Da fronti di crisi virali, ambientali, magico-religiosi e di genere, odierni e trascorsi

Editoriale n. 1 - 2020

Alberto Baldi

Università degli Studi di Napoli Federico II

Eugenio Zito

Università degli Studi di Napoli Federico II

Come di consueto, presentiamo qui sinteticamente i saggi ospitati nel numero 1, anno 2020, di EtnoAntropologia, frutto di un’impegnativa selezione. In questi ultimi tempi la rivista sta ricevendo una quantità sensibilmente crescente di proposte, che già ora stanno quasi saturando anche le due successive uscite. Si è quindi intensificato il lavoro redazionale e quello dei colleghi che con grande spirito di collaborazione hanno accettato di effettuare, in forma rigorosamente anonima, la revisione dei contributi giunti fino ad ora. Grazie a questo prezioso lavoro di filtro, che spesso non si esaurisce nella compilazione della scheda di referaggio, ma pure nella restituzione del testo con la puntuale segnalazione degli interventi di volta in volta suggeriti per migliorare gli scritti, abbiamo consigliato i diversi autori di concedersi più tempo per ristrutturare i loro contributi da ripresentare eventualmente nelle prossime uscite.

La rivista sta inoltre ricevendo diverse proposte di sezioni monografiche che stiamo, appunto, distendendo e distribuendo nei successivi numeri, ma non in questo, dato il già considerevole pondus della sola miscellanea.

I saggi che compaiono in questa uscita sono in buona parte accomunati da significative etnografie e dal ricorso a congrue fonti bibliografiche e iconografiche.

Certuni intervengono su problematiche della contemporaneità, da quelle innescate dalla pandemia di Covid-19, a quelle relative all’analisi delle componenti sociali e culturali della malattia cronica, fino a quelle di ambito migratorio come xenofobia e islamofobia.

Nel primo semestre del 2020 il mondo intero è stato infatti scosso dalla pandemia di Covid-19 che ha mobilitato virologi, biologi, epidemiologi ed altri scienziati di tutto il mondo. Nel suo saggio, frutto di una ricerca condotta attraverso la consultazione di un ampio e variegato apparato documentario, Enzo Vinicio Alliegro propone un’originale lettura antropologica che si concentra specificamente sui mesi iniziali della pandemia (gennaio-febbraio 2020). Tale scelta consente di denaturalizzare la comparsa del virus e di cogliere quegli aspetti socio-politici che ne hanno governato l’emersione, da collocare tra dispositivi politici di disvelamento dell’anomalo e modelli culturali di controllo dell’ordine. Nella parte iniziale del contributo l’autore propone una decostruzione critica del processo di caratterizzazione biomolecolare che ha condotto prima all’individuazione di un nuovo coronavirus, poi alla sua soggettivazione. Successivamente, dopo aver analizzato la lettura virologica del processo di zoonosi, con relativi risvolti identitari ed ecologici, viene considerato l’operato delle organizzazioni internazionali governative che hanno fissato i criteri di decodifica e di azione. Nucleo centrale del lavoro è il caso italiano e in particolare il rapporto tra potere politico, scientifico e organismi sovra-statali, nonché la disamina dell’incertezza cognitiva e delle politiche di governance sanitaria adottate per identificare il virus e quelle per prevenirne la diffusione, in un clima prima rassicurazionista, poi allarmista. Alcune considerazioni generali sul carattere storico-culturale dei concetti di normalità e di disordine, di crisi e di superamento, basati su dispositivi etno-strabici di focalizzazione selettiva, concludono l’articolo, insieme a una proposta di definizione bio-semiotica del virus che verte su pervasivi effetti simbolici.

A partire dalla prospettiva critica dell’antropologia medica Eugenio Zito discute poi di alcune questioni culturali e sociali legate all’esperienza di diventare diabetici in Marocco, con un’attenzione particolare all’impatto che credenze e pratiche religiose hanno sulla rappresentazione di questa malattia cronica così diffusa in tale contesto e sui suoi processi di cura. Si mira così a capire in che modo la cultura, con particolare riferimento alle credenze religiose e al loro effetto su stili di vita e gestione della malattia in questo Paese islamico, entri nel quotidiano delle persone diabetiche, ponendo diversi problemi ai diabetologi che se ne prendono cura secondo il modello biomedico e ad esse stesse che vivono profondi dilemmi in merito ai corretti comportamenti da assumere, ricorrendo anche a forme di medicina tradizionale. Dopo una breve analisi del pluralismo medico e delle determinanti socio-culturali, economiche e politiche della salute in Marocco, l’autore riporta una parte della sua esperienza di ricerca etnografica, tutt’ora in corso, svolta in un reparto per la cura del diabete in un ospedale della città di Marrakech, concentrandosi sulla storia di malattia di un uomo diabetico di mezza età. La sua significativa narrazione relativa al problematico itinerario terapeutico attraversato, raccolta nella cornice dell’osservazione partecipante in contesto sanitario, offre, insieme con il punto di vista dei diabetologi, diversi spunti di riflessione in merito al complesso rapporto tra malattia cronica e rappresentazioni e modelli esplicativi locali, Islam, medicina tradizionale e biomedicina, credenze e pratiche quotidiane, cultura e società in Marocco.

