Legami in diaspora: madri, figli e genere nelle famiglie transnazionali

Alcune riflessioni sulla migrazione delle donne rumene in Italia

Donatella Cozzi

Università degli Studi di Udine

Indice

Visibile / Invisibile
Maternità coatte: Romania 1966-1989
Migrazione femminile e visioni distopiche
A proposito di left behind
La Sindrome Italia e alcune distorsioni prospettiche
Psichiatrie in mutamento e chimere
Il risorgere di un vecchio paradigma: migrazioni e malattia mentale
Bibliografia

Abstract. After briefly examining the pronatalist policy of Ceausescu's regimen and its consequences on women's reproductive health, some results of female emigration from Romania to Italy are taken into consideration, as the phenomenon of children left behind. What is called Sindrom Italia is also examined: this interpretation of distress presented as consequence of migration is becoming increasingly common among Romanian psychiatrists and in public and media arena. Both children left behind and Sindrom Italia contribute to blaming migrant women, and to spreading a moral panic, hiding both the women’s efforts of to maintain ties in the diaspora, and the economic and structural reasons behind the migration. Public and media discourses are also meant in order to create a regimen of truth about the proper women position in Rumanian society.

Keywords. Women migration from Romania to Italy; Children left alone; draining care; Italian Syndrome.

Visibile / Invisibile

Il tema principale di questo articolo riguarda la migrazione delle donne rumene verso l’Italia, in gran parte per svolgere lavoro di cura, e come esse mantengono i legami con i figli e il resto della famiglia rimasti in patria. Due sono i temi correlati: le sorti di coloro che restano, in modo particolare i figli, e soprattutto la cosiddetta Sindrome Italia, di cui molte donne sono reputate soffrire quando rientrano in Romania. Scrivo soprattutto perché quello che all’inizio reputavo un tema marginale, eccentrico rispetto ai legami in diaspora, ha poi occupato sempre più spazio: per la difficoltà di rintracciarne la genealogia, per il diffondersi e l’incalzare di articoli sulla stampa e online e servizi video sul tema, per l’impiego del termine diventato comune nel settore del lavoro di cura proveniente dall’est europeo, infine per l’uso sociale e la costruzione di un regime di verità[1] che sollecita l’antropologia medica ad interrogarsi sulla nascita di questa nuova categoria nosologica. L’argomento che fa da sfondo a questo intervento è strettamente collegato alle dinamiche del neoliberismo economico nell’ambito del lavoro di cura [Ehrenreich, Hochshild (eds.) 2004; Hochshild 2006], che attraggono in alcune parti del mondo – per l’Europa soprattutto Italia, Spagna e Inghilterra – le donne rumene spostando le risorse di cura per i bambini, gli adolescenti e gli anziani dal paese di origine[2] [Cingolani 2009, Vietti 2010, Luatti, Bracciali, Renzetti (eds.) 2006]. Benché si tratti di un fenomeno che concerne internazionalmente la sfera economica e le politiche del welfare, il lavoro domestico e di cura rimane rinchiuso entro le pareti domestiche. Sinonimo del lavoro invisibile [Di Martino 2015] esso registra ormai da alcuni anni una riflessione femminista [Mattalucci (ed.) 2012] sulle accezioni post-liberiste della sfera produzione / riproduzione [Ascione 2012], sulle dinamiche della valorizzazione / svalorizzazione del lavoro, sull’erosione del dispositivo di cittadinanza. Senza contare l’effetto che i processi di globalizzazione della cura hanno sulla produzione di modelli di femminilità subalterne, sulla formazione di modelli stereotipati di lavoratrice [Cerri 2013], nonché sui processi di disciplina del corpo delle donne [Ong 1983, Sassen 1998]. Una crescente conflittualità sociale, soprattutto tra lavoratrici immigrate e datori/datrici di lavoro, si insinua inoltre nelle pieghe del lavoro illegale, ancora troppo spesso offerto alle e richiesto dalle assistenti familiari: chiedere/offrire occupazione senza diritti mostra come il lavoro di cura salariato sia il nervo scoperto di una incapacità delle politiche sociali italiane ad affrontare una serie di fragilità, facendole rientrare nella gestione della sfera privata. Per le donne straniere che hanno in patria i loro figli, il percorso per il loro ricongiungimento in Italia è tortuoso e frustrante: i requisiti richiesti penalizzano tutte coloro che risiedono per lavoro a casa dell’assistito.

Le famiglie transnazionali nelle quali è la donna ad emigrare e si configura come principal breadwinner [Parreñas 2005] hanno in comune il fenomeno dei figli rimasti indietro, i cosiddetti left behind. Un fenomeno che non ha/ha avuto la stessa visibilità quando ad emigrare é/era l’uomo, e mette in questione l’essere madri in migrazione e per sineddoche la genitorialità esplicata dalle coppie migranti quando i figli rimangono in patria. Si tratta dunque di un fenomeno al quale oggi viene data una visibilità sconosciuta prima, per la maggiore sensibilità verso l’infanzia e la soggettività infantile: basti pensare all’emigrazione italiana in Svizzera negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento e a tutti i bambini (e le donne) ‘rimasti indietro’, o portati illegalmente all’estero e costretti a una infanzia silenziosa entro le mura domestiche per non essere scoperti [Vecchio 2019]. Potremmo dire che la migrazione femminile legata al lavoro di cura, porta ad enfatizzare chi parte e chi resta, quindi ad evidenziare gli scripts di genere presenti nella società di partenza: il rischio è allora insistere sulla frattura del legame tra madri e figli, piuttosto che sulle strategie che lo mantengono, nonostante la lontananza. Le ricerche di Parreñas [2000, 2005] per la diaspora filippina e di George [2005] per il Kerala indiano evitano questo rischio con una lettura che incardina la maternità transnazionale nelle politiche di regolazione dei flussi migratori dei singoli Stati.

Il discorso pubblico che si è sviluppato in Romania almeno dal 2005 evidenzia invece tale frattura, screditando le donne migranti come irresponsabili che abbandonano figli e genitori e lasciando nell’ombra sia le condizioni economiche e politiche che hanno condotto alla migrazione, sia le ragioni del cuore e del desiderio delle soggettività individuali: avere una vita diversa, offrire una vita diversa ai propri figli, esplorare nuove opportunità. Ogni singolo incontro legato a questa ricerca ha mostrato il peso soverchiante della datità[3]: da parte delle donne, l’urgenza di parlare delle condizioni di lavoro, dei contenziosi con i datori/datrici di lavoro, delle difficoltà quotidiane. Della datità fa parte anche lo sguardo giudicante a cui sono sottoposte qui e là: per come lavorano, per come sono, per come cercano di supplire all’assenza attraverso beni di consumo per i figli, ciò che Parreñas chiama the commodification of love. Solo costruendo l’opportunità di incontrarsi in uno spazio neutro, nel tempo libero dal lavoro, è stato possibile iniziare a parlare dei legami in diaspora, raccogliere storie di vita, inserire la datità in un orizzonte più ampio. Negli incontri a Iaşi, soprattutto con ragazze/i, il peso della datità ha assunto una accezione diversa: è la lontananza, a volte l’abbandono, la vita in collegio o altre istituzioni simili, la storia drammatica a catturare il cuore e la mente di chi ascolta e a rendere difficile comprendere come tale datità venga costruita come prodotto storico. Datità è anche ancorare la propria sofferenza psichica all’esperienza di migrazione, nel caso di coloro che ci hanno presentato come sofferenti di Sindrom Italia, come è conosciuta in rumeno, incontrate all’ospedale psichiatrico di Socola: e qui occorre accogliere la necessità di dare un senso a quanto si sta vivendo, alle angosce, deliri, senso di fallimento, disperazione, che l’esperienza di lavoro in Italia ha fatto deflagrare. La visibilità che stordisce, ottunde per ridondanza è quella dei media in Romania sulla migrazione femminile[4] e sui figli rimasti in patria. Essi tracciano una connessione tra: a) migrazione femminile, draining care dal paese di origine, lavoro di cura all’estero e disagio psichico – la Sindrome Italia, appunto -, e b) tra figli rimasti in patria e disagio psichico – che culmina con il suicidio o la sintomatologia legata alla Sindrome Italia. Questa connessione si accompagna a una duplice economia morale, che identifica vittime (i figli lasciati indietro) e colpevoli (le loro madri migranti), e che trasforma le colpevoli (le madri) a loro volta in vittime quando si ammalano di Sindrome Italia (vedi Infra).

