Riannodare le fila del tempo

L’attesa, la perdita e il lutto

Claudia Mattalucci

Università di Milano-Bicocca

Indice

Il clandestino e Perdu
Oggetto, contesto e metodologia della ricerca
Il tempo dell’attesa
Il tempo della perdita e del lutto
Il tempo ritrovato
Conclusione
Bibliografia

Abstract.  This article explores the relationship between the loss of a pregnancy and temporality. Based on an ethnography of support groups in Milan, it examines how time is experienced during pregnancy, loss and mourning. Focusing on pregnancy loss, the article aims to contribute to a more general understanding of the beginnings and ends of life and of the experience of time at these thresholds. Grief following pregnancy loss is not experienced as a linear and temporally-bound process but as an enduring affective state which is socially shared within support groups, and is integrated in bereaved parent’s life course.

Keywords: pregnancy loss, personhood, life, death, time.

Il clandestino e Perdu

Nel 1993 Dacia Maraini pubblica Un clandestino a bordo. Il saggio contiene una reminiscenza dei giorni successivi alla perdita del suo primo e unico figlio durante la gravidanza. L’evento risale a oltre trent’anni prima, quando Maraini era sposata con il pittore Lucio Pozzi.

mi sono vista in convalescenza, nel giardino di mia suocera sul lago di Garda, dopo aver perso un figlio al settimo mese. Ero pallida, gonfia e svuotata. Avevo avuto la tentazione di andarmene col bambino non nato che si aggrappava cocciutamente a me senza volermi lasciare, anche se era già morto… [1996, 10].

L’autrice descrive la gravidanza come un tempo in cui il bambino è parte integrante del corpo della madre: come tra il capitano della nave di Conrad e il naufrago che accoglie a bordo, tra loro si stabilisce una complicità profonda. Custodito nel grembo, il bambino per la madre prende progressivamente il posto di ogni altra priorità. Per questo una «madre de-filiata» [Ravaldi, in stampa] si sente irreparabilmente vuota, espropriata:

per me l’aborto è stato soprattutto un esproprio, qualcosa di non voluto e non aspettato che ha spezzato in me un’attesa felice, che non si è mai conclusa con un incontro, l’incontro con l’altro da me. Il clandestino a bordo della mia nave è scomparso prematuramente nel buio della notte senza lasciare una traccia, un nome, un ricordo [1996, 20].

Negli anni Maraini è tornata più volte su questa esperienza. Nel 2018 è uscito Corpo felice. Storia di donne, rivoluzioni e un figlio che se ne va. In questo testo l’autrice fa uscire il bambino dal buio della notte. La descrizione della gravidanza si arricchisce di particolari. Il libro, soprattutto, restituisce il dialogo ininterrotto della madre con il figlio. Dal momento del parto, quando il medico e la suora che l’assistono interpretano le parole che rivolge al suo bambino come il sintomo di un delirio, la conversazione silenziosa prosegue. La madre chiama il figlio Perduto, Perdutello o Perdu. Con lui condivide riflessioni su Eva, Simone de Beauvoir, sulle donne internate in manicomio, sul marito pittore (il padre del bambino) , sulla voglia di vivere e di riscatto delle donne e sui loro corpi felici o disperati. Attraverso le pagine del libro il tempo scorre. Perdu cresce e s’incammina verso la maturità. Accompagnato dall’educazione sentimentale di sua madre diventa un uomo. «So di aver perso il mio bambino – scrive Maraini all’ultima pagina del libro. Ma so anche che è nato un uomo». La perdita da limite della relazione ne diventa l’essenza e la narrazione che dà un corpo a Perdu e consistenza alla sua vita immaginata, il mezzo attraverso cui per l’autrice diventa possibile lasciarlo andare, consegnando ai lettori la testimonianza della sua esistenza.

In questo articolo analizzo la relazione tra perdite perinatali e temporalità. A partire dall’osservazione di uno specifico spazio di cura, prendo in esame il tempo della gravidanza, la frattura prodotta dalla perdita e il tempo del lutto. Per molte donne e coppie, riannodare le fila del tempo significa assicurare all’esperienza vissuta uno spazio che non appartenga soltanto al passato, ma la preservi nel presente e la consegni al futuro. Focalizzandomi sull’esperienza delle coppie che hanno perso un figlio in gravidanza, intendo contribuire ad una più generale riflessione sull’inizio e la fine della vita e sull’esperienza del tempo su queste soglie. Diversi studi hanno analizzato le temporalità della generazione e della morte. Particolare attenzione è stata riservata al ruolo delle tecnologie nel ridisegnare i confini della vita, della persona e del corpo [Kaufman, Morgan 2005]. Le tecnologie riproduttive artificiali, per esempio, hanno trasformato la temporalità della generazione, consentendo di anticipare la singolarizzazione del nascituro, di interrompere la continuità tra produzione di gameti, fecondazione e annidamento dell’embrione in utero, e di estendere la possibilità di fare figli oltre il declino della fertilità [Thompson 2005; Martin 2010; Waldby 2015]. Le tecnologie che prolungano la vita, d’altra parte, hanno trasformato la cognizione della morte e, separando la persona dal corpo, hanno conferito alla fine gradualità e durata [Lock 2002; Kaufman 2005]. Gli studi sull’inizio e sulla fine della vita hanno inoltre mostrato che, anche nei contesti in cui le persone sono soprattutto pensate come individui, le soglie fanno emergere il carattere relazionale, contingente e inscritto nel tempo delle identità [Théry 2006; Giraud 2014; David, Israeli 2010; Ravenda 2016].

