Percorsi di salute e maternità fra immigrate filippine e ucraine

Reti, possibilità e barriere

Milena Greco

Università degli studi di Napoli Federico II

Indice

La prospettiva antropologica in riferimento all’evento "bio-sociale" della nascita in contesto migratorio
I vissuti del parto e della maternità fra le donne ucraine
La nascita e la centralità delle reti comunitarie fra le immigrate filippine
Riflessioni conclusive
Bibliografia

Abstract.  This article intends to provide, considering critical medical anthropology, a deeper insight on the opportunities and dynamics of accessing health services when reproductive health is concerned and on childbirth, seen as a “bio-social event”, by Filipino and Ukrainian female migrants, living in two different areas of Italy. Starting by narrating their stories, it will be described how, despite protection, these women must still face many issues and barriers, as their path is often transnational

Keywords: birth, female immigration, critical medical anthropology, migration networks, transnational health spaces.

Molteplici possono essere i percorsi delle donne nella migrazione che sono sempre più inserite in fitte reti e dinamiche trans-nazionali, mentre creano identità ibride e vanno a rifunzionalizzare, risemantizzare significati fra diversi contesti [Sayad 2002, Signorelli 2006, Canclini 2000]. Le condizioni in cui versano, le reti in cui sono inserite, per altro, possono influire considerevolmente sulle loro traiettorie di salute, sulle possibilità di accedere ai servizi socio – sanitari, sui vissuti inerenti la maternità o il parto, che rappresentano, come hanno messo in luce numerose indagini antropologiche, eventi cruciali nella costruzione dell’identità femminile [Ranisio 2012a, 8] ed al contempo, fortemente connotati da un punto di vista simbolico, sociale e culturale.[1]

Nei contesti migratori, d’altro canto, difficoltà linguistiche, orizzonti culturali inerenti pratiche, ritualità relative alla nascita, concezioni della persona, del corpo che rinviano ai paesi di provenienza possono contribuire ad erigere barriere e creare gap comunicativi o all’opposto dare origine a nuovi spazi di condivisione, di negoziazione sociale e culturale.

Le immigrate, in ogni caso, sono oramai numerose e visibili presso i servizi sanitari ai quali si rivolgono, in prevalenza, per questioni legate alla salute riproduttiva, alla gravidanza e al parto o quali “care givers” per i propri familiari. In tali ambiti, tuttavia, permangono considerevoli problematiche, nonostante l’attenzione prestata da politiche e normative [Agenas 2013, Lombardi 2005, Tognetti Bordogna 2008].

In questo articolo, a partire da una ricerca svolta nell’arco di circa tre anni,[2] in due contesti territoriali significativamente diversi per gestione dei servizi e delle politiche socio-sanitarie, le città di Pisa e Napoli,[3] si focalizzerà l’attenzione sui percorsi inerenti la salute riproduttiva e la maternità fra donne di origine filippina ed ucraina, collettività caratterizzate da background culturali differenti e da modelli migratori simili.[4]

In relazione a tali tematiche ci si è chiesti quali siano le difficoltà, le barriere che le immigrate incontrano per l’accesso e la fruizione dei servizi sanitari e se vi siano delle differenze fra i due territori presi in considerazione, legate, magari, a diverse modalità di inserimento o alla gestione delle politiche territoriali. Ci si è interrogati, poi, sul ruolo svolto dalle reti sociali locali o transnazionali[5] e sui percorsi di medicalizzazione, domandandosi se e con quali modalità le madri straniere siano disposte ad adeguarsi ad essi, rinegoziando pratiche o tradizioni dei paesi di origine.[6]

Si intende, così, approfondire tali aspetti a partire dalle voci, dalle storie, dalle esperienze delle donne intervistate, dopo aver ripercorso gli studi che, nella prospettiva dell’antropologia medica critica, hanno preso in considerazione questi ambiti di indagine. Saranno avanzate, in particolare, alcune riflessioni sui nodi problematici, sulle dinamiche inerenti l’accesso ai servizi sanitari in riferimento alla salute riproduttiva, così come sui vissuti legati alla nascita e alla maternità, evidenziando come siano contrassegnati, sovente, da pratiche transnazionali e mettendo il rilevo, infine, il ruolo svolto dalla reti sociali in cui le immigrate sono inserite.[7]

La prospettiva antropologica in riferimento all’evento "bio-sociale" della nascita in contesto migratorio

Le tematiche della riproduzione rappresentano un filone di studio particolarmente fecondo dell’antropologia medica che, dalla fine degli anni Settanta, a partire dalle ricerche pioneristiche di Jordan [1978] e Kitzinger [1978] si è articolato, attraverso numerose indagini, fino ad oggi [Ranisio 2012, 8].[8] Tali studi hanno focalizzato l’attenzione sugli aspetti e sulle dinamiche sociali e culturali della nascita, evidenziando come possa essere considerata un «evento bio – sociale» [Ranisio 2012a, 8] che attiene «al biologico», ma è al contempo, «permeato dalla cultura», socialmente prodotto e politicamente situato.[9]

Le riflessioni condotte in tale prospettiva, d’altro canto, possono essere considerate particolarmente attuali in riferimento ai vissuti e alle esperienze inerenti la maternità in contesto migratorio. Pregnanti, a riguardo, appaiono le considerazioni inerenti la questione della medicalizzazione della riproduzione e del corpo femminile,[10] che rappresenta una delle tematiche centrali di questo ambito di indagine ed ha assunto, nel tempo, dimensioni sempre più invasive [Ranisio 2012a, 27]. L’evento della nascita, infatti, in passato, come hanno evidenziato diverse ricerche, era permeato da una dimensione sociale, chiamando in causa competenze, capacità o saperi propri della sfera femminile [Ranisio 2012a, 27] ed era circondato da pratiche e credenze magico religiose, da complesse ritualità tese a scacciare o a de-storificare, riprendendo il pensiero di de Martino, il negativo, l’imponderabile.

