Violenza ostetrica. Le potenzialità politico-formative di un concetto innovativo

Patrizia Quattrocchi

Università degli Studi di Udine

Indice

Violenza ostetrica: di che si tratta?
Il progetto di ricerca: obiettivi e risultati
Le potenzialità politico-formative del concetto di violenza ostetrica. Un’occasione mancata?
Riferimenti bibliografici

Abstract.  In Latin America, over the past decade, the term “obstetric violence” has become part of the legal framework. Specific laws against obstetric violence–gender-based violence and the violation of human rights – exist in Venezuela, Argentina, Mexico, Brazil and Uruguay. In the European countries a political, social and medical debate on the matter is still weak. In this article, I focus on the political and formative potential of this novel concept, according to the results of the anthropological research project “Obstetric Violence”. The new goal for research, policies and human rights on childbirth”.

Keywords: Obstetric violence; childbirth; gender violence; reproductive rights; midwifery.

Violenza ostetrica: di che si tratta?

L’obiettivo di questo articolo è presentare i risultati della ricerca antropologica “Obstetric violence. The new goals for research, policies and human rights in childbirth” (acronimo OBSTETRICVIOLENCE), finanziato dal programma europeo Marie Curie per il biennio 2016-2018. Il progetto, di cui sono stata principal investigator, ha visto impegnate tre istituzioni: l’ente beneficiario Università degli Studi di Udine, l’Universidad Nacional de Lanús in Argentina, presso il cui Instituto de Salud Colectiva ho svolto un soggiorno accademico da ottobre 2016 a settembre 2017 e il World Health Organization Collaborating Centre for Maternal and Child Health di Trieste, con il quale ho collaborato tra maggio e luglio del 2018, con il fine condividere e retroalimentare il mio lavoro.[1]

L’ obiettivo generale del progetto è stato trasferire nei paesi europei – in termini conoscitivi – le esperienze implementate in America Latina per riconoscere e prevenire la “violenza ostetrica”. Si tratta di un concetto sviluppatosi proprio in quel continente, grazie ad un ampio dibattito politico e sociale iniziato alla fine degli anni ‘90 e che ha condotto alcuni paesi (Venezuela, Argentina, Mexico, Uruguay e Brasile) a definire legalmente tale tipo di violenza.

Il progetto nasce in continuità con la mia esperienza di ricerca ormai ventennale sul parto e la nascita, di cui mi sono occupata in diversi paesi europei ed extraeuropei. Una traiettoria che è iniziata nel 1998 in Honduras, dove ho analizzato i saperi e le pratiche delle levatrici indigene lenca [Quattrocchi 2018a]; e che è proseguita tra il 2000-2009 in Messico, durante una decada di lavoro con le levatrici e le donne maya dello Stato dello Yucatan [Quattrocchi 2011]. Il rientro in Italia, nel 2010, mi ha offerto l’occasione di comparare la pluralità di modelli assistenziali che avevo incontrato in America Centrale con la presenza (fino a che punto realmente accessibile?) anche nel contesto europeo di diversi modi di partorire. In particolare, tra il 2010 e il 2015 mi sono occupata di una ricerca sul parto non ospedaliero – ossia a domicilio e in Casa Maternità – in Italia, Spagna e Paesi Bassi [Quattrocchi 2018b].[2]

Il filo rosso che unisce queste esperienze è, da una parte, l’interesse per i meccanismi politici, economici, sociali e culturali che producono e legittimano la crescente medicalizzazione della gravidanza, del parto e della nascita, trasformando eventi per lo più fisiologici in eventi medici e tecnocratici [Oakley 1985, Martin 1987, Davis-Floyd 1992, Jordan 1993, Lindebaum, Lock 1993, Ginsburg, Rayna 1995, Frankling, Ragoné 1998, Pizzini 1999, Ranisio 2000, DeVries, Van Teijlingen, Wrede et al. 2001, Duden 2006, David-Floyd, Davis, Tritten 2010, Maffi 2010, Blasquez Rodriguz 2010, Browner, Sargent 2011, Mc Court 2011, Beruzi, Hatem, Goulet et al. 2013]. Dall’altra, la volontà di comprendere le risposte locali e le modalità di “resistenza” che i diversi attori sociali (le donne, i professionisti della salute, le istituzioni, secondo i contesti) elaborano nei confronti dell’approccio sempre più interventista nel parto e nella nascita, da tempo denunciato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità [WHO 1985, 1996, 2015].

In questo percorso, tra il 2013 e il 2014 ho incontrato il concetto di “violenza ostetrica”. A menzionarlo è stata un’ostetrica spagnola, durante una nostra intervista in Catalogna. Mentre comparava l’assistenza a domicilio con l’assistenza generalmente offerta negli ospedali pubblici locali, la professionista affermò che in questi ultimi la “violenza ostetrica era molto presente”; aggiunse che in Spagna non esisteva una legge che definiva quel tipo di violenza, come avveniva in alcuni paesi dell’America Latina. Il concetto mi incuriosì subito, per la sua complessità ontologica, la forza comunicativa e l’immediata trasposizione alla realtà che conoscevo: alcune delle situazioni di cui ero stata testimone negli anni (attraverso l’osservazione personale o le narrazioni ascoltate) potevano essere chiaramente ricondotte a ciò che la mia interlocutrice descriveva come atti di “violenza ostetrica”. Dalla nostra conversazione, che proseguì contemplando anche quella tematica inattesa, appresi che in America Latina tale questione era oggetto di forte dibattito, soprattutto tra i movimenti sociali di matrice femminista e che vi erano diversi paesi che avevano legiferato in materia, come il Venezuela, l’Argentina e il Messico (cui seguiranno nel 2017 lo Stato di Santa Catarina in Brasile e l’Uruguay).

È stato proprio il Venezuela il primo paese al mondo a definire legalmente la violenza ostetrica, nella Ley Orgánica sobre el Derecho de las Mujeres a una Vida Libre de Violencia, emanata nel 2007. La definizione, entrata nel dibattito medico-scientifico in seguito alla pubblicazione dell’articolo “Obstetric violence: A new legal term introduced in Venezuela” sulla prestigiosa rivista International Journal of Gynaecology and Obstetrics [D’Gregorio 2010] recita:

«La violenza ostetrica è l’appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte del personale sanitario, che si esprime in un trattamento disumano, nell’abuso di medicalizzazione e nella patologizzazione dei processi naturali, avendo come conseguenza la perdita di autonomia e della capacità di decidere liberamente del proprio corpo e della propria sessualità, impattando negativamente sulla qualità della vita della donna» [República Bolivariana de Venezuela 2007, 7].