L’ipotesi è che si intenda generare moral panic verso i cambiamenti in corso nella società rumena e, insieme, si voglia produrre un regime di verità[5] [Foucault 2012] che i soggetti sono obbligati a riconoscere come ‘vero’ e manifesta i rapporti tra la manifestazione della verità (la migrazione delle donne fa ammalare), governo degli individui e costituzione della soggettività. Un regime di verità quindi costituisce la politica generale della verità di una determinata società, ed è formato da tipi di discorsi specifici, meccanismi, tecniche e status sociali. È una definizione molto più ampia di quella di regime discorsivo, in quanto il regime di verità si determina nei legami che la verità intrattiene con i sistemi di potere che la producono e la sostengono. Se nelle opere anteriori agli anni Settanta Michel Foucault proponeva uno schema fondato sul rapporto tra ‘potere’ e ‘sapere’ e dichiarava che ogni soggetto si trovava assoggettato passivamente ad un ‘regime di verità’ prodotto esternamente da sé, nel ‘governo attraverso la verità’, il soggetto diventerebbe parte anche attiva. In realtà, questo spostamento concettuale di Foucault sembra più formale che sostanziale e il gioco tra ‘sapere’ e ‘potere’ e ‘verità’ è ancora ben presente, in quanto la distinzione tra meccanismi di verità prodotti dal rapporto tra ‘sapere’ e ‘potere’ e quelli prodotti dal ‘governo attraverso la verità’ sembra sottile e quasi inesistente (i secondi discendendo comunque dai primi). Il soggetto/individuo resta passivo (è sempre oggetto di ‘sapere’ e di una verità eteronoma, anche se la fa diventare propria e personale), pure nella confessione, nel ‘regime di verità’ del cristianesimo. E il potere produce ancora e sempre più intensamente la verità utile solo al proprio potenziamento e alla propria infinita riproducibilità, facendola introiettare a ciascuno. Oggi il ‘regime di verità’ del liberismo economico impone un ‘obbligo di credere’ (nel mercato) e poi chiede a ciascuno di ‘guardare dentro se stesso’, riproducendo e convalidando quella verità comunque eteronoma e prodotta dal sapere-potere capitalista, ciascuno infine dovendosi giudicare o meno come ‘peccatore’, cioè domandandosi: sono una buona capitalista? sono abbastanza imprenditrice di me stessa? so vendermi bene sul mercato? ho un buon ‘capitale’ umano? Da queste note diventerà chiaro come coloro che soffrono di Sindrome Italia escono sconfitte da questi interrogativi.

Maternità coatte: Romania 1966-1989

Per inquadrare la maternità transnazionale rumena, traccerò un breve profilo storico relativo alla salute sessuale e riproduttiva delle donne rumene, legata al regime di Ceauşescu e alla sua politica pronatalista. Con il Decreto 770 del 1966 Ceauşescu aveva proibito la contraccezione e l’aborto alle donne con meno di 4 figli. Sino al 1966 la Romania era il paese più permissivo in Europa in tema di interruzione volontaria della gravidanza. Era di fatto l’anticoncezionale più in voga, anche perché gli altri semplicemente non si trovavano, al punto che si verificavano 4 aborti per ogni nascita. Con il Decreto 770 veniva bandita anche ogni forma di educazione sessuale. In seguito al decreto, il tasso di natalità passò dal 14,7 per cento nel 1966 al 27,4 per cento nel 1967. Nel 1972 l'applicazione del decreto fu estesa alle donne fino a 45 anni (prima si fermava alla soglia dei 40 anni) e il numero dei figli per donna richiesto passò da quattro a cinque.

Secondo le testimonianze[6], la radio martellava dalla mattina alla sera: “un paese forte è un paese popoloso”. Dicevano che il paese aveva bisogno di contadini, operai, soldati, e che l’Occidente aspettava il minimo cenno di debolezza dei comunisti per attaccare. Molti ci credevano, e vivevano nella paura. Agenti del governo – spesso ostetriche – sarcasticamente denominati ‘polizia mestruale’, compivano regolari ispezioni nei luoghi di lavoro per sottoporre le donne a test di gravidanza. Quelle che risultavano ripetutamente negative si vedevano appioppare una salata multa ‘sull’astinenza’, punendo con la detenzione o multe salate gli aborti clandestini. Quello che si sa è che l'aborto illegale è stata la causa predominante di morte tra le donne in età fertile, il tragico risultato di una legge pensata per aumentare la popolazione. Dal 1966 al 1989, il bilancio ufficiale delle donne morte per motivi collegati alla salute riproduttiva è stato di 9.452. Ma questa cifra non include le donne che non cercarono cure mediche dopo un aborto clandestino, e invece comprende quelle che morirono per malnutrizione e inadeguata cura prenatale. Le donne, a centinaia, si trovavano ricoverate in ospedali che difettavano di personale e di attrezzature.

Obbligate a fare figli, molte donne abbandonavano il neonato subito dopo l’espulsione, anche per la povertà dilagante nel paese. Gli orfanotrofi si riempirono, e aumentò il tasso di mortalità infantile, legato alla povertà da un lato e alle condizioni di vita disumane negli orfanotrofi, che fecero dire ai primi osservatori arrivati in Romania dopo la caduta di Ceauşescu che scene simili erano state viste solo nei campi di concentramento nazisti. Nel 1980, più di 100.000 bambini erano in cura allo stato [Rioli 2007]. Gli abusi fisici e sessuali da parte di membri del personale erano molto diffusi. Tutto questo ci sembra lontano, ma non lo è tanto, quando pensiamo che molte delle donne che hanno vissuto ciò sono venute a lavorare in Italia, o ci sono venute le loro figlie, o arrivano ora, superati i sessant’anni – secondo quanto i colleghi sociologi rumeni osservano come nuovo fenomeno che prende piede: una migrazione temporanea, due-tre mesi per la durata dei permessi turistici, delle non più giovani ma ancora in grado di svolgere lavoro invisibile, fare pulizie o badare a qualcuno più anziano di loro. Un mercato senza fine.

1966-1989: una intera generazione. La maggior parte dei romeni definirebbe decretsel, nato per decreto, qualunque persona nata fra il 1966, anno del Decreto 770 e il 1990, anno della sua abrogazione. Secondo altri, solo quelli nati sino al 1968 portano questa etichetta, perché dopo un certo tempo la gente era riuscita a adattarsi a uno stile di vita in cui la sessualità era vissuta come un vincolo. Ma al di là delle distinzioni, possiamo considerarli semplicemente come dei ragazzi cresciuti sotto il comunismo, dei "figli con la chiave al collo" [a causa della chiave che portavano legata al collo per rientrare a casa mentre i genitori erano al lavoro]. Quelli/e che avevano 20 anni nel 1989. Quelle che nei primi anni Novanta iniziarono a emigrare, attratte da una possibilità di vita diversa, in cui la sessualità e la riproduzione non fosse un dovere di stato, attirate soprattutto dalla prospettiva di uscire dalla miseria, o di vivere, studiare, amare liberamente. Ecco, è difficile in questa ricerca dipanare i fili del desiderio da quelli della necessità. Perché una ridondanza mediatica fa apparire il desiderio come colpevole e la necessità come accessoria.

Migrazione femminile e visioni distopiche

In una prima fase della migrazione dalla Romania, molti provenivano da contesti rurali, in quanto i cambiamenti economici post-comunisti non furono accompagnati da mutamenti che favorissero l’agricoltura e lo sviluppo di infrastrutture nelle regioni agricole [Sandu 2005]. Oltre agli effetti economici e demografici della migrazione, alcuni studi iniziano a sottolineare gli effetti negativi sulle relazioni familiari e di coppia, e le relazioni tra genitori e figli [Sandu et al. 2006].

Nella letteratura internazionale dedicata alle donne che emigrano come principal breadwinner, un aspetto significativo è il drenaggio di risorse di cura dal paese donatario a quello donatore. Nel caso rumeno, questo drenaggio ha animato una percezione dei legami già critica, riverberata negli studi scientifici [Sandu et al. 2006], nella pubblicistica ad hoc [Save the Children 2007, 2008] e infine dei media. Uno dei principali motivi dell’essere genitore-single donna è legato alla rottura del legame di coppia a causa di problemi precedenti alla migrazione o che la migrazione ha fatto precipitare: un coniuge alcolista, o rimasto disoccupato, assente nell’affidamento dei figli, violento o tutte queste cose insieme. L’occasione della migrazione può diventare il desiderio di incontrare un uomo diverso, formare una coppia diversa, anche una nuova famiglia. Spinte dalla necessità e/o spinte dal desiderio, tutte le storie di migrazione femminile un po’ si assomigliano, ma ciascuna finisce con l’essere unica.

