il “mondo popolare subalterno” viene identificato per sua magna pars con il mondo contadino e se ne valutano le alleanze con la classe operaia [Clemente, Meoni, Squillacciotti 1976; Sanga 1980].

È questo il periodo non solo dell’uscita delle opere demartiniane quanto dell’onda lunga da esse determinatasi, di ricerche, di fotoreportage e documentari che, dunque, a codeste opere si ispirano andando anche oltre, della riscoperta e della divulgazione di autori come Verga, Deledda, Scotellaro e Levi, di un cinema di impegno sociale che coniuga la subalternità del proletariato tra grandi opifici industriali del nord e miseria delle “plebi meridionali” incatenate all’interno di un “mondo magico” che ne pervade l’intera esistenza, restituendo a esse un orizzonte culturale quantunque labile ma altrimenti soltanto, inesorabilmente negativo[1].

In questo quadro, qui rapidamente evocato, non c’è molto posto per popolazioni rivierasche, alieutiche e marinare come, ad esempio, sottolineato da Cirese [Cirese 1969], sia come oggetto di ricerca e riflessione antropologica, sia come esito, a più largo raggio, del diffondersi di un interesse per il mondo popolare ampiamente divulgato ma che continua a essere declinato nella sua precipua componente rurale.

Sarà comunque opportuno, a nostro modesto modo di vedere, occuparsi in futuro e nel dettaglio dei “prodromi” di un’antropologia del mare che in Italia, pur in seno, come detto, a conchiusi ambiti di analisi, avrà esiti, in talune circostanze, degni di nota. Alludiamo a una saggistica, ad alcune monografie[2] e pure a una documentaristica[3] in certi casi di apprezzabile se pur circoscritto spessore etnografico; si tratta però di prodotti che rimarranno episodici, rarefatti e slegati, non generando filoni di ricerca e occasioni di dibattito riconducibili a un coagulato e sedimentato interesse, in ambito antropologico, per culture marinare e alieutiche[4]. Si tratta altresì di lavori limitati ai prevalenti perimetri italiani, non particolarmente sorretti da una buona conoscenza e da un esplicito confronto con una letteratura antropologica di respiro internazionale riguardante il mare, la navigazione e attività di campo praticate specificamente presso popolazioni rivierasche, spesso insulari.

Scrivere del mare tra tradizione e innovazione

A fronte, come detto, di una certa “ritrosia” antropologica a dedicarsi al mare, il mare, nella seconda metà del Novecento, non rimarrà però nel dimenticatoio, tutt’altro. A parlarne e scriverne saranno altri.

Di essi qui esplicitamente ci occuperemo, di autori che sdoganeranno a vario titolo un mare dalle connotazioni strictu e latu sensu etnografiche, ampiamente divulgato e talora pure spettacolarizzato. Di loro diremo come anche dei temi prevalenti, in modo particolare di quelli connotati da aspetti più o meno affini o riconducibili agli ambiti di pertinenza delle discipline demo-etno-antropologiche.

Esiste dunque una sfaccettata compagine di “promotori” di tematiche marinare che, pur non essendo in alcun modo di formazione antropologica, hanno praticato una “variegata” etnografia del mare, poi scrivendone, in qualità innanzitutto di “addetti ai lavori”. Sono esponenti, essi stessi, della gente di mare, nostromi, comandanti, palombari e subacquei, armatori e maestri d’ascia che hanno maturato in rapporto alla dimensione equorea un’esperienza in corpore vili, in prima battuta lavorativa, professionale, anche sportiva e agonistica.

Sono nella gran parte dei casi loro a travasare i propri saperi e le proprie testimonianze in opere editoriali che se di certo non possono essere ascritte in nessun modo alla monografia antropologica, ciò non di meno e sovente dimostrano, come dicevamo, uno spessore etnografico di un certo interesse. “Coprono”, per così dire una “falla”, intervenendo, se pur episodicamente e sulla scorta di conoscenze e memorie filtrate dal punto di vista del mestiere esercitato sul mare, con conseguenti rimemorazioni dai riverberi certe volte enfatici, commossi, duri, avventurosi, laddove il terragnolo antropologo si mostra ancora relativamente afono.

Sono loro che danno corpo a forme di rappresentazione del mare “autenticate” da un’esistenza spesa in larga parte o interamente a suo diretto contatto, sono loro a fornire un retroterra più o meno “scientifico”, storico, tecnico e applicativo, culturale ed etnografico a chi sta volgendo il proprio sguardo verso la dimensione equorea, di superficie e di fondo.

È l’epoca del boom economico. Questo è il momento in cui il mare diviene a pieno titolo oggetto di consumo, di largo consumo, a cui attingono ampie fasce di una media e anche piccola borghesia che le ferie agostane comincia a voler “movimentare” allontanandosi dall’inerte e contemplativa sedia a sdraio sotto l’ombrellone per andare incontro al mare navigandolo, penetrandolo con tutti i gadget che un’industria specializzata principia dagli anni Sessanta del Novecento a produrre su larga scala, motoscafi e gommoni fuoribordo, gozzi, monotipi e catamarani, surf e windsurf, pinne, maschere, mute e fucili.

Il bagnante di un tempo, dalle settecentesche e aristocratiche origini, frequentatore di spiagge e di acque ad esse immediatamente e soltanto limitrofe, diviene ora motoscafista, velista, subacqueo, pescatore, o, meglio, pescatore “sportivo”, come generalmente lo si definisce, per distinguerlo da quello di professione.

La menzionata industria “dedicata” fornisce le multiformi protesi che il neofita “argonauta” aiutano a calarsi nei ruoli testé ricordati nel ristretto lasso di tempo delle vacanze estive. Gommoni e motori fuoribordo, piccole derive monotipo, mute e autorespiratori, maschere e pinne, coltelli e fucili subacquei, in qualche caso macchine e cineprese subacquee, ad esempio Nikon Calypso ed Eumig super 8 mm decretano la rivierasca invasione del mare, sopra e immediatamente sotto la sua superficie, ad opera di una borghesia, piccola, media o ricca che di tale suo nuovo costume, quello del “comandante”, erroneamente e comunemente detto “capitano”, di novello Nettuno, fa strumento di status.

Negli anni molte delle attività testé ricordate, da esercizi sostanzialmente dilettantistici e per il diletto e il trastullo del bagnante, si tramuteranno in discipline sportive e professionistiche, contribuendo a fare del mare una liquida palestra agonistica con tutte le pericolose esasperazioni di uno sport sempre più praticato alla ricerca di prestazioni estreme. Non saranno più soltanto, a questo punto, vecchi e saggi “lupi di mare” a descrivere e trasmettere le loro trascorse e, in linea di massima, ponderate relazioni con il mare ma nuove generazioni di campioni sportivi, di coach e istruttori federali che racconteranno le proprie imprese sempre più audaci e perigliose su libri, riviste, vhs e dvd. Questa gente di mare che a un certo punto della propria esistenza sente l’esigenza di prendere in mano carta e penna si cimenta e si esprime non solo nella realizzazione di opere di consultazione, in “storie di vita” marinare, ovvero le proprie, ma talora alimenta un filone specificamente e concretamente “applicativo”, realizzando una vera e propria manualistica a uso e consumo di torme di neofiti che intendono ora misurarsi con il mare, sopra e sotto la sua superficie. Manuali per conseguire la patente nautica, il brevetto per immergersi, manuali per la pesca costiera, d’altura e subacquea ma pure per quella fluviale alla mosca, manuali di vela, manuali per tavole a vela e da onda[5].

Non di sola manualistica si deve parlare. L’offerta di un’editoria che guarda al mare come nuovo e redditizio genere[6] è caratterizzata, alimentata e impinguata da una varia e sfaccettata letteratura divulgativa, specialistica e al contempo fascinosamente “iniziatica” che si traduce in una stampa periodica e strettamente di settore, nella pubblicazione di monografie che spaziano dalla storia della navigazione a diari di perigliose traversate transoceaniche dove la modernità di un approccio al mare che si affida a un moderno tecnicismo non disdegna il riferimento a dati di natura storica e “antropologica”, in chiave talora esotizzante ed estetizzante, talaltra più strettamente documentale ed etnografica. La tradizione valida le antiche e sapienti radici di una modernità tecnologica non immemore, quindi, del suo passato.

Facciamo qualche esempio.

Nel 1972, rieditato poi nel 1980, esce un imponente volume di quasi quattrocento pagine dedicato al mondo della pesca essenzialmente amatoriale firmato da Sergio Perosino. Nel suo genere è una pietra miliare. L’opera si apre con una cospicua sezione dal significativo titolo “La pesca e l’uomo” ove si ripercorrono in una prospettiva diacronica il succedersi e il diversificarsi di strumenti e tecniche di pesca a partire dall’epoca preistorica. L’autore inquadra le tradizioni alieutiche sviluppatesi in aree diverse e in rapporto alle peculiarità delle specie ittiche proprie di differenti latitudini rapportandole alle ricadute economiche derivanti dall’esercizio di questa o quella tecnica, di questo e quel pescato con conseguenti riverberi sull’economia complessiva di una popolazione rivierasca rispetto a un’altra. La pesca viene quindi inquadrata in relazione ad alleanze e conflitti, a consuetudini giuridiche e leggi che ne normano l’esercizio soprattutto nei casi in cui essa sviluppi volumi di tutto rispetto come nel caso dell’aringa e del merluzzo. Accanto a questa prospettiva che potremmo definire di natura socio-economica ve ne è una più specificamente antropologica che spazia dalla descrizione etnografica delle tecniche[7] alle peculiarità culturali delle comunità che sulla pesca si sostengono ivi compreso il ruolo e lo status del pescatore in contesti ed epoche diverse.

Perosino mette in evidenza come presso popolazioni etnologiche la pesca sia praticata solo in relazione al fabbisogno individuale e giornaliero mentre presso i contesti occidentali la pesca ubbidisce alle esigenze e alle richieste di mercati non soltanto locali ma nazionali e internazionali aumentando il cosiddetto sforzo di pesca che può impoverire gli stock. L’opera di Perosino è in tal senso paradigmatica di un periodo in cui l’esercizio dell’alieutica si intensifica enormemente, ove la pesca professionale è affiancata da quella sportiva ambedue accumunate da un perfezionamento delle attrezzature di caccia e prelievo salutate come positive per le economie che innescano ma al contempo viste come causa di un progressivo depauperamento ittico.

Da un lato si esalta la tecnologia e dall’altro la si critica per gli impatti ambientali variamente distruttivi. Ecco come Perosino definisce la nuova figura del pescatore subacqueo sportivo, al tempo medesimo epica e ardita, accanita e sterminatrice.

Al cacciatore subacqueo occorre una attrezzatura complessa […]: oltre che del fucile, della maschera e delle pinne il sub deve essere in possesso di una tuta che lo protegga dal freddo; di un orologio subacqueo, un profondimetro, un coltello speciale galleggiante, di fucili ed arpioni di ricambio, sagole di sicurezza e, infine, portapesci, cinture zavorrate, ecc. […]. Volendo esercitare lo sport della caccia subacquea efficacemente, è pur necessario avere quanto occorre […]. La passione può far compiere al subacqueo grandi imprese che restano nei particolari ignote a chi non ha vissuto eguali esperienze. I subacquei americani che si immergono nelle acque torbide degli estuari per la caccia allo squalo o al grande barracuda sono certo dei coraggiosi; ritengo che il pericolo in quelle acque sia maggiore ancora che nelle acque popolate di squali del Mar Rosso. Come il cacciatore di selvaggina terrestre, il cacciatore subacqueo deve possedere quei requisiti connaturati, che lo fanno tale [Perosino 1972, 436, 438, 440].