Sono atti di violenza ostetrica, secondo l’articolo 51 della legge, offrire un’assistenza non opportuna e non efficace nelle emergenze ostetriche, obbligare la donna alla posizione supina o all’utilizzo di staffe quando è possibile il parto verticale; impedire l’unione precoce mamma-bambino e/o l’allattamento precoce senza motivazione medica; impedire la presenza di un accompagnatore; e – in generale – alterare il processo naturale (accelerazione, induzione, episiotomia, cesareo) di un parto a basso rischio senza indicazione medica e/o senza consenso della donna”.

Verrebbe da chiedersi cosa significhi “alterazione” di un processo fisiologico e in base a quali parametri identificare tale processo. In estrema sintesi, significa trattare una donna incinta solitamente sana (essendo le gravidanze fisiologiche più dell’80% dei casi) come se fosse una “paziente” e il parto e la gravidanza come se fossero delle “malattie”. Dimenticare, cioè, che gravidanza, parto, puerperio e allattamento sono processi fisiologici complessi che riguardano la “normalità” della vita degli esseri umani e non l’eccezionalità a cui rimanda invece la patologia. Si tratta di processi universali – individuali e collettivi allo stesso tempo – sempre interpretati dalle culture, come dimostra l’ampia etnografia a disposizione sui diversi modi di partorire e di nascere nelle differenti culture [Mc Cormack 1982, Artschwager Kay 1982, Jordan 1993, Lindebaum, Lock 1993, Selin, Stone 2009]. Processi multidimensionali: biopsicosociali, culturali ed esistenziali allo stesso tempo; in altre parole di “eventi elementali” [Augé 1986], fondanti per l’individuo e per le società e ontologicamente complessi. Impossibili, pertanto, da ridurre ad “eventi o fatti medici”, prodotti da un “corpo gravido” potenzialmente sempre a rischio e riconducibili a un unico ordine di senso, quello che rimanda a cornice medicalizzata [Conrad 1997].

In gravidanza, “alterare” significa indicare come “obbligatori” ed “essenziali” esami che non lo sono: per esempio effettuare un numero maggiore di ecografie superiori rispetto a quelle raccomandate dalle linee guida internazionali e nazionali (2 o 3 ecografie, secondo i paesi).

L’ecografia mensile, offerta come parte della visita routinaria nella maggioranza degli studi ginecologici privati, non è indicata dalle evidenze scientifiche internazionali come appropriata; ciò nonostante rappresenta per molte donne la “normalità”, legittimata da un agire professionale che non prevede la messa in discussione delle proprie pratiche (Lock, Gordon 1988).

Durante il parto, significa intervenire in maniera routinaria, proprio nel momento in cui la donna e il suo partner dovrebbero godere della gioia della nascita di una nuova vita, lasciandosi andare – indisturbati – a un processo biochimico e psicoemozionale che la maggioranza delle volte si sviluppa in maniera autonoma. Al contrario, si utilizza troppo spesso ossitocina sintetica in sostituzione dell’ossitocina naturale prodotta dalla donna; si scoraggia la posizione libera durante il travaglio e il parto o addirittura si obbliga le donne alla posizione litotomica; si utilizza il tococardiografo in maniera continua, limitando anche in questo modo i movimenti della donna. Eppure le evidenze scientifiche ci mostrano che il canale del parto si apre almeno il 30% in più quando siamo in piedi o accovacciate, che il monitoraggio continuo non è consigliato in maniera standardizzata, che alcune manovre ancora troppo diffuse (come la manovra di Kristeller) dovrebbero essere eliminate; che pratiche chirurgiche come l’episiotomia o il cesareo dovrebbero essere utilizzate solo in caso di necessità [OMS 1996; 2015].

Alterare il processo fisiologico significa anche rendere la madre meno sicura di sé stessa e delle proprie potenzialità, e sempre più dipendente dall’istituzione medica.

I modi attraverso cui si insinuano paure e insicurezze che portano le donne a non ritenere il proprio corpo e il proprio sapere sufficienti o adeguati a prendersi cura del proprio bambino sono a volte sottili, a volte terribilmente espliciti e hanno a che fare con l’autorevolezza della biomedicina, ben analizzata negli studi antropologici sul parto e la nascita [Katz Rothman 1986, Davis-Floyd, Sargent, 1997, Lock, Kaufert 1998, Lock, Farquahar 2007, Davis-Floyd 2010, Chadwick, Foster 2014]

L’interventismo innecessario – diventato identificatore del processo di eccessiva medicalizzazione cui siamo giunti nel parto ospedalizzato – provoca sofferenza, di natura verbale, psicologica e/o fisica: una sofferenza dalla quale nessuno è esente: né il neonato, sottoposto a pratiche inutili nelle prime ore di vita, quando avrebbe solo bisogno di stare accanto alle madre; né le madri e ai padri che non si sentono rispettati nei loro bisogni e ascoltati nelle loro aspettative; né gli operatori sanitari, ostetriche in particolare, che soffrono anch’essi in quanto vorrebbero poter assistere in altro modo, ma si sentono spesso impossibilitati a farlo, costretti dai protocolli troppo rigidi, dalle consuetudini a-scientifiche e dalle gerarchie professionali [Olza 2014]. Si tratta di un processo storico-culturale e medico-ostetrico iniziato più di tre secoli fa e ben descritto da Filippini [2017] che se da un lato ha permesso di intervenire in maniera efficace in ambiti e circostanze di rischio ed emergenza, dall’altro ha prodotto una costruzione sociale del parto e della gravidanza quali eventi “naturalmente” medicalizzati: come se fosse normale dover rivolgersi a un medico (il ginecologo) quando si è incinte e come se l’unico luogo adeguato per partorire debba essere un unico luogo di cura: l’ospedale appunto.