Un elemento mi ha colpita durante la parte della ricerca svolta in Italia: la difficoltà di parlare di quello che si vive di fronte ad altre connazionali, a fare rete – solidaristica, associazionistica – con altre connazionali. Essa sembra incidere pure sulla possibilità di affidare i figli a qualcuno della propria famiglia: a volte, secondo le testimonianze raccolte, sono rapporti vincolati all’invio di denaro nonostante il legame di parentela, altre volte ci si affida più ad estranei come vicini/e di casa, molto spesso è la madre di colei che emigra, quindi una anziana a prendersi cura dei figli. Felicia Ciobanu, psicologa e appassionata collaboratrice di questa ricerca a Iaşi, riporta questa difficoltà a ‘fare legame’ alle conseguenze del regime. Parenti, vicini, chiunque nella cerchia delle proprie frequentazioni poteva fare la spia, rivelare un particolare che poteva metterti in cattiva luce o denunciarti agli occhi del regime in cambio di piccoli privilegi. Il regime non c’è più, eppure questa sfiducia vischiosa sembra essere rimasta: in mancanza di ricerche in proposito, solo le testimonianze raccolte la manifestano. Il sistema della dittatura era terribile nella sua coerenza totale: era una specie di stato naturale della schiavitù; ma, per eterogenesi dei fini, questo ha prodotto in una parte della popolazione, e nelle donne in modo particolare, un’intensa esigenza di cercare, sperimentare qualcosa di diverso.

Ancora George [2005] e Parreñas [2001, 2005] avanzano l’ipotesi che la lontananza della donna/madre dovrebbe trasformare i ruoli di genere nelle famiglie, in modo che i padri mettano in gioco il loro lato accudente e supportivo, si impegnino nei lavori domestici – cucinare, lavare, riassettare casa, eccetera -, valorizzando di conseguenza anche il lavoro femminile. Ma il condizionale è d’obbligo, e le autrici citate documentano piuttosto il contrario: per un esiguo numero di padri di questo tipo, spesso sono altre donne della parentela o le figlie a prendere in carico il lavoro domestico.

A proposito di left behind

É vero: ci sono casi in cui i bambini vengono abbandonati, subiscono una lontananza affettiva che lascia segni pesanti, oppure in cui le loro madri si costruiscono una nuova famiglia nel paese ospitante. Ma, nel grande numero dei migranti rumeni in Italia[7], si tratta di un fenomeno minoritario rispetto a quello delle madri che cercano di mantenere i propri legami in diaspora. La questione dei cosiddetti left behind o left alone è balzata agli onori delle cronache e della ricerca da una decina di anni, a partire dalle regioni rumene più svantaggiate economicamente (l’area di Nord-est e quella Occidentale, la Moldavia rumena) che hanno conosciuto le ondate migratorie verso ovest più forti. La partenza di un numero considerevole di persone, in cerca di un lavoro o di una occupazione meglio pagata, ha lasciato indietro un numero considerevole di bambini e adolescenti, che vivono l’assenza di almeno uno dei genitori nel processo di accudimento e di crescita. Secondo i dati raccolti da Save the Children (Salvaţi Copii) nel 2007, una inchiesta quindi ormai decennale, che a sua volta si basa sui dati della ANPDC (Associazione Nazionale per i diritti dell’Infanzia) ci sarebbero oltre 82.464 bambini rimasti senza uno o entrambi i genitori partiti per l’estero. Di essi, 26.406 provengono da famiglie in cui sono partiti entrambi i genitori; per 47.154 è uno dei genitori ad essere partito; infine, 8.904 appartengono a famiglie monogenitoriali, in cui l’unico genitore è all’estero. Di essi, circa 2500 sono rimasti completamente soli, quindi senza qualcuno che potesse surrogare le funzioni genitoriali e sono entrati nel sistema di protezione speciale, ovvero case rifugio, orfanotrofi o istituzioni, per la maggior parte aperte e amministrate da organizzazioni cattoliche coordinate dalla Caritas Romania.

Secondo altre stime, come lo studio Soros, il numero dei left alone è sottostimato. Questo perché la ricerca di Save the Children prese in considerazione solo la popolazione scolastica tra il V e VIII grado (170.000 ragazzi). I dati ci offrono una istantanea di un fenomeno in continua trasformazione. Basti pensare alla cosiddetta migrazione circolare dei bambini – cicli di left alone, ricongiungimento con i genitori nel paese estero, ritorno in patria con il contraccolpo della crisi economica, dal 2008. Poi di nuovo un ricongiungimento, e ancora un ritorno in patria per studiare all’università, o una nuova partenza per proseguire gli studi in Italia. Quello che vale la pena di ricordare è che, con cospicue fluttuazioni, tra il 25 e il 27% dei ragazzi/e tra i 9 e i 17 anni hanno almeno un genitore all’estero. Nel 2008 è stato stimato che 350.000 minori avessero all’estero almeno un genitore per motivi lavorativi, e di essi 126.000 hanno visto partire entrambi i genitori [Toth el al. 2008]. È un fenomeno sociale multiforme: minori che restano completamente soli per un periodo; bambini portati nelle case rifugio e ivi abbandonati, più spesso per la grande povertà che a causa dell’emigrazione; figli/e rimasti con le/i nonni o altri parenti; ragazzi e ragazze in collegio per studiare mentre i genitori sono lontani, ma non abbandonati.

Lo studio di Save the Children citato, è stato realizzato nella Moldavia rumena, a Iaşi, tra ragazzi/e tra i 10 e i 19 anni in area urbana e rurale, con metodi qualitativi (interviste e focus group) coinvolgendo una ottantina di ragazzi con genitori all’estero, insegnanti e responsabili di servizi per l’infanzia. Le principali conclusioni sono le seguenti:

  • I genitori che prendono la decisione di lavorare all’estero hanno tra i 25 e i 45 anni;

  • La motivazione prevalente è la disagiata situazione economica;

  • Tra le famiglie migranti è elevato il numero delle famiglie disgregate;

  • La partenza dei genitori ha effetti negativi sui figli: sentimenti di abbandono, di non considerazione delle loro necessità; problemi collegati alla frequenza e agli adempimenti scolastici;

  • Tra gli effetti visibili, vengono riscontrati cambiamenti fisici, assenteismo e abbandono scolastico, delinquenza minorile. Essi sono più accentuati nelle situazioni in cui nessun adulto offre supporto ai figli, e nei teenagers investiti della responsabilità della casa e dei fratelli minori, senza alcun appoggio nei momenti significativi (l’esame di ingresso alla scuola superiore, l’esame di maturità, scegliere gli studi o l’attività lavorativa successiva).

Quando i figli sono affidati ai nonni, preferibilmente alla nonna materna, la relazione può diventare difficile: gli anziani, pensionati e nella maggior parte dei casi poveri, non sono in grado di offrire loro i beni che altri pari di età possiedono, o la capacità relazionale che i nipoti chiedono. Molti sono gli anziani, inoltre, che con la partenza delle figlie/figli, devono fare richiesta di misure assistenziali.

Gli effetti della emigrazione dei genitori sono stati affrontati: con una crescente individualizzazione dei problemi sociali, che coincide con l’esplicitare cause e situazioni individuali e mettendo in secondo piano gli aspetti politici e sociali; avallando il trasferimento di responsabilità dalle strutture macrosociali e dal welfare alle famiglie e ai singoli individui; la migrazione, soprattutto quella femminile, è trattata in termini che sfidano i valori morali della famiglia (le responsabilità parentali e di accudimento, gli effetti sulle relazioni di coppia, il funzionamento ‘normale’ della famiglia) [Cojocaru 2013]. Alcuni autori [Cojocaru el al. 2015] lamentano che questi studi, soprattutto quello di Save the Children e dei report successivi di altre ONG sull’argomento, siano da considerarsi ricerche ad hoc, allo scopo di catalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su alcuni problemi sociali ed attivare una agenda politica per affrontarli, ma che essi siano privi di metodo scientifico rigoroso. Quindi, questi studi farebbero leva su un asse affettivo ed emotivo al fine di spingere le istituzioni e/o la solidarietà internazionale ad affrontare il fenomeno. La numerosità delle persone coinvolte, soprattutto se minori, è uno degli espedienti retorici utilizzati per indicare l’emergenza che travolge il paese, da qui il balletto di cifre[8] che compaiono su fonti diverse, ricavate con metodi diversi. Una tipica situazione da moral panic, ovvero portare alla pubblica attenzione, attraverso la voce degli esperti, un dibattito relativo ad un problema contingente da un punto di vista morale, di conseguenza amplificandone gli effetti negativi che hanno particolare eco sui media [Hier 2002; 2008] e sulla base di analisi carenti o anche in assenza di dati empirici. Eccone un esempio:

The media have presented several cases of suicide among children, many of these belonging to the category of children left at home alone, following their parents’ departure abroad for work. Currently there are no statistics concerning the number of suicides among children [Save the Children Romania 2008, 3].