Se quindi opere come quella di Perosino sono espressione di un periodo in cui la scoperta del mare si indirizza al colto e all’inclita, proponendo un approccio arrembante, di grana grossa, è questo anche il periodo in cui, in nuce, vanno germogliando i semi per un rispetto dell’ambiente marino e delle creature che lo popolano che andrà strutturandosi con più estese consapevolezze sul finire del secolo. Perosino, ad esempio, si mostra già cosciente dei pericoli che la pesca sportiva e meccanizzata arrecano all’ittiofauna ipotizzando un futuro nel quale il sub farà bene a sostituire il fucile con la macchina fotografica[8]. A dirla tutta questo prolifico divulgatore si mostra critico pure nei confronti di ingegni di pesca ereditati dal passato come le tonnare che all’epoca in cui scrive erano ancora diffuse in Sicilia ma anche lungo i litorali tirrenici e adriatici. Egli ritiene che il tonno rosso sia da tempo minacciato dal complesso sistema delle reti tonnare di sbarramento che sono capaci di condurre nella camera della morte branchi ingenti di questo pesce pelagico, camera in cui tali branchi non hanno scampo dando vita, nel tentativo disperato e inane di fuggire a «uno spettacolo bellissimo e terribile» [Perosino 1972, 72].

Questo autore ci pare quindi riflesso pedissequo e illuminante del suo tempo: la sua rappresentazione della pesca mentre stigmatizza l’efficacia di antichi e “primitivi” “ingegni” loda ancor più le moderne tecniche, mentre riduce l’ittiofauna a mera “preda” si preoccupa parimenti del suo impoverimento innescato da eccessivi prelievi e dagli effetti nefasti dell’inquinamento e dell’industrializzazione dei sistemi di cattura.

Siamo in un’epoca nella quale gli editori che vogliono proporre e promuovere il tema del mare, più o meno giocandosi sempre un taglio in cui un passato marinaro e alieutico possa confrontarsi con il presente e viceversa, come già si diceva in precedenza, si rivolgono, spesso e volentieri anche all’estero ove, in particolar modo tra Francia, Inghilterra e Stati Uniti non mancano belle opere a firma di studiosi di archeologia e storia navale, di museografi, ancora una volta di ufficiali di marina e di giornalisti e scrittori specializzati da tradurre in italiano. Si tratta di pubblicazioni da un punto di vista editoriale di pregio, di medio e grande formato, di diverse centinaia di pagine, rilegate in tela, con sovracopertina policroma, stampate su carta patinata di notevole grammatura, ricche di corredi iconografici ben resi in quadricromia.

Tra queste opere ricordiamo quella di Meyer, storico della Sorbona, e Acerra, ingegnere del CNRS intitolata L’Europa dei mari in cui il tema del mare e delle potenze marinare è letto in molteplici chiavi, tecniche e ingegneristiche, storiche e sociali, politiche ed economiche e anche esplicitamente etnografiche. Del mare si previlegia la dimensione “materica”, gli aspetti materiali delle culture marinare che, nell’eterno gioco tra tradizione e innovazione, vengono assunti e interpretati quale espressione di saperi tecnologici evolutisi, per così dire, dalla pagaia alla propulsione nucleare. Va però sottolineato come il via via sempre più complesso e articolato patrimonio di conoscenze tecnologiche non riesca mai a prescindere, secondo gli autori, da una soggiacente e perdurante prospettiva magico-religiosa. Un intero capitolo, il primo della terza parte, intitolato Innovazione e tradizione si sofferma, infatti, sulla dimensione magico-religiosa della gente di mare ove a fronte di una progressiva specializzazione delle tecniche cantieristiche, di propulsione e di governo dei natanti permane ben radicato un rapporto con il numinoso di ancestrali origini che viene spiegato con l’imponderabilità e la gravità dei rischi e dei pericoli a cui si espongono coloro che ieri come oggi vanno per mare. Si parla quindi della credenza nei mostri marini, di ex voto, di pratiche apotropaiche a bordo, di feste marinare, della consuetudine di battezzare i vascelli con nomi di santi e della Vergine quale specchio di una certa resistenza di equipaggi ma pure di ufficiali e comandanti a recepire incondizionatamente le innovazioni che la tecnologia metteva a loro disposizione, come sestanti, ottanti, notturlabi, balestriglie, orologi solari, carte, a cui sovente si continuava a preferire la propria, concreta esperienza “sensoriale” e tattile affinata navigando giorno dopo giorno, esperienza che, parimenti, continuava a “pescare” nell’oltremondano e nel magico [Meyer, Acerra 1989: 167-188].

Enciclopedie del mare quale metafora di un’immersione e di un approfondimento della dimensione equorea anche etnograficamente intesa

Fioriscono pure opere di consultazione più articolate, vere e proprie enciclopedie del mare[9] che sovente non portano però la firma di autori italiani, a sottolineare un ritardo nel coagularsi presso di noi di un adeguato “plafond” di scrittori esperti in materia. Si tratta quindi di enciclopedie e di opere tradotte dall’inglese e dal francese e date quindi alle stampe da editori italiani vocati alla divulgazione come la casa editrice Fabbri che nel 1982 ottiene dalla Cousteau Society Inc. i diritti per l’edizione italiana di “Pianeta Mare”, opera in 12 volumi curata da Jacques Cousteau per i contenuti più spettacolari e divulgativi, da Rhodes W. Fairbridge della Columbia University per quelli più specificamente scientifici e da Serge Bertino per quelli definiti come “avventurosi”. I titoli dei volumi di questa enciclopedia[10] evidenziano, in una chiave eminentemente accessibile ed esplicativa, sorretta però da contributi e documentazioni di natura anche scientifica e universitaria, un approccio ante litteram olistico ove l’oceanografia va a braccetto con la geologia, con la geografia, con la biologia marina, con la fisiologia, con la meteorologia, con l’archeologia e anche con l’etnografia.

Vero ispiratore dell’opera è dunque Jacques Yves Cousteau, padre della moderna oceanografia, colui il quale, a bordo della sua “mitica” nave di ricerca significativamente ribattezzata Calypso[11], non mancò di sostenere in più di un’occasione come non si potesse comprendere il senso della vita e dell’esistenza umana sulla terra se non in relazione a oceani e mari, alle sostanziali, reciproche inferenze e influenze di essi sulla crosta terrestre immersa ed emersa.

«Capisco meglio ciò che rappresenta quel famoso 71 per cento della superficie terrestre, ricoperto dagli oceani. Non potevamo continuare a ignorarli: ci appartengono, fanno parte della nostra vita, delle nostre ricchezze e del nostro modo di pensare» [Cousteau 1982, Vol. I, 11].

In questa dichiarazione che inaugura l’epoca di una moderna oceanografia che dai bassi fondali di qualche decina di metri si spingerà con minisommergibili e batiscafi negli abissi oceanici, si prospetta, a ben vedere, la necessità di una non più procrastinabile immersione nelle profondità marine da intendersi quale metafora di una immersione ragionevolmente e razionalmente vocata all’esplorazione, alla conoscenza de visu e, appunto, “approfondita” del mare[12]. Cousteau sposerà sempre la sua attività di oceanografo a quella di navigante e viaggiatore attento a cogliere, alle più disparate latitudini ove la ricerca subacquea lo condurrà, il complesso reticolo di relazioni messo in essere dai popoli rivieraschi per ricondursi al mare in una prospettiva simbiotica, sapiente e rispettosa, per ribadirsi, come lo studioso amava dire frequentemente, in veste di «uomini-pesci».

Abbiamo incontrato genti di ogni etnia che vivevano per il mare e con il mare: i pescatori tradizionali del Madagascar, delle Seychelles o della Provenza che, di padre in figlio, vivono in armonia con una fauna costiera che sfruttano ma al tempo stesso proteggono: i rudi pescatori di tonni […]; gli ostricoltori bretoni; i corallari della Sardegna o del Giappone; gli spugnaroli greci o turchi; infine i marinai che abbiamo incontrato a bordo di battelli d’ogni tipo e tutti coloro che nei porti del mondo costruiscono e riparano le navi. Tutti esseri che ci impressionarono per il coraggio e la pazienza con cui affrontavano il mondo degli oceani. Le loro storie sono semplici, rudi […], spesso fatte di brevi parole, e i loro visi pur così diversi per origine o età, hanno tutti lo stesso sguardo diritto. […]. Volevano sapere delle nostre macchine, dei nostri minisottomarini, delle nostre cineprese. E le loro domande suonavano come una sfida al mondo tecnologico quasi che, se mal diretto, esso potesse tramutarsi in una sorta di aggressione artificiale [Cousteau 1982, Vol. I, 184-185][13].

È un Cousteau, dunque, che volentieri ammanta le sue descrizioni di nuance etnografiche frutto delle sue prolungate permanenze sul terreno e “in acqua”, di una propensione all’osservazione che si traduce in descrizioni dense di quanto notato, ed è, al tempo medesimo, un Cousteau che quando avverte la necessità di approfondire il discorso passa il testimone ad addetti ai lavori, a studiosi e ricercatori in grado di garantire spessori ulteriori, maggiore scientificità. Ciò avviene, in questa enciclopedia, anche per rilievi di natura eminentemente etnografica.

Di certo il volume con i contributi più specificamente storico-etnografici è il dodicesimo, quello dedicato a I popoli del mare, alle civiltà che nel corso dei secoli hanno plasmato i loro orizzonti culturali in stretto, precipuo rapporto con la dimensione equorea, marina in primis, ma pure fluviale e lacustre.

Non solo grandi civiltà, quella egizia, greca, mesopotamica, etrusca, romana, araba, indiana, cinese che in relazione al mare svilupparono tecnologie raffinate, a partire dalla cantieristica e dai mezzi di propulsione per andare ai sistemi di navigazione e orientamento, ma popoli dalle ben più basiche risorse che, ciononostante, partendo da questa esiguità di tramiti, facendone tesoro, seppero egualmente articolare un legame fecondo e soprattutto simbiotico con oceani potenzialmente soverchianti. Congruo spazio viene dato, ad esempio, alla colonizzazione indopacifica, dal Madagascar all’Indonesia intorno all’ottavo secolo e al popolamento della Polinesia.

Nell’argomentazione delle diverse ipotesi circa le rotte migratorie che determinarono da parte di gruppi umani differenti la colonizzazione del Pacifico, lungi dall’adozione di parametri riconducibili all’antropologia fisica e alla comparazione somatica, Rhodes W. Fairbridge e Brian Durrans, che firmano i testi del dodicesimo volume dell’enciclopedia, si affidano a un’etnografia focalizzata alla descrizione dei sistemi di orientamento e navigazione e dunque alle conoscenze astronomiche, al riconoscimento di punti cospicui, alla decrittazione di manifestazioni meteorologiche e all’intercettazione delle correnti marine. Massima è però l’attenzione data alla cultura materiale e in modo decisamente specifico ai mezzi di navigazione tradizionalmente impiegati per perigliosi attraversamenti di specchi di mare anche di molte centinaia di miglia. La canoa tradizionalmente scavata nel tronco di un albero, dotata di uno o due bilancieri, sospinta da remi e da vele ottenute intrecciando e cucendo foglie e altre fibre vegetali, vele sostenute da aste con funzione di picco e governate da scotte anch’esse di origine vegetale, è il metro di paragone elettivo per effettuare comparazioni con cui provare ad evincere parentele e prossimità culturali tra popolazioni di arcipelaghi anche molto distanti tra loro. Nel tentativo di definire famiglie di natanti in base, ad esempio, a forme, dimensioni e funzioni dei bilancieri, entra in gioco anche lo studio degli elementi apotropaici e ornamentali che proteggono prua e poppa, murate e timoni. La canoa viene perciò assunta quale variabile indipendente per tentare di ipotizzare percorsi fisicamente sostenibili, in base a doti marine, capacità di stivaggio, velocità sotto vela ma pure tempi di logoramento delle materie naturali impiegate per la realizzazione di tali imbarcazioni. Sin dove possibile il dato etnografico viene messo in correlazione con quello di natura archeologica per estendere le indagini non solo nello spazio ma nel tempo, per costruire una periodizzazione delle migrazioni via mare.