Non entrerò nel merito dei rapporti tra biomedicina e saperi altri (tra cui quelli femminili) in merito al parto e alla nascita; ne ho parlato ampiamente altrove [Quattrocchi 2018b]. Ciò che intendo sottolineare in questa sede è che il complesso dialogo tra differenti visioni e prospettive costituisce lo sfondo su cui si innesta il progetto OBSTETRICVIOLENCE, che prende vita – come già accaduto nei miei precedenti percorsi di ricerca – dalla preoccupazione per l’eccessiva medicalizzazione dei processi riproduttivi e dalla ricerca di strategie per contenerla.

Il progetto di ricerca: obiettivi e risultati

Il progetto OBSTETRICVIOLENCE prende avvio nel 2016 e mi conduce nuovamente in America Latina: in Argentina, uno dei 5 paesi al mondo ad aver definito la violenza ostetrica in una legge dello Stato. Un “caso” che ho deciso di analizzare, attraverso la lente antropologica e la metodologia etnografica. L’ obiettivo che mi sono posta è di trasferire nei paesi europei – in termini conoscitivi – le esperienze implementate in America Latina per riconoscere e prevenire la violenza ostetrica.

Il fine è stato quello di fornire ai decisori politici e ai formatori di area sanitaria strumenti teorici e metodologici innovativi con cui ripensare la qualità dei servizi di assistenza al parto ed evitare la medicalizzazione innecessaria.

Nel 2014 – anno in cui ho ideato il progetto – il termine “violenza ostetrica” è quasi del tutto assente nel dibattito pubblico e sociale europeo (per esempio, nei siti internet o nei social media). Nessun paese europeo ha emanato una legge che la menzioni e la letteratura sull’argomento è ancora limitata. Unica eccezione è la Spagna, dove il dibattito – seppur ancora debole – è iniziato grazie all’attività dell’organizzazione civile Elpartoesnuestro[Villarmea, Olza, Recio 2015], promotrice del primo Osservatorio sulla violenza ostetrica in Europa.[3]

Proprio nel 2014, però, l’Organizzazione Mondiale della Sanità emana la dichiarazione “La Prevenzione ed eliminazione dell’abuso e della mancanza di rispetto durante l’assistenza al parto presso le strutture ospedaliere” [OMS 2014], fornendo una cornice istituzionale e sovranazionale importante, dentro cui inserire il dibattito pubblico e specialistico che sta lentamente nascendo. Pur non utilizzando il termine “violenza ostetrica”– l’OMS elenca una serie di pratiche che rientrano chiaramente nelle definizioni legali nei diversi paesi latinoamericani. Sono definiti “trattamenti non rispettosi e abusanti”:

«L’abuso fisico diretto, la profonda umiliazione e l’abuso verbale, le procedure mediche coercitive o non acconsentite (inclusa la sterilizzazione, la mancanza di riservatezza, la carenza di un consenso realmente informato, il rifiuto di offrire un’adeguata terapia per il dolore, gravi violazioni della privacy, il rifiuto di ricezione nelle strutture ospedaliere, la trascuratezza nell’assistenza al parto con complicazioni altrimenti evitabili che mettono in pericolo la vita della donna, la detenzione delle donne e dei loro bambini nelle strutture dopo la nascita connessa all’impossibilità di pagare, la discriminazione verso vs. adolescenti, donne non sposate, in condizioni socio-economiche sfavorevoli, minoranze etniche, migranti e affette da l’Hiv [OMS 2014,1].»

L’ interrogativo principale del mio progetto di ricerca è se questo tipo di concetto possa essere utile anche nei paesi europei, al fine di avviare una riflessione critica sulle nostre politiche e pratiche assistenziali durante il parto e la nascita. Anche in Europa, infatti, e seppure con differenze importanti nei singoli paesi (in generale nei paesi nord-europei l’approccio è più fisiologico rispetto ai paesi del Sud Europa), il percorso nascita è sempre più interventista: elevato tasso di tagli cesarei, di induzione/accelerazione del travaglio e del parto, di episiotomia – per citare solo alcuni indicatori – sono presenti nella maggioranza dei paesi, tra cui l’Italia e la Spagna, luoghi sui quali da tempo concentro il mio interesse [Europeristat 2018].

Con l’intento di rendere disponibile l’esperienza latinoamericana ai paesi europei, il progetto OBSTETRICVIOLENCE delinea quattro obiettivi specifici, i primi due perseguiti in America Latina nel primo anno di vita del progetto (2016-2017); i secondi due in Europa, nel secondo anno (2017-2018):

  1. Ricostruzione del processo storico, sociale e politico che ha portato al riconoscimento giuridico della violenza ostetrica nei paesi latinoamericani, in particolare in Argentina.

  2. Analisi dell’impatto che questo riconoscimento ha avuto/sta avendo sui servizi di assistenza alla nascita, in particolare nella formazione della futura generazione di professionisti della salute.

  3. Identificazione e trasferimento di buone prassi, strumenti, dispositivi, dell’esperienza argentina e latinoamericana, al fine di sostenere il processo di riconoscimento sociale e politico della violenza ostetrica nel contesto europeo, in particolare in Italia e in Spagna.

  4. Progettazione e implementazione di una Piattaforma sulla Violenza Ostetrica, quale strumento di conoscenza, consulenza e lavoro per i decisori politici e i responsabili della formazione del personale sanitario.

L’approccio teorico è interdisciplinare. La violenza ostetrica è un processo multicausale e multidimensionale, che non rimanda soltanto a questioni medico-ostetriche e all’organizzazione dei sistemi sanitari, ma che richiede uno sguardo più ampio. Nella costruzione del quadro teorico che guida il mio percorso di raccolta e interpretazione dei dati, ho accolto dunque quattro assi teorici: l’antropologia medica critica [Lock, Nguyen 2010, Singer, Erickson 2011, Singer, Baer 2018], che costituisce l’asse principale nella quale mi muovo da sempre; l'approccio della medicina sociale e della salute comunitaria, che si sviluppa in America Latina a partire dagli anni Sessanta [Spinelli 2004, Silva Paim 2000, Castro 2011] e che approfondisco durante il mio soggiorno di ricerca presso l’Instituto de Salud Colectiva della Universidad Nacional de Lanús; la prospettiva dei diritti umani e la prospettiva di genere applicata alla salute [Cook, Dickens, Fathalla 2003, Esteban, Comelles, Díez Montegui 2010].