I suicidi, purtroppo, hanno avuto luogo, c’è chi scrive 8 dal 2008 in qua, c’è chi dice 40 [Abbrescia 2014, «per la lontananza della madre»]. L’unico studio ‘scientifico’ che ho rintracciato riguarda i traumi pediatrici, di cui il 37,3% (437) per avvelenamento (abuso alcolico compreso)volontari o involontari nella popolazione pediatrica gravitante intorno all’Ospedale di Cluj-Napoca, (più di 400.000 residenti, 1.173 accessi all’emergenza pediatrica tra il 1999 e il 2003) [Oprescu et al. 2012][9]. Non sappiamo quanti di essi siano collegabili alla migrazione dei genitori. O forse non ha importanza, è grave che una ragazza/o tenti di o si tolga la vita a prescindere dalle cause. Altra cosa è stabilire una relazione diretta con la migrazione delle madri e cavalcare questi eventi dolorosi per puntare il dito e colpevolizzarle: il panico morale tende ad etichettare negativamente entrambi i genitori (come irresponsabili, di scarsa moralità, negligenti) e i figli (home alone, semiabbandonati, euro-abbandonati, bambini migranti, a seconda delle definizioni focalizzate su una mancanza). Lo sfondo è quello di una crisi morale, costruito per induzione a partire da casi individuali presentati dai media che evocano gli effetti disastrosi della migrazione dei genitori sui figli. Gli effetti della migrazione sono mostrati in modo generalizzante, come se colpissero tutti i bambini allo stesso modo, senza distinzione di età, genere del genitore emigrato, configurazioni dell’accudimento in assenza del genitore, reti di supporto della famiglia e relazioni tra migrante e left behind. Una critica va mossa anche a questa lettura: se da un lato costruisce un regime di verità che stigmatizza chi emigra, dall’altro i metodi qualitativi dello studio di Save the Children permettono di ascoltare come i/le ragazzi/e descrivono la loro vita.

Ovviamente, ci sono ferite e abbandoni che travolgono il presente, tanto quanto hanno spezzato il passato, storie di abbandono, di abuso o di istituzionalizzazione veramente drammatiche[10]. Esse raccontano il lato più sofferto della migrazione, e sono state raccolte in luoghi deputati ad accogliere le vicende più sfortunate, quelle che restano impresse emotivamente e profilano la vittima per antonomasia: una esperienza che non è necessariamente quella prevalente. Basterebbero le parole di Carmen, 16 anni al momento dell’incontro, nel novembre 2017, arrivata in Italia per ricongiungersi con sua madre tre anni fa:

E in questi anni in cui la tua mamma non c’era [in Romania], come è andata?

Ehh… poteva andare peggio. Perché di solito se tu rimani senza i genitori, senza entrambi i genitori, non hai nessun parente da cui stare, tu praticamente sei vista dal mondo come una persona che va a fare tutte le cose che non sono buone, negative, che vai a drogarti e a fare altre cose, no? Però, secondo me, è andata anche molto bene, perché andavo anche molto bene a scuola, studiavo e tutto quanto… è stato difficile il primo anno, perché ho cambiato, dal mio villaggio sono andata a scuola in città ed è una grande differenza, però mi sono abituata […].

Sai che c’è un’etichetta che viene data ai bambini di genitori, uno, o entrambi, che sono fuori per lavorare, vengono chiamati “left behind”.

[…] Secondo me è un’etichetta crudele. Perché non sono lasciati indietro perché i genitori non li volevano, perché volevano fare il loro futuro. Perché si sono resi conto che nel loro paese non potevano fare questo e quindi sono andati fuori per lavorare. […].

E nel tuo villaggio eri sola ad avere la mamma fuori per lavorare o c’erano anche altri bambini?

La mia vicina di casa, con la quale sono cresciuta, è solo un giorno di differenza tra noi, suo padre lavorava su un camion e era via quasi tutta la settimana, due, tre settimane, ma non è che si è mai sentita abbandonata da suo padre. Poi ho un’altra vicina di fronte, suo padre va in Germania a lavorare e sua madre si deve occupare del negozio, però non è che si sente left behind. Poi ho un’altra amica che è in città e i suoi genitori sono andati a lavorare fuori e lei è rimasta con sua sorella e viene a dormire da loro tipo una loro parente, non è che si sente left behind perché parla con sua madre ogni giorno. […] Ci sono genitori che lasciano i figli e non parlano con loro e tornano dopo cinque anni che non hanno parlato con i fi[g]li e vogliono che tutto sia rosa e fiori, sono anche quelle persone, però non è detto che sia sempre questo […].

E la relazione con la tua mamma…

Anche se non lo dimostro, mia madre per me è un super eroe, più che un eroe, è un idolo. Alla fine, tutti questi movimenti da qui a là da là a qui mi hanno costruito[11].

Nella narrazione morale e distorta che dipinge in toni oppositivi carnefici – le donne – e vittime - i figli/e, e che ci porta a guardare con compassione solo a questi ultimi, senza nessuna attenuante per le madri, finisce col perdersi la consapevolezza delle dinamiche strutturali che hanno portato così tanti a partire.

La Sindrome Italia e alcune distorsioni prospettiche

Il fenomeno dei left behind permette di osservare da una particolare ottica morale cosa accade nelle famiglie attraversate dalla migrazione e doppiamente smembrate per motivi economici, dalle istituzioni statali dello stato donatario, l’Italia, dove il ricongiungimento è spesso difficile, e dalle istituzioni statali dello stato donatore, la Romania, in cui cresce la prole e in cui sono assenti politiche sociali per contrastare la migrazione femminile, e servizi di supporto alla genitorialità.

Soprattutto dal 2010 ad oggi, sono apparsi una moltitudine di comunicati stampa, brevi articoli[12], interviste video e video-inchieste, concernenti la Sindrome Italia o Sindrome Italiana, denominazione con la quale viene indicata la doppia condizione di disagio e sofferenza psichica vissuta dalle donne migranti e, insieme, dai figli rimasti a casa. Cercherò qui di presentare alcune implicazioni di questa ‘etichetta’ diagnostica.

L’articolo più citato sulle origini di questa denominazione è di Alessandro Leogrande, apparso in Il Fatto Quotidiano il 16/12/2011. Il contenuto dell’articolo è stato ripreso innumerevoli volte sia dai giornali online italiani che da quelli stranieri. Quindi, ne cito un lungo passaggio, evidenziando in corsivo alcune parole:

I primi ad accorgersene sono stati due psichiatri di Ivano-Frankivs’k, città di duecentomila abitanti nell’Ucraina occidentale, profondamente segnata dalle tragedie del Novecento. Nel 2005, Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych intuiscono che due donne in cura nel loro reparto presentano un quadro clinico diverso dagli altri. Sintomi che hanno imparato a riconoscere in anni di attività (cattivo umore, tristezza persistente, perdita di peso, inappetenza, insonnia, stanchezza, e fantasie suicide) si innestano su una frattura del tutto nuova, che mescola l’affievolirsi del senso di maternità con una profonda solitudine e una radicale scissione identitaria. Quelle giovani madri non sanno più a quale famiglia, a quale parte dell’Europa appartengano, come se un’antica armonia si fosse all’improvviso spezzata. Kiselyov e Faifrych capiscono che il “male oscuro” ha chiare origini sociali. Le due pazienti sono state badanti all’estero, hanno lavorato a lungo come donne di compagnia, infermiere, assistenti tuttofare nelle case italiane. Lo hanno fatto per anni, 24 ore al giorno, salvo che per una breve pausa nella domenica pomeriggio. Sono state lontane dalla loro casa, hanno lasciato soli i loro figli per accudire anziani altrettanto soli dall’altra parte del continente. […]

Sono rimaste a lungo sole, molto sole, senza che nessuno potesse percepire il loro stress crescente. E alla fine non ce l’hanno fatta più, sono crollate. I due psichiatri comprendono subito che le due pazienti non sono un caso isolato. Tante altre donne versano nelle stesse condizioni. E allora coniano il termine “Sindrome italiana”, dal nome del paese più “badantizzato” dell’Europa occidentale e forse del mondo [Leogrande, in https://aclicolfonline.blogspot.com/2011/12/le-badanti-e-la-sindrome-italiana.html#more].