Etnografia del naviglio: dal fascinoso archetipo di ogni imbarcazione, la piroga, agli oceani da e con essa “navigati”

In questa temperie in cui il mare da proporre a un pubblico di lettori possibilmente sempre più ampio viene dunque trattato in chiave soprattutto esplicativa, con opere spesso letteralmente infarcite di illustrazioni, di riproduzioni di incisioni, di carte nautiche, di modelli navali, di fotografie, segnaliamo non solo enciclopedie[14] ma anche volumi di ampio formato, sempre riccamente illustrati che continuano a coniugare il tema del mare con, al centro, il naviglio. Si spazia dalle vicende di famose navi implicate in viaggi di esplorazione, in regate passate alla storia come le competizioni per assicurarsi la Coppa America, a epiche circumnavigazioni del globo in solitario a cominciare da quelle effettuate da Graham, da Slocum sullo Spray, piccolo sloop costiero, da Sir Francis Chichester che nel 1966, alla rispettabile età di sessantaquattro anni, effettuò il giro del mondo su un ketch, il Gipsy Moth, con un solo scalo. Di questo e di molto altro ci parla Alan Villiers in un sostanzioso volume, considerato un classico del genere, in cui debito e ampio spazio è ancora una volta riservato a un’etnografia del naviglio che intreccia fonti di natura archeologica, storica, bibliografica e iconografica [Villiers 1985].

Tema etnografico ricorrente ed evidentemente appassionante da cui non intendono prescindere un po’ tutti gli autori citati ed altri ancora è quello del natante ma soprattutto dei suoi archetipi, al contempo antichi e talora attuali, sopravvissuti nei secoli, frutto di una selezione di pratiche costruttive tanto semplici ed essenziali quanto efficaci, ad esempio quelle “condivise” e rintracciabili nel “triangolo polinesiano” costituito dalle Hawaii a nord, dall’isola di Pasqua a est e dalla Nuova Zelanda a sud-ovest. Siamo nel regno delle piroghe ricavate da un tronco di albero scavato al loro interno, armate di vele a chela di granchio, sorrette, per evitare improvvide scuffie, da bilancieri, ornate di bassorilievi scolpiti nel legno. Villiers ne propone ampio saggio appuntando la sua attenzione su quelle di malinowskiana memoria[15], diffuse presso le Trobriand e più in generale in Nuova Guinea, su quelle di papiro presenti alle più inusitate latitudini, sul lago Ciad come nel Titicaca.

Secondo Fairbridge e Durrans siamo dunque al cospetto di un natante che nella essenzialità e nella sobrietà che lo contraddistingue può essere considerato un “capolavoro” che

rappresenta una delle più brillanti risposte date dall’uomo ai problemi della navigazione marittima […]. Sono queste le imbarcazioni tramandate dal passato o che hanno subito degli adattamenti, sopravvivendo fino ai nostri giorni per svolgere molteplici ruoli nei trasporti sull’oceano […]. Sono il simbolo della tenacia delle società che per prime ne fecero uso [Fairbridge, Durrans 1982, 36-37][16].

Tenacia e sapere tecnico che, profuso nella costruzione di questi natanti e parallelamente nel loro governo e nella navigazione, consentì ai popoli che a tali canoe si affidarono di compiere arditissime migrazioni via mare. Proprio partendo da siffatta considerazione, dalla constatazione delle grandi doti marine di questi esili scafi, dallo loro capacità di coprire velocemente distanze assai lunghe, si sono generate, come già anticipavamo nelle pagine precedenti, diverse ipotesi circa le origini del popolamento di aree differenti e distanti del globo terracqueo lungo “strade” del mare solcate proprio da codesto essenziale naviglio. Nella sua nota Storia del Pacifico pubblicata in Italia nel 1948 van Loon, scrittore e giornalista americano già avvezzo, su scala più ampia, a trattare temi inerenti il mare[17], inizia a interrogarsi su quelle che significativamente definisce come «esplorazioni polinesiane» [van Loon 1948, 55] alludendo a popolazioni che scientemente e deliberatamente presero il mare sulle loro svelte canoe per sondare l’esistenza di isole e arcipelaghi disseminati nel Pacifico da abitare e colonizzare. Con piglio a volte assai disinvoltamente divulgativo non scevro da valutazioni etnocentriche, van Loon si chiede quali gruppi umani, tra gli altri, potettero avere i requisiti per affrontare l’oceano. Incrociando talora in modo incongruo e superficiale dati di natura storica e più nello specifico di storia della navigazione, come pure di geologia, antropologia fisica e somatica, formula varie ipotesi a partire dalla constatazione delle grandi doti marinare dei polinesiani contemporanei. Non si tratta di lavoro attendibile né, a onor del vero voleva esserlo: van Loon si accontenta di riferire e commentare varie ipotesi valutando quelle che ritiene più attendibili. Segnala però, questo scrittore, il diffondersi di un interesse per la questione polinesiana e delle grandi migrazioni via mare di popoli “antichi”, interesse che contagerà anche il grosso pubblico e che molto successo riscuoterà anche da noi.

Altri torneranno dunque sull’argomento con taglio maggiormente scientifico. Tra prima ma, più significativamente seconda metà del Novecento, epoca, come detto, in cui si scopre il mare facendone ampia divulgazione e pure oggetto approfondito di indagine da parte di molteplici discipline, sale alla ribalta quella che potremmo definire come una etno-archeologia marittima, quella praticata, tra gli altri, dal norvegese Thor Heyerdhal che qui rapidamente ricordiamo nella misura in cui il suo nome, le sue ipotesi di ricerca e più specificamente i modi con cui provò a confermarle riscossero grande interesse, godendo di ampia diffusione anche in Italia, nazione che, peraltro, egli elesse a sua dimora, costruendo in Liguria, sul promontorio di Capo Mele, nel borgo di Colla Micheri un’abitazione ove si stabilì con la sua famiglia. Heyerdhal divenne quindi personaggio familiare pure sulle italiche sponde; riviste scientifiche ma al contempo di ampia divulgazione fecero da efficace cassa di risonanza all’operato di questo eclettico ricercatore le cui relazioni di viaggio, le cui monografie furono pubblicate e ripubblicate più volte anche da noi a partire soprattutto dalla fine degli anni Cinquanta.

Heyerdhal era affascinato dall’ipotesi che popolazioni di continenti diversi avessero condiviso un comune punto di origine e che la loro diffusione fosse stata assicurata proprio da audaci migrazioni via mare. Per verificarlo provò, assieme a un ristretto manipolo di suoi collaboratori, a replicare codesti viaggi utilizzando imbarcazioni in balsa, in papiro e giunco realizzate rispettando i criteri costruttivi e i materiali impiegati ancora nel Novecento da popolazioni tradizionali dell’Africa e dell’America latina. Celeberrima, nel 1947, la traversata a bordo del Kon-Tiki, imbarcazione in legno di balsa che si ispirava a canoe di origine incaica, da Callao, in Perù, alla volta della Polinesia [Heyerdhal 1952] ove giunse costeggiando prima Tuamotu e riuscendo quindi ad approdare sull’atollo di Raroia[18]. Altre imprese similari, sempre tese a dimostrare la possibilità di spostamenti sul mare con natanti tradizionali nel raggio di migliaia di miglia, compì dirigendo sulle Galápagos nel 1952, facendo rotta sull’isola di Pasqua nel 1955 [Heyerdhal 1963][19], salpando dall’Africa settentrionale per giungere alle Barbados nel 1970.

A fonti di natura mitologica, storica, archeologica contribuivano osservazioni e documentazioni di tipo prettamente etnografico. Da un approccio squisitamente etnografico discende l’attenta osservazione, l’analisi e la dettagliata descrizione di materiali e tecniche tradizionali usati da popolazioni dislocate lungo le rive dei fiumi Palenque e Guayas in Ecuador, subito a nord del Perù, per costruire zattere e canoe. Dalla cittadina di Quivedo derivano i grossi tronchi di balsa fatti abbattere da Heyerdhal e condotti con il favore delle correnti lungo rotte fluviali fino all’oceano. Da qui verranno poi trasportati nel porto peruviano di Callao ove inizierà l’assemblaggio del Kon-Tiki. Dai luoghi citati e da chi ancora impiega la balsa alfine di costruire zattere si desumono le giuste dritte per «riprodurre in copia fedele quelle usate dagli Indii» [Heyerdhal 1952, 74].

Di altre conoscenze etnografiche ha però bisogno il navigatore norvegese, quelle che “provino” non solo il know-how dei polinesiani nella realizzazione di agili e funzionali mezzi di navigazione ma di altrettanto efficaci capacità di governo e soprattutto di orientamento in mare. Pur se non aduso a citare le sue fonti, Heyerdhal sostiene che gli antichi Polinesiani erano abili e competenti navigatori.

Navigavano di giorno con la guida del sole, di notte con quella delle stelle; le loro cognizioni astronomiche erano sorprendenti: sapevano che la terra è sferica, e avevano termini atti a esprimere concetti complicati, quale equatore, eclittica, tropico settentrionale e meridionale. Alle Hawaii incidevano carte dei mari circostanti sulla corteccia di zucche a fiasco; in altre isole, con graticci, rappresentavano carte particolari, dove gusci di conchiglie indicavano le isole, e certi nodi segnavano la direzione delle correnti. Conoscevano sei pianeti, che chiamavano stelle mobili, distinte dalle stelle fisse, per le quali avevano coniato almeno trecento nomi. Un buon pilota dell’antica Polinesia sapeva perfettamente dove spuntano nel cielo le singole stelle e dove esse si trovano nei vari momenti della notte e nelle diverse stagione dell’anno. Anche sapeva quale costellazione sovrastasse alle singole isole. Avveniva che un’isola avesse lo stesso nome della costellazione che la sovrastava notte per notte, anno per anno. Stante che il firmamento, come un’enorme bussola, rotava su di essi sempre da oriente a occidente, capirono presto che le stelle rivelavano sempre in che punto si trovassero, a Nord e a Sud. […]. Tradizioni storiche riferiscono che i capi di Tahiti visitavano le Hawaii, situate a duemila miglia più a Nord e parecchi gradi più a Ovest. Il pilota, seguendo il sole e le stelle, puntava dapprima verso Nord, fino a che la sua stella non lo avvertiva ch’egli aveva raggiunto il parallelo delle Hawaii; allora piegava ad angolo retto e prendeva la rotta d’occidente, avvicinandosi finché nubi e uccelli gli rivelavano la precisa posizione delle isole [Heyerdhal 1952, 201-203][20].

Le intrepide peripezie marittime di questo eclettico norvegese contribuirono in Italia a declinare ulteriormente un’immagine del mare che ora si faceva misterica e avventurosa, al contempo conferendo a chi alimentava con le sue imprese cotale allure della superficie equorea, connotati di ardimento e prodezza come pure di capacità marinare assolutamente non comuni ma comunque possibili, “emulabili”.