Dagli anni Sessanta, tuttavia, il percorso della nascita è stato sempre più organizzato e scandito da tappe gestite in ambito sanitario, collocandosi «al centro di un sistema di potere delle strutture ospedaliere», che può essere interpretato anche in un’ottica di genere [Giacalone 2013, 259] o in relazione alla logica del “bio – potere” foucoultiano, ovvero alla gestione e al controllo del corpo da parte della politica, della società sugli individui [Foucault 1978; Ranisio 2012b, 71].

Alla medicina, così, è attribuito il compito di «prendersi in carico l’evento» e darne una «definizione socialmente riconosciuta», sebbene possano emergere, talora, anche nei contesti ospedalieri, nuove forme di ritualità [Giacalone 2013, 260] assieme a fenomeni di ibridazione culturale. La fiducia nella scienza medica e il ricorso alla tecnologia, infatti, non escludono il «mantenimento di aspetti della tradizione popolare» o inerenti la sfera religiosa [Ranisio 2014, 182].

In relazione all’adesione delle madri migranti a percorsi di maternità sempre più medicalizzati, inoltre, sono particolarmente appropriate le riflessioni di Ranisio che rinviano al concetto di agency [Fabietti 2011, 200; Ranisio 2012a, 36] e alla prospettiva di Signorelli sul pragmatismo femminile. La decisione delle donne di accettare il controllo della biomedicina sul corpo, infatti, come ha evidenziato la studiosa, si ricollega «alle informazioni di cui sono in possesso, ai condizionamenti cui sono sottoposte, agli strumenti culturali di cui dispongono» [Ranisio 2012a, 37-38], rappresentando, sovente, più una scelta pragmatica che ideologica.

Alcune ricerche antropologiche e sociologiche, d’altro canto, hanno focalizzato l’attenzione sulle specificità dei percorsi di maternità in ambito migratorio, soffermandosi sui rapporti fra i sistemi di nascita dei paesi di arrivo e le «etno – ostetricie dei paesi di origine» [Bonfanti 2012, 50], così come sulle principali difficoltà che le immigrate devono affrontare [Balsamo 1997; Lombardi 2005; Bonfanti 2012; Giacalone 2013; Falteri 2013; Marchetti, Polcri 2013]. Fra queste, condizioni di lavoro difficilmente conciliabili con la maternità, ambienti abitativi inadeguati, carenza di informazioni o dinamiche inerenti la relazione medica.[11]

Nei percorsi relativi alla nascita in ambito migratorio, così, ha evidenziato Lombardi, «si incontrano e si intersecano modelli culturali, passaggi, transizioni, aspettative e disagi di diverso tipo» [Lombardi 2005, 139].

Una delle principali problematiche per le madri migranti attiene, inoltre, al venir meno delle reti sociali di ausilio, sostegno e protezione che nei paesi di provenienza rendono il parto un «momento centrale della vita femminile» [Giacalone 2006, 208], conferendo alla donna «un forte riconoscimento sociale» [Lombardi 2005, 145]. Ciò, nelle località di accoglienza, può contribuire a mutare i ruoli di genere in ambito familiare [Balsamo 1997, Bonfanti 2012; Marchetti, Polcri 2013] ed influire sui vissuti inerenti il periodo successivo al parto, che può essere particolarmente difficile per le immigrate. Sono carenti, d’altronde, politiche, interventi a sostegno della donna in questa fase, mentre il sistema di assistenza alla nascita, medicalizzato e ospedalizzato, pone attenzione, principalmente, al periodo della gravidanza [Lombardi 2005; Bonfanti 1997].

Possono assumere, così, una considerevole rilevanza le reti di relazione sociale che le migranti intessono nei nuovi contesti. Queste, ha rilevato Bonfanti, possono far riferimento a diverse sfere, quali la famiglia, le comunità di fede, gli stessi servizi territoriali e orientano «l’interpretazione della gravidanza, la sua prassi corporea», implicando «obblighi e opportunità per le future madri» [Bonfanti 2012, 43].

Più faticosa può essere, pertanto, la «matro – poiesi»[12] per le donne straniere, che si colloca «in un crinale esistenziale, dove il tentativo di riproporre teorie e pratiche natali delle culture d’origine» stride, alle volte, «con la realtà sociale e istituzionale italiana» [Bonfanti 2012, 51].

A partire da tali riflessioni, nei paragrafi successivi, ci si soffermerà sulle esperienze delle immigrate filippine e ucraine intervistate, dalle quali si evince come la maternità possa contribuire considerevolmente a ridefinire e rinegoziare le identità, i ruoli, in ambito familiare, sociale e lavorativo.[13] È emblematico, inoltre, che alcune delle donne intervistate, pur essendo in Italia da molti anni, abbiano dichiarato di essersi rivolte alle strutture sanitarie esclusivamente per la nascita e in seguito, per la cura dei propri bambini. Le traiettorie, in ogni caso, singolari ed eterogenee, possono essere attraversate da dinamiche ricorrenti.

I vissuti del parto e della maternità fra le donne ucraine

Dalle storie, dalle voci delle donne di origine ucraina è emerso come possano essere numerose le problematiche che influiscono sull’accesso ai servizi sanitari in riferimento ai vissuti legati alla gravidanza e al parto, in entrambi i territori di indagine. Particolarmente significativa, ad esempio, l’esperienza di V. giunta in Italia nel 2000, molto giovane, assieme al marito, nell’ambito di un progetto migratorio familiare, atipico rispetto a quello di molte connazionali,[14] per far fronte alle difficoltà economiche. La donna, a Napoli, ha dato alla luce tre figli che, al momento dell’intervista, avevano dodici, sei e quattro anni. La sua vicenda è emblematica, in quanto, nel corso della sua prima gravidanza, ha rischiato di perdere il bambino a causa della situazione occupazionale che viveva. «La prima gravidanza è stata tragica! Io sono arrivata al settimo mese senza assistenza sanitaria» ricorda, a riguardo. V. infatti, lavorava come baby-sitter, svolgendo, al contempo, mansioni in ambito domestico e nei primi mesi di gravidanza, i controlli medici erano mediati dalla madre del suo datore di lavoro, che mentiva sull’andamento della gestazione. L’ausilio di una vicina di casa italiana, al settimo mese, è stato decisivo per consentirle di accedere ai servizi e fare la tessera sanitaria. A tal proposito, racconta: «Dal ginecologo mi ha portato … questa vicina di casa ed ho fatto la tessera sanitaria, ma questo al settimo mese! Giustamente stavo sulle scale a lavare i vetri, mi lamentavo, avevo mal di pancia!» [V. ucraina, Napoli 2016].