La violenza ostetrica è infatti concepita nelle legislazioni esistenti come violenza di genere e violazione dei diritti umani alla salute [Belli 2013, Castro y Erviti 2015, Castrillo 2016] e dunque tali prospettive diventano prospettive fondanti anche nel mio lavoro.

La metodologia impiegata è qualitativa. Vengono utilizzati prevalentemente tecniche e strumenti propri del metodo etnografico (interviste semi-strutturate, interviste aperte, osservazione e osservazione partecipante, tenuta di un diario di campo) con il fine di ricostruire i significati impliciti ed espliciti dei processi in atto, secondo la prospettiva degli attori sociali [Hernández-Sampieri et al. 2006, Menéndez 2009].

Presenterò di seguito le attività svolte e i risultati raggiunti per ogni singolo obiettivo. Concluderò questo lavoro con una riflessione finale sulle potenzialità politico-formative emerse dall’analisi del concetto di violenza ostetrica, non solo dal punto di vista della sua definizione (non sempre univoca),

ma anche rispetto a come è stato concepito e utilizzato dai diversi attori sociali coinvolti, tra questi lo Stato, nel caso di politiche pubbliche riguardanti l’organizzazione dei servizi sanitari o la formazione dei professionisti della salute.

Obiettivo 1.  Ricostruzione del processo storico, sociale e politico che ha portato al riconoscimento giuridico della violenza ostetrica nei paesi latinoamericani, in particolare in Argentina.

Per raggiungere questo obiettivo ho effettuato 18 interviste semi-strutturate a persone che hanno avuto un ruolo durante il processo di riconoscimento politico e sociale della violenza ostetrica (attiviste, funzionari, politici, ecc.). Ho inoltre osservato o preso parte a 13 eventi che avevano per oggetto la violenza ostetrica (conferenze, dibattiti, incontri, seminari, workshops). Tali attività mi hanno permesso di analizzare in maniera critica la Ley Nacional nº 25.929 de Derechos de Padres e Hijos durante el Proceso de Nacimiento, conosciuta anche come Ley de Parto Humanizado, promulgata nel 2004 e regolamentata nel 2016;e la Ley integral de protección, para prevenir, sancionar y eradicar la Violencia contra la Mujer n° 26.485, conosciuta anche come Ley de Violencia de Género, nel cui articolo 6 si definisce la violenza ostetrica.

La ricostruzione del processo ha portato alla luce l’importante ruolo dei movimenti sociali di umanizzazione del parto e della nascita che si rafforzano in America Latina dopo il Congreso de Humanizacion de Parto y Nacimiento tenutosi a Fortaleza (Brasile) nell’anno 2000. In seguito a tale incontro, infatti, si costituisce la rete latinoamericana RELACAHUPAN- Red Latino Americana y del Caribe para la Humanización del Parto y Nacimiento, che poi si declinerà in reti nazionali in diversi paesi, tra cui l’Argentina. L’importanza dei movimenti civili, in particolare di movimenti di donne-madri che lottano affinché il proprio parto possa essere rispettato o affinché altre donne non subiscano esperienze negative emerge anche attualmente.

Durante il mio soggiorno a Buenos Aires, ho seguito in particolare il lavoro dell’Organizzazione civile argentina “Las Casildas”, che nel 2015 fonda il primo Osservatorio di Violenza Ostetrica dell’America Latina [Quattrocchi 2019]. Mi sono interessata, in particolare, alla valenza politica, socioculturale, transculturale e transdisciplinare di questo strumento e degli altri dispositivi generati da Las Casildas per rendere visibile la violenza ostetrica: tra questi uaal’opera teatrale Parir-NOS, in cui quattro attrici narrano quattro esperienze diverse di parto (dal cesareo al parto in casa) e invitano il pubblico a dibattere al termine della rappresentazione; e la realizzazione e diffusione del documentario “Parir”, che narra il percorso di tre donne incinte e del loro parto in tre strutture ospedaliere argentine.

Ho analizzato inoltre il caso dell’Ospedale pubblico Maternidad Estela de Carlotto, aperto nel 2013 nella cittadina di Moreno, a circa un’ora da Buenos Aires. L’approccio fisiologico dell’ospedale – in linea con la Ley Nacional de Parto Humanizado e del Programma Unicef-Maternidad Segura y centrada en la Familia – ha portato a risultati sorprendenti, in un paese in cui il taglio cesareo è del 30,6% nel settore pubblico e tra il 60 e 70 % nel privato [Ministerio de Salud de la Nación, Organización Panamericana de Salud 2015] e l’interventismo è prassi quotidiana [Chiarotti et al. 2008, Las Casildas 2015].

Nei circa 3000 parti assistiti fino al momento del mio soggiorno, il tasso di cesareo è stato inferiore al 14%[4], più del 93% delle donne ha potuto scegliere il proprio accompagnatore e il tasso di ossitocina utilizzato è stato del 1,6% [Maternidad Estela de Carlotto 2016].

Obiettivo 2.  Analisi dell’impatto che il riconoscimento politico-legale ha avuto sui servizi di assistenza alla nascita, in particolare nella formazione della futura generazione di professionisti della salute.

Per raggiungere il secondo obiettivo sono state realizzate 15 interviste semi-strutturate a formatori, direttori dei programmi di specializzazione post-laurea in Ginecologia e Ostetricia, docenti, accademici ed esperti di politiche formative. È stato inoltre preparato un questionario con 31 items riguardanti i contenuti della Ley de Parto Humanizado e della Ley de Prevención y Erradicación de la Violencia Contra las Mujeres che contempla la violenza ostetrica. L’obiettivo del questionario è stato di comprendere il grado di conoscenza della tematica e dei contenuti della legge da parte dei professionisti sanitari. I questionari sono stati somministrati a 70 specializzandi in Ginecologia e Ostetricia e Ostetricia e a 35 professionisti sanitari in 6 ospedali pubblici della città e della provincia di Buenos Aires (Hospitales Fernández, Alvarez, Piñero nella capitale; Hospital Evita di Lanús, Estela de Carlotto di Moreno, Hospital Nacional Posadas). I dati relativi al questionario sono stati processati con il software di ricerca qualitativa Spss-Statistical Package for Social Science. I risultati del lavoro sono in via di pubblicazione.