L’articolo di Milena Greco riflette invece su un altro aspetto della contemporaneità, quello delle retoriche connessa al neo-razzismo e all’islamofobia in contesti migratori, con specifico riferimento a soggettività femminili e nasce da una ricerca avviata nel corso del 2018, ripresa poi, in una prospettiva longitudinale, nel gennaio del 2020. In esso si approfondiscono, in particolare, le esperienze e la percezione di forme di razzismo e pregiudizio verso rifugiate e richiedenti asilo di origine somala, residenti nel contesto urbano della città di Napoli. Donne di questa nazionalità, infatti, possono essere bersaglio di diversi stereotipi o discriminazioni, che si esplicano nel loro vissuto quotidiano, per questioni legate all’identità di genere, all’origine africana, perché di religione musulmana e infine, quali richiedenti asilo e rifugiate, anche in relazione ai più recenti provvedimenti normativi. La ricerca ha previsto attività di osservazione partecipante presso l’Associazione Comunità Somala in Italia, assieme a interviste tematiche rivolte, quali informatrici privilegiate, a mediatrici interculturali di origine somala e alle presidenti delle associazioni, ma anche interviste in profondità con rifugiate e richiedenti asilo, mettendo a confronto i punti di vista delle donne che risiedono da più tempo sul territorio preso in considerazione e che hanno intrapreso percorsi di stabilizzazione e di integrazione e quelli di coloro che vi sono giunte solo più recentemente.

Sempre sullo sfondo di contesti migratori, ma in una prospettiva più storico-culturale, un ulteriore contributo, quello di Carmelo Russo, indaga sulla percezione che di sé maturarono quei siciliani che si trasferirono in Tunisia nel secolo scorso, specificamente tra Tunisi e Hammamet, valutandone poi le trasformazioni da una generazione all’altra, grazie a un corposo numero di soggetti intervistati in età comprese tra i venticinque e i novanta anni. Dall’analisi delle rappresentazioni dei siciliani emerge come sfondo della loro vita quotidiana una Tunisia plurale in termini di nazionalità, religioni, componenti sociali, anche se venata da uno squilibrio di potere, prima il protettorato francese, poi lo stato indipendente dal 1956. Viene evidenziato come le dinamiche della separazione e del mescolamento abbiano caratterizzato in modo ambiguo le relazioni sociali dei siciliani che, da un lato, tendevano a condividere le loro esperienze con i francesi, i tunisini e con gruppi di altre nazionalità, ma, dall’altro, stringevano intorno a se i confini di una sorta di “chiusura etnica”.

Altri scritti, in seno a una cornice latu sensu demologica, propongono altrettanti stimolanti argomenti.

In un'ottica comparativa che utilizza prospettive dell’antropologia urbana e delle rappresentazioni simboliche di matrice tradizionale e rurale Lia Giancristofaro presenta gli esiti di una ricerca etnografica condotta in una città di medie dimensioni dell’Italia centrale, Lanciano. Qui, lavorando sia nei quartieri di edilizia popolare che in quelli residenziali, ha potuto rilevare come soprattutto nei primi si vada articolando una ri-semantizzazione in chiave positivamente plastica delle forme di produzione domestica di alimenti e pietanze, ma pure di utensili di uso comune. A fronte di una generalizzata crisi economica, gli strati meno abbienti della popolazione mostrano capacità di adattamento che pescano nelle logiche di forme di produzione tradizionali, in un folklore locale che offre valide risposte per far tornare a quadrare i bilanci domestici. Sia nel quotidiano che nell’ambito di cerimonie centrate sull’ospitalità si innescano processi di gestione e manutenzione comunitaria degli spazi urbani, a cui si affianca il ritorno a una preparazione e a un confezionamento dei cibi di immediato consumo o da porre sotto conserva in ambito strettamente domestico. Chi vive nei quartieri di edilizia popolare mostra dunque, con evidente elasticità, di saper trovare nelle tradizioni locali le risposte al proprio sostentamento; così tali modelli di antica e rurale ascendenza si riaffermano in chiave positiva, concreta ed economicamente vantaggiosa, anziché meramente passatistica.