Kiselyov e Faifrych non compaiono nella letteratura medica, o almeno ore e ore di ricerca nelle banche dati non hanno prodotto alcun risultato. Pare quindi che la diffusione della denominazione ‘Sindrome Italiana’ o ‘Sindrome Italia’ sia avvenuta secondo canali di divulgazione più informali (giornali online, comunicati stampa, servizi televisivi). L’unica citazione dei due autori presente nelle banche dati scientifiche compare grazie all’articolo di Dino Burtini [2015], psicologo, psicoterapeuta ed antropologo, che riprende frasi chiaramente espunte da Leogrande, il quale però non viene menzionato. Nel mio tentativo di ricostruzione date e numeri rivestono molta importanza, e richiedono tempo e pazienza per incrociare il rincorrersi di pagine in rete, che mostrano una epidemia incontenibile di sofferenti, con migliaia e migliaia di casi di donne adulte e di minori, con la letteratura scientifica esistente e con altre fonti. Quanto sembra legittimare ed estendere la denominazione di Sindrome Italia è rilevare che l’Italia è meta di lavoro di cura anche per moldave, rumene, russe, polacche[13]… cioè buona parte delle lavoratrici che hanno finito per costituire l’ossatura centrale del lavoro di cura in Italia per gli anziani non-autosufficienti.

Michela Marchetti nel 2016 ha tenuto una corrispondenza via mail con lo psichiatra ucraino Anatolij Faifrych[14]. Egli scrive di essersi interessato alle sofferenze delle donne nella migrazione a seguito dell’invito, da parte del collega psichiatra Andriy Kiseliov, a visionare alcuni casi resistenti ai trattamenti psichiatrici, aventi in comune la migrazione in Italia.

We have to better explain the term “Italian syndrom” which is very controversial. Do immigrants to other countries face the same problems that they have in Italy? Yes, they do. Why then do we use the term “Italian syndrom” and are there any special “Italian” traits? My opinion is that, first of all, the difference is more quantitive [sic]- a lot of Ukrainian and Romanian women have been working in Italy as caregivers for elderly people. In other countries, such as Germany, Portugal, Poland and Anglosaxon world they mostly work as cleaners, and with other tasks because in other cultural traditions caregiving for older people is more institutionalized. Very often in Italy these women have been living with their employers and their elders in one house, so that they almost do not have private space and private time. It is somewhat an Italian tradition it probably has something to do with other national traits - to live in big multigenerational families. This kind of setting is comparatively rare in other cultures (Anatolij Faifrych, psichiatra, Ucraina).

An Italian tradition, scrive Faifrych, inconsapevole delle trasformazioni che la famiglia italiana ha attraversato negli ultimi cinquanta anni, con la scomparsa delle famiglie multigenerazionali, ma con la presenza, talvolta saltuaria ma non meno occhiuta, di figli e figlie che controllano, impartiscono ordini, giudicano e valutano il lavoro delle assistenti familiari, impongono orari, impediscono uscite, vigilano l’intimità con il corpo degli anziani, sfruttano, molto spesso fuori da ogni legalità, il lavoro delle badanti. Dall’altro lato, emerge in tutta la sua crudezza il fatto che molte delle donne che affrontano la cura degli anziani, soprattutto degli anziani colpiti da demenza senile, morbo di Alzheimer ed altre forme gravi di disabilità psico-fisica, sono impreparate a compiti di accudimento che richiederebbero in tal caso una preparazione specifica, tanto il lavoro entro le mura domestiche, invisibile, delle donne è visto come una estensione dei compiti di genere. Segregazione, quando la richiesta di lavoro copre le 24 ore in modo continuativo, solitudine, impreparazione rispetto alle richieste e ai comportamenti degli assistiti, nostalgia di casa, pensiero rivolto agli affetti lontani, sotto-qualificazione, sfruttamento, mancanza di sonno e riposo, a volte esplicito invito dei datori/datrici di lavoro a non uscire di casa, perché sprovviste di documenti regolari – e quando il proprio passato affonda nei dispositivi pervasivi di denuncia alla Securitate - … potrei continuare per diverse righe ad arrogarmi con supponenza la capacità di esplicitare quanto emerge dalle scarne, essenziali testimonianze delle donne intervistate durante la ricerca. Testimonianze dolorosamente ripetitive, per la tipologia e la condizione dell’impiego, l’altalena di periodi di occupazione – disoccupazione, la diaspora delle famiglie, l’incapsulamento nello spazio quotidiano di malattia degli accuditi[15], l’esplicitarsi dei sintomi:

Michela: Avevi una stanza per te oppure dormivi...?

Ana: Dormivo con la signora.

Donatella: La signora dormiva la notte?

A.: No, non dormiva. Cantava, urlava...quindi non dormivo neanche io.

D.: Tu non riuscivi mai a riposare.

A.: No. Mi dovevo alzare per parlare con lei, perché lei urlava e chiamava suo figlio, che abitava vicino [Intervista a Ana, 23/01/2018].

La storia di Verena e del marito Leon comunica la complessità dei percorsi migratori, con il marito e i figli in diversi luoghi della penisola e in Europa. La prima a partire è Verena, nel 2007, raggiunta dal marito tre anni dopo e dai figli. Trova lavoro come badante ad Aversa, dove resta 11 mesi presso una signora di 92 anni che «camminava per tutto il paese. Suo marito non lo sopportava. Urlava, camminava tutta la mattina, fino a mezzogiorno». Senza contratto, per 500 euro mensili, vive nella stessa stanza dell’assistita, con una pausa la domenica pomeriggio.

M.: E 11 mesi dopo hai deciso tu di cambiare lavoro?

V: Si. Sono andata dai figli, loro lavorano a Torino. Ho cambiato città, sono andata da Napoli a Torino, dove ho trovato un lavoro da una signora che aveva avuto un ictus ed era sulla sedia a rotelle.

M.: E quindi non muoveva una parte del corpo.

V: Si, non muoveva metà corpo. Abitavo nella stanza con lei, era una stanzetta piccola: un lettino per me e un letto di ospedale per la nonna. In quell’appartamento abitava anche sua figlia. Alle due di notte si alzava (le faceva male la testa, o il piede, o le serviva la medicina...). Dormiva più o meno 3-4 ore, da mezzanotte fino al mattino. [...] Però per me era troppo pesante come lavoro, ho detto di no, per poter cambiare la situazione […]. Non siamo cani, siamo persone. Ho chiamato mio figlio per scappare via da qua. Mio figlio a mezzanotte ha fatto 70 km per venire a prendermi e portarmi via. Sono stata dai miei figli una settimana e ho trovato un altro lavoro, da un nonno con l’Alzheimer che era stato abbandonato dalla badante. Era come un morto... […] Quello è stato il lavoro che mi è pesato di più. E poi è morto, dopo due mesi. […] Poi ho trovato un altro posto di lavoro nella provincia di Alessandria. Ho lavorato lì 3 anni e mezzo, da una donna sempre con l’Alzheimer. […] Pesante di nuovo. Abitavo da sola con lei. Lei camminava sempre, di notte e di giorno, camminava fuori, mi scambiava per la figlia... E lì ho fatto tre anni e mezzo […]. [Dopo altri mesi, come badante] Ero stanca, sfinita. Ho lavorato fino a Pasqua così, ma non dormivo più. Non c’ero con la testa. Chiamo mio marito che era in Germania, poi sono andata dal figlio […]. Avevo sempre paura, di tutto e di tutti, anche delle macchine, o se solo qualcuno mi guardava. Sono stata una settimana a casa di mio figlio, ma non dormivo più e non mangiavo più, solo frutta. […] Ma io non volevo andare in ospedale, volevo andare in Romania, perché il mio paese mi fa bene. […] Ho detto a mio marito di prendere il biglietto aereo. La sera ho chiamato la medicina generale, a mezzanotte mi hanno portato all’ospedale. […] Non avevo bisogno dell’ospedale, avevo bisogno della chiesa. Volevo solo andare in chiesa. Arrivata in ospedale, mi hanno detto che ero malata in testa. Sono stata tre anni in medicina [Intervista a Verena e al marito Leon, 23/01/2018].

Ancora secondo Leogrande [2011] in Romania alcuni psichiatri, iniziano a studiare l’altra faccia della medaglia, i figli lasciati nei paesi di partenza. Ed estendono la nuova locuzione Sindrome italiana anche a loro. Eppure, Marco Fontana si reca nel 2013 presso l’ospedale psichiatrico di Socola, a Iaşi[16], e incontra due giovani psichiatri, che non hanno mai sentito nominare la Sindrome Italia.