La vulgata era perciò quella di un mare, o, meglio di oceani che l’uomo poteva fronteggiare e solcare per sua intrinseca, arcaica attitudine, attitudine etnograficamente comprovata sul campo, attitudine vincente.

A ogni impresa che lo studioso norvegese portava a compimento, seguiva un diario del viaggio, un volume che con l’ausilio di corredi fotografici e cartografici restituiva sì i connotati scientifici dell’iniziativa ma, con astuto e abile calcolo commerciale e “proto massmediatico”, talvolta in stile romanzato, raccontava soprattutto l’eroico progetto e la sua visionaria ma concreta realizzazione.

Ad andare in porto, si può ben dirlo, è soprattutto una rappresentazione del mare che si articola in vista di un suo utilizzo “nazional-popolare”, facendolo apparire alla portata di tutti, bene, insomma, di largo “utilizzo”, per i “palati” più diversi. Le imprese di personaggi come Heyerdhal si prestano quindi alla formulazione di un’idea del mare che ne prefigura e avalla la possibile domesticazione anche delle sue più pericolose e rischiose manifestazioni. Thor Heyerdhal, volente o nolente, conscio o inconsapevole, diviene luminoso testimonial di codesta prospettiva. Ci è capitato nel corso degli anni di imbatterci più volte in imbarcazioni di piccolo cabotaggio a vela alle quali i proprietari dettero il nome di Kon-Tiki, sia in chiara chiave augurale che come omaggio a un personalità, in Italia, come si è detto, molto conosciuta e apprezzata.

A diffondere il mito di questo navigatore, antico e moderno al contempo, contribuirà ovviamente lui medesimo grazie alle ricordate doti di abile comunicatore e divulgatore, ma pure la carta stampata e la televisione. Cavalcano ancora una volta l’immagine di un mare domabile, facilmente fruibile da chicchessia o giù di lì, ulteriori editori italiani che, nello specifico, cercano di assicurarsi l’esclusiva di scrittori, esploratori e studiosi di successo le cui monografie esaltano tematiche marine e marinare. È il caso, sempre riferendoci a Heyerdhal, dell’editore milanese Martello che si garantisce la pubblicazione e le successive riedizioni dei suoi libri, in particolare di Kon- Tiki, Rotte per la Polinesia, Ra, Aku Aku.

Anche una stampa periodica di “lungo corso” che, quando l’argomento lo consente, sposa la cronaca a una certa dose di sensazionalismo imbocca la via del mare ospitando articoli dedicati a “marinai” di spicco che hanno legato il loro nome ai contesti equorei[21].

Altre testate ancora “accompagnano” gli italiani al mare proponendo molteplici esempi di come vivere il contatto con l’acqua salsa. Per un verso pubblicano articoli tecnici in cui si testano le attrezzature mettendo a confronto erogatori, maschere, mute, fucili a molla, elastici e aria compressa, custodie per cineprese e macchine fotografiche. Dall’altro danno indicazioni di dove e quando presentarsi, bardati di tutto punto da ciò che la tecnologia può offrire, al cospetto di mari in cui immergersi, pescare, fotografare. Ecco quindi ampi photoreportage spesso e volentieri realizzati in posti da sogno, barriere coralline, mari ricchi di poliedrica fauna e flora, spiagge deserte e bianchissime dove subacquei lì accorsi per praticare semplice snorkeling, pesca all’aspetto e d’altura, per filmare e filmarsi, fotografare e fotografarsi entrano in contatto con le popolazioni rivierasche tradizionali del Mar Rosso, della Polinesia, delle Seychelles, delle Maldive. I servizi si aprono progressivamente anche alla dimensione etnografica documentando in prevalenza sistemi e tecniche di pesca locali, modi tradizionali di cucinarli accompagnandoli con vegetali e altre carni di quei luoghi. L’occhio è pur sempre quello di un turista, di uno “sportivo” che però con decoroso descrittivismo narra dei suoi contatti con la gente di atolli e isole vulcaniche che a loro volta imparano a interagire con quella che velocemente diviene una clientela a cui fornire servizi in qualità di guide, traghettatori, assistenti, albergatori.

Nascono campionati nazionali e mondiali di pesca subacquea, campionati di immersione in profondità e in apnea con la leggendaria, eterna sfida tra Enzo Maiorca e Jacques Mayol anticipata dai record inizialmente stabiliti da Raimondo Bucher, concorsi fotografici che di volta in volta toccano i luoghi più diversi del globo dilatando le opportunità di contatto con genti di mare tra le più diverse.

Verso più olistici mari e più partecipate, marinare etnografie

In questo clima maturano figure “miste”, giornalisti, ricercatori, fotografi e pescatori subacquei al contempo, stranieri e italiani, come Bruno Vailati che «non è né uno scienziato, né uno sportivo, né un giornalista, né un fotografo, ma qualcosa di tutto questo messo insieme, […] un appassionato del problema sottomarino» [Quilici 1954, 10] o il compianto Maurizio Sarra, che del mare fanno la loro ragione di vita e talvolta anche il luogo in cui le loro esistenze si spengono per eccessiva confidenza con una dimensione, quella marina, che esige dazio facendosi ex abrupto soverchiante e spietata[22]. Figure miste che in quanto tali si mostrano provvidenzialmente inclini a travalicare confini disciplinari altrimenti troppo rigidi, a “navigare” liberamente in una saggistica di diversa e diversissima natura, figure che si fanno promotrici di approcci che oggi definiremmo olistici e che per loro siffatta “meticcia” condizione maturano un riguardoso rispetto nei confronti dei popoli incontrati e, di contro, un atteggiamento critico nei confronti dell’invadenza occidentale[23]. Tra gli antesignani di codesto atteggiamento furono ancora una volta autori talvolta stranieri che contribuirono a definire una condizione storica e culturale in cui poi si identificarono nostri studiosi-scrittori-navigatori di marinara vocazione.

Ci sembra doveroso tornare a riferirci ancora a Heyerdhal che già il viaggio di nozze tramutò in una lunga permanenza di campo e di ricerca a Fatuhiva, piccola isola del gruppo delle Marchesi. Tale esperienza di terreno lo condusse alla progressiva consapevolezza dell’invadenza nefasta degli occidentali.

Facevamo raccolta di animali, di amuleti e altri ricordi di una civiltà scomparsa. Rammento una sera. Il mondo incivilito era infinitamente lontano e irreale: noi, i soli bianchi che fossero da un anno nell’isola, avevamo buttato a mare le conquiste della civiltà, oneri e comodi con pari indifferenza. Abitavamo in una specie di palizzata, costruita sulla costa tra le palme, e mangiavamo quanto ci offrivano la foresta tropicale e l’oceano. Facevamo un tirocinio duro ma pratico, indagando nei molti e meravigliosi problemi del Pacifico. Sono d’avviso che, spiritualmente e fisicamente, seguivamo le tracce […] [di] uomini che per primi, venuti da una patria ignota, raggiunsero queste isole. I loro discendenti polinesiani avevano liberamente dominato sulle isole sino a che sopravvenne la nostra razza con la Bibbia in una mano, il fucile e la bottiglia di acquavite nell’altra [Heyerdhal 1952, 10].

Nel cercare di determinare epoche, cause e rotte che consentirono l’antico popolamento della Polinesia avverte altresì la necessità di adottare un approccio che preveda l’uso e l’incrocio di fonti scientifiche di differente natura, archeologica, etnografica, meteorologica, oceanografica, botanica, zoologica ed entomologica. Si lamenta conseguentemente di coloro che invece tendono a rimanere nei conchiusi steccati delle rispettive discipline di appartenenza.

Costoro sono specialisti e non credono a un metodo che abbracci tutte le discipline, dalla botanica all’archeologia. Si chiudono nella cerchia della propria indagine, per poter così meglio scavare in profondità e scoprire più muniti particolari. La scienza moderna richiede che ogni settore esplori nel proprio ambito. Non si è più avvezzi ad ammettere che qualcuno passi in rassegna i risultati parziali dei vari campi di ricerca, per fonderli in una visione sintetica [Heyerdhal 1952, 26].

In questo crogiuolo di polisemici professionisti e dilettanti del mare emergono nel tempo più posati e seri praticanti delle superfici e delle profondità marine. Non possiamo qui non ricordare la figura di Folco Quilici che racchiuse in sé una molteplicità di competenze primieramente legate a mari e oceani[24]. Del mare disse, scrisse, filmò, fotografò in guisa di giornalista, di divulgatore scientifico, di romanziere, di photoreporter, di regista[25] autore di serie televisive, di una numerosa congerie di documentari ma anche di film di fiction, spesso se non soltanto a sfondo marino, come il celebre Ti-Koyo e il suo pescecane del 1962 che, girato nelle isole Tuamotu, narra e favoleggia dell’amicizia tra un bimbetto e un pescecane, metafora di una simbiosi tra natura e cultura ove le due condizioni trovano un comune modus vivendi irrelandosi, capendosi, rispettandosi e proteggendosi vicendevolmente.

Agli inizi le sue esplorazioni sono tutte concentrate a disvelare le profondità marine, la vita sotto la superficie, sono quindi cimenti volutamente avventurosi, esplicite occasioni per meravigliarsi e stupirsi, per trasmettere al lettore il clima eccitante della scoperta, del contatto con le creature del mare, con delfini, globicefali, mante, testuggini e naturalmente squali. Siamo quindi al cospetto di un esploratore “sottomarino” che facendo ricorso alle sue molte competenze, alla sua polimorfa natura documentaristica a cui più sopra si accennava, ne approfitta scientemente per realizzare un “cantico” del mare in cui tuffarsi mantenendosi in bilico tra un’estasi stupefatta e contemplativa e una bulimia conoscitiva innanzitutto scientifica ma che talora titilla e innesca pure una patente vocazione predatoria. Paradigmatica di questo particolare e polisemico atteggiamento “conoscitivo” è certamente la spedizione nel Mar Rosso e più specificamente nell’arcipelago delle Dalhack dinnanzi all’Eritrea che ebbe inizio sul finire del 1952 per protrarsi nell’anno successivo. È la tripartizione dei membri della missione a chiarire le differenti anime di questa impresa che oggi ci possono apparire in qualche modo contradditorie. Ne fecero parte dieci uomini e due donne divisi, in ragione delle loro principali competenze, in tre gruppi, quello «scientifico», quello «sportivo» e quello «documentaristico e giornalistico» diretti e coordinati dal già ricordato Bruno Vailati. Vanno dunque a braccetto un intento scientifico teso a meglio conoscere la fauna marina e uno “sportivo” che è sinonimo di caccia e di pesca di tale fauna. Il tutto documentato e comprovato da cineprese e macchine fotografiche. Quilici che fu a capo della sezione documentaristica pubblicherà nel 1954 il racconto di questo epico viaggio. Il volume, già nel titolo e nel sottotitolo, rende esplicito quali fossero le “predisposizioni” mentali dei partecipanti a questa missione: «avventura nel sesto continente», ovvero la cospicua parte immersa della terra da penetrare con audace baldanza trattenendosi per ben «cinquemila ore sotto i mari […] fra gli squali e le mantas della Giungla di Corallo». Si rimarca dunque, subito ed esplicitamente, l’arditezza dell’impresa compiuta, dopo aver evocato Giulio Verne e il suo Nautilus che, non di ore ma di leghe sotto i mari ne fece ventimila, a disprezzo dei pericoli costituiti innanzitutto dai predoni del mare, dagli squali. Nella prefazione a questo volume si legge:

Senza scafandro, senza batisfere, senza navi sottomarine questi dieci giovanotti hanno intrapreso l’esplorazione e l’inventario sistematico di un mondo, e hanno dimostrato che è possibile all’uomo viverci, lavorare, cacciare, offendere, difendersi e tornare indietro. […]. Un mondo cioè che sfrutterà le miniere sottomarine, i vivai artificiali di pesci, le colture delle alghe. […]. La sola idea di tutto questo basta a dare le vertigini come e più di quella del volo al di là delle barriere del suono. Si calano in acqua e sta bene. Ma dove vanno a finire? Semplicemente […] nel mondo di domani [Napolitano 1954, VIII].