La donna ha ribadito come, in quel periodo, fosse all’oscuro dei suoi diritti nell’ambito della maternità, analogamente a quanto accade a molte connazionali, affermando, inoltre:

Sì, allora io avevo un contratto di lavoro domestico …Ce l'avevo! Però sai com'è? Loro con mentalità che noi siamo loro proprietà! Schiavi! […] Quando abbiamo toccato che abbiamo diritti pure noi […] è diventato un problema! [V. ucraina, Napoli 2016].

V., così, ha trascorso gli ultimi mesi di gravidanza a riposo e dopo la nascita del suo primo figlio ha intrapreso, vincendo, una causa contro il suo ex datore di lavoro che, attraverso intimidazioni e minacce, voleva costringerla a firmare le dimissioni.

L'esperienza del parto non è stata, per lei, particolarmente problematica, sebbene dalle sue parole traspaiano sia la consapevolezza di poter fare affidamento solo sulle proprie forze, che l’esistenza di gap comunicativi con medici ed ostetriche, con i quali, tuttavia, si instaura un rapporto positivo. In riferimento alla nascita del suo primo figlio, infatti, ha raccontato:

Io durante il parto sono aggressiva. Ho scaricato su quei poveri medici tutta aggressività di gravidanza. […] Com’è bello quando c’è tua mamma vicino! Io spezzavo la mano all’infermiera! Marò che dolore! […] Ho detto “No ora fammi andare in sala parto”. Ho capito che questa è sala parto qua si partorisce … Poi ho sentito “viola”, “verde” che per me è segno che mio figlio stava soffocando! E’ un dolore! Però più bello non c’è! […] I medici in ospedale mi hanno fatto sentire come familiari miei!” [V. ucraina, Napoli 2016].

Dalla storia di V., in ogni caso, si evince come i vissuti legati alla maternità possano essere particolarmente problematici, in contesto migratorio, a causa delle condizioni occupazionali, della carenza di informazioni in merito ai propri diritti o per l’assenza di una rete di sostegno. I periodi successivi al parto, infatti, sono stati, per lei, particolarmente difficili, a causa della situazione di solitudine in cui versava. «Con primo figlio ho superato diversi mesi proprio tragici!» ricorda, affermando, inoltre:

Dopo ogni gravidanza ho avuto problemi psicologici, perché nessuno mi poteva magari consigliare...Era difficile […] Io giustamente chiedevo e poi come si fa? Chiedevo a mia vicina ... E in quel momento... non c'era neanche Internet come adesso! […] C'erano i cellulari, però io non chiamavo dal cellulare, io chiamavo che infilavi scheda in telefono […] Con mia mamma ho parlato dopo due settimane dicendo come stavo! [V. ucraina, Napoli 2016].

Nonostante le difficoltà, V. è riuscita ad allattare i suoi bambini e quando il suo primo figlio aveva otto mesi ha ripreso il lavoro, portandolo con sé. «Andavo a fare piccoli servizi in poche case, magari mettevo bambino in carrozzina dondolavo con piedi! E qua lavavo!» rammenta.

In seguito intraprenderà la carriera sindacale e i ricordi del suo secondo e terzo parto sono intrecciati alle vicende legate a tale attività. I vissuti della gravidanza, concepita quale evento fisiologico, inoltre, per V. sono intrisi dalle sensazioni, delle percezioni che provava. Ribadisce, infatti:

Io non sono quelle donne che prendono gravidanza come malattia! E praticamente io a fine parto ero con la cartellina sottobraccio, scendo e vado a partorire direttamente in ospedale! […] Il bambino lo sentivo da due, tre settimane … Io sentivo in orecchio il battito di cuore! [V., ucraina, Napoli 2016]

Ha preferito, così, eseguire per ogni gravidanza poche ecografie, affermando: «Se ogni gravidanza ho avuto due ecografie sono tante […] Per mia scelta!» [V. ucraina, Napoli 2016]. Nelle fasi del percorso nascita scandite in ambito medico, tuttavia, come hanno messo in rilevo alcune indagini [Bonfanti 2012; Lombardi 2005], le immigrate che si rivolgono tardi ai servizi o che eseguono pochi controlli medici sono, spesso, considerate inadempienti, sebbene tali comportamenti possano ricollegarsi ad una concezione della gravidanza lontana da percorsi medicalizzati. In Ucraina, inoltre, sono diffusi rimedi naturali ed erboristici, a cui le migranti, come nel caso di V., possono far ricorso anche nel contesto migratorio, ricreando grazie all’ausilio di familiari rimasti nel paese di origine, «spazi di cura transnazionali» [Greco 2017].[15] I vissuti di V. inerenti la maternità, poi, sono significativi anche perché, come nel caso di molte connazionali, sono segnati da separazioni forzate e da una dimensione transnazionale. Le difficoltà di conciliare il lavoro con la cura dei figli, infatti, possono costringere le madri ad affidarli, anche solo temporaneamente, alle cure dei familiari nel paese di origine.