Ha ancora a che fare con il ruolo giocato da un côté tradizionale, ma in questo caso legato a una dimensione magico-religiosa, il saggio di Enzo Spera che propone alcune considerazioni sul culto sorto in una città campana, Cimitile, negli anni tra le due guerre mondiali. Il corpo di Giovanni Esposito, morto a diciotto anni, riesumato, appare sorprendentemente mummificato. Nasce così un culto locale del ragazzo, ribattezzato San Giovannino di Gesù. In una cultura tradizionalmente alla ricerca di rassicuranti e tangibili segni evidenti di una presenza divina, foriera di auspicati e impetrati interventi salvifici risolutivi di condizioni critiche e liminali, una serie di pratiche devozionali popolari diventano comuni e condivise in seno a comunità definite e, nello specifico, toccate da una presenza ritenuta miracolosa. Siamo al cospetto di forme di religiosità popolare che rivendicano una loro specifica eziologia e una loro autonomia rituale ed espressiva codificata. Il culto di San Giovannino di Gesù e di altre figure taumaturgiche esemplari, su cui si era già soffermata Annabella Rossi, risultano utili per cogliere le procedure antropologiche che conducono all’edificazione di forme cultuali locali con il relativo specifico corredo di stereotipie culturali, sociali, psicologiche a partire, come ricorda l’autore, da una «semplice inventio mitica individuale», innescata da un locus e da un focus strettamente familiare di cui, poco alla volta, tutta la comunità intende beneficiare.

Italia degli anni Sessanta del Novecento, boom economico, incentivazione e diversificazione dei consumi, nonché ferie estive e agostane, per avere il tempo libero da destinare alla fruizione di un nuovo “bene”, il mare. In questa cornice la dimensione equorea diviene variegatissimo e artificioso habitat da reinventare a uso del bagnante che ora, incoraggiato da un’industria specializzatasi nella produzione di molteplici e sorprendenti gadget marinari, si fa comandante, capitano, sommozzatore, velista, surfista, motoscafista, pescatore e fotografo subacqueo. Alberto Baldi analizza in qual modo un’editoria di assai vario genere, ma sempre e comunque “ancorata” al mare; al mare si rivolge con settimanali, mensili, volumi, manuali, enciclopedie e pure con una più approfondita saggistica a cui demandare il compito di offrire un’intrigante e variegata vulgata della superficie e delle profondità marine. Nascono figure complesse di divulgatori, giornalisti, navigatori, esploratori, fotografi, documentaristi, biologi che poco alla volta maturano un interesse anche per le popolazioni rivierasche e alieutiche che, da mero sfondo alle loro imprese prestazionali e scientifiche narrate in libri e periodici, divengono specifico oggetto di studio di questi multiformi ed eclettici testimoni e raccontatori. Mentre l’antropologia nicchia, non si mostra in grado di maturare uno specifico, ampiamente condiviso e duraturo interesse per la gente di mare, pur con le dovute, significative ma rapsodiche eccezioni, questi divulgatori si assumono il compito, talora inconsapevolmente, di avviare una lettura etnografica e antropologica della dimensione umana e culturale marinara. Non si tratta di un approccio propriamente scientifico, anch’esso peraltro discontinuo, ma, ad ogni buon conto, produttore di conoscenze apprezzabili e attendibili, perché talora addirittura “irrorate” da una visione che assume le prospettive del demartiniano etnocentrismo critico prima di “calarsi” sul terreno.

In linea con gli spazi dedicati in precedenti numeri alle antropologie dell’Est, ad autori e orientamenti di ricerca russi e ucraini, anche in occasione dell’uscita di questo numero della rivista abbiamo un contributo proveniente da tale area, quello di Oksana Hodovanska dell’Istituto di Etnologia dell’Accademia Nazionale delle Scienze dell’Ucraina, dedicato al tema del tempo libero in epoca sovietica. Nonostante il notevole interesse delle discipline umanistiche ucraine per lo studio della vita quotidiana nel periodo sovietico non esistono ad oggi lavori che indaghino la questione specifica del tempo libero. A cavallo tra gli anni 1950-1960 del ХX secolo, la nozione di tempo libero – l’idea che i cittadini sovietici dispongano di una propria risorsa di tempo non speso in lavoro socialmente utile o in attività quotidiane di varia natura – ottiene un riconoscimento ufficiale come dimostrano politiche e relativi documenti. In particolare, sulla base delle narrazioni storiche orali di ex insegnanti di scuola, nel testo viene analizzato il loro tempo libero, nella seconda parte del ХХ secolo nei villaggi di Halychyna, fatto di letture di libri, giornali e così via, mostrando le differenze tra contesti urbani e rurali. In definitiva si evidenzia come la sfera del tempo libero nell’era sovietica sia stata trasformata in un oggetto di politiche culturali e in una questione di controllo da parte dello stato e degli organi dell’autorità del partito.