Sono gli anni Cinquanta, gli anni di un’enfatica scoperta del mare che chi non ha il coraggio di effettuare di persona può rivivere comunque attraverso le pagine di resoconti di ardimentose esplorazioni sottomarine come quelle che Quilici dedica alla sua esperienza nel Mar Rosso[26] ove è perciò lecito “difendersi” ma pure “offendere”. Pagine nelle quali l’approccio al mondo sommerso si fa battagliero, dove l’incontro con gli squali esula sovente dalla mera osservazione, dalla fotografia e dalla ripresa cinematografica di codeste creature marine per tramutarsi in battuta di caccia come chiaramente “postulato” dalla copertina del libro che su tela blu porta impressa in oro la silhouette di un pescecane trapassato da un asta armata da un arpione.

Passano gli anni e Quilici matura molteplici ulteriori esperienze a contatto con mari e oceani; la Polinesia è una delle sue mete preferite in cui ritorna più volte.

Accade inevitabilmente che il suo sguardo si volga anche verso l’uomo, verso quella parte di umanità che vive e lavora in relazione stretta ed epidermica con la dimensione equorea. Di tali genti, del loro patrimonio di conoscenze elaborate e affinate in rapporto con il mare, di modelli e valori che le culture delle popolazioni rivierasche e marinare hanno elaborato nel tentativo di plasmarsi a cotali ambienti dandone delle rappresentazioni che investono sia la sfera materiale che quella sociale e religiosa, ecco, di tutto questo Folco Quilici pure ci parlerà e scriverà soprattutto in Uomini e mari uscito nel 1976, pubblicazione di grande formato con un significativo intreccio di testi e immagini. Già il titolo, esplicitamente, segnala una “virata” dell’autore che ora pone al centro della sua attenzione le popolazioni rivierasche, alieutiche e marinare[27].

Siamo dunque al cospetto di una “conversione” dall’approccio naturalistico strictu sensu inteso e “sportivo”, a quello, in senso lato, antropologico pur se, come vedremo, Quilici sosterrà di preferire un olistico “dialogo” tra le parti:

Erano anni in cui l’incredibile bellezza del mondo sommerso che stavamo scoprendo ci faceva sentire, noi sub, come i soli protagonisti di una grande avventura, quella della scoperta di una dimensione del mare nascosta agli occhi dei più. Fieri di questo privilegio da cavalieri antichi non credo che […] abbiamo […] prestato attenzione agli uomini che all’alba curvi in silenzio sui remi, stanchi da una notte di pesca spingevano le loro barche variopinte verso la spiaggetta nera di ossidiane macinate dal mare. Le loro mani callose bruciate dalle meduse che si impicciano nella rete, i loro volti enigmatici non ci sembravano degni della nostra attenzione – facevano da sfondo alla nostra avventura.

Poi col tempo […] parole scambiate di sera alla luce delle lampare o accanto al fuoco di un villaggio di pescatori del Pacifico; forse dei momenti di pericolo passati insieme, quei momenti in cui sembra che la vita di uomini diversissimi fra loro sia sospesa allo stesso filo… Ed ecco che […] quei volti […] si fanno più precisi, si mettono a fuoco; i loro enigmi cominciano a dissolversi, le loro parole e i gesti delle loro mani acquistare un senso…Sono le parole e i gesti dei veri protagonisti del mare, quelli di sempre e di dovunque dal Mediterraneo al Pacifico, dai tempi di Omero al pescatore di Ustica di oggi [D’Ayala 1976, 5].

In queste parole di P.G. D’Ayala, archeologo sottomarino e con il passare del tempo anche cultore di “etnologia marinara” e di ex voto marinari, parole tratte dalla prefazione al libro Uomini e mari, è ben esplicitato il passaggio da un clima di rumoroso e rutilante avvicinamento a un mare da “colonizzare” invadendone “sportivamente” e tecnologicamente le profondità, la fauna delle quali tanto si studia quanto si preda, a un atteggiamento più rispettoso non solo e non tanto della dimensione equorea in quanto tale ma di chi ab immemorabile codesta dimensione sperimenta quotidianamente sulla propria pelle, di chi vive di pesca per il commercio e la sopravvivenza, non certo per agone prestazionale e sportivo.

Intendiamo qui soffermarci su Uomini e mari perché si tratta di un lavoro dove lo spessore etnografico non è più incidentale, parziale e aneddotico come in tutto il panorama editoriale fino ad ora esaminato, ma cifra e materia prima derivante dalle permanenze sul terreno di Quilici, come anche dalla sua attitudine a farsi frequentatore, al ritorno dai suoi viaggi, di biblioteche e archivi in cui consultare fonti storiche, archeologiche, etnologiche e folkloriche per arricchire e corroborare le documentazioni di terreno.

Non è, beninteso, Quilici un antropologo, rimanendo la sua produzione nell’alveo di una divulgazione che però appare ben informata e radicata in dati di prima mano provenienti dalle sue prolungate permanenze nei luoghi di cui intende dirci. È parimenti riflesso di un’osservazione non propriamente partecipante ma comunque partecipe, ovvero attenta e attratta dai contesti in esame; è esito di una “curiosità” sincera nei confronti delle diverse realtà umane che il nostro incontra, che documenta e su cui si documenta dandosi i giusti tempi, adeguandosi ai tempi dilatati delle popolazioni tradizionali e insulari.

Parlando di Ranghiroa ove soggiornò a lungo attratto dai miti fondativi, dalle credenze e dalle pratiche apotropaiche, nel dettaglio interessato a capire perché lo squalo tigre fosse posto nell’olimpo delle creature divinizzate positivamente all’opposto dello squalo martello ritenuto invece demone aggressivo e mortifero, sottolinea la ritrosia dei suoi locali interlocutori a chiarirgli l’arcano[28]: sarà soltanto la lunga permanenza a far sì che il capo del villaggio, un bel giorno, deciderà di accordare a Quilici fiducia dandogli le risposte da tanto attese:

Fu solo perché vivevo in quell’isola da molti mesi e già ero stato in quel villaggio, a lungo, negli anni precedenti – e quel tempo era stato evidentemente considerato sufficiente per essere accetto alla comunità – che in parte si rimosse la barriera di diffidenza per tanto tempo ben stretta attorno a me. Barriera tipica d’ogni luogo e comunità, ma soprattutto viva ancora oggi in quei piccoli gruppi umani ove si custodiscono tradizioni tramandate a memoria di voce, di generazione in generazione [Quilici 1976, 13].

Ricordando, a tutt’altre latitudini, di analoghe lunghe permanenze presso la tonnara di capo Passero in Sicilia, ove era stato attratto dalle pratiche magico-religiose segretamente custodite dai rais e non divulgate, pratiche messe in atto quando i branchi di tonni tardavano a presentarsi, Quilici riesce infine a ottenere alcune informazioni avendo saputo attendere, ripresentandosi per alcuni anni consecutivi e trattenendosi, a partire dal mese di maggio, quando andava in opera questa tonnara “di monta”, per diverse decine di giorni ogni volta. Anche in questo caso il rais decide a un tratto di “convocarlo” accettando di accoglierlo, pur con i dovuti riserbi e tra zone d’ombra comunque non svelate, nelle “segrete stanze” del locale mondo magico:

Poi un mattino, sarà stato il terzo anno che tornavo laggiù, e mi fermavo per le settimane di tonnara, […] il rais […] mi disse «parole» della tonnara […] come se ormai mi avesse «accettato». E io seppi, così, certo non tutto, ma qualcosa: usanze, certe preghiere, certe regole del fare e del non fare di cui mai nessuno m’avrebbe detto nulla se io avessi insistito con le domande, con le curiosità troppo esplicite [Quilici 1976, 13].

Il nostro autore dimostra di aver ben chiaro che la partecipazione, la vicinanza prolungata con i contesti di studio non annulla una distanza culturale di fondo tra i soggetti di una relazione diadica dove l’osservatore si fa osservato e viceversa.

A proposito dell’incontro a lungo ricercato e finalmente ottenuto con il capo del villaggio di un atollo del Sud-Pacifico e con un anziano di alto rango a cui chiedere conto di consuetudini animistiche che attribuivano ad alcuni pesci caratteri sovrannaturali Quilici scrive:

Ricordo il giorno di quella visita con estrema precisione, pur attraverso tanti anni di viaggi per mari e per isole. Lo ricordo perché fu allora che per la prima volta mi parve, per qualche breve momento, d’essere riuscito a varcare, almeno in parte a superare, quel confine indefinibile – ma quanto compatto e difficile – che racchiude l’area “segreta” di una comunità diversa, estranea [Quilici 1976, 10-11].

Confine e distanze da rispettare che si fanno metafora di quell’intervallo, di quegli spazi oscuri e impenetrabili che il mare frappone fra sé e l’uomo quando questi tenti di attraversarlo, di penetrarlo, di conoscerlo. Le acque sì lo accolgono ma nell’ambito inesorabile di interstizi, di ambienti circoscritti. È un’alterità, quella di cui Quilici vuole sapere, che stigmatizza e preserva la propria, protetta identità; è un’alterità che il nostro impara a rispettare quale unica via per poterne lambire i perimetri, per valicarli momentaneamente, parzialmente accedendo, in punta di piedi, nei domini di saperi che comunque gli verranno soltanto distillati.

Fin qui l’approccio metodologico, contraddistinto dalla ricerca prima di un contatto soddisfacente e quindi di un’accettazione che si cementano e si perseguono mediante l’esercizio della paziente attesa, della predisposizione a un’osservazione discreta nella consapevolezza di essere al contempo osservati e valutati, nel rispetto dei propri informatori, di quando e quanto saranno essi alfine disposti a dire. Siamo dunque al cospetto di un Quilici che mostra di conformarsi ai “fondamentali” di un’etnografia che impronta e disciplina la fase di terreno.

Passiamo ora all’analisi di ciò che, in termini di temi affrontati, descritti e documentati Quilici ci dice in merito alla sua predisposizione a interconnetterli, a richiamarli in diversi punti del volume in virtù delle loro molteplici e simbiotiche significazioni.

Colpisce, in tal senso, il riferimento immediato a Ernesto De Martino una cui citazione compare all’inizio della monografia. In essa Quilici vede riassunto il suo approccio olistico, cifra al contempo epistemologica e metodologica di codesta sua monografia.

La verità è che nei nostri tempi tra poeti, letterati ed etnologi si sono stabiliti dei rapporti di simpatia, a dispetto di tutte le buone abitudini accademiche. In tutte le epoche nelle quali più pungente diventa l’esperienza della possibilità di smarrire l’uomo e l’umano, le partizioni tradizionali delle competenze e delle sensibilità accennano a diventare meno rigide, e dialoghi intermessi vengono ripresi, o dialoghi nuovi iniziati: la ricerca dell’uomo e dell’umano al di là delle aiuole territoriali si fa pressante, e i cippi confinari cominciano ad essere oltrepassati con maggior frequenza [De Martino in Quilici 1976, 4].