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, lo studio di Cojocaru [Cojocaru el al. 2015] invita ad esercitare un cauto vaglio della pubblicistica sui left behind, della quale viene sottolineata la valenza di moral panic che la Sindrome Italiana non può che aumentare. Tra le psichiatre citate da Leogrande troviamo Mihaela Ghircoias, in realtà psicologa infantile presso l’ospedale pediatrico Santa Maria di Iaşi, che constata, nel 2010, come su circa mille bambini curati nel suo dipartimento – ma non sono in grado di verificare l’attendibilità delle cifre -, la metà ha un genitore (in particolare la madre) emigrato all’estero, in particolare in Italia, per lavorare. Ma Mihaela Ghircoias, nelle numerose interviste rintracciabili online, non suggerisce che esistano connessioni biunivoche tra Sindrome Italia e minori, o tra minori left behind e rischio suicidario: la sua attenzione è rivolta piuttosto al disagio scolastico di bambini e adolescenti, che può aggravarsi nel caso di assenza dei genitori. I titoli che sollecitano un moral panic nei confronti della Sindrome Italiana estesa ai minori sono già diffusi nel 2011. Eccone un esempio, dalla Gazeta românească del 13 giugno 2011, con un titolo ‘strillante’:

Depressione, emicrania, gastrite, diabete e suicidio: ecco la "Sindrome Italia". Gli effetti della separazione dei genitori sono devastanti per i bambini rimasti nel paese: emicranie, dolori di stomaco, depressione, in alcuni casi persino il diabete - sintomi ai quali medici e psicologi hanno già dato il loro nome: "Sindrome italiana". […] Gli psicologi sostengono che l'80% dei bambini lasciati alle cure di parenti vivono un lutto grave, semplicemente perché amano i loro genitori. La depressione che passa inosservata può portare i bambini a desiderare la morte[17].

Depressione, stress: sembra che la nuova denominazione sia in grado di dare forma a un idiom of distress, di tradurre con un termine unico una varietà di sintomi, vissuti, temporariness[18] che i termini usuali hanno perduto. Forse è andato perso perché depressione e stress evidenziano o una eziologia biologica, o un rapporto di causa-effetto, mentre ad essere in gioco qui è la complessità di un rapporto dialettico tra desiderio e incertezza, intenzionalità e contingenza.

Questa ricerca ha sofferto di molteplici distorsioni prospettiche: nei servizi televisivi rumeni gli specialisti menzionano la Sindrome Italia continuamente, ma si affrettano a tradurla con ‘depressione’, nella consapevolezza dell’invenzione della sindrome; essi cavalcano contraddittoriamente una richiesta di intervento dal basso e propongono la medicalizzazione di disturbi altrimenti classificabili come schizo-affettivi, paranoidei, depressivi; sono consapevoli che quanto è in gioco è costruire una psichiatria rumena moderna, non più collusa con il passato del regime, ma proponendosi come psichiatria sociale entrano nel discorso pubblico avallando la Sindrome Italia. L’articolo di Leogrande, infinitamente citato, viene fatto proprio, parola per parola, da chiunque scriva del disagio delle badanti, talché ogni singola occorrenza in cui si descrive il lavoro delle badanti e la ‘Sindrome Italia’ acquisisce l’autorevolezza dell’originale, costruisce un regime di verità. La ridondanza offusca, inghiotte, pulsa, sovrasta come assordante rumore ogni altra considerazione: si ammalano le donne e i loro figli, soffrono le madri di coloro che sono partiti, soffrono gli uomini rimasti in patria senza la moglie, ma la varietà di queste singole afflizioni viene assimilata tutta nella Sindrome Italia. Michela Marchetti[19], nell’articolo citato [Marchetti 2016], ha l’occasione di porgere telefonicamente alcune domande al cappellano dell’ospedale psichiatrico Socola di Iaşi: il religioso ha confermato la risonanza che l’etichetta Sindrom Italia ha in Romania e informato in merito a un reparto, all’interno dello stesso ospedale, dedicato alle donne rientrate in Romania dopo aver lavorato in Italia come “badanti”. Quando le donne decidono di rientrare, dice, si trovano già a un livello avanzato di sofferenza psicologica, che cercano di nascondere (d’altra parte come provano a celare ernie, dolori alla schiena, alle ginocchia…) per quanto e fin quando è possibile, per non perdere il posto di lavoro. Al loro rientro trovano un contesto sociale e sanitario in cui il disagio mentale è fortemente stigmatizzato e poco accettato dai familiari. Nel gennaio 2018, Michela ed io ci rechiamo a Iaşi, andiamo all’ospedale Socola. Disponibile per telefono, il cappellano rifiuta invece un incontro e di metterci in contatto con alcune donne: «Le sfruttate già tanto in Italia, adesso venite a sfruttarle anche qui?». Del ‘reparto’ dedicato, nessuna traccia. Dai quotidiani rumeni rimbalza nella stampa di altri paesi europei che le ricoverate al Socola per ‘Sindrome Italia’ sono 3500: ma non si tratta di ‘ricoveri’ bensì di ‘ingressi’, ovvero le donne che vengono seguite a domicilio si recano a cadenza mensile all’ospedale per ricevere cure e farmaci. Nei periodi di crisi, diverse tra loro vengono anche ricoverate[20], ma confondere il numero delle utenti con il numero delle ricoverate non è solo una distorsione prospettica, serve a creare moral panic.

Psichiatrie in mutamento e chimere

Vieda Skultans in Empathy and healing [2008] traccia un quadro della psichiatria post-sovietica in Lettonia come una arena in cui le contraddizioni di una economia liberale vengono tradotte attraverso un linguaggio medico, esplorando le narrazioni individuali e come esse mettono in forma memoria condivisa – l’occupazione nazista e poi il dominio sovietico -, autobiografia e malattia. Attraverso una tessitura di narrazioni, mostra le ripercussioni dei cambiamenti da una psichiatria di matrice pavloviana e agente di controllo sociale verso la psichiatria ‘occidentale’: si tratta non solo un cambiamento di paradigma, di strumenti e metodi, ma di una inserzione nell’economia neoliberista del farmaco. Quel disagio pervasivo del tono dell’umore che un tempo veniva denominato neurastenia, e che trovava un ancoraggio fisico nell’avere i nervi, le forze esaurite, autorizzando in qualche modo il sentire socializzato e diffuso di essere mal-adattati al regime, dal 1991 viene convertito in depressione, individualizzato, diagnosticabile, curabile attraverso farmaci – da acquistare, ovviamente. Cambiamenti del potere e dell’economia che entrano in risonanza con gli slittamenti della soggettività, non misurabili oggettivamente ma che Skultans esplora in profondità. Diverso è l’approccio interno alla psichiatria: nella patria di Kiselyov e Faifrych, l’Ucraina – e la Romania ne ha seguito il modello medico - dal 1991 assistiamo a una decisa svolta rispetto all’uso politico e sociale della psichiatria precedente [Adler, Gluzman 1993]. Ad esempio, molti dissidenti politici ricevevano una diagnosi di schizofrenia ‘latente’ in base ai modelli che descrivevano la schizofrenia come caratterizzata da un ‘asse negativo’ di sintomi che comprendevano conflitti con le autorità, scarso adattamento sociale e pessimismo, anche senza la presenza di sintomi psicotici. Dopo il 1989 - 1991, iniziano a diffondersi strumenti diagnostici come l’ICD-10. Ricordiamo inoltre che negli anni Settanta, in Romania vennero chiuse le facoltà di psicologia, riaperte solo dopo la caduta di Ceauşescu. Steven D. Targum [2013] intervista in Ucraina due psichiatri accademici, Mykhnyak e Chaban. Mykhnyak dice:

Political influence was evident in all aspects of medical science during the Soviet era, and most especially in psychiatry. Soviet ideology was intended to be the cornerstone of our practice during the Soviet era, and psychiatrists were expected to preserve the moral, political, and ideological safety of Soviet citizens. Legislation on psychiatry was adopted in 2000 that made it possible to eliminate the misuse and/or manipulation of psychiatry for political purposes [Targum 2013, 42, 44]

Targum domanda:

Can you describe some cases that may differ from what Psychiatrists may observe in the United States?