In questa fase, a giugno del 2017, sono nati anche il sito web dedicato al progetto (https://www.obstetricviolence-project.com) e la relativa pagina Facebook https://www.facebook.com/Violenza-Ostetrica-OBSTETRICVIOLENCE-project 245659555925500/, che in tempo reale hanno offerto aggiornamenti e materiali sulle attività in corso.

Obiettivo 3.  Identificazione e trasferimento di buone prassi, strumenti, dispositivi, dell’esperienza argentina e latinoamericana, al fine di sostenere un processo di riconoscimento sociale e politico della violenza ostetrica nel contesto europeo, in particolare nei paesi in cui l’intervento medico è ancora elevato, come in Italia e in Spagna.

Il lavoro di identificazione di buone prassi, strategie, dispositivi ed esperienze rilevanti si è svolto durante il secondo anno, in Italia. In particolare, si è evidenziato il ruolo dell’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica e le strategie comunicative o formative da utilizzare nei diversi contesti: con i professionisti sanitari, con i decisori politici e con un pubblico più ampio, composto anche da non specialisti. L’attività di “trasferimento” delle esperienze più significative analizzate in America Latina si è data in diversi modi, secondo le finalità e la tipologia di beneficiari.

Si sono utilizzati strumenti quali: conferenze e convegni, seminari e workshop, pubblicazioni scientifiche e divulgative (per esempio, riviste rivolte a un pubblico femminile), interviste pubblicate in siti internet riguardanti la maternità, newsletters e materiali pubblicati sul sito del progetto.

Con i professionisti della salute, il confronto su queste tematiche si è dato in diverse occasioni. Nel 2017, per esempio, sono stata invitata a presentare una relazione sulla violenza ostetrica all’evento “I trattamenti non necessari alla nascita”, organizzato dall’Ordine degli Ostetrici della città di Palermo. il tempo offertomi (sessanta minuti), la platea di professionisti in sala (molti medici ginecologi) e il dibattito successivo alla presentazione hanno confermato l’interesse per un concetto poco conosciuto nella sua genesi e nelle sue applicazioni in ambito formativo e assistenziale.

Nel mese di novembre dello stesso anno sono stata invita a svolgere una relazione sulla violenza ostetrica (anche in questo caso della durata di un’ora) nel Primer Seminario Internazionale Dialogo de Saberes, Puentes de Encuentro, Salud, Género, Sociedad y Cultura, tenutosi all’Università Autonoma di Madrid e organizzato in maniera congiunta dalle Facoltà di Antropologia e Medicina.[5] Anche in questo caso, il dialogo con le ostetriche, i medici e gli studenti di Medicina presenti in sala, ha rilevato l’interesse per questa tematica e la necessità di una formazione specifica, volta a una maggiore comprensione di un concetto ancora poco conosciuto.

Ho inoltre trattato il tema con le studentesse del Corso di Laurea in Ostetricia dell’Università di Trieste e di Udine, all’interno del modulo di antropologia culturale di cui sono titolare da alcuni anni; così come ne ho discusso durate altri eventi ai quali ho partecipato quale relatrice: per esempio durante un evento ECM-Educazione Continua in Medicina organizzato dal Collegio delle Ostetriche della provincia di Potenza per la giornata internazionale dell’Ostetrica e a un seminario internazionale organizzato dall’Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti ed il contrasto delle malattie della Povertà. [6]

Tra il mese di maggio e luglio del 2018 si è svolta la collaborazione con il Who-Collaborating Centre on Maternal and Child Health, con sede a Trieste. Il Centro è un’importante punto di riferimento e di validazione di strategie e buone prassi sulla salute riproduttiva a livello internazionale. La condivisione dei risultati del progetto con i referenti dell’Organizzazione e con i referenti dei vari ambiti (ginecologico, infermieristico, ostetrico) dell’IRCSS-Ospedale Infantile Burlo Garofolo che lo ospita ha permesso di affinare la proposta formativa diretta ai diversi professionisti della salute e i contenuti della Piattaforma sulla Violenza Ostetrica.

Altre attività di divulgazione (conferenze pubbliche e workshops) sono state rivolte a un pubblico più ampio. Tra tutte, menziono il workshop “Nascere segna”, organizzato da diverse associazioni civili e svoltosi a Palermo nel 2017. All’evento hanno partecipato una quindicina di donne che, durante una giornata di lavoro, si sono confrontate sulle loro esperienze di partorienti; il lavoro di gruppo si è chiuso con una mia riflessione sul concetto di violenza ostetrica, in cui ho cercato di convogliare sia le mie conoscenze/esperienze in merito al tema, sia i nodi concettuali emersi durante la giornata.

L’esperienza è stata talmente positiva da trovare seguito in un percorso successivo, ossia alla nascita del gruppo di studio “Nasceresegna” (http://www.nasceresegna.org), fondato dalle associazioni organizzatrici dell’evento e di cui sono parte.

Una ulteriore attività rivolta a un pubblico di non specialisti è stata quella svolta presso l’Istituto Professionale Statale “M. Cossar” di Gorizia. Insieme ad una professoressa della scuola è stato progettato il percorso “Mille modi di nascere”, rivolto agli studenti delle classi quinte dell’indirizzo sociosanitario: dieci ore di attività, per lo più laboratoriali, in cui è stato esplorato l’immaginario in merito al parto e alla nascita. Gli studenti e le studentesse hanno potuto riflettere sulle diverse modalità assistenziali presenti in contesti differenti grazie alla visione del documentario di taglio etnografico “Il primo respiro” di Gilles de Maistre [2007]. È stato poi realizzato e un lavoro di riflessione laboratoriale sulle caratteristiche di un “buon parto” (utilizzando immagini-stimolo e una scheda di rilevazione dei contenuti più significativi) e una presentazione in powerpoint sui bisogni e i diritti di mamma e bambino. L’esperienza è stata valutata in modo molto positivo dai ragazzi, che si sono mostrati interessati e attenti rispetto a un tema da loro stessi definito “insolito” in ambito scolastico.