Oggetto, contesto e metodologia della ricerca

Le perdite perinatali sono diventate un oggetto di studio per l’antropologia medica e della parentela a partire dalla seconda metà anni Novanta. Oltre a studi comparativi che hanno evidenziato la variabilità culturale di questi eventi [Cecil 1996; Le Grand-Sébille, Morel, Zonabend 1998], sono state condotte ricerche etnografiche sulle trasformazioni della loro presa in carico nei contesti sanitari [Le Grand-Sébille 2004; Memmi 2011; 2014; Earle, Komaromy, Layne 2012] e sull’associazionismo sviluppatosi per supportare le coppie toccate da questi eventi, colmando le carenze dell’assistenza e contrastando la loro rimozione dal discorso pubblico [Layne 2003;Peelen 2012]. In Italia l’adeguamento delle prassi ospedaliere alle linee guida internazionali si è avviata con un consistente ritardo rispetto ad altri paesi europei ed americani. Analogamente, le prime associazioni per la tutela del lutto perinatale – presenti nei paesi anglosassoni già dai primi anni Ottanta del secolo scorso – si sono costituite soltanto dalla fine degli anni Duemila. Una delle prime e, ad oggi, la principale organizzazione italiana è CiaoLapo. Nata a Prato nel 2008, è presente su tutto il territorio nazionale. Dal 2014 ho seguito alcune delle sue iniziative pubbliche e delle sue attività on-line. Per 16 mesi (2017-2018), inoltre, ho partecipato ai gruppi di auto-mutuo aiuto attivi a Milano dove, dall’autunno del 2015, l’associazione “La parola magica” ha condotto, in convenzione con CiaoLapo, incontri per genitori in lutto.[1] In questo arco di tempo i gruppi Alchimia sono stati frequentati da coppie prevalentemente italiane, con uno status socioeconomico e una scolarizzazione medio-alti, i cui i partner avevano tra i 32 e i 47 anni. Nella maggior parte dei casi la perdita è avvenuta ad un’età gestazionale compresa tra le 21 e le 36 settimane; tre coppie hanno perso il loro bambino al termine della gravidanza. Sebbene la ricerca psicologica sul lutto perinatale evidenzi che il dolore per la perdita non sia proporzionale alla durata della gestazione e che gli aborti precoci possano generare vissuti di lutto altrettanto intensi delle morti perinatali[2] [Ravaldi, Vannacci 2014; Ravaldi 2016], nei gruppi ho incontrato soltanto una donna che aveva una storia di aborti precoci ripetuti. Una coppia con alle spalle anni di cicli di procreazione medicalmente assistita conclusisi senza successo (l’ultimo dei quali con un aborto spontaneo all’undicesima settimana) ha partecipato ad un solo incontro.[3]

Mentre in occasione delle manifestazioni pubbliche ho preso delle note e scattato fotografie, nei gruppi di auto-mutuo aiuto non ho mai preso appunti. Una volta tornata a casa ho annotato su un diario quanto avevo vissuto impegnandomi a rispettare l’intimità delle persone[4]. Questo articolo si basa prevalentemente sulle osservazioni condotte nei gruppi e sulle conversazioni con i partecipanti e i counselor dentro e fuori dagli spazi dell’associazione[5]. Si focalizza, dunque, sul rapporto tra perdita e tempo in un frangente specifico della loro vita: quello in cui decidono di affrontare il dolore per la perdita attraverso l’auto-mutuo aiuto[6].

Le riunioni dei gruppi Alchimia avevano luogo a cadenza mensile. Ciascuna durava due ore ed era coordinata da una coppia di counselor che fungevano da facilitatori:[7] uno/a di loro conduceva l’incontro mentre l’altro/a svolgeva una funzione di supporto, guidando, per esempio, esercizi di respirazione e grounding volti a stimolare la presenza mentale e l’ascolto del corpo. Dopo un momento di accoglienza, in cui i saluti comportavano quasi sempre un contatto, i presenti sedevano in cerchio su sedie o cuscini. Lo spazio di parola era preceduto da alcune respirazioni e occasionalmente da una breve meditazione guidata. Quindi, il conduttore proponeva ai presenti un tema da cui partire. Tutti i presenti (le coppie, i membri dell’equipe e le altre figure che frequentavano i gruppi[8]) partecipavano al giro di apertura e a quello di chiusura, dedicati, rispettivamente, a introdurre e avviare la conversazione – presentandosi, dicendo come si stava, come si era stati dall’incontro precedente – e al congedo – in cui, prima di salutarsi, i partecipanti verbalizzavano il proprio vissuto, esprimevano gratitudine, indicavano che cosa delle due ore trascorse insieme avrebbero portato con sé.

Non sempre le stesse persone riuscivano a partecipare agli incontri nel medesimo orario.[9] All’inizio di ogni riunione, benché la maggior parte dei presenti si conoscesse, era dunque necessario ripetere le presentazioni. Nel farlo, oltre che con il proprio nome, i presenti s’identificavano come mamme e papà dei bambini che avevano perso. L’età gestazionale al momento della perdita e, laddove nota[10], la sua causa erano le altre informazioni importanti da includere nella presentazione: «Sono la mamma di Sofia che è morta alla 36+4. Aveva due giri di cordone intorno al corpo…», «Ho perso i miei bimbi alla 19 e alla 21 settimana, per una patologia congenita chiamata incompetenza cervicale», «Abbiamo perso Mattia alla 27 settimana per una trisomia placentare».

Le coppie partecipavano agli incontri fino a quando sentivano di non averne più necessità. In diversi casi l’uscita dal gruppo è avvenuta all’inizio di una nuova gravidanza o quando la coppia si è sentita pronta per affrontare la ricerca di un altro bambino. Nel frattempo, nuove coppie arrivavano. Alcune di quelle che avevano deciso di lasciare il gruppo sono rimaste più a lungo per sostenere i nuovi venuti. Le affinità elettive che nascevano tra coppie avevano ragioni diverse che andavano dall’esser state seguite nello stesso ospedale in momenti diversi ma per un quadro patologico simile al fatto di avere altri figli nati prima della perdita e di dover controllare l’espressione dei sentimenti e la comunicazione con loro. Per alcune delle coppie senza figli (vivi), la presenza di coppie che ne avevano e che portavano nel gruppo le loro difficoltà è stata occasionalmente motivo di un disagio che, in assenza di queste ultime, è stato verbalizzato. Grazie alla mediazione dei facilitatori che invitavano i presenti a focalizzarsi sui vissuti condivisi al di là delle differenze, il confronto si è sempre svolto all’insegna del rispetto e del sostegno reciproco. Durante le riunioni i partecipanti condividevano soprattutto i vissuti legati alla perdita e al lutto; non sono state rare, tuttavia, le occasioni in cui il tempo della gravidanza è stato rievocato.