L’esperienza di V., in ogni caso, è considerevolmente diversa da quella di altre donne ucraine intervistate che, in contesto migratorio, possono contare sul supporto della rete familiare. E. ad esempio, è giunta a Napoli nel 1999, all’età di ventuno anni, dopo aver terminato gli studi in Ucraina, per raggiungere la madre che ha rivestito un ruolo di fondamentale importanza nel suo percorso migratorio aiutandola, in una prima fase, a reperire un lavoro regolare e in seguito, ad orientarsi fra i servizi del territorio. La ragazza, infatti, ha costituito in Italia un suo nucleo familiare, sposando un connazionale e nel corso della gravidanza si è rivolta ad una ginecologa privata a cui l’aveva indirizzata la madre, partorendo, poi, la sua bambina, con taglio cesareo, in un ospedale del centro della città, l’Annunziata. E. preserva del parto un ricordo positivo, ribadendo:

Ho preferito cesareo, subito me l’hanno fatto quindi … Senza nessun problema! Sono stata contenta, invece! […] Sì, anche medici, infermieri sono stati bravi. Io non ho avuto mai problemi su questo! Bello è andato tutto bene. Sono stati tutti bravissimi gentilissimi. L'unica cosa eravamo in quattro in una stanza e quindi … rimaneva sempre qualcuno e non potevi proprio risposare, sai quelle famiglie napoletane proprio! [E. ucraina Napoli 2016]

Una volta a casa, inoltre, utilizza il web, i forum e le chat per informarsi in merito all’allattamento e successivamente, allo svezzamento, affermando: «Sono andata a cercare tutte le informazioni su internet, non ho mai preso quel latte [artificiale], non ho avuto mai bisogno e siamo stati bene. […] Internet aiuta moltissimo!». Ecco che i contesti virtuali, anche fra le migranti, possono essere intesi quali nuovi luoghi di confronto e di acquisizione di conoscenze per le neo – mamme, come hanno messo in rilevo alcune recenti indagini [Ranisio 2012].

La dimensione lavorativa, inoltre, nel caso di E. non ha rappresentato un ostacolo per la maternità. In possesso di un contratto regolare come baby sitter, infatti, ha lavorato fino al quinto mese di gravidanza, per decidere di lasciare definitivamente questa attività dopo la nascita di sua figlia. Al momento dell’intervista, lavorava part-time, occupandosi della vendita di prodotti cosmetici per le connazionali, così da poter conciliare il lavoro con la cura della bambina che aveva, ormai, quattro anni.

Dai racconti delle madri di origine ucraina non sono emerse particolari difficoltà relazionali con i medici o le ostetriche, sebbene le reti amicali o familiari svolgano, soprattutto nelle prime fasi della migrazione, un ruolo fondamentale in questo ambito. In alcune interviste, tuttavia, si evince la percezione delle donne di un trattamento differenziato, legato al loro status di “straniere” e sono stati riscontrati, in occasione del parto, episodi di discriminazione considerati, in ogni caso, eventi sporadici. È emblematica, a riguardo, la vicenda di Av. la cui storia rinvia, per altro, alle complesse questioni inerenti le seconde generazioni di immigrati. Av., infatti, che al momento dell’intervista aveva trent’anni, è cresciuta in Italia dove era giunta da piccola per ricongiungersi ai genitori. Terminati gli studi ha sposato un connazionale dal quale ha avuto due bambini. Quando ha dato alla luce la sua prima figlia, tuttavia, la ginecologa le chiese il versamento di una quota aggiuntiva, come faceva, spesso, con altre donne straniere. A riguardo, la giovane ha raccontato: «La dottoressa si prendeva i soldi anche se non doveva prendere quei soldi […]. Perché io ho partorito all'ospedale pubblico, però lei dagli stranieri voleva anche i soldi!» [Av. ucraina, Napoli 2016]. Av., inoltre, ha evidenziato alcune incongruenze nella diagnosi in riferimento al parto, avvenuto con taglio cesareo, cosicché, per la seconda gravidanza, decise di rivolgersi ad una ginecologa della sua nazionalità, impiegata presso la clinica ostetrica dell’Università di Napoli. La giovane, per altro, ha trascorso i primi mesi di attesa del suo secondo bambino in Ucraina dove, assieme al marito, aveva deciso temporaneamente di trasferirsi, per allontanarsi dai pregiudizi nei confronti degli stranieri, sebbene siano stati costretti, poi, a tornare in Italia, a causa del conflitto bellico in corso.

È significativa, inoltre, l’esperienza di O., giunta a Napoli il giorno di Natale del 1999 con un progetto migratorio a breve termine e l’obiettivo di tornare, dopo qualche mese di lavoro, in Ucraina, dove aveva lasciato il marito e il figlio di quattro anni. La permanenza, tuttavia, si è prolungata, influendo sui suoi rapporti coniugali. Dopo il divorzio ha ricostituito un nuovo nucleo familiare, sposando un connazionale conosciuto in Italia, dal quale ha avuto una seconda bambina ed ottenendo il ricongiungimento familiare con il suo primo figlio. O. preserva un ricordo positivo dell’assistenza ricevuta in Italia, paragonandola all’esperienza negativa nel paese d’origine, dove erano insorte alcune complicazioni a causa di una infezione contratta da suo figlio in ospedale. Durante il travaglio della seconda figlia, tuttavia, il personale sanitario le chiese di tornare in camera a prendere il suo permesso di soggiorno, cosicché, nel ricordare questo episodio, O. ha ribadito:

All’ospedale tutto a posto ... Non posso dire che qualcosa va male! A me mi è piaciuto di più per partorire, pure dottori qui. Perché controllano i bambini bene. […] Unica cosa che non mi è piaciuta è che prima che partorivo, già cominciato a uscire bambino, diciamo e loro [gli infermieri] ha detto “fa vedere permesso di soggiorno!” Io con tutto il male che avevo, già ogni tre minuti, sono tornata mia stanza, preso carta d’identità, permesso di soggiorno, codice fiscale e mi ha fatto entrare [O. ucraina, Napoli 2016].