Vi sono state poi diverse attività specialistiche, come la partecipazione a convegni nazionali e internazionali, nei quali ho potuto confrontarmi con esperti che si occupano di salute sessuale e riproduttiva da differenti punti di vista, sia sociale sia medico-ostetrico. Tra questi eventi, particolarmente rivelante è stata l’organizzazione della sessione "Derechos y violencias en la atención del embarazo, parto y nacimiento: alcances y desafíos en la investigación y la política de salud, che si è tenuto durante il 56° Congresso Internazionale di Americanistica di Salamanca (Spagna) nel mese di luglio 2018.

Alla sessione, coordinata dalla sottoscritta e dalla collega uruguayana Natalia Magnone Alemán della Universidad de la República, hanno partecipato 13 esperti di violenza ostetrica provenienti da Brasile, Costa Rica, Messico, Argentina, Uruguay e Chile. Obiettivi dell’evento sono stati redigere un bilancio sulla ricerca, le politiche pubbliche e l’attivismo in America Latina e tracciare nuovi percorsi di riflessione e azione al riguardo. I risultati del Simposio – che ha prodotto un lungo e interessante dibattito tra i partecipanti e un lavoro di condivisione di esperienze anche nei mesi successivi – saranno pubblicati nella collana dedicata alla salute dall’Instituto de Salud Colectiva dell’Universidad Nacional de Lanús.

Obiettivo 4.  Progettazione e implementazione di una Piattaforma sulla Violenza Ostetrica, quale strumento di conoscenza, consulenza e lavoro per i decisori politici e i responsabili della formazione del personale sanitario.

Negli ultimi mesi di lavoro (il progetto si è chiuso il 30 di settembre 2018) è iniziata la progettazione della Piattaforma web sulla violenza ostetrica, prodotto finale del progetto. Si tratta di uno strumento innovativo a livello europeo ed internazionale, volto a promuovere maggiore conoscenza e comprensione della violenza ostetrica. È uno strumento online di informazione, conoscenza, consulenza sull’argomento, diretto in particolare a decisori politici, ricercatori e formatori personale sanitario. La Piattaforma è ospitata nella pagina web dedicata al progetto (https://www.obstetricviolence-project.com) ed è composta dalle seguenti sezioni: a) Progetto; b) Legislazione e politiche pubbliche c) Ricerca 4) Esperienza delle donne d) Formazione del personale sanitario e) News. Per il momento è completa la sezione “Progetto” (nella quale si possono trovare tutte le informazioni relative alle attività svolte tra il 2016 e il 2018) ed è stata avviato l’inserimento di materiali nella sezione “Ricerca”. Nei prossimi mesi si procederà all’inserimento di ulteriore materiale e all’aggiornamento continuo dello stesso. A questo fine sono stati individuati dei referenti-paese che invieranno periodicamente notifiche di materiali ed esperienze locali inerenti alla tematica. La Piattaforma è stata presentata al 26° European Perinatal Medicine Congress organizzato dalla Società Europea di Medicina Perinatale a San Pietroburgo (Russia) dal 5 all’8 settembre 2018 e ha suscitato curiosità ed interesse da parte dei professionisti della salute presenti.

Maggiori dettagli sui risultati delle singole fasi di lavoro sono disponibili nella sezione “The project” del già citato sito del progetto, sia sulla pagina resa disponibile dall’Unione Europea (https://cordis.europa.eu/project/rcn/205729/reporting/it).

Le potenzialità politico-formative del concetto di violenza ostetrica. Un’occasione mancata?

I risultati (pubblicazioni scientifiche e divulgative, progettazione di un percorso formativo specifico sulla violenza ostetrica, diffusione in eventi specialistici e no, materiali didattici e divulgativi, ecc.) e del prodotto finale del progetto costituito dalla Piattaforma, hanno permesso di perseguire l’obiettivo generale, ossia il trasferimento di esperienze dall’America Latina verso l’Europa. In questo processo sono emerse le potenzialità politico-formative del concetto di violenza ostetrica, a partire proprio dall’estrema flessibilità dimostrata da questa categoria, che ha assunto in contesti differenti sfumature diverse nel rivendicare, denunciare, difendere, legittimare o meno il suo stesso contenuto.

È interessante, a chiusura di questo lavoro, riflettere brevemente sulle peculiarità del dibattito europeo (sempre più corposo negli ultimi anni), rispetto a quello latinoamericano. Una riflessione sulle similitudini e sulle differenze, può infatti risultare utile per retroalimentare le rispettive prospettive ed esperienze e per evidenziare quali possano essere i percorsi ancora da tracciare nei paesi europei, in Italia in particolare. Come vedremo, le potenzialità di questo concetto quale strumento utile per ripensare criticamente le politiche e le pratiche in merito al parto e alla nascita, accogliendo un punto di vista inedito, sono state sottovalutate o non comprese (in particolare in Italia), perdendo – forse – una importante occasione di riflessione critica.

In comune nei diversi paesi latinoamericani vi è la concettualizzazione della violenza ostetrica come violenza di genere. Tutte le definizioni finora disponibili rientrano, infatti, in una legge contro la violenza sulle donne: la violenza ostetrica è una violenza che le donne subiscono in quanto donne. La questione di genere è fortemente dibattuta in America Latina e la prospettiva femminista di molti dei soggetti che lavorano per prevenire e combattere la violenza durante la gravidanza, il parto e la nascita è esplicita. È il caso, per esempio, delle attiviste de Las Casildas, che ho analizzato durante il mio lavoro sul campo o della rete RELACHAUPAN, nelle sue declinazioni nazionali, o ancora delle associazioni civili che hanno promosso gli Osservatori sulla Violenza Ostetrica nei diversi paesi (Brasile, Chile, Costa Rica, Colombia, Peru, Uruguay). Il dibattito latinoamericano si nutre poi di ulteriori prospettive di analisi: la violenza ostetrica è anche violazione dei diritti umani alla salute e alla salute riproduttiva, nonché violenza strutturale, istituzionale e lavorativa [Castro y Erviti 2015; Gire 2015, Sadler 2016]. Ciò significa che non riguarda soltanto le donne, ma anche i professionisti della salute che spesso riconoscono i dispositivi violenti insiti nella loro pratica, ma non riescono a disinnescarli a causa di meccanismi gerarchici e di potere che rendono il parto sempre più un “evento meccanico routinario”; nel quale non solo la donna risulta espropriata di autonomia e di fiducia nelle proprie competenze.