Il tempo dell’attesa

Il tempo della gravidanza è un tempo liminale, scandito da unità di misura e soglie non sempre coerenti. La biomedicina conta la gravidanza in settimane e giorni; per determinare la data presunta del parto non fa riferimento al concepimento ma all’ultima mestruazione. Questa data può essere corretta sulla base dell’osservazione della crescita fetale che, confrontata con la curva di crescita normale, può determinare una ri-datazione della gravidanza. L’intervallo tra il concepimento e la nascita è regolato da una temporalità convenzionalmente istituita che fa corrispondere allo sviluppo di organi, apparati e funzioni l’inizio della persona e della socialità [Hartouni 1999; James 2000; Boltanski 2004]. Da questa temporalità dipendono i limiti dell’interruzione volontaria di gravidanza[11], e, nei casi di morte perinatale, le procedure d’iscrizione all’anagrafe e di sepoltura[12].

Sebbene in virtù di queste soglie lo sviluppo della persona appaia lineare e progressivo, il tempo della gestazione è ugualmente soggetto a un “regime di anticipazione” [Adams, Murphy, Clarck 2009]. Nel corso delle visite ginecologiche le donne imparano a contare il tempo dell’attesa in settimane e giorni. Ma sono ugualmente socializzate ad una costruzione della generazione che tende a proiettare il futuro sul presente. Le tecnologie di visualizzazione e la gestione tecnocratica della gravidanza incoraggiano una singolarizzazone precoce del nascituro [Strathern 1992; Boltanski 2004; Mattalucci 2015]. Sin dalla prima ecografia l’immagine che la madre vede apparire sullo schermo le viene presentata come il suo bambino. Le comunicazioni verbali e l’uso ripetuto dell’ecografo alimentano l’anticipazione del tempo a venire. Come hanno messo in evidenza Adams, Murphy e Clarck [2009], l’anticipazione è un modo di essere nel tempo che porta le persone ad abitare un tempo fuori luogo. I regimi di anticipazione, come quello che governa la gravidanza, rendono il futuro la ragion d’essere del presente. La manualistica sulla gravidanza e gli opuscoli distribuiti gratuitamente alle mamme in attesa informano le donne su come cambierà il loro corpo, come si svilupperà il bambino, quali visite mediche e appuntamenti dovranno pianificare, come dovranno mangiare, quali precauzioni dovranno prendere per la propria salute e quella del bambino. Le riviste specializzate pubblicano liste di cose di cui i genitori devono munirsi durante l’attesa. Alcune coppie comprano mobili, abiti e accessori durante gli ultimi mesi della gravidanza mentre altre lo fanno sin dall’inizio.

Non tutti i messaggi culturali vanno nella stessa direzione. Talvolta i futuri genitori sono invitati a procrastinare l’investimento emotivo oltre il terzo mese, quando gli aborti spontanei diventano meno frequenti, o oltre la diagnosi prenatale. Molte coppie, in effetti, non rendono pubblica la gravidanza fino al superamento di queste soglie. Il differimento dell’affezione, tuttavia, è difficile da esercitare, anche quando una precedente esperienza di perdita ha cancellato l’innocenza con cui la prima gravidanza era stata affrontata.

Alice ha perso un figlio un anno prima di affrontare la sua seconda gravidanza. Ha cambiato ospedale e l’attenzione con cui è stata seguita le ha dato sicurezza. Quando lei e Andrea hanno saputo di aspettare due gemelle hanno pensato che la gioia di cui erano stati privati venisse loro restituita in misura doppia. Erano pieni di paura ma anche di speranza. Nonostante il cerchiaggio, hanno perso le due bambine alla ventesima settimana di gestazione per la stessa patologia che si era portata via il primo[13].

I vissuti delle donne e dei loro partner sono plasmati dai discorsi biomedici, dalle norme giuridiche e dal regime di anticipazione che governa la gravidanza, ma non sono interamente riducibili a essi. Le donne imparano a contare la gravidanza in settimane e giorni. Gli esami diagnostici e le immagini assumono un ruolo centrale nel forgiare la consapevolezza della gravidanza e del bambino [Mitchell 2001; D’Yvoire 2006]. La liminalità della gravidanza e la natura intracorporea della relazione, tuttavia, lasciano spazio all’ambivalenza e all’ambiguità. Come ha messo in luce Augé [1994], mentre l’ambivalenza rimanda ad un accumulo di qualificazioni – molte donne, per esempio, riportano di sentirsi simultaneamente forti e vulnerabili –, l’ambiguità opera, piuttosto, per sottrazione: esprime in una forma negativa «qualcosa di positivo che non si lascia ancora qualificare», «inscritta nel tempo contiene la promessa del suo superamento» [1995, 56-57]. Durante la gestazione, la sospensione tra il non essere più e il non essere ancora, fa sì che le coppie possano sentirsi e non sentirsi genitori, che la madre possa percepire il suo bambino come parte di sé e simultaneamente come altro da sé, ecc.