Dr. Chaban: In my opinion, the last few years have been clearly marked by the sign of patomorphosis, which means a permanent clinical change in the clinical manifestations or course of a mental disorder that could be due to diverse medical, social, psychological, and biological factors. We have also seen more drug nonresponsiveness to the therapy.

I have seen a definite growth of the diagnosis of schizoaffective disorder in the Ukraine. It has also been very interesting to observe some diagnostic differences between my colleagues here and psychiatrists in the United States. For example, some of our patients who were diagnosed with schizophrenia in the Ukraine were, after emigrating to the United States, rediagnosed with bipolar disorder by American psychiatrists.

Solo una questione di patomorfosi o, come sottolineava già nel 1988 Arthur Kleinman, la schizofrenia è fortemente condizionata da situazioni come la disoccupazione e le situazioni di crisi economica? Molti dei sintomi negativi che caratterizzano la schizofrenia cronica sono simili a quelli riportati durante un lungo periodo di disoccupazione, ad esempio: «depression, apathy, irritability, negativity, emotional overdependence, social withdrawal, isolation, loneliness, and loss of self-esteem, loss of identity, and loss of a sense of time» [Kleinman 1988, 55]. Kleinman, anticipando il filone di analisi sulla sofferenza sociale, insisteva sull’importanza che le questioni sociopolitiche, socioeconomiche e sociopsicologiche rivestono nell’originare forme di disagio psichico. Potremmo sostituire ‘disoccupazione’ con ‘lavoro segregato e senza pause’ e i sintomi che Kleinman descrive si sovrapporrebbero a quelli che vengono attribuiti alla ‘Sindrome Italia’.

L’utilizzo di strumenti come ICD-10 suppone che i disturbi psichiatrici siano universali e, in quanto tali, culture-free. Shelley Ann Yankovskyy nella sua tesi di dottorato sulle trasformazioni della psichiatria in Ucraina [2013], oltre a non menzionare la ‘Sindrome Italia’, delinea una interessante continuità tra il paradigma pavloviano del periodo sovietico, che leggeva la sofferenza come discrasia ed enfasi sull’individuo rispetto alla proiezione collettiva e sociale che ogni cittadino doveva possedere come requisito, e la classificazione dello stress e del trauma come disturbi di personalità e sofferenza individuale: in entrambi i casi, viene ignorato il ruolo della storia e delle circostanze economiche e politiche.

«When stress and trauma are defined as rooted in the individual, this detracts from attention to larger societal forces endemic to Ukraine, such as extreme poverty, lack of access to resources and threat of cancer from radiation related exposures» [Yankovskyy 2013, 101].

L’esperienza traumatica viene normalizzata – tutte le donne che emigrano ne soffrono - produce adattamenti comportamentali negli individui e nelle famiglie «caution, even paranoia, guilt and the inability to be free, dissimulation, splitting, self discontinuity, intergenerational emptiness, and despair» [Lindy and Lofton 2001:xvi].

Inoltre:

«A disability specialist who is also a psychiatrist goes into more detail regarding the applicability of the ICD-10. He feels it is better than the diagnostic tools available during the Soviet Union, which he describes as being based on a “nosologic approach.” As noted earlier, this type of approach is etiological, meaning it is based on the cause of the illness as opposed to the Western approach, reflected in the ICD-10, which is based on “symptoms.” He says the switch to the ICD-10 has been the most difficult for older doctors; however, he feels that symptom-based diagnosis is better in the long run for patients, especially since “cause” is not always known» [Yankovskyy 2013, 107].

A quale paradigma appartiene, allora, la Sindrome Italia? Essa affonda nel paradigma nosologico in quanto richiama una causa definita, la migrazione, tuttavia è il cluster dei sintomi ‘persistenti’ a definirla. Nella sua forma di chimera, innesta le etichette diagnostiche attribuite alla sofferenza individuale – psicosi, schizofrenia, depressione – nel corpo di un discorso sociale «che fa dunque delirare il pensiero dominante intorno al femminile e al materno» (Taliani 2017, 244).

Il risorgere di un vecchio paradigma: migrazioni e malattia mentale

In conclusione, la Sindrome Italia è una pseudo-etichetta diagnostica che viene presentata dal circuito mediatico attraverso dati di diffusione artatamente falsati, decontestualizzati dalle condizioni di lavoro in migrazione e dalle modalità di accudimento dei minori in patria. Ha il vantaggio di proporre una interpretazione semplificata: le donne emigrano, i figli soffrono; le donne che emigrano molto spesso tornano malate, per il fatto stesso di essere uscite dal loro paese e dalla loro famiglia. Se l’afflizione viene presentata come contratta durante il lavoro all’estero, allora le misure per arginare il rischio devono essere prese in tali stati: quindi «cosa intendete fare[21]?». Cosa intendiamo fare? La domanda mi spiazza. Sono arrivata in Romania per raccogliere storie ed esperienze, ed eccomi posizionata come interlocutrice dalla quale ci si aspettano frasi su come incentivare il lavoro legale e le tutele delle lavoratrici, aumentare il contributo pubblico o gli sgravi fiscali per il privato sociale, in modo che le famiglie siano incoraggiate ad offrire e richiedere occupazione legale … oppure la risposta attesa è sottoporre ogni badante alle scale di autovalutazione della depressione per evitare di mettersi in casa qualcuna che non sta bene?

Abbracciare la lettura secondo la quale il problema va spostato dai paesi donatori a quelli donatari, implica che le donne sono oggetti passivi dei flussi migratori, corpi – e menti – inerti sui quali l’emigrazione lavora facendole ammalare, e restituisce alla madre patria individui non più ‘utili’, che ‘pesano’ sulle scarse risorse di cura[22] rumene.

Nel caso della Sindrome Italia, infine, si ripresenta il binomio causale salute mentale – migrazioni che ormai la psichiatria transculturale e l’etnopsichiatria hanno decostruito e respinto da tempo, per l’ipotesi meccanicista che era alla base, e perché quanto appartiene al campo economico-politico (la migrazione) viene introflessa in una esperienza soggettiva di malattia. Generando moral panic verso i cambiamenti in corso nella società rumena si è prodotto un regime di verità che i soggetti sono obbligati a riconoscere come ‘vero’ e che manifesta i rapporti tra la manifestazione della verità (la migrazione delle madri fa ammalare anche i figli), governo degli individui (la società rumena si sta allontanando dalla sua economia morale[23]) e costituzione della soggettività (chi mi vuole bene? Cosa mi definisce entro un quadro di relazioni lasche, lontane, mediate dalla tecnologia? Dove voglio stare e perché?).

Consapevole di aver presentato qui solo una minima parte di quanto è reperibile in rete, sui giornali, nei servizi televisivi, secondo una parte cospicua dei media rumeni la migrazione delle donne viene presentata come colpevole di rompere il legame naturalizzato con i figli, e la malattia appare quale una punizione, meglio, una auto-punizione. La sofferenza psichica sottolinea quindi le mancanze della competenza materna: cattiva madre perché emigrata, e in seguito perché rientrata malata. In un recente servizio[24] [Corriere della Sera, marzo 2019, Battistini F., Giusti F.] la primaria di psichiatria dell’Ospedale Socola di Iaşi, Petronela Nichita, dichiara che la Sindrom Italia non colpisce solo le donne ma l’intera famiglia, soprattutto i figli. Nel tentativo di far comprendere una sofferenza reale, diffusa, che artiglia il corpo sociale rumeno, un corpo non povero ma impoverito[25], il rischio è di non riuscire a mostrare la rete che si distende tra male individuale, condizioni sociali che portano alla migrazione e situazioni lavorative all’estero, tra costi affettivi e sociali delle partenze e opportunità non reperibili in patria. Sayad [2006] ha scritto dei figli degli immigrati come di «mostri sociologici», perché erano loro a far nascere al contrario e a posteriori i loro genitori. Nel caso rumeno qui presentato, diventa evidente come questa nascita al contrario si verifichi nel paese di origine: sono gli orfani bianchi a mettere in evidenza le proprie madri e padri, a farli esistere nell’assenza e nel rimpianto, a motivare il regime di verità che trova nelle donne il coagulo di una economia moraleche le stigmatizza e manipola ancora una volta la loro capacità riproduttiva.

Gli studi sulla migrazione non smettono di mostrare infine un altro aspetto. Le donne che non si adattano all’interno delle definizioni culturali dominanti rischiano di diventare assai spesso oggetto di una patologizzazione e di una medicalizzazione che, ancora una volta, sono tanto più frequenti quanto più è debole la loro posizione in termini di classe sociale, condizione lavorativa, appartenenza etnica o dell’eventuale presenza di disturbi mentali: quanto più questi aspetti concorrono, cioè a fabbricare madri disattente, inadeguate, trascuranti … [Beneduce 2015].