Quilici coglie evidentemente, nelle parole di De Martino, l’esortazione a riferirsi a una dimensione già di per sé liquida e mutevole quale la marina, pervasa per sua intrinseca, fisica natura da sotterranee e imperiose correnti, da venti poderosi, da calme assolute e marosi incontenibili, evitando una prospettiva limitata a conchiuse “aiuole territoriali”, pena l’impossibilità a orientarsi in un sì sconfinato e cangiante mondo, ab origine bifronte, “bidimensionale”, costituito da tutto ciò che si genera sulla sua superficie e nelle sue profondità.

Uomini e mari è riverbero di questa visione, se pur nel bene e nel male. Le ampie latitudini dell’etnografia dell’autore sono attraversate e irrobustite da letture di taglio storico, archeologico, folklorico, socio-economico, dalla compresenza di un piano diacronico e sincronico. È questo, di certo, un valore aggiunto, pur se l’apporto multidisciplinare rimane a livello discorsivo, circoscritto a citazioni e rimandi non soggetti ad approfondimenti.

La preminenza della documentazione etnografica è indiscutibile ma proprio tale preminenza fa sì che Quilici ne resti talora agito. Il piano dell’opera, già soltanto scorrendo l’indice, non ci pare corrispondere a un impianto capace di strutturare la ricca materia in relazione a un filo conduttore e interpretativo definito, a un’ipotesi di ricerca e di lettura da proporre al lettore e provare dati alla mano. Va detto, d’altronde, che non possiamo chiedere a Quilici, uomo “programmaticamente” dalle molte anime, di farsi esclusivamente antropologo con il conseguente obbligo del rispetto delle retoriche tipiche della survey.

È e rimane un narratore, un fine narratore se si vuole, dotato di una prosa elegante e scorrevole con cui ci mette a parte del gran numero di conoscenze etnografiche accumulate in decenni di frequentazioni di gente di mare, finalmente restituite nel volume di cui qui stiamo parlando. La restituzione è però, per così dire, episodica.

Ogni capitolo è a sé e tutti rispondono all’esigenza di un pacato descrittivismo che, come già ribadito, ha però spalle alquanto solide, poggiando su dati etnografici di prima mano. Un capitolo si concentra sulla cultura materiale delle popolazioni rivierasche e alieutiche, L’amo, l’arpione, la rete, un altro sugli orizzonti magico-religioso, Il mito, il rito e il magico, da cui sono però espunte notizie e documentazioni con cui l’autore imbastisce un ampio florilegio di credenze, alcune ricostruite sulla base di fonti storiche e classiche, per intendersi da Plinio il Vecchio in poi, molte altre frutto delle sue osservazioni sul terreno, che danno invece corpo all’ultimo capitolo, La bella e la bestia.

Decidiamo di soffermarci su questa ultima parte perché ci pare raccogliere in sé i presupposti che hanno ispirato l’intero lavoro di Quilici e di cui abbiamo riferito in precedenza. Il capitolo, come è fatto presagire dal titolo, si dedica al rapporto tra la dimensione umana e quella, supposta mostruosa, delle profondità marine. Siamo nell’ambito di quel «sovrannaturale marino» [Quilici 1976, 116] su cui volentieri Quilici ritorna in un po’ tutti i capitoli di questa sua fatica[29], qui, forse, in maniera particolarmente pregnante e accentuata. Sovrannaturale marino da non intendersi soltanto come mera rassegna di creature fantastiche, ma, in modo ben più problematico, quale risposta magico-religiosa indispensabile per una riconfigurazione protettiva delle insidie e delle incognite marine.

Dal passato emergono il mitico Lievatan, il serpente di mare, il Kraken, la piovra, il calamaro gigante, l’Hidra e l’Architeutis smisurato decapode delle profondità, finanche la misteriosa e supposta creatura che popolerebbe le profondità del Loch-Ness. Tale passato più o meno criptozoologico viene riveduto e corretto sull’odierna base di documentazioni o ipotesi di natura scientifica, desunte dalle esplorazioni subacquee e dalla biologia marina.

La figura del mostro marino assume però pregnanza ancora maggiore e cogente quando filtrata e letta alla luce dell’etnografia di Quilici.

Ampio spazio viene lasciato, ad esempio, allo squalo, in quanto essere “totemico” della gente di mare, sussunto in una duplice veste, quale divinità ctonia e infernale ma, ci sia consentita la battuta, alla faccia di Spielberg e della sua terrifica e grossolana saga cinematografica sullo squalo assassino, quale salvifico «eroe-dio dell’antico Olimpo polinesiano» [Quilici 1976, 195] la cui possanza viene evocata per contrastare la potenza dei marosi. Sempre in relazione alla figura dello squalo in questa sua duplice veste l’etnografia torna a sostegno degli assunti dell’autore. Più pagine egli dedica a un rito iniziatico osservato nel villaggio di Ealabboga in Nuova Guinea presso cui si reca assieme all’ antropologo olandese Wielens, dove i fanciulli destinati ad assumere lo status di adulti, cacciatori e pescatori, vengono lanciati nelle gigantesche fauci spalancate di uno squalo feticcio.

La gente di questo villaggio non ha dimenticato il mare, non ha perso la paura per i giganti che lo popolano; e infatti li ricorda e li onora il giorno della festa dei giovani, quando l’intera comunità si sottomette al dominio di un essere venuto dal mare. La “grande bocca”, ogni anno, alla fine della stagione delle piogge, viene tolta da una sacra capanna e innalzata tra altri simboli scolpiti in legno, al centro del nucleo abitato; è fatta di corteccia d’albero e di legno; è dipinta e istoriata, ha due fila di denti veri di squalo innestati su due assicelle robuste, che formano una sorta di enorme mascella. La sola apparizione della bocca ha già intimorito i giovani; molto probabilmente il mare […] non l’hanno mai affrontato per pescare o navigare; ma sanno che il mostro è venuto di laggiù e che dovranno lasciarsi divorare da lui; sanno che è una finzione, ma difficile e dolorosa, e non solo fisicamente: […] I ragazzi riluttanti vengono portati sotto la bocca aperta controcielo; e secondo un tempo scandito dai tamburi […] vengono a uno a uno afferrati e gettati al volo oltre quell’invisibile, e pur così concreto confine tra infanzia e maturità. Attraversano la bocca irta di denti, come se ne fossero inghiottiti; al di là, due uomini li attendono, li afferrano per le braccia e le gambe prima che cadano al suolo. Appena salvati da quell’abbraccio violento, i ragazzi sono uomini; diventano, un tempo, pescatori tra i pescatori […]. Era motivo d’orgoglio per le famiglie dei ragazzi che essi non solo sfiorassero, ma fossero feriti dai denti appuntiti della simbolica mascella; doveva restare segnata, e profondamente, la loro pelle e la loro carne, a ricordare tutta la vita il «morso» del mostro protettore e padrone [Quilici 1976, 186,188].

Tutta questa materia viene riletta in chiave etnopsichiatrica quale esorcizzante necessità culturalmente determinata di misurarsi con il pericolo, ancor più quale «desiderio di aver paura» [Quilici 1976, 179]. Costringendosi, l’uomo di mare, a riconoscere il proprio terrore di codesto mare, sua concreta, ineluttabile dimensione esistenziale, dandogli vistose sembianze e volti mostruosi, evocandolo in riti di passaggio e feste marinare, mediante un supponibile processo di transfert, siffatto terrore domestica.

Quilici quasi volendo stabilire un parallelo tra popolazioni alieutiche e marinare delle più distanti latitudini, accomunate da questo “meccanismo” di ossessiva e reiterata trasmutazione dell’horror vacui in sua controllata e codificata rappresentazione, associa riti come quello dello squalo di Ealabboga agli ex voto marinari in cui

nel momento della massima paura, del terrore, della certezza della fine, la molla della sopravvivenza, un’ultima energia vitale, darebbe all’uomo la forza per salvarsi facendogli credere, in un’allucinazione, che una mano potente gli porge aiuto, interviene per trarlo fuori dalla tempesta, dal pericolo di morte; questo scatto emotivo farebbe sembrare reale agli occhi del soggetto quel che reale non è [Quilici 1976, 192], trasponendolo poi nella tavoletta pittorica.

Codesta inedita e suggestiva associazione tra uno squalo e un naufragio in cui concorrono dati di natura storica etnologica, folklorica, psicologica, etnopsichiatrica, questo singolare raffronto tra due pericoli che nella loro rappresentazione ritualizzata sono ricomposti nei perimetri di un quadro che ne “bonifica” la natura aggressiva e mortale facendone totem salvifici, ci pare esempio significativo di quello che Quilici aveva promesso all’inizio del libro ovvero di parlare di un mare ove i processi, o meglio, i tentativi di una sua umanazione si possono meglio spiegare mediante un approccio multidisciplinare a partire da un “ancoraggio” indispensabile in una onesta e “navigata” etnografia del mare.

Non siamo in grado di stabilire in quale misura Quilici abbia nello scorrere degli anni fatto proseliti: ha però certamente anticipato un’attenzione nei confronti del mare e di chi lo vive destinata ad abbandonare toni impetuosi, veementi, comportamenti aggressivi e dannosi per fauna e flora marina.

Sul piano antropologico si è fatto promotore, come visto, di un interesse rispettoso delle popolazioni marinare e alieutiche che non sarà più marginale nei suoi scritti, peraltro non solo teso a inquadrare etnograficamente codeste genti in seno alle loro antiche tradizioni, ma interrogandosi in molteplici circostanze sul loro destino una volta entrate in contatto con un mondo occidentale ingombrante, rumoroso, irriguardoso che a tali popoli aggressivamente si sovrappone e si impone.

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[1] Ricordiamo la ben nota documentaristica di Gianfranco Mingozzi e di Luigi Di Gianni, le ricerche e i photoreportage di Annabella Rossi come quello sui carnevali popolari [Rossi, De Simone 1977], le campagne fotografiche, la saggistica e le multivisioni sul tema della festa di Lello Mazzacane [Mazzacane 1985]. Citiamo invece, tra le pellicole, quelle di Ettore Scola regista di Trevico Torino…viaggio nel Fiat-Nam del 1973, di Bernardo Bertolucci che nel 1976 manda nelle sale il suo enfatico Novecento, di Ermanno Olmi di cui nel 1978 si proietta L’albero degli zoccoli, di Francesco Rosi che nel 1979 porta sugli schermi l’opera biografica di Levi del quale ripropone il titolo Cristo si è fermato a Eboli.

[2] Segnaliamo alcune opere di antropologi che hanno affrontato il tema del mare in una prospettiva squisitamente etnografica, con attenzione alla dimensione materiale ma parimenti a quella religiosa e festiva, da un punto di vista delle rappresentazioni e pure collocando lo studio delle comunità rivierasche nell’ottica di cambiamenti socio-economici e culturali indotti dal turismo e dalla progressiva riduzione delle flottiglie pescherecce con riverberi sull’impiego e sulla riconversione dei saperi maschili e femminili: Bronzini 1984, Corso (ed.) 1957, Fonseca (ed.) 1984, Giacalone 1989, Guggino 1977, Lombardi Satriani, Meligrana 1985, Maffei 2000, 2008, 2013, Maffei (ed.) 2009, Maffei M.M., Parisi R. (eds) 2003, Mazzacane (ed.) 1989, Mondardini Morelli 1981, 2013, Mondardini Morelli (ed.) 1985, 1990, Pitto 1988, Raniso 1978, 1980, 1989, 1990. Alle tradizioni orali, a canti e poesie marinare, sono dedicate due corpose antologie di Savona e Straniero 1980 e 1990. Si procede pure alla ristampa anastatica di opere ottocentesche come il ben conosciuto dizionario marino di Guglielmotti 1889-1987, si traducono o si fanno circolare nella lingua originale monografie tecnico-scientifiche come quelle dell’ufficiale di marina francese Thomazi 1947, 1950. Ci permettiamo infine, e sommessamente, di fare riferimento anche a due nostri lavori [Baldi 2015, 2016] che prendono specificamente in considerazione le rappresentazioni del mare.