Il periodo successivo al parto, inoltre, come nel caso di V., è stato per O. particolarmente faticoso, a differenza di quanto avvenuto nel paese di origine, per l’assenza di una rete di ausilio. Un intervento chirurgico che la sua bambina ha dovuto subire quando aveva pochi mesi, infatti, la costrinse ad interrompere l’allattamento e tornare subito a lavoro, per far fronte alle difficoltà economiche.[16]

Gran parte delle immigrate intervistate, analogamente a O., nel valutare l’assistenza e il Sistema Sanitario in Italia ha riconosciuto, assieme ai limiti e alle criticità, la valenza dell’attenzione rivolta alla tutela della maternità, così come del principio universalistico e della possibilità di accedere gratuitamente alle cure, anche in caso di irregolarità per il soggiorno.[17] A., ad esempio, che ha due figli di sedici e nove anni, dei quali solo il secondo nato in Italia, preserva un ricordo positivo dell’assistenza medica ricevuta in gravidanza, da irregolare, benché la sua esperienza del parto sia stata particolarmente drammatica. Ricorda, infatti: «Era bello perché diciamo ogni settimana andavo a fare qualche esame, qualche controllo, qualche ecografia! […] Qui ho fatto tutti i controlli, tutte le ecografie!» [A. ucraina, Napoli, 2016]. Dalle sue parole, inoltre, emerge l’adesione ad un iter medicalizzato, a differenza di V. e si evince, pertanto, come i percorsi, le esperienze possano essere, a riguardo, soggettivi.

Nel corso della ricerca, d’altro canto, è stato riscontrato che, talvolta, il timore legato a condizioni di irregolarità giuridica, assieme alla carenza di informazioni, possa pregiudicare l’accesso ai servizi anche durante la gravidanza, come nel caso di una giovane donna intervistata a Pisa, che per queste ragioni, ha preferito partorire all’estero.

Sono numerose, dunque, le questioni aperte in rifermento all’accesso ai servizi sanitari per la salute riproduttiva, come è emerso dalle interviste, soprattutto fra le cosiddette migranti in “transito” [Vianello 2009] o impiegate in attività “notte e giorno”, le quali possono, sovente, intraprendere itinerari di cura transnazionali [Greco 2017b].[18]

La nascita e la centralità delle reti comunitarie fra le immigrate filippine

Nelle Filippine, le modalità del parto, le forme di ritualità e i saperi tradizionali che si associano ad esso possono essere, rispetto al contesto migratorio, considerevolmente diversi, come si evince dai racconti delle immigrate intervistate. Al parto in ospedale, infatti, anche per le caratteristiche del sistema sanitario privatistico, si affianca ancor oggi quello in casa, soprattutto nelle località rurali o fra le fasce della popolazione meno agiate. La nascita, in tal caso, accompagnata da massaggi tradizionali nel corso dei quali si utilizzano olii, acqua calda e tocchi delicati, coinvolge le donne della famiglia, il marito e una levatrice di comunità, “hilot”, che segue la madre anche nelle prime fasi del puerperio e per l’allattamento [Ostetrica filippina, Napoli 2015]. Nell’arcipelago, per altro, sono particolarmente diffuse forme di pluralismo medico e l’approccio biomedico è sovente, integrato a pratiche mediche tradizionali, legate all’uso di rimedi fitoterapici [Greco 2017b]. Una considerevole importanza, inoltre, è attribuita all’allattamento prolungato negli anni, cosicché per incrementarne la produzione, in caso di necessità, si può far ricorso a preparati naturali, come il succo di guava o miscele di riso, zenzero e foglie di moringa.

Dalle narrazioni delle immigrate si evince come, nel paese di origine, le reti familiari, soprattutto femminili ed i riferimenti comunitari rendano la nascita un evento denso di significati da un punto di vista sociale e culturale. Nel contesto migratorio l’assenza di tali network e le necessità imposte dai ritmi lavorativi possono influire, invece, considerevolmente sui vissuti delle donne o sulla relazione madre-bambino, non facilitando le possibilità di un allattamento prolungato, come è emerso in gran parte delle interviste.

Emblematica a riguardo l’esperienza di Ca., giunta a Pisa nel 1994, assieme alla sua bambina di tre anni, per ricongiungersi al marito, dopo aver lasciato gli studi e il tirocinio in giurisprudenza. La donna, al momento dell’intervista, ha ormai sessant’anni, è separata e svolge un’attività di assistenza full-time, vivendo presso una dependance del datore di lavoro con le due figlie di diciassette e quattordici anni, nate in Italia. La primogenita, invece, ha ormai costituito un suo nucleo familiare ed ha un bambino di quattro anni. Dalle parole di Ca. si evince come i ricordi del parto nel paese di origine stridano fortemente con quelli dei successivi, che hanno avuto luogo in Italia. Rammentando la nascita della sua prima figlia, infatti, racconta:

A casa ero la prima figlia, sono stata coccolata dalla mia mamma e poi i medici li conoscevano i miei genitori! Sicché un trattamento speciale per questa figliola, la figlia prediletta, la figlia più grande, la figlia di papà! Coccolata! […] C'è la mia mamma, c'è la tata, c'è il mio babbo! [Ca, filippina, Pisa 2016].

Ca., inoltre, fa riferimento alle pratiche ibride, sincretiche che possono caratterizzare il parto nelle Filippine, ricordando:

Io ho partorito all'ospedale, però sono stata curata con un’ “anziana”, che faceva i massaggi per facilitare il parto! E poi, anche dopo, sono stata curata con tutte queste erbe, che aiutano a seccare la ferita! [Ca. filippina, Pisa 2016]

I vissuti della nascita delle altre due figlie in Italia, invece, sono stati caratterizzati da una maggiore medicalizzazione e contrassegnati da solitudine, da considerevoli difficoltà, «tristi», come si evince dalle parole della donna, che ha ribadito: «Quando sono venuta qui in Italia, che ho dovuto fare tutto da me, tutto da sola, per me era un incubo!». Non vi sono stati, in ogni caso, particolari problemi nel rapportarsi ai servizi sanitari al momento del parto, per il quale si è rivolta ad una clinica privata. A tal proposito, infatti, sostiene:

La gravidanza qui in Italia è andata bene! […] Nel senso prendono cura di te dai controlli, medicine, tutte le analisi …Mi hanno dato persino il latte e i pannolini i primi tre mesi! E io ho partorito a casa di cura, non all' ospedale! Sono stata curata dalle suore! […] Il mio ginecologo è stato bravissimo!” [Ca. filippina, Pisa 2016]

Il periodo della nascita della sua terza figlia, tuttavia, è stato segnato da una grave depressione, poiché ha coinciso con la separazione dal marito. In seguito, Ca. inizierà a lavorare, affidando temporaneamente la bambina più piccola alla madre, nelle Filippine, per ricongiungersi a lei, fra molte difficoltà relazionali, solo quando avrà compiuto tre anni. Nel 2006, inoltre, sarà fra i fondatori di un’associazione territoriale tesa a fornire ausilio e sostegno alle connazionali, anche in riferimento ai percorsi legati alla maternità.