Vi è nell’attivismo intorno al lutto perinatale una richiesta di riconoscimento dei genitori e dei figli, nonostante la perdita. Le coppie che ho incontrato si erano avvicinate a CiaoLapo e al gruppo Alchimia per superare lo stato di afflizione in cui la perdita li aveva gettati. Nel gruppo le persone si presentavano ed erano riconosciute come mamme e papà dei figli che avevano perso. Durante le riunioni, benché si discutesse spesso di quanto fosse doloroso il venir meno di tale riconoscimento nelle interazioni esterne al gruppo, emergevano differenze nei modi di pensare la relazione. Alcune donne raccontavano di essersi sentite mamme sin dalla scoperta della gravidanza; per altre, invece, questa consapevolezza aveva avuto tempi più lenti: si era rafforzata durante la gestazione e avrebbe dovuto compiersi con il parto e con l’incontro con il bambino. Bianca, per esempio, ha perso il suo primo figlio al termine della gravidanza. Dopo il parto l’ha tenuto in braccio e ha delle fotografie che ritraggono quel momento. In più di un’occasione ha condiviso l’impressione di aver visto suo figlio «soltanto di spalle».

Che il sentimento di maternità si sviluppi in gravidanza mentre quello di paternità soltanto dopo il parto, è stato un tema ricorrente in molti racconti. I facilitatori sottolineavano la “naturalità” di questa asincronia radicata nell’endocrinologia e nella fisiologia della riproduzione. I vissuti maschili verbalizzati nel gruppo, tuttavia, facevano emergere un quadro più complesso e sebbene la maggioranza confermasse questa rappresentazione, alcuni uomini hanno dato voce ad un’esperienza differente raccontando di essersi sentiti padri dalla prima ecografia. Per alcune coppie, d’altra parte, la gravidanza era iniziata molto tempo prima del concepimento; era passata attraverso tentativi ripetuti, esami, viaggi, prelievi, monitoraggi e transfert. Poi finalmente era iniziata anche nel corpo; era rimasta sospesa per un certo tempo, aveva quindi “accelerato” per poi interrompersi.

La storia di Giulia – scrive Claudia[14] - è iniziata cinque anni fa, quando io e il suo papà abbiamo deciso di volere un bimbo e abbiamo iniziato un lungo percorso fatto di attese, delusioni e sacrifici, grinta e voglia di realizzare il nostro sogno. Finalmente scopro di essere incinta… passo i primi mesi a letto… A partire dal quinto mese tutto inizia ad andare per il verso giusto… è ora di smettere di avere paura… acquistiamo ciò che non avevamo avuto il coraggio di comprare prima… mi immagino con lei… immagino quella che sarà la mia nuova vita, faccio progetti, sogno!

Nel tempo dell’attesa prendono forma progetti e speranze, emergono paure e si sviluppano nuove identità individuali e famigliari. La perdita spezza il progetto esistenziale, svuotando di senso il lavoro somatico e simbolico della gestazione. Non confermati sul piano pubblico dalla nascita, il passato e il futuro restano sospesi e svuotati di valore.

Il tempo della perdita e del lutto

La perdita ha una temporalità interna e, spesso, confini sfumati. La linea che separa una minaccia di aborto da un aborto in atto è difficile da tracciare. Nei casi di aborto interno, l’arresto della vita può non produrre sintomi percepibili per giorni o settimane. Dopo il quarto mese, quando la madre inizia ad avvertire i movimenti fetali, spesso è proprio la loro assenza a rappresentare un campanello d’allarme che porta le coppie a recarsi in pronto soccorso. «Sono andata in ospedale perché da quella mattina non sentivo i movimenti – racconta Sara[15]. Mi hanno fatto entrare sola nella stanza delle ecografie e lì ho sentito la mia voce chiedere: “C’è ancora?”. Dopo un po’ ho visto la ginecologa scuotere la testa con gli occhi lucidi, a dirmi che no, il battito della mia bimba non c’era più».

In caso di aborto o di morte fetale endouterina, tra l’arresto del battito cardiaco e la separazione dal corpo materno può trascorrere un intervallo variabile che dipende dai tempi per il ricovero, l’intervento o l’induzione del parto.[16] Molte donne raccontano di aver pensato di non sentirsi pronte per un parto naturale. Il parto indotto di un bambino senza vita appariva loro come una prova insormontabile. Due delle donne che frequentavano i gruppi avevano partorito prematuramente i loro figli vivi che erano morti durante il ricovero in terapia intensiva. La figlia di Barbara e Giovanni è nata al sesto mese con un parto cesareo. Aveva smesso di crescere e i medici li avevano informati che la prosecuzione dell’attesa avrebbe determinato una morte in utero. Così, hanno deciso di darle una possibilità. Quando è nata la bimba pesava 500g. e i suoi polmoni erano molto piccoli. Durante i venti giorni in cui la piccola è stata ricoverata in terapia intensiva, Barbara si tirava il latte sperando un giorno di poterlo usare per lei. La sua bambina non ce l’ha fatta.[17]

Mentre alcune coppie esprimevano soddisfazione per il supporto assistenziale ricevuto in ospedale, altre si erano sentite abbandonati a sé stesse.[18]

Come genitori non siamo geneticamente pronti a lasciar andar via così i nostri figli, è contro le regole della natura – scrive Gabriele raccontando la perdita del suo secondo figlio[19]. Non eravamo pronti… e purtroppo nessuno intorno a noi lo era. Non i nostri genitori, non i nostri amici, che come noi non avrebbero mai pensato ad una nascita così… ma non lo erano nemmeno gli operatori che quel giorno ci hanno assistito. Ricordo perfettamente ancora il mio vagare per i corridoi con il suo corpicino in braccio, con mia moglie sfinita in sala parto e nessuno che mi diceva cosa fare.