[3] Già nel 1950, un apprezzato esponente del neorealismo italiano, Roberto Rossellini, realizza un film in cui a muoversi dinnanzi alla macchina da presa non sono contadini ma, una volta tanto, pescatori. Si tratta del celebre Stromboli ove le scene che coinvolgono veri pescatori dell’isola eoliana hanno certamente un pregio anche di tipo documentario. La gente del luogo è comunque semplice corollario a una tormentata vicenda coniugale. Il coevo Vulcano con Anna Magnani e Rossano Brazzi, per la regia di William Dieterle, non si discosta da questa impostazione pur tra palombari e scene di caccia al pesce spada.

Discorso diverso va invece fatto, ancora una volta per un ristretto numero di casi, in merito a una documentaristica che volge il proprio sguardo al mare. Ricordiamo qui, per la regia di Vittorio De Seta Lu tempu de li pisci spata del 1954, Isole di fuoco del 1955, e Pescherecci del 1959.

[4] Ci sia qui consentito un ricordo personale in qualche modo esemplificativo di questa rapsodicità. In occasione di uno degli annuali congressi dell’Aisea, Associazione italiana di studi etno-antropologici, nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso, si decise di irrobustire e articolare il sodalizio creando delle sezioni tematiche tra cui una di antropologia del mare. Fecero parte di quest’ultima Gabriella Mondardini Morelli in qualità di coordinatrice, Macrina Marilena Maffei, Rosa Parisi, Cesare Pitto e tra gli altri anche chi scrive. Le studiose appena ricordate si erano certamente distinte per ricerche di indubbia significatività nell’ambito di una personale produzione scientifica caratterizzata da un perdurante interesse per il mare come nel caso soprattutto di Morelli e Maffei. Si trattò comunque di un ristretto manipolo di ricercatori a fronte di altre sezioni, come quella di Antropologia Storica a cui si iscrisse un numero ben più consistente di colleghi. L’esiguità del gruppo delle antropologhe e degli antropologi del mare, le loro residenze distanti le une dalle altre, la notevole diversità dei temi trattati non consentì alla sezione di decollare.

[5] Il successo sempre maggiore della vela, dai piccoli monotipi come Flyng Junior e Vaurien, 420 e 470, Optimist e Laser, alle classi superiori, con il complesso “indotto” che generano, cantieri e velerie, scuole, contest junior e senior, regate sociali, campionati nazionali e mondiali, regate transoceaniche, ma pure il successo di surf, sci nautico e pesca subacquea convince diversi editori a pubblicare anche intere serie di volumi dedicate a questo mondo. Si tratta di manuali in parte firmati da autori stranieri, di nazionalità in prevalenza inglese e francese, originari di contesti nei quali queste nuove attività sportive connesse al mare sono già un dato di fatto, tra cui Barberousse 1979; Bianchi, De Szombathely G. 1970; Bigon M., Regazzoni G. 1978; Blewitt M. 1985; Bory 2005; Contiero E. 1982; Creagh-Osborne R. 1977a, 1977b; Heimann J. 2009; Imhoff F., Pranger L. 1978; Johnson P. 1987; Oakeley J. 1982; Prade E. 1988; Sensini A., Vegliani S. 2010; Stanciu 1979; Sleightholme D. 1976-1988; Terracciano 1981. Dando uno sguardo alle date di edizione codesta manualistica rappresenta un filone ancora oggi in auge.

[6] L’editore Mursia mostra particolare attenzione al tema del mare a cui dedica ben due collane, la Biblioteca del mare – manuali, tecnica, sport e la Biblioteca di yachting; Mondadori tiene a battesimo la collana Oscarmare. Mauro Mancini, su scala più ridotta, vara la pur pregevole collana Il tagliamare. Altri editori imboccano invece la strada di riviste molto tecniche come l’Editrice Incontri Nautici che pubblica il mensile Bolina ininterrottamente dal 1984 in cui un occhio di riguardo è riservato al naviglio promenade; affianca questa testata una nutrita serie di monografie dedicata a personaggi del mondo della vela, a epiche regate, a volumi sulla storia della vela internazionale. Ricordiamo inoltre il Giornale della vela che invece punta non tanto e non solamente sulla vela da crociera e d’altura, ma su quella agonistica. Nascono pure riviste specializzate quali Mondo Sommerso e Alieutica che intendono promuovere la pesca sportiva rispettivamente sopra e sotto la superficie equorea.

[7] Descrive così la pesca tradizionale di foche e trichechi presso gli Inuit [Perosino 1972, 132-133], quella delle ostriche in Giappone e delle spugne in Grecia [Perosino 1972, 119-122, 117-118], la caccia praticata dai polinesiani con lo sparviere, con il cappio e con barriere costituite da foglie di palma intrecciate [Perosino 1972, 42-43], il ricorso a reti di grossi ragni in Nuova Guinea [Perosino 1972, 43].

[8] «Dal punto di vista della pesca sportiva, soprattutto per quanto riguarda il carniere, i pesci stanziali sono indubbiamente i più importanti. […] La caccia spietata alla cernia, un pesce «facile», ha depauperato notevolmente le coste italiane, specie le coste tirreniche e delle isole meridionali un tempo ricchissime di questo pesce molto pregiato. Dovrà ad un certo momento essere affrontato il problema della limitazione della pesca subacquea specialmente rivolta a questa specie stanziale e ad altri pesci stanziali […] che vanno rapidamente riducendosi di numero, per evitare la loro totale distruzione. Queste specie ittiche impiegano parecchi anni per raggiungere dimensioni apprezzabili per il pescatore. Non vi è dubbio che la continua persecuzione di pesci atti alla riproduzione costituisce il peggiore danneggiamento alla conservazione della specie. È quindi necessario che vengano assunti dei provvedimenti atti alla conservazione ed alla protezione della ittiofauna stanziale. Un primo provvedimento può essere quello del divieto della pesca subacquea esercitata con l’uso dell’autorespiratore. Questi apparecchi dovrebbero essere usati esclusivamente per la ricerca e la fotografia subacquea» [Perosino 1972, 439-440].

[9] Altre enciclopedie si succedono nel tempo. Segnaliamo Nauticus - Grande enciclopedia della nautica, uscita in prima battuta a Parigi per i tipi dell’Editions maritimes et d’Outre-Mer, poi ripubblicata dal Touring Club Italiano tra il 1981 e il 1983. Per chi alla superficie del mare ne preferisce le profondità ecco, in tre ponderosi volumi illustrati, Sub. L’enciclopedia del subacqueo che tratta dei temi più diversi, pesca subacquea, fotografia subacquea, speleologia subacquea, archeologia subacquea, il lavoro subacqueo, le imbarcazioni del subacqueo, le attenzioni e le cure mediche, le scuole, la legislazione e finanche «Gli hobbies del sub»; esce nel 1968 edita da Sadea-Sansoni.

[10] 1 Una vita per il mare, 2 Contro venti e maree, 3 Verso gli abissi, 4 Incontri nel pianeta blu, 5 Alle radici degli oceani, 6 Riscoprire il mare, 7 Oceano generalità - Mari e oceani, 8 Storia dell’oceanografia, 9 I mari del passato - ambienti animali e piante, 10 Ambienti animali e piante - Comportamento animale, 11 Evoluzione e adattamento – Le scoperte geografiche, 12 I popoli del mare - Risorse per il futuro.

[11] Ninfa, figlia di Atlante, che nell’isola di Ogigia, ombelico del mare, accoglie Ulisse innamorandosene.

[12] Già dalla prima missione esplorativa intrapresa da Cousteau che «aveva come compito l’osservazione delle splendide scogliere coralline dell’Arabia Saudita […] anziché affidarsi alla strumentazione di bordo per controllare e analizzare esemplari del mondo sottomarino, l’equipaggio della Calypso mise in pratica l’ideologia di Cousteau. “Il faut aller voir”, diceva: dobbiamo andare a vedere. Detta insistenza quasi militante sulla necessità della presenza dell’uomo in acqua per pervenire a una vera comprensione di quel mondo fu messa in pratica per la prima volta durante questo viaggio» [Cousteau, Sivirine 1984, 20].

[13] Cousteau, giovane ufficiale della Marina Militare Francese, si rese ben presto conto del proprio crescente interesse per il mare sopra ma soprattutto sotto la sua superficie. Abile fund raiser riuscì a mettere insieme le importanti somme necessarie all’acquisto di una nave da destinare alle ricerche subacquee, dotandola di idonee apparecchiature per l’immersione, per il dragaggio, per la progettazione e la realizzazione di sistemi evoluti di autorespiratori, di minisommergibili, di un elicottero e di stazioni sottomarine da calare su modesti fondali e in cui ospitare continuativamente per più giorni ricercatori e subacquei. Il 24 novembre 1951 a bordo della nave Calypso, ex dragamine militare statunitense, totalmente riconvertito all’esplorazione subacquea, Cousteau salpa da Tolone per la prima di innumerevoli campagne di ricerca.

[14] L’intento di un discorso intorno ai popoli rivieraschi e marinari, sempre a livello di ampie e variamente dettagliate divulgazioni, ritorna anche in altre opere, per esempio nei quattro volumi “Navi e marinai” editi da Rizzoli nel 1982 con consulenze e collaborazioni alla stesura di piano dell’opera e testi fornite dallo Stato Maggiore della Marina Militare Italiana [Bertoldi S. (ed.) 1982]. Si tratta infatti di iniziativa che come recita il sottotitolo è specificamente dedicata a Uomini e avventure dell’Italia sul mare. Al di là di una certa retorica patriottica con cui si ripropongono figure e imprese di famosi naviganti e di marinerie di casa nostra, indubbio è, anche in questo caso, il ricorso al dato storico-etnografico ancora una volta imperniato sostanzialmente sul naviglio, mercantile e militare, a vela, quindi a vapore e poi a ciclo diesel.

[15] «Mi capitò […] di navigare con gli abitanti dell’isola di Trobriand, al largo della Nuova Guinea. Da tempi immemorabili gli indigeni abbattono gli alberi delle loro isole, ne scavano i tronchi e vi adattano dei bilancieri che servono a dar loro stabilità. Il tutto è fatto con attrezzi primitivi ma del tutto idonei a tali operazioni. Questi coraggiosi marinai compiono ancora oggi viaggi in mare aperto verso le altre isole coralline. In una piattaforma posta sopra lo scafo affusolato vengono sistemate le merci e i passeggeri» [Villers 1985, 16].