In occasione della ricerca è stato possibile riscontrare, per altro, come i network comunitari ed associativi, sia a Pisa che a Napoli, assolvano fra immigrate di questa nazionalità un ruolo fondamentale di ausilio e sostegno dinanzi a barriere linguistiche e comunicative, a difficoltà psicologiche, per orientare le neo-madri ai servizi o veicolare informazioni inerenti le tutele previste per la maternità e i diritti in ambito lavorativo. Sono emblematiche, a riguardo, le parole della presidente di un’associazione di Napoli che svolge, sovente, in maniera informale, un’attività di mediazione in questo ambito. La donna, infatti, ha ribadito: «anche con un permesso [le ragazze, nel corso della gravidanza] hanno difficoltà! Ci vuole la mediazione, un aiuto!» [P. filippina, Napoli 2016].

I percorsi di accesso ai servizi sanitari fra le immigrate filippine, inoltre, come nel caso delle migranti ucraine, sono strettamente intrecciati a quelli lavorativi. Essi possono essere rimodulati in base alle nuove esigenze imposte dalla maternità, sebbene, alle volte, sia quest’ultima ad essere sacrificata e segnata da vissuti transnazionali, ricorrendo all’ausilio delle reti familiari nel paese di origine, anche solo temporaneamente.[19]

Significativa, ad esempio, la vicenda di I., che al momento dell’intervista aveva una bambina di cinque anni ed era in attesa della suo secondo figlio. La donna, prima della nascita di sua figlia, era impegnata in attività di ausilio ed assistenza “giorno e notte”, con un regolare contratto. Dopo il parto è tornata a lavorare, come previsto dalla normativa, ma il datore di lavoro non è riuscito ad adeguarsi alle sue nuove esigenze. A riguardo ha raccontato: «Purtroppo la signora ha sentito la mia mancanza e quando sono rientrata è stata contenta, ma non ce l’ha fatta!» [I. filippina, Pisa, 2017]. In seguito ha intrapreso un’attività “ad ore”.

La situazione occupazionale delle immigrate filippine, in ogni caso, si caratterizza per una più diffusa stabilità e regolarità rispetto a donne di altre nazionalità impiegate nello stesso settore occupazionale [Anderson 2000; Parrenas 2001; Greco 2004]. Dalle interviste si evince, pertanto, come possano godere anche di maggiori tutele normative ed economiche nell’ambito della maternità o qualora essa implichi la perdita stessa del lavoro.

Le reti rappresentate dai datori di lavoro, d’altro canto, possono avere un ruolo significativo nell’orientare e indirizzare le immigrate di questa nazionalità ai servizi sanitari o a medici privati che rientrano nella sfera delle loro conoscenze.

La maggior parte delle donne intervistate a Pisa, in ogni caso, per la gravidanza e la nascita dei propri bambini, si è rivolta soprattutto alle strutture pubbliche ed ai consultori, mentre a Napoli, in prevalenza, a medici e ginecologi privati.[20]

Dalle narrazioni, dalle interviste, infine, è emerso come le madri di origine filippina ripropongano spesso, in maniera ibrida, nei contesti migratori, le pratiche mediche, le prassi alimentari, i divieti protettivi diffusi nel paese di origine, fra i quali non toccare l’acqua fredda o non uscire di casa dopo una certa ora. M., ad esempio, ha raccontato:

Le nonne a Filippine dicono sempre che quando hai appena partorita non devi mai lavare con l’acqua fredda […] Devi sempre lavare con acqua calda, più tiepida […] Poi ci sono delle foglie che loro fanno bollire che poi noi beviamo, come medicinale, dopo la gravidanza. Ma pure io quando sono partorita, ho rispettato sempre le usanze, quelle che dicono le nonne o mia mamma. [M. filippina, Napoli 2016].

Le neo-madri, inoltre, possono far ricorso ai rimedi fitoterapici diffusi nel paese di origine, grazie all’ausilio delle reti sociali transnazionali. Significativa, in tal senso, la vicenda di R. che ha dato alla luce i suoi bambini a Napoli, con parto cesareo, utilizzando delle erbe mediche, inviatele dalle Filippine, considerate efficaci per cicatrizzare la ferita [Greco 2017b]. Analogamente alle donne ucraine, così, fra immigrate di questa nazionalità, i percorsi di pluralismo medico, possono intrecciarsi alla creazione di “spazi transnazionali di cura”, anche in occasione del parto, del puerperio e per la cura dei propri bambini [Greco 2017b].

Riflessioni conclusive

In conclusione, nel corso della ricerca, a partire dalle narrazioni delle immigrate intervistate è stato possibile riscontrare come i vissuti della gravidanza e del parto rimandino agli universi simbolici dei contesti di provenienza, seppure possano essere di continuo rinegoziati, risemantizzati nei nuovi luoghi della migrazione. Le immigrate ricreano, infatti, spazi di cura ibridi facendo riferimento a diverse concezioni del corpo, della salute, della nascita, così come a più risorse e network, sia a livello locale nel contesto migratorio, che transnazionale.

Ci si può ricollegare, pertanto, alle riflessioni di Bonfanti, che ha ribadito come non si possa parlare, in riferimento alla donne straniere «delle loro culture di nascita», ma piuttosto di «nuove, ibride soluzioni» con le quali affrontano la maternità nei contesti di accoglienza [Bonfanti 2012]. Particolarmente appropriate appaiono, poi, a riguardo, le considerazioni di Ranisio, che ha evidenziato come i modi in cui le donne «percepiscono e gestiscono l’ambito della riproduzione» si pongano «all’interno della più ampia costruzione delle loro identità locali» [Ranisio 2014, 183].