Con la perdita il dolore travolge le coppie lasciandole sospese tra un prima, su cui la mente ritorna alla ricerca di dettagli e di un perché, e un dopo che non possono immaginare perché con loro avrebbe dovuto esserci il bambino che invece non c’è. Le frasi che spesso si sentono ripetere in ambito sanitario e nelle interazioni sociali – «Siete giovani, ne farete un altro»; «Andrà meglio la prossima volta» – sono per loro prive di senso perché rimandano ad un tempo che non fa parte del loro orizzonte di attesa. Cancellano l’unicità della gravidanza, che si configura come ripetibile, e del bambino, che diviene un essere sostituibile, come se il processo di singolarizzazione e l’investimento affettivo potessero essere revocati.

La perdita chiude la temporalità biomedica e sociale della generazione, non quella dei vissuti soggettivi. Qualora i genitori lo richiedano, l’ultimo atto medico effettuato sul corpo del bambino è l’autopsia. L’ultimo atto sociale è il funerale, ma soltanto alcune coppie scelgono di (o riescono a) celebrarlo[20]. In tutti gli altri casi, la perdita non è simbolizzata: non vi sono rituali condivisi per salutare il bambino e la gravidanza, né ci sono termini specifici per definire le coppie colpite da questo lutto. Molte delle madri che ho incontrato non amano espressioni come “madri interrotte” “madri mancate” o “bambini mai nati” che sono ricorrenti nella letteratura di divulgazione. Dal loro punto di vista, infatti, queste diciture negano la relazione e la realtà del parto, attraverso cui, benché senza vita, i loro bambini sono nati.

Per le coppie il tempo si arresta. Non soltanto il tempo della gravidanza, ma quello di vita. Il dolore le travolge, a tratti si ritira per poi tornare a schiacciarle. Il processo del lutto ha per ciascuno modi e tempi diversi. Psicologia, psicanalisi e psichiatria lo hanno descritto identificando le fasi che conducono dallo shock iniziale all’accettazione, attraverso un percorso segnato da accelerazioni, battute d’arresto, rallentamenti, regressioni. Elisabeth Kubler-Ross [1969], in un lavoro che ebbe molta fortuna, ha distinto il processo interno (il cordoglio) dalla sua espressione esteriore (il lutto) e identificato cinque fasi che, inizialmente, ha presentato come successive, per poi descriverle come reazioni prototipiche di fronte alla morte che gli individui sperimentano in misura variabile, in ordine diverso e per periodi di tempo più o meno prolungati. Queste sono: (a) la negazione – un’esperienza di intorpidimento e di incredulità per la perdita della persona amata –; (b) la rabbia; (c) la contrattazione – il desiderio di tornare indietro nel tempo a come erano prima le cose –; (d) la depressione; e (e) l'accettazione della realtà [Kubler-Ross, Kessler 2005]. Baier e Buechsel [2012] hanno evidenziato come i sopravvissuti possano “rimbalzare” tra queste diverse reazioni in conseguenza di eventi che fungono da ri-attivatori. Gli studi specificamente dedicati al lutto perinatale ne hanno messo in evidenza le peculiarità e sostenuto che la qualità dell’assistenza e la rete di supporto intorno alla coppia possano fare la differenza [Ravaldi 2016; Ravaldi, Vannacci 2014; Cassaday 2018].

All’interno dei gruppi di auto-mutuo aiuto, la presenza di coppie che si trovavano in momenti diversi del lutto rappresentava una risorsa. Per le coppie appena arrivate, quelle che erano nel gruppo da più tempo erano la prova che il cordoglio va incontro ad una evoluzione e che se il dolore non si cancella, diventa possibile convivere con l’assenza del bambino nella pancia e tra le braccia. Durante gli incontri a cui ho partecipato l’arrivo di genitori “freschi di lutto” faceva riaffiorare nelle coppie più “vecchie” memorie e vissuti: entrando in risonanza con i racconti che prendevano forma attraverso parole, posture, lacrime e silenzi famigliari, rivivevano il loro dolore ma potevano ugualmente misurare la strada che avevano percorso dal primo ingresso nel gruppo. Se il lutto è caratterizzato da un moto oscillatorio e non sempre i dolenti “vanno avanti”, non è per questo privo di direzione.

Le riunioni mensili scandivano il tempo. I facilitatori aprivano gli incontri chiedendo ai presenti com’erano stati dall’ultima volta in cui il gruppo si era riunito e aprivano in questo modo uno spazio di confronto sulle trasformazioni del dolore e di loro stessi. Le ricorrenze erano attese con particolare apprensione. Alcune di queste riguardavano specificamente il bambino – la data presunta del parto, l’anniversario della nascita/morte, ecc. –; altre i genitori – la festa della mamma, del papà, i loro compleanni. Legati alla biografia dei soggetti separati dalla perdita, questi eventi costringevano le coppie ad un confronto con le attese irrealizzate: il parto di un bimbo vivo, il suo primo compleanno, feste che non potevano essere tali, anniversari che ricordavano il trascorrere del tempo. Il gruppo di auto-mutuo aiuto offriva un ventaglio di esperienze e di modalità con cui altre coppie avevano affrontato gli stessi momenti: recarsi insieme in un luogo significativo per lasciare libero sfogo alle emozioni, ricercare la bellezza della natura, compiere un gesto significativo per sé e per il bambino – come scrivergli una lettera, piantare un albero di cui prendersi cura, scrivere il suo nome sulla sabbia o gridarlo nel vento. Anche le festività e le vacanze erano riconosciute come periodi difficili. Tempi riservati alla socialità di famiglia, di sospensione da una quotidianità di impegni lavorativi e routine che riempiono le giornate, mettevano le coppie a confronto con l’assenza del loro bambino, resa ancor più struggente dal clima di festa. Il contrasto tra il tempo sociale e i vissuti individuali e di coppia[21] mettevano in risalto la propria sfasatura.