[16] Nel dodicesimo volume della ricca enciclopedia del mare di Cousteau, Durrans, assieme anche ad altri studiosi, in distinti capitoli, ripercorre il lungo cammino evolutivo dei natanti giungendo fino ai nostri giorni. Molto spazio è lasciato alle imbarcazioni “primitive” che però, proprio in virtù di progetti costruttivi tanto geniali quanto semplici ed essenziali, avevano raggiunto una loro “perfezione” insuperabile, rapportata ovviamente alle economie delle popolazioni che tali natanti impiegavano, pienamente soddisfacenti alle loro esigenze di spostamento, di carico, di pesca, di status. Delle canoe Durrans, nel dettaglio, fornisce terminologie e descrizioni costruttive riguardanti la laka, la oru, la ngalawa, il dhow, il battelé-doni, il kotia.

Confrontando fonti soprattutto iconografiche, bassorilievi, affreschi, pitture vascolari Durrans, assieme a Fairbridge, documenta inoltre il lungo percorso delle piroghe, da quelle di area mesopotamica ed egizia, alle fenicie, etrusche e romane da cui presero forma navigli via via più complessi, di assai maggior tonnellaggio, prime vere e proprie navi con funzioni onerarie, militari, sacrali e simboliche [Fairbridge, Durrans 1982, 1-32].

[17] Van Loon è ulteriore riprova di una editoria italiana alla ricerca di opere sul mare che individua soprattutto all’estero, saggi da tradurre e proporre al lettore italiano. Come si è visto e si vedrà ancora nelle pagine successive, si prediligono sovente tematiche di grande respiro accanto ad altre di natura più specificamente monografica dedicate ad ardite imprese nautiche e perigliosi viaggi via mare. Di Van Loon, ad esempio, in tempi assai recenti, si è riproposta una sua conosciuta storia della navigazione pubblicata la prima volta nel 1935 [van Loon 2013].

[18] Tale viaggio era stato compiuto anche sulla scorta di un mito fondativo secondo il quale i polinesiani «asserivano d’essere […] i discendenti diretti dei capi, ch’erano dèi bianchi come […] Tangaroa, Kane e Tiki. Le leggende intorno ai misteriosi uomini bianchi, da cui questi isolani affermavano discendere, erano diffuse nell’intera Polinesia. […] Erano giunti attraverso il mare da un paese montagnoso d’oriente, arso dal sole: da dove se non dal Perù abitato, prima degli Inca, dalla misteriosa razza bianca? Del resto nel Perù affioravano tracce sorprendenti di natura culturale, mitologica e linguistica, che mi spingevano a sondare sempre più a fondo per levarmi ogni dubbio sul luogo d’origine del padre della schiatta polinesiana, Tiki. E trovai ciò che cercavo. Un giorno me ne stavo seduto a leggere le saghe degli Inca intorno al Dio del Sole, Virakocha, che nel Perù era stato il condottiero della gente bianca scomparsa. […]. Il nome di Virakocha viene dal ketchua, la lingua degli Inca; è pertanto di origine recente. Il nome originale del Dio del Sole, Virakocha, usato probabilmente negli antichi tempi del Perù, era Kon-Tiki oppure Illa-Tiki, cioè Tiki del Sole. […] Secondo le leggende degli Inca, Kon-Tiki fu il pontefice sommo e il re sole degli uomini bianchi, che hanno lasciato i ruderi immani del lago Titicaca. La leggenda racconta che Kon-Tiki fu attaccato da un capo di nome Carlo, venuto da Coquimbotal. In un combattimento su un’isola del lago Titicaca i bianchi misteriosi e barbuti furono trucidati, mentre Kon-Tiki e i suoi più intimi seguaci sfuggirono e raggiunsero la costa, donde infine attraverso il mare, scomparvero verso occidente» [Heyerdhal 1952, 19-20]. Sulla base di ulteriori “evidenze” storiche e archeologiche lo studioso norvegese si imbarcò, è il caso di dirlo, nel tentativo, riuscito, di muovere dal Perù per raggiungere la Polinesia.

[19] Nell’isola di Pasqua accadde un episodio che involontariamente confermò le teorizzate grandi capacità marinare della gente di questa sperduta isola e di altri arcipelaghi sparsi sull’oceano. «La notizia che la zattera Kon-Tiki era passata presso l’isola di Pasqua e, navigando oltre, era giunta fino alle isole del Sud Pacifico, aveva molto interessato gli indigeni. Se i loro antenati avevano vissuto simili avventure, perché dovevano essere da meno? Non si trovava legname per la costruzione di una zattera su quell’isola quasi nuda d’alberi, ma alcuni uomini avevano messo insieme una piccola barca aperta, fatta di assi, e si erano avventurati in alto mare per pescare. La corrente li aveva spinti lontano dall’isola. Cinque settimane più tardi, dopo aver involontariamente seguito la stessa rotta del Kon-Tiki, erano sbarcati, affamati ed esausti, su di un atollo del gruppo delle Tuamotu, da dove avevano potuto raggiungere Haiti». Un po’ per incoscienza, un po’ per emulazione, quegli uomini avevano ribadito a sé stessi e, dunque, anche a Heyerdhal, che, sì, “si poteva fare”, che era possibile anche a intrepidi naviganti e minuscoli natanti coprire tratti di mare aperto inusitati. Saputa la cosa, sempre salpando dall’isola di Pasqua, «altri indigeni si erano fabbricati una specie di zattera, dicendo di voler uscire a pescare, ma il governatore, trovando la zattera carica di bidoni d’acqua, aveva mangiato la foglia. Ritenendo pericoloso lasciarli partire, […] aveva ordinato che la zattera venisse tirata a secco, e siccome gli indigeni si erano egualmente provati a fuggire, era stato costretto a mettere un indigeno armato di guardia» [Heyerdhal 1963, 51-52].

[20] Fin dove possibile lo studioso norvegese “ricalca” non solo le tecniche di carpenterie antiche riusandole nell’impostazione della zattera, ma cerca parimenti di fare la stessa cosa, una volta in navigazione, con il “punto nave”, benché supportato, alla bisogna, da un sestante custodito nella “cabina”, nella “capanna” al cui interno l’equipaggio del Kon-Tiki si ritirava per mangiare e riposare. «Il timoniere poteva sedere tranquillamente nell’apertura della capanna a spiare le stelle. Quando queste mutavano posizione nel cielo, era tempo di alzarsi e verificare se il vento o il timone si fossero spostati. Era incredibilmente facile stabilire la rotta secondo le stesse, dopo aver veduto per alcune settimane girare la volta celeste. […] Ben presto apprendemmo dove notte per notte potevamo trovare le singole costellazioni. Quando s’andava verso l’Equatore, l’Orsa Maggiore si alzava tanto sull’orizzonte, al Nord, da farci temere che intravvedessimo la Stella Polare; questa infatti appare quando, venendo da sud, si taglia l’Equatore. L’Orsa Maggiore però compariva appena cominciava il passat di Nord-Est» [Heyerdhal 1952, 201].

[21] Avendo appena evocato la figura di Heyerdhal menzioniamo dei classici e ben noti settimanali italiani che, anche a più riprese, si occuparono del navigatore norvegese. È il caso della Domenica del Corriere, anno 74, n°26 del 27 giugno 1972 che pubblica un pezzo dal titolo Thor Heyerdhal è andato a Stoccolma a dire che l'oceano sta morendo, di Epoca che si occupa dello studioso nell’uscita del 31 luglio 1960, anno XI, n° 513, con l’articolo Il paradiso del navigatore. Thor Heyerdhal ha preferito la riviera alla Polinesia, e in un successivo numero del 2/8 settembre 1970, anno XXI, n°1036 con il nutrito speciale Esclusiva. 16 pagine a colori sull’avventura della barca di papiro.

[22] Sarra, chiamato «l’amico degli squali», colui che amava dire che non si sarebbe meravigliato di trovare un pescecane in una vigna, in ciò alludendo a un habitat pressoché illimitato di questi condroitti, durante una battuta di pesca subacquea al largo del Circeo il 2 settembre 1962, benché avvisato dalla barca appoggio che nei paraggi si aggirava uno squalo di cui era stata vista la pinna dorsale emergere dalla superficie, decise di continuare nella battuta di pesca che divenne per lui fatale. Lo squalo lo azzannò a una gamba in più punti provocandone la morte per shock e dissanguamento.

[23] Verrebbe da supporre che codeste apprezzabili latitudini “mentali” siano riverbero della forma mentis di coloro che andando per mare possono, teoricamente, volgere lo sguardo in ogni direzione, senza paletti che ne preordino l’andare. Va altresì detto che gli autori di cui qui ci occupiamo, più vicini a noi nel tempo, beneficiano di una temperie nella quale le azioni in difesa dei popoli autoctoni e tradizionali come pure le istanze ecologiste stanno diffondendosi nell’opinione pubblica. Risale ad esempio al 1972 la pubblicazione degli otto principi su cui si basa la deep ecology del filosofo e alpinista norvegese Arne Dekke Eide Næss anche lui, guarda caso, figura eclettica, che critica la prospettiva antropocentrica quale causa determinante del degrado ambientale. La deep ecology godrà di una eco mondiale alla quale guarderanno con interesse diversi movimenti ecologisti.

[24] Quilici subì pure il fascino conturbante di altre infinite distese come quelle dei grandi deserti del mondo che personalmente “navigò” traendone abbondante materia per un volume edito nel 1968 dedicato soprattutto all’Africa sahariana.

[25] Quilici studiò regia presso il Centro sperimentale di cinematografia a Roma e divenne giornalista pubblicista nel 1963.

[26] Va correttamente segnalato che questa spedizione nelle isole Dalhack fu parimenti caratterizzata da cospicui esiti scientifici. Furono raccolti «pesci di interesse scientifico per 4.000 chili, e […] trecento […] conservati sotto formalina, alcool o essiccati. Inoltre: 300 specie di molluschi, 30 di echinodermi, 40 di celenterati, ecc. In complesso […] 700 campioni diversi, tra cui numerosi sono gli esemplari di animali marini o del tutto sconosciuti o inesistenti presso Musei, o infine mai segnalati sino ad oggi nel Mar Rosso. Quanto a Folco Quilici e ai suoi compagni del gruppo cinematografico, i metri di pellicola girati sono stati 70 mila e le fotografie eseguite 4.000» [Napolitano 1954, VIII-IX].

[27] Già la foto di copertina, efficacemente, richiama le strette relazioni tra l’uomo e il mare mediante il primo piano delle mani di un pescatore di colore sulla sua imbarcazione, che stringono la ralinga della base di una vela sullo sfondo di un cielo azzurro e del mare sottostante.

[28] «C’è nessuno a Ranghiroa che sappia narrarmi antichi vostri racconti di mare? Interrogativo ingenuo; l’avevo posto un giorno, quando ero da poco sbarcato sull’isola e non avevo avuto risposta; ingenuo perché dovevo sapere che a porla così, quella domanda, s’ottiene sempre un no» [Quilici 1976, 12].

[29] L’opera intera è letteralmente attraversata dai richiami a questo o quel rituale, osservato dall’autore in Polinesia, in India, in America Latina, lungo le coste dell’Africa, nel Mediterraneo; si va dal rito del taglio della tromba marina, alle forme di devozione marinara per San Nicola e per la Madonna dell’Arco nel cui santuario sono custoditi moltissimi ex voto pittorici marinari; si descrive il culto della dea-sirena Yemanya a San Salvador di Bahia e gli aspetti marini e marinari del condomblé; si scrive dei miti di fondazione presso i polinesiani e i Tan-kia, i nomadi del mare di Canton, e della facoltà degli sciamani delle isole Gilbert di attirare a riva focene e altri cetacei perché le popolazioni di quei luoghi possano cibarsene nei periodi di carestia. Questi sono solo alcuni esempi di un descrittivismo etnografico profuso a piene mani nel volume.