Dalle vicende delle immigrate intervistate, inoltre, è emerso come al di là delle politiche e delle normative volte a tutelare la salute riproduttiva e la maternità, permangano, anche fra gruppi ormai radicati e stabili, numerose difficoltà in tali ambiti. Difficoltà che si ricollegano alle barriere linguistiche, alle condizioni occupazionali, alla regolarità giuridica delle donne o ad una scarsa informazione in merito ai propri diritti.

Si è visto, d’altro canto, che i percorsi legati alla maternità e all’accesso ai servizi sanitari, si intrecciano alle specificità delle condizioni delle immigrate, alle peculiarità dei modelli migratori prevalenti fra le due nazionalità prese in considerazione ed alle possibilità offerte dai diversi contesti territoriali. Il fatto che coloro che risiedono a Pisa si rivolgano in misura maggiore alle strutture pubbliche ed ai consultori, mentre a Napoli è prevalente il ricorso a medici privati, si può ricollegare, infatti, alla gestione e all’organizzazione dei servizi stessi nei due territori, ma anche al ruolo svolto dai network sociali nel veicolare informazioni in merito alla loro efficienza. Appaiono, così, adeguate le riflessioni di Sayad [2002], che ha ribadito come i migranti si inseriscano nei contesti territoriali rispecchiandone le peculiarità e le specificità.

La dimensione lavorativa, inoltre, centrale per le donne di entrambe le nazionalità, può incidere considerevolmente sui vissuti di maternità ed influire sulle possibilità di accedere ai servizi sanitari nel corso della gravidanza, come è emerso dalle vicende delle immigrate. La nascita di un figlio può implicare una rinegoziazione della propria condizione occupazionale, così come difficoltà in ambito lavorativo, fino alla perdita stessa del lavoro. È stato possibile riscontrare, comunque, che nel caso delle immigrate filippine, una più diffusa regolarità in termini contrattuali può garantire anche particolari tutele economiche, a differenza di quanto accade fra le donne ucraine.

Il periodo successivo al parto, in ogni caso, è quello più complesso, soprattutto qualora manchi una rete di supporto sul territorio. Esso, infatti, può essere caratterizzato da condizioni di solitudine e da «infiniti, piccoli problemi, difficili da affrontare, quando non si può contare su aiuti, consigli, quando si è interrotta la tradizione» come ha evidenziato Balsamo [1997, 128], mentre nelle località di origine le attenzioni rivolte alle neo-madri rendono la nascita un evento sociale e culturale condiviso. Si è visto, per altro, come sia le donne filippine che quelle ucraine possano essere costrette a ricorrere a strategie di maternità transnazionali, affidando i propri bambini ai familiari nel paese di origine, sebbene, ad oggi, la stabilizzazione sul territorio offra maggiori possibilità di tenerli con sé. I loro vissuti familiari possono essere, spesso, segnati dalla distanza, analogamente a quanto riscontrato fra altre donne impiegate in settori occupazionali simili, come le capoverdiane [Laurent 2015].[21] In riferimento a tali aspetti, è possibile, così, concordare con Tognetti Bordogna che ha ribadito come sia importante tutelare le migranti, non solo in quanto madri, bensì tenendo conto delle «implicazioni dell’essere donna in un nuovo contesto di vita», spesso precario, in condizioni di «sfruttamento lavorativo» [Tognetti Bordogna 2008].

Le stesse possibilità di divenire madri nella migrazione e al contempo di tenere unito il proprio nucleo familiare, infatti, come è emerso in questa ricerca, si ricollegano a numerosi fattori, quali l’esistenza di una rete di ausilio e sostegno sul territorio, le possibilità di rinegoziare, ridefinire le proprie condizioni ed i ruoli in ambito lavorativo, la situazione abitativa, una maggiore stabilizzazione sul territorio, intrecciandosi, dunque, a complesse dinamiche normative o di potere.[22] In relazione alle vicende di molte donne intervistate, inoltre, è possibile riprendere il concetto, elaborato da Laurent [2015], di “capitale migratorio” trasmesso fra le generazioni.

Nel corso della ricerca, si è visto, d’altro canto, come il ruolo svolto dalle reti sociali in contesto migratorio sia estremamente significativo per entrambe le collettività, nel far fronte alle difficoltà, alle barriere linguistiche, nel fornire informazioni, orientamento ai servizi, supporto alla maternità. Tali network, tuttavia, possono avere una diversa influenza e differenti caratteristiche fra le due collettività considerate. Le immigrate ucraine intervistate, infatti, fanno riferimento soprattutto alle reti familiari presenti sul territorio, mentre fra le donne di origine filippina è stato possibile rilevare una maggiore centralità dei network comunitari ed associativi.

Appare, infine, ancora incompiuto il percorso per il riconoscimento dei diritti sanciti dai principi normativi volti a tutelare la maternità e l’accesso ai servizi sanitari. Restano, invece, attuali le considerazioni di Bonfanti che ha evidenziato come un progetto di nursing interculturale, caratterizzato da un’assistenza medica «capace di accogliere le differenze», sia ancora lontano dall’essere attuato [Bonfanti 2012, 40]. In tale direzione potrebbero essere auspicabili politiche attente alle condizioni complessive delle donne straniere e al contempo, tese ad adeguare, alle loro specifiche esigenze, i servizi sanitari. Si può, per altro, ritenere, riprendendo le riflessioni di Seppilli, che una riorganizzazione di questi ultimi, affinché prestino maggiore attenzione alle dinamiche relazionali, come agli aspetti legati alle dimensioni sociali e culturali della maternità, potrebbe rappresentare «un passo avanti per tutti coloro che» ad essi «fanno riferimento» [Seppilli 2015, 241]. Molto può dipendere, in ogni caso, dalla valorizzazione di contesti “accoglienti”, aperti nei quali non si tema il confronto con le diversità culturali di cui le migranti sono portatrici.