La violenza ostetrica è dunque un processo complesso e questa sua complessità la rende concettualmente “buona da pensare”. Innanzitutto dal punto di vista politico-culturale: una prospettiva che contempli la violenza ostetrica quale violenza esercitata sulle donne in quanto donne

(tema quanto mai attuale) permette di esercitare il nostro sguardo al di là degli ospedali e delle sale parto e di guardare a quali siano i valori fondanti delle nostre società.

Al contempo, la prospettiva dei diritti umani sostenuta in particolare dalle organizzazioni internazionali [White Ribbon Alliance 2011, OMS 2014] permette di approcciare la violenza ostetrica come una violazione di diritti universali e, al contempo, di rilevare la transculturalità e la trasversalità (etnica, socioeconomica, culturale ecc.) degli atti che la contemplano, come dimostrano numerose ricerche effettuate in ambito europeo, africano o asiatico [Elmir et al. 2010; Pickles 2015; Miller et al. 2016]. In particolare, gli studi multisituati condotti con metodologie miste (quantitative e qualitative) hanno evidenziato come la violenza ostetrica sia diffusa in tutti i paesi; ciò che cambia sono le modalità attraverso cui questa viene attuata: da una serie di atti che sono stati identificati come “too much, too soon” nei paesi ad alto reddito (in cui appunto si interviene eccessivamente) a quelli identificati come “too too little, too late” dei paesi a basso reddito, in cui non sempre si riesce ad intervenire quando necessario [Miller et al. 2016]. Anche la percezione di ciò che possa costituire un “atto di violenza” ha suscitato un interesse crescente negli ultimi anni [Miller, Lalonde 2015, Chattopadhyay et al. 2017, Cohen Shabot 2018].

Seppure nella soggettività e culturalità di tale concetto, emerge un “nucleo duro” condiviso di modalità di esercizio dei maltrattamenti fisici, psicologici e verbali nei confronti delle donne incinte e delle partorienti: in forme diverse nei differenti contesti, si ritrova la mancanza di rispetto della donna (del suo corpo, del suo processo, della sua cultura, della sua privacy, ecc.), si limita la sua autonomia e libertà di scelta (dall’applicazione rigida e standardizzata dei protocolli alle intimidazioni più o meno esplicite rispetto ai comportamenti da tenere) e si esercitano meccanismi di subordinazione insiti nel “potere ostetrico” [Arguedas 2014] e nell’Istituzione medica in quanto tale [Illich 1974, Foucault 1976].

Nel dibattito europeo (anche accademico), molti di questi aspetti appaiono affievoliti. Piuttosto che rilevare la possibilità di fomentare una critica costruttiva attraverso tale concetto, maggiore spazio è stato dato al dibattito terminologico: dobbiamo o no utilizzare il termine “violenza” che, per la sua forte connotazione (anche morale) tanta perplessità produce nei professionisti della salute? Quali sono le alternative possibili? Abuse and disrespect? Mistreatment? Abusive care?Quali sottili differenze tra queste possibilità?[Savage, Castro 2017]. Riflessioni di certo importanti, ma che mancano – almeno in parte – di quell’ “approccio politico” e di quell’elemento di denuncia sociale di cui sono intrisi i processi latinoamericani.

Al contempo, quando la denuncia è emersa anche in Europa, non sempre è stata accolta o affrontata. È ciò che è accaduto in Italia quando, nel settembre del 2017, sono stati pubblicati i dati della prima inchiesta nazionale “La donna e il Parto”, condotto dalla Doxa e promossa dall’Osservatorio sulla Violenza Ostetrica OVO-Italia e da altre associazioni.

I risultati della ricerca mostrano che il 21% delle mamme italiane con figli di 0-14 anni ha subito maltrattamenti fisici o verbali durante il parto, nonché azioni lesive della dignità psicofisica [Ravaldi et al. 2017]. Si tratta di dati che hanno suscitato un forte dibattito, sia mediatico, sia sanitario. Mi riferisco in particolare al confronto tra OVO-Italia e Istituto Superiore di Sanità, che ha avuto luogo sulle pagine dell’importante rivista European Journal of Obstetrics & Gynecology and Reproductive Biology. L’Istituto Superiore di Sanità ha criticato la ricerca, evidenziando alcune “debolezze metodologiche” [Lauria et al. 2018] e ritenendo lo studio non rappresentativo della situazione italiana. Da antropologa, ciò che rilevo da questo dibattito è come il discorso sia stato deviato in qualche modo dalla “sostanza” (l’esperienza delle donne) alla “forma” (la rappresentatività del campione). Il significato sociale, culturale, politico e anche medico-ostetrico di quei dati è passato in secondo piano, al di là delle posizioni più o meno legittime di ciascuna delle parti.

Piuttosto che difendere unilateralmente le proprie posizioni (come accaduto in Italia attraverso dichiarazioni e manifesti delle diverse società scientifiche e di categoria) non sarebbe più utile confrontarsi apertamente, a partire non solo dai dati quantitativi, ma dalla qualità (ossia dal significato) dei dati emersi?

Le donne non sempre sono soddisfatte del modo in cui partoriscono negli ospedali italiani; e ciò accade “in tutto il mondo”, ricorda l’OMS [2014, 1]. Non è dunque il “modello italiano” (ammesso che ve ne sia uno e uno solo) o venezuelano o argentino a non soddisfare, né tanto meno il comportamento di quel singolo professionista della salute. È il modello biomedico, nella sua trasversalità culturale e nella sua egemonia sociale a non rispondere completamente alle esigenze e alle aspettative delle donne; e, soprattutto, ai bisogni reali della mamma e del bambino. È una visione paradigmatica basata sull’idea di tecnologia come progresso (sempre e comunque), di corpo-macchina depersonalizzato e indolore, di pratica standardizzata e iperspecializzata (in quante mani si ritrova un neonato nelle prime ore di vita?) che dovrebbe essere rivisto. È al cuore della questione che bisognerebbe guardare, criticando gli assunti del più autorevole dei saperi (la biomedicina) e guardando agli Altri per comparare, retroalimentare e riflettere sulle nostre prospettive. In altre parole, è un ampliamento dello sguardo ciò che serve: un “andare altrove”, metodologicamente e teoricamente. Anche in America Latina. Sono convinta che lo sguardo plurale, che spesso manca nella visione biomedica [Lock, Nguyen 2010], permetterebbe di evitare di pensare che la soluzione sia l’atteggiamento difensivo, come accaduto in Italia. Si tratta di un fraintendimento iniziale rispetto al concetto di “violenza ostetrica” che è stato compreso in modo non appropriato dalle diverse professioni sanitarie. Lo si è – erroneamente – percepito quale accusa a un singolo professionista o a un gruppo di professionisti (medici, ostetriche, ecc.) e non come possibilità di rimettere in discussione il modello biomedico, che applicato al parto e alla nascita presenta numerose criticità, a cominciare dall’elevato tasso di taglio cesareo, definito “allarmante” dal nostro Ministero della Salute [Ministero della Salute 2015].