Difficile è per me pensare a una chiusura più adeguata di questo scritto.

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[1] Vedi oltre.

[2] Questo contributo è il primo esito della ricerca realizzata nell’ambito del Prid PSD 2015_2017_DILL_2017_COZZI – Progetto PRID DEA (ottobre 2017- agosto 2018). La metodologia qualitativa ha previsto interviste in profondità, osservazioni della quotidianità delle badanti e in alcune strutture di ospitalità per l’infanzia e adolescenza a Iaşi e a Butea in Romania, focus group, impiego del disegno libero e costruzione di alberi genealogici con i preadolescenti di Butea. Complessivamente, tra ottobre 2017 e giugno 2018 sono state realizzate 25 interviste tra Udine e Iaşi (Romania) e due sono stati i periodi in Romania tra gennaio e maggio 2018.

[3] E quindi quei processi storici, sociali e politici, culturali ed esistenziali attraverso cui quello che più diamo per scontato su noi stessi e sul mondo emerge con la forza della necessità e della naturalezza.

[4] Si tratta di una visibilità non nuova, perché almeno il Friuli e il Veneto hanno visto una notevole migrazione femminile spesso dedicata al lavoro di cura, tra la fine dell’Ottocento e fino al periodo tra le due guerre mondiali (balie e tate, cameriere e governanti). La diversità risiede nel nubilato che caratterizzava le donne di un tempo – tranne per le balie, che lasciavano dei figli dietro di sé. Ma la loro subalternità in un rapporto lavorativo di surroga del primato materno dell’allattamento non permetteva certo in quei tempi di mettere la loro maternità in primo piano.

[5] «L’insieme formato da i tipi di discorsi […] che [la società] accoglie e fa funzionare come veri; i meccanismi e le istanze che permettono di distinguere gli enunciati veri o falsi; le tecniche e i procedimenti che sono valorizzati per arrivare alla verità; lo statuto di coloro che hanno l’incarico di designare quel che funziona come vero» [Foucault 2012, 18].

[6] Condenso qui informazioni tratte confrontando una pluralità di fonti: testimonianze delle intervistate, commenti apparsi su internet, blog, articoli scientifici, tesi di laurea, narrativa, filmografia, documentaristica. In quest’ultimo caso cito in particolare: Children of the decree / Decretul 770. Experiment Social, di Florin Iepan, 2005, www.220.ro/documentare/Decretul-770-Experiment-Social-Partea-1/hwcvKU8Vdp/?rel=related (accesso settembre 2018).

[7] Sono oltre 1 190 000 le persone di nazionalità rumena residenti in Italia al 2018 (fonte ISTAT), la nazionalità di migranti più numerosa.

[8] Secondo i dati forniti dall’Associazione delle Donne Romene in Italia (ADRI), sono ben 750 mila – su un totale di 5 milioni – i bambini in Romania ad avere almeno un genitore che lavora in un altro paese e l’80% di questi bambini si ammala gravemente di nostalgia per i genitori. Non vengono citate fonti. [https://dumitrachesilvia.wordpress.com/ accesso quasi quotidiano durante la scrittura di questo articolo]

[9] «Between 1999 and 2003, 1,173 pediatric trauma cases were seen in the emergency department; 437 (37.3%) were treated for poisoning, including medication (35%), alcohol (26%), chemical products (19%), and carbon monoxide (14%). Half of all poisonings were unintentional, primarily affecting children < 10 years. Half were intentional, mainly affecting children 10–18. Females were three times more likely than males to have documented suicidal intent (P < .0001). [,,,]. We report significantly increased adjusted odds ratios (P < .05) of hospital admission for children 10–18, and for chemical substance poisoning, and suicidal intent» [Oprescu et al. 2012, 495].

[10] Sono le 8 testimonianze raccolte nella casa-rifugio di Butea nel maggio 2018, e le interviste a 3 adolescenti realizzate nello stesso periodo a Iaşi.

[11] Intervista a Carmen, ottobre 2017.

[12] Si parla di Sindrom Italia come di una ‘nuova forma di depressione’, specifica della migrazione femminile dall’Est Europa (Romania, Repubblica di Moldova, Ucraina), in particolare quella impegnata in attività di assistenza familiare (“L’Huffington Post”, “Metropolis”, “Internazionale”, “Il Foglio”, “Saturno” inserto culturale del “Fatto Quotidiano” et al.).

[13] Ad esempio, per la Polonia cfr. https://polskiobserwator.de/aktualnosci/depresja-polskich-opiekunek-czyli-ciemna-strona-emigracji/ del 08/02/2017 (accesso 12 maggio 2018): «La psicologa Antonina Pieprzyk ha anche incontrato la depressione dei/delle caregivers, e sottolinea come essi/e raramente cerchino l'aiuto di un medico o di uno psicologo mentre sono ancora all’estero. […] Pieprzyk nota che queste donne pensano di essere "coraggiose", che i loro figli, mariti e parenti non riescano a scoprire quanto sia difficile per loro. Non vogliono ammetterlo nemmeno di fronte a se stesse, perché per un lavoro come quello dell'assistenza per 24 ore di anziani e di malati, è necessaria una forza quasi sovrumana. E cercano questa forza in sé, costringendosi a una serie di faticosi meccanismi di difesa, che, in alcuni casi, esitano in esaurimento nervoso, depressione, malattie psicosomatiche o dipendenze».

[14] Riportata in Marchetti 2016.

[15] Interviste raccolte all’Ospedale psichiatrico Socola di Iaşi, gennaio 2018 da D. Cozzi e M. Marchetti.

[16] Per la sua tesi magistrale in antropologia per l’Università Bicocca.

[17] https://www.gazetaromaneasca.com/observator/prim-plan/depresie-migrene-gastrite-diabet-i-sinucidere-iat-sindromul-italia-video/ Gazeta românească,13/06/2011(accesso il 20 febbraio 2019), trad. dell’autrice.

[18] Una provvisorietà che richiama immediatamente alla mente le riflessioni di Achille Mbembe su coloro che sono costretti a cancellare e rifare continuamente la propria vita sotto condizioni di precarietà ed incertezza in quelle aree geografiche o sociali che vivono in quello che Jean Comaroff ha definito “the shadow of the global system” [Mbembe, Comaroff e Weaver Shipley 2010: 654]. Pensato globalmente, penso che il concetto si possa riferire anche ad alcune aree dell’Unione Europea. Mbembe, in un articolo-conversazione con Jean Comaroff, faceva partire le sue riflessioni dal rapporto dialettico tra il desiderio e l’incertezza, per comprendere le relazioni tra l’intenzionalità, la contingenza e la routine negli strati svantaggiati della popolazione mondiale.

[19] La quale nel quadro del PRID ha ottenuto un contratto di collaborazione di due mesi.

[20] Vedi l’intervista a Verena, supra.

[21] É la domanda che mi sono sentita rivolgere, in quanto italiana, da quattro giornalisti convocati dalla direttrice sanitaria del Socola, il giorno della visita all’ospedale. La presenza dei giornalisti non mi era stata né preannunciata, né era stata autorizzata.

[22] Non manca in questo quadro chi si appella alla sindrome Italia per ricavare qualche beneficio pensionistico o di assistenza sociale.

[23] Edward P. Thompson [2009:60] introduce nel 1971 il termine di economia morale quale la «[...] visione tradizionale degli obblighi e delle norme sociali, delle corrette funzioni economiche delle rispettive parti all’interno della comunità [...], nel loro insieme, costituivano l’economia morale del povero». Tramite questa categoria vuole analizzare un sistema dove tutti gli aspetti della vita sociale, compreso quello economico, erano subordinati a particolari principi e valori morali.

[24] https://www.corriere.it/elezioni-europee/100giorni/romania/Sindrome Italia, nella clinica delle nostre badanti, Testo di Francesco Battistini | Foto e video di Francesco Giusti/Prospekt, marzo 2019 (accesso 27 aprile 2019)

[25] Cfr. la lettera della scrittrice rumena Ingrid Beatrice Coman-Prodan in risposta all’articolo di Francesco Battistini, il quale, secondo la scrittrice, mostra Iaşi come una città squallida, povera, abitata da una umanità dolente, quando la città non è solo questo, non è povera ma impoverita. Lettera inoltrata il 09/04/2019, http://culturaromena.it/%EF%BB%BFsindrome-italia-nella-clinica-delle-nostre-badanti-lettera-aperta-a-francesco-battistini-corriere-della-sera/