Alcune delle donne che frequentavano il gruppo erano entrate in maternità anticipata per una gravidanza a rischio; altre, avendo superato la ventottesima settimana di gestazione, erano in maternità. Quelle che avevano avuto un aborto e avevano un regolare contratto di lavoro, avevano usufruito di un periodo di astensione per malattia. I loro partner, al contrario, erano rientrati dopo pochi giorni di congedo per motivi familiari. Uno di loro, le cui figlie nate vive erano sopravvissute alcune ore in terapia intensiva, era stato licenziato per aver rifiutato un trasferimento mentre la moglie era ricoverata in ospedale. Per la maggior parte delle madri, il periodo di astensione dal lavoro è stato necessario: lo stato di prostrazione fisica e psichica conseguente alla perdita era incompatibile con l’attività lavorativa. Alcune di loro, tuttavia, facevano fatica a ritrovarsi a casa da sole. I giorni sembravano non passare mai. In quel tempo vuoto trascorso in attività a cui faticavano a dare un senso e una direzione, il dolore si dilatava[22]. In generale, benché in modi diversi, sia per le donne che per gli uomini era difficile trovare il giusto equilibrio tra il bisogno di prendersi del tempo per sé e quello di tenersi occupati.

I mesi successivi alla perdita spesso sono scanditi da approfondimenti diagnostici diretti a ricostruire il più accuratamente possibile il quadro patologico e identificare eventuali fattori di rischio che possano influire negativamente sul decorso di una gravidanza successiva. I primi esiti sono forniti dalla struttura che ha preso in carico la donna, dove, tuttavia, le coppie raccontavano di non aver ricevuto spiegazioni esaustive sull’esito dell’esame autoptico, né indicazioni in merito ad eventuali approfondimenti. Molte delle coppie lamentavano di non essere state sufficientemente supportate nella comprensione e nella ricerca delle cause, mentre per loro sapere che cos’era successo, se il bambino fosse sano, se la sua morte fosse dipesa da qualche cosa che avevano fatto o omesso di fare e se, eventualmente, fosse possibile intervenire per preservarsi in futuro dallo stesso rischio, era estremamente importante. Autonomamente o con l’aiuto dell’associazione avevano identificato specialisti e fatto altri esami. Molte di loro avevano consultato più medici, trovandosi talvolta di fronte a pareri contrastanti. Durante gli incontri di gruppo emergevano le intersezioni tra il tempo del lutto e il tempo sanitario[23] trascorso nell’attesa di visite, esami ed esiti che potessero produrre una conoscenza funzionale a mettere a tacere le molte domande che, in particolare le donne, si facevano.

Il tempo ritrovato

Il dolore produce una trasformazione che porta le persone a chiedersi chi sono diventate. Butler ha scritto che «il lutto è sostenuto da una dimensione enigmatica, dall’esperienza di non conoscere sostenuta dalla perdita di ciò che non ci è possibile sondare pienamente» [2013, 47]. Nel lutto, secondo la filosofa americana, non si affronta soltanto la perdita di un oggetto d’amore ma di sé stessi. Il dolore rivela la nostra natura di esseri umani: ossia relazionali, dipendenti e vulnerabili.[24] Butler non pensa al lutto perinatale. In queste pagine, s’interroga sul rapporto tra violenza, lutto e politica. Eppure, la sua analisi di come il dolore, strappando i soggetti a sé stessi, li trasporti, li destabilizzi, li faccia interagire con vite che non sono le loro, rivelando loro la modalità originaria dell’essere in quanto corpi, fuori di sé e l’uno per l’altro, consente di cogliere un aspetto importante dell’esperienza dei genitori de-filiati e di comprendere il sentimento di comunità che tra di loro si produce a partire da una condizione condivisa di spossessamento. Il gruppo di auto-mutuo aiuto veniva descritto dai partecipanti come “un’oasi” o “un centro benessere” in cui, al riparo dai tempi e dalle norme della vita quotidiana, era possibile dire ed essere ciò che non era possibile manifestare altrove: la propria vulnerabilità, o, come diceva Luca la propria “pazzia”. In più di un’occasione i partecipanti hanno osservato che nel gruppo vigevano regole diverse da quelle che c’erano fuori e che per questo era possibile dire ciò che altrove sarebbe risultato strano o incomprensibile. Se le metafore utilizzate segnalavano soprattutto una funzione protettiva e di contenimento, il gruppo aveva anche effetti rivolti verso l’esterno. Le esperienze vissute durante gli incontri autorizzavano le coppie a prendere le distanze dal paradigma dell’efficienza, lasciar fluire il dolore, essere indulgenti con sé stessi e darsi tempo. «Impari a piangere e a gridare; a lavorare o a non lavorare se non ce la fai; a tagliare i ponti con chi non ti fa stare bene… hai una ragione per farlo» diceva Matteo a Giovanni, che incontrava per la prima volta.[25] Per le coppie il lutto non porta a un disinvestimento emotivo, né alla sostituzione del bambino atteso. Progressivamente la sfasatura tra il tempo interno e quello esterno si riduce. La vita ritrova un suo corso: prendono forma nuovi progetti e speranze, compresa, eventualmente, quella di un’altra gravidanza. Le madri si riferiscono ai figli nati dopo la perdita come “bimbi arcobaleno” e alla nascita di questi figli come una “rinascita” che, pur restituendo vitalità e speranza, non cancella la perdita ma coesiste con quell’esperienza.