La forza con cui l’AOGOI-Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri italiani ha ribadito in un documento ufficiale che:

«L'accostamento alla parola "violenza" dell'attributo "ostetrica" ne determina un grave effetto denigratorio per i professionisti del settore” e che le parole "violenza ostetrica", nel momento della comunicazione, diventano […] strumento di offesa della reputazione dei professionisti sanitari, trascendendo in palese attacco e aggressione della sfera morale altrui» [AOGOI 2017, 2]

è emblematica del processo difensivo in corso. Un’affermazione come questa, dai toni così acuti, è un processo tutto italiano, che andrebbe analizzato nel merito in altra sede. Ciò che mi chiedo in questa occasione è quanto questo processo sia stato indotto dalla mancanza di conoscenza da parte dei professionisti della salute della genesi, delle esperienze e delle potenzialità di questo concetto, che in altri paesi ha permesso l’implementazione di politiche pubbliche innovative in ambito sanitario e formativo. Politiche pubbliche ossia risorse e strategie delle quali lo Stato si è reso promotore per garantire a tutte le donne un parto e di una nascita maggiormente rispettati.

In Argentina, per esempio, nel 2011 è stata creata la CONSAVIG-Comisión Nacional Coordinadora de Acciones para la Elaboración de Sanciones de Violencia de Género: un organo governativo che ha il compito di accogliere e seguire le denunce di violenza di genere, tra cui è compresa la violenza ostetrica. In diversi paesi latinoamericani sono nati inoltre percorsi di formazione specifici, sia all’interno delle Università, sia promossi dai diversi organismi sanitari, come i Ministeri.

Nonostante il crescente dibattito, i momenti di formazione specifica nel nostro paese e in Europa in generale sono stati pochissimi. Formazione significa l’occasione di conoscere e al tempo stesso problematizzare il concetto stesso: cosa significa nei vari contesti? In quali ambiti viene utilizzato? Come viene percepito dai diversi attori? Quali esperienze esistono? Quali criticità? La produzione scientifica che riguarda la violenza in sala parto (ma non solo, è necessario riflettere - come già detto - sull’intero percorso, dalla gravidanza all’assistenza neonatale) è crescente. Oggi disponiamo non solo di categorie interpretative, ma anche di strumenti di rilevazione sempre più raffinati, di categorie, di strategie operative e di revisioni sistematiche continuamente aggiornate [Bowser, Hill 2010; Bohren et al. 2015; Bhoren et. al 2018, Herring, Pickles 2019].

Approfondendo, diventerebbe difficile affermare che si tratta di un concetto denigratorio e “offensivo della reputazione del personale sanitario”. Ci renderemmo conto che non è della reputazione di qualcuno che stiamo parlando. Stiamo parlando di un “sistema”: la violenza ostetrica è violenza strutturale [Sadler et al 2016], esercitata in maniera routinaria e legittimata da una “naturalizzazione” di comportamenti che non sempre la rende sempre riconoscibile ai protagonisti (donne e professionisti della salute in primis), ma i cui effetti si estendono ben al di là di ciò che è stato chiamato “trauma del parto” [Elmir et al. 2010].

La ricerca scientifica (dalla neurobiologia all’epigenetica) dimostra sempre più quanto le esperienze prenatali e neonatali (e il “come” veniamo al mondo) influenzino non solo lo sviluppo psicofisico del bambino nei primi anni, ma anche la sua traiettoria di salute-malattia nel corso dell’intera vita [http://primalhealthresearch.com]. “Siamo ciò che nasciamo”, affermava l’ostetrica spagnola quel giorno di luglio di tanti anni fa, in Catalogna.

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[1] Il progetto è stato finanziato dal Programma europeo Marie Sklodowska Curie Grant, Horizon 2020-contratto n. 700946. Colgo l’occasione per ringraziare la referente scientifica Donatella Cozzi e i referenti delle istituzioni che mi hanno ospitato durante i soggiorni previsti: Hugo Spinelli (Universidad Nacional de Lanús) e Marzia Lazzerini (WHO-Collaborating Centre). Per maggiori informazioni sul progetto si veda la pagina https://www.obstetricviolence-project.com.

[2] Il progetto dal titolo “An intercultural and ethic code on birth. Dialogue between international directives and women’s needs” è stato finanziato dal Programma Europeo 7PQ-Marie Curie International Reintegration Grant, contratto n. 256422. I risultati sono disponibili sul sito della Commissione Europea https://cordis.europa.eu/project/rcn/95078/factsheet.

[3] È importante rilevare che dal 2014 al momento in cui scrivo (2019), vi è stato un interesse crescente da parte della ricerca accademica, dei media e delle organizzazioni governative verso questa tematica, anche in Europa.

[4] Ricordo che il tasso di taglio cesareo in Italia (34,2%) risulta essere tra i più alti d’Europa e del mondo e che la OMS raccomanda un tasso non maggiore del 10-15% [OMS 2015].

[5] Università che ha rinnovato l’invito nel mese di aprile 2019, con il seminario “Políticas públicas en Sanidad: visibilizando la violencia obstétrica.”

[6] In quell’occasione il tema principale della mia relazione riguardava la sobada, il massaggio prenatale effettuato dalle levatrici maya alle donne incinte [Quattrocchi 2011].