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[1] Fra questi gli studi di Jordan 1978, 1984; Kitzinger 1978; Sheper-Hughes, Lock 1987; Duden 1994, 2006; Davi Floyd, Davis 2010. Per approfondimenti si rinvia a Ranisio 1996, 2012a, 2014a, 2014b; Lombardi 2005; Bonfanti 2012; Giacalone 2013; Falteri 2013.

[2] Alternando, dal 2015, il soggiorno nei due contesti, sono stati svolti periodi di osservazione presso i consultori, di osservazione-partecipante e realizzate ottantasei interviste a medici, operatori sanitari, informatori privilegiati ed immigrate. Queste sono state coinvolte in quaranta interviste in profondità (dieci filippine e dieci ucraine, in ogni territorio), con un campionamento snow-ball.

[3] Molteplici sono stati gli obiettivi del lavoro di ricerca svolto complessivamente. Non saranno approfonditi aspetti inerenti l’organizzazione dei servizi e le differenze fra i territori, per questioni di spazio e perché ciò non rientra fra gli obiettivi di tale articolo. Si rinvia a Greco 2017a.

[4] La scelta di tali collettività inserite, soprattutto, in attività domestiche o legate all’assistenza, si ricollega alla loro presenza significativa in entrambi i territori di indagine, come a dinamiche inerenti il nesso produzione-riproduzione. In merito ad analogie e differenze fra i modelli migratori o l’accesso ai servizi sanitari si rinvia a Greco 2017a; Istat 2016; Carrillo Sarli 2012.

[5] Per reti sociali “locali” si intendono quelle dei contesti di arrivo, rappresentate dai propri connazionali, da italiani o da immigrati di altre nazionalità, dunque amicali, parentali, associative, costituite dai datori di lavoro o da altre figure significative. Per le reti transnazionali si rinvia, invece, all’ampia letteratura in materia.

[6] Le interviste alle immigrate hanno approfondito le questioni inerenti l’accesso ai servizi sanitari, i vissuti del parto, le dinamiche della relazione medico-paziente, aspetti valutativi ed approcci medici, per rilevare come questi aspetti si ricolleghino alle traiettorie, ai progetti migratori, alle condizioni familiari, lavorative o abitative.

[7] Non rientra fra gli obiettivi di questo articolo approfondire le dinamiche più propriamente familiari o inerenti la maternità transnazionale, su cui vi è un’ampia letteratura, ma piuttosto, soffermarsi, sugli aspetti legati al divenire madri in emigrazione ed alla nascita.

[8] Fra i più significativi quelli di Jordan [1978, 1984]; Kitzinger [1978]; Rich [1977]; Sheper-Hughes, Lock [1987]; Duden [1994, 2006]; Martin [1987]; Rapp [1999]; Ranisio [1996, 2006, 2010, 2012]; Pizzini [1999]; Giacalone [2013]; Falteri [2013]. Per approfondimenti Ranisio [2012 a, b]; Giacalone [2013].

[9] Ranisio [2014] ha ripercorso la storia dell’antropologia riproduttiva soffermandosi sulle tematiche principali e sui nessi con le riflessioni del movimento femminista della seconda metà del XX secolo.

[10] Tale concetto inerisce «l’applicazione di conoscenze e delle tecnologie mediche ad aspetti della vita che storicamente non erano considerati di pertinenza medica» [Ranisio 2012b, 67] Per approfondimenti si rinvia, fra gli altri, a Ranisio [2012b] e Giacalone [2013].

[11] Per approfondimenti Good 2006; Kleinman 2006; Falteri, Giacalone 2013; Quaranta 2012; Fassin 2004; Mazzetti 2005; Fantauzzi 2010; Schirripa 2002; Colasanti, Geraci 1995; Lupo 1999; Greco 2019.

[12] Tale neologismo fa riferimento alla costruzione sociale e culturale della madre e della maternità [Bonfanti 2012, 1].

[13] Per questioni di spazio, ci si soffermerà, qui, solo su alcune delle storie delle donne intervistate, fra le più significative ed emblematiche.

[14] Le prime immigrate ucraine in Italia agli inizi del nuovo millennio, infatti, emigravano sovente sole, anche se nell’ambito di progetti familiari. Nel tempo questo flusso migratorio è divenuto più articolato. Si rinvia a Conti, Bonifazi, Strozza 2016.

[15] Le migranti possono ricorrere a cure e controlli nel paese di origine o farsi inviare medicine o rimedi tradizionali [Greco 2017b]. Per il concetto di spazio di cura transnazionale si rimanda a Krause 2008; Zanini, Raffaetà, Krause 2013.

[16] O. lavorava in quel periodo, con un regolare contratto, in un negozio ubicato nei pressi della stazione centrale di Napoli.

[17] Dalle interviste alle donne di origine ucraina è emerso, in ogni caso, come a Pisa facciano maggiormente ricorso ai servizi pubblici rispetto a quanto avviene a Napoli.

[18] In riferimento ai modelli migratori delle donne ucraine si rimanda a Vianello 2009 e Spanò, Zaccaria 2003.

[19] Tale scelta sembra essere, ad oggi, meno diffusa rispetto al passato, grazie alla stabilizzazione sul territorio.

[20] Questa informazione trova un riscontro anche dalle statistiche sanitarie raccolte e analizzate nel corso della ricerca.

[21] Si possono riscontrare, poi, ulteriori analogie, ad esempio in riferimento al ruolo centrale svolto dalle madri, dalle normative sui ricongiungimenti familiari o dalle opportunità offerte dai mercati del lavoro locali [Laurent 2015].

[22] Un ruolo fondamentale può essere rivestito, ad esempio, dalle possibilità e dalla volontà dei datori di lavoro ad ospitare i figli o l’intero nucleo familiare, che sono più frequenti fra immigrate di origine filippina, impiegate, in genere, per le famiglie economicamente più agiate.