Per i facilitatori, l’obiettivo degli incontri era aiutare le coppie a chiudere un cerchio: «Se tu un ciclo non lo chiudi – mi diceva una di loro – come fai ad aprirne un altro? Certo il bambino interiore resta. Viene fuori nel momento in cui l’adulto lo richiama a sé. Ma non può essere un’istanza con cui s’interfaccia con il mondo»[26]. Cristina s’interrogava su alcuni comportamenti che aveva osservato. Nonostante fosse passato più di un anno dall’inizio del percorso, le sembrava che alcune coppie restassero invischiate nel dolore e che il loro modo di stare nel gruppo non evolvesse. Si chiedeva se alcune abitudini diffuse nelle comunità reali e virtuali[27] di genitori che hanno perso in figlio in gravidanza – come firmare i messaggi includendo il nome del bambino a fianco al proprio o comprare per lui piccoli doni – non ostacolassero l’accettazione della realtà. Fuori dal luogo in cui avvenivano gli appuntamenti mensili, avevo condiviso momenti piacevoli con le persone che frequentavano i gruppi; avevo scoperto in alcune di loro una straordinaria ironia e goduto dell’allegria e della profondità con cui potevamo stare insieme. In queste occasioni i discorsi erano diversi da quelli che avevano luogo nel gruppo di auto-mutuo aiuto. A volte le donne si scambiavano informazioni sugli esami medici. Si facevano progetti per diffondere informazioni sul lutto perinatale e aiutare altre coppie. Ma erano rare le occasioni in cui ritrovavo comportamenti ed emozioni osservati negli spazi dell’associazione. Se in parte la divergenza tra il mio punto di vista e quello di Cristina poteva essere ricondotta alle occasioni che ciascuna di noi aveva di stare con le persone che frequentavano il gruppo, in parte era ugualmente dovuta a diversi modi di intendere la trasformazione cui le coppie andavano incontro.

Per alcune di loro, in effetti, il bambino non era soltanto una presenza interna. La perdita apparteneva al passato, ma le identità e la relazione che aveva colpito duravano anche nel presente: occasionalmente compravano al proprio figlio piccoli regali, pronunciavano il suo nome, si chiedevano come sarebbe stato e trovavano modi per restare in relazione con lui. Il confronto con le altre coppie, forniva loro un repertorio di azioni e discorsi cui potevano attingere per operare una ricomposizione delle identità e delle relazioni. Attraverso le cose che facevano per/in memoria del bambino – come piantare un albero in giardino, scrivere un racconto o impegnarsi nell’attivismo per la tutela del lutto perinatale – e le parole rivolte o dedicate a lui[28], facevano sì che la sua vita continuasse insieme e attraverso la loro e che la co-esistenza vissuta nel corpo prima della nascita trovasse nuovi modi per realizzarsi al di là della perdita. Il bambino abitava il presente e la vita famigliare in una forma liminale, intermittente, ma non per questo meno importante. In questo tempo ritrovato non più congelato dal dolore per la morte, la sua presenza si faceva sentire mentre facevano tutt’altro, attivata da un arcobaleno, dalla forma peculiare di una nuvola o da un nome che echeggiava nell’aria trasportandoli altrove e generando commozione. Il tempo sospeso in cui le coppie lo avevano atteso trovava così una continuità con un presente fuori dal tempo in cui mantenevano viva la relazione affettiva, preservandone l’unicità[29].

Conclusione

Le perdite perinatali sono un punto di osservazione privilegiato per far emergere alcune specificità che caratterizzano la temporalità della generazione e della morte nel mondo contemporaneo. La morte ai margini della vita è un evento fuori dal tempo: sospesa tra il non ancora e non più, fa entrare in cortocircuito l’origine e la fine. In ambito sanitario, dopo esser stata a lungo considerata un non evento è diventata oggetto di un’attenzione specifica [Giraud 2016; Mattalucci 2017]. Oggi la morte, non solo perinatale, è un campo di pertinenza della medicina, della psicologia e del counseling e la materialità del corpo ha assunto una crescente centralità [Memmi 2014]. Le perdite perinatali sono considerate dalle figure che offrono supporto psicologico alle coppie che ne sono colpite comparabili alla perdita di una persona cara: eventi potenzialmente traumatici e in cui l’assenza di ricordi e tracce tangibili della gravidanza e del bambino espone i dolenti al rischio di un lutto complicato. Attraverso l’osservazione di uno specifico spazio di cura, ho cercato di restituire come le coppie attraversino il tempo della gravidanza e del lutto e superino il senso di sospensione generato dalla perdita, trovandole una collocazione dinamica all’interno della propria biografia. Nello spazio protetto dei gruppi di auto-mutuo aiuto le coppie imparano a raccontare il proprio dolore e a dare un senso alla frattura della temporalità prodotta dalla perdita. Per le coppie che ho incontrato uscire dal lutto non significa chiudere un cerchio e andare oltre, consegnando il bambino al passato, ma costruire una nuova normalità [Souza 2017] e sviluppare, attraverso il confronto con altri soggetti con esperienze simili, una capacità peculiare di restare in relazione prendendo sul serio i segni, le coincidenze e scoprendo un nuovo incanto del mondo. Resta da chiedersi quanto questo rapporto con il tempo sia peculiare alle perdite perinatali o non sia piuttosto, in senso più generale, una caratteristica del lutto e della relazione con i morti nel mondo contemporaneo [Kenny et al. 2019].

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[1] La convenzione tra le due associazioni si è interrotta nel corso del 2017. I gruppi Alchimia sono proseguiti in autonomia.

[2] Secondo la definizione biomedica la mortalità perinatale comprende sia la mortalità in utero tardiva (che corrisponde a un peso alla nascita ≤ 1000 g, o ≥ 28 settimane complete, o lunghezza del corpo ≥ 35 cm) sia la mortalità neonatale precoce (sino a 7gg dopo il parto). La definizione di lutto perinatale è più inglobante: comprende le risposte emotive di cordoglio generate dalla morte in qualunque fase della gestazione o dopo la nascita.

[3] La coppia percepiva la propria esperienza come troppo distante da quella delle altre.

[4] In queste note ho usato gli pseudonimi che riprendo nel testo. Le citazioni più lunghe sono tratte dalle testimonianze scritte pubblicate dall’associazione. Cfr. Alchimia [2018].

[5] Ringrazio l’equipe Alchimia e tutte le coppie che ho incontrato per avermi consentito l’accesso ai gruppi e per le esperienze e riflessioni che hanno avuto la generosità di condividere con me. Grazie anche a Gianfranca Ranisio, Donatella Cozzi e a due revisori anonimi per i loro preziosi commenti su una prima versione di questo testo.

[6] Questo, nella maggior parte dei casi, è avvenuto alcuni mesi dopo l’evento.

[7] La parola magica è associata ad una scuola di counseling che coniuga l’approccio biosistemico a quello teatrale. Oltre ai professionisti counselor, che fungevano da facilitatori, nei gruppi erano spesso presenti alcuni tirocinanti della scuola.

[8] Cfr nota precedente. Nei mesi in cui ho partecipato agli incontri, oltre alle coppie e ai counselor hanno frequentato i gruppi una psicologa (che è poi diventata parte dell’equipe), un’infermiera, un’educatrice e una giornalista che avevano preso contatto con l’associazione per ragioni professionali.

[9] L’aumento del numero di partecipanti ha portato all’organizzazione degli incontri in due turni successivi a cui le coppie potevano iscriversi di volta in volta, scegliendo l’orario più consono.

[10] L’individuazione delle cause di aborti spontanei e morti in utero è complessa. Spesso i quadri patologici sono riconducibili a più concause ed è difficile identificare una sola entità eziologica.

[11] La legge 194/1978 istituisce una differenza tra il primo trimestre, quando l’interruzione della gravidanza è consentita laddove la prosecuzione della gestazione, il parto o la maternità rappresentino un “serio” pericolo per la salute fisica o psichica della donna e il secondo trimestre dove il pericolo per la salute fisica o psichica della donna deve essere “grave”.

[12] Per la legge italiana, i bambini sono considerati “nati morti” solo quando abbiano superato le 28 settimane di gestazione [o 500g] al momento del parto. In questo caso, all’anagrafe viene redatto solo il certificato di morte. Se il bambino, in qualsiasi momento, nasce vivo e poi muore, devono essere redatti sia l’atto di nascita che quello di morte. I bambini nati morti possono essere sepolti al cimitero come quelli morti dopo la nascita – Art 47 Regio Decreto 09.07.1939 n. 1238. A richiesta dei genitori, possono essere sepolti al cimitero anche prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle 20 settimane – D.P.R. n. 285/1990, Regolamento di Polizia Mortuaria.

[13] Diario, incontro di febbraio 2017 (I gruppo).

[14] Alchimia [2018, 24].

[15] Alchimia [2018, 12].

[16] In Italia l’intervento più diffuso in seguito ad un aborto spontaneo di primo trimestre è la revisione chirurgica della cavità uterina. Raramente i medici consigliano un atteggiamento di attesa o una terapia medica per stimolare l’espulsione spontanea. Dopo le quattordici settimane, invece, la procedura più diffusa è l’induzione del parto.

[17] Diario, incontro di febbraio 2017 (II gruppo)

[18] La ricerca che ho svolto si è concentrata sull’associazionismo e sulle esperienze delle coppie. Sino ad ora, non ho raccolto il punto di vista dei medici e del personale paramedico che assiste le coppie durante la perdita (indagato, nello spazio euro-americano, da diverse etnografie: Le Grand-Sébille [2004]; Memmi [2011; 2014]; Earle, Komaromy, Layne [2012]). Le testimonianze delle coppie che ho incontrato così come delle psicologhe e delle counselor impegnate nella formazione del personale sanitario, restituiscono un quadro eterogeneo che meriterebbe un approfondimento specifico.

[19] Alchimia [2018, 39].

[20] La scelta di celebrare un funerale dipende da molti fattori tra cui l’età gestazionale, le informazioni disponibili e il sostegno del personale sanitario rispetto a questa scelta.

[21] Non sempre all’interno delle coppie i vissuti erano sincronizzati. Questo scarto in alcuni casi è stato benefico – consentendo all’uno di essere di supporto all’altra e viceversa – in altri particolarmente gravoso. Alcune partecipanti avvertivano la pressione del partner che avrebbe voluto vederle “andare avanti”. In diverse coppie, il partner maschile è entrato in crisi quando la sua compagna ha iniziato a stare meglio.

[22] Alcune di loro hanno chiesto di rientrare al lavoro sospendendo il congedo maternità.

[23] Sull’esperienza del tempo e dell’attesa in campo sanitario si vada il numero di Antropologia pubblica curato da Pizza e Ravenda [2016].

[24] «Ciò che il dolore rivela – scrive – è lo stato di dipendenza in cui ci tengono le nostre relazioni con gli altri. Si tratta di una modalità che non sempre è possibile spiegare, che spesso interrompe il racconto consapevole che proviamo a dare di noi stessi, che sfida la stessa idea di un io autonomo e sovrano» [2013, 48].

[25] Diario, incontro di febbraio 2017 (II gruppo).

[26] Diario, giugno 2017.

[27] Sulle comunità virtuali di sostegno al lutto perinatale in Italia cfr. Mattalucci 2015a; 2018.

[28] Sull’importanza del racconto nel dare un senso alla perdita mi permetto di rinviare a precedenti scritti in cui ho evidenziato come per le coppie le narrazioni sia uno strumento per comunicare emozioni, stati d’animo e sentirsi meno sole, ma anche per sensibilizzare l’opinione pubblica intorno alla loro condizione[Mattalucci 2018]. Nelle comunità biosociali di genitori de-filiati ma anche nella parentela o nella cerchia degli amici più stretti, il racconto consente di preservare la memoria del bambino, inscrivendolo in una trama di relazioni significative [Mattalucci 2015a; 2017].

[29] L’uniformità prodotta dal confronto con gli altri non cancella le differenze nelle esperienze soggettive e nei modi di simbolizzare la perdita. Il coinvolgimento emotivo e le modalità di far fronte al lutto hanno forme variabili che dipendono da molti fattori e non sono principalmente riconducibili, come spesso il senso comune suggerisce, alla durata della gestazione e/o alla presenza di altri figli.