Concetti globali per categorie socialmente impreviste

Le politiche di «salute sessuale e riproduttiva» rivolte alle madri non sposate in Marocco

Irene Capelli


Indice

Introduzione
Nota metodologica
Dalla pianificazione familiare alla salute sessuale e riproduttiva
Gravidanze socialmente impreviste e politiche di cura: le ambiguità dell’inclusione
Educazione, prevenzione del rischio e legittimazione delle diseguaglianze
Conclusione
Riferimenti bibliografici

Abstract.  This contribution discusses the deployment of the global category of sexual and reproductive health (SRH) in Morocco by focusing on the case of the pregnancies occurring outside marriage, that do not conform to local social, legal, religious norms. Attention will be drawn particularly to the initiatives promoted by NGOs which, while providing social and medical care to young unmarried mothers upon specific eligibility criteria, also target them with “sexual education”. I argue that such activities – dealing mostly with risk prevention – re-moralize and normalize female non-normative sexuality by striving to enhance the subjects’ individual responsibility, without explicitly addressing health and sexual rights.

Keywords: Sexual and reproductive health; Morocco; extramarital pregnancy; nongovernmental organizations; care.

Introduzione

Il nesso fra salute, genere, sessualità, riproduzione e diritti è relativamente poco esplorato dall’antropologia della salute in Marocco. Intendo esplorarlo grazie alla ricerca etnografica da me realizzata a Casablanca sulle gravidanze extra-matrimoniali e sulle iniziative non-governative rivolte alle madri non sposate[1]. Ho indagato quali siano le loro risorse sociali e sanitarie durante la gravidanza, il parto e il post-parto, il loro accesso al settore sanitario pubblico e ad associazioni ed ONG finalizzate alla loro assistenza – e a quella dei/delle loro figli/e – in vari ambiti, incluso quello socio-sanitario[2], confrontandomi con le categorie usate dai diversi attori.

Fra esse compare quella di «salute sessuale e riproduttiva” (SSR)», che, come quella di «diritti riproduttivi», sin dalla Conferenza Internazionale sulla Popolazione e lo Sviluppo (ICPD) de il Cairo (1994) e dalla Conferenza Mondiale sulle donne di Pechino (1995) viene adottata su scala globale [Petchesky, Judd, 1998; Morgan, Roberts, 2012]. Nonostante il suo largo impiego, la sua applicazione è controversa, sia nelle politiche sanitarie locali, sia nei dispositivi umanitari, sia nella definizione dei criteri di accesso alle strutture sanitarie in contesti di forte diseguaglianza socio-economica, quali il Maghreb e il Nord Africa [Maffi, Delanoë, Hajri, 2017; Obermeyer-Makhlouf, 1999].

Inoltre, l’uso del concetto di SSR mette talvolta in secondo piano saperi e pratiche plurali, sistemi di cura e concezioni locali della salute e del corpo, quando non li classifichi esplicitamente come dannosi. In Marocco, il concetto di SSR viene adoperato nelle politiche governative e non-governative, anche se in modo «stratificato» e «gerarchico» [Rapp, Ginsburg, 1995, 13], focalizzandosi – almeno sul piano retorico – su questioni quali la morbidità e la mortalità legata al parto e le disparità fra aree urbane e rurali.

Intendo, quindi, interrogarne le implicazioni, concentrandomi sulle gravidanze extra-matrimoniali, fatti sociali che mostrano le criticità di questo concetto e dei dispositivi che lo utilizzano. Rifletterò dapprima sulle modalità con cui i servizi sanitari pubblici e non-governativi usano il concetto di SSR; rivolgerò poi attenzione alla categoria di «madre nubile» costruita nel settore non-governativo marocchino e al relativo utilizzo della nozione di SSR, soffermandomi su attività denominate «educazione sessuale» e «informazione e prevenzione» organizzate da due diversi tipi di ONG, rivolte alle donne sole con figli, o che le hanno fra le beneficiarie.

In Marocco, una gravidanza extra-matrimoniale è “socialmente imprevista”. Il termine azibat riferito alla condizione di verginità attribuita implicitamente alle donne non coniugate è talvolta usato per indicare le madri non sposate, al ummahat al-‘azibat. I figli nati fuori da un matrimonio ufficialmente registrato tramite contratto presso un notaio – unica modalità che legittima l’unione e la filiazione – sono privi della filiazione paterna, ovvero di affiliazione sociale [Bargach, 2002; Naamane-Guessous, Guessous, 2011; Barraud 2010]. Per loro Bargach parla di «corpi eccedenti» l’ordine sociale [Bargach, 2002, 6][3]. Questa prospettiva apre scenari molteplici e imprevedibili, fra cui la continuazione, la dissimulazione o l’interruzione della gravidanza; l’abbandono forzato della casa e dei contesti di provenienza[4].

Nonostante la riflessione debba andare oltre la cornice normativa, è da ricordare che i rapporti sessuali che avvengono fuori dal matrimonio eterosessuale restano soggetti al diritto penale (art. 490)[5] e che socialmente è soprattutto la sessualità femminile pre- o extra-matrimoniale ad essere oggetto di stigma, che intendo come «esperienza morale» [Kleinman, Good, et al., 2007][6]. Al contempo, i cambiamenti socio-economici e demografici – legati alle politiche di pianificazione familiare e al declino della fecondità – negli ultimi decenni hanno trasformato il Paese e, qui come su altre sponde del Mediterraneo, «interessano le dimensioni complesse della salute riproduttiva e il suo rapporto con gli aspetti sociali e culturali» [Ranisio, 2012, 7][7]. Malgrado questi mutamenti socio-demografici, le dinamiche socio-culturali riguardanti la sessualità femminile svincolata dal contratto matrimoniale, si declinano diversamente in base alla classe sociale [Cheikh, 2017], con maggiore impatto sulla popolazione costituita da donne con scarso accesso all’istruzione, alle risorse economiche e a impieghi qualificati e formali, caratteristiche di precarietà “cronica”, che accomunano la maggioranza delle donne da me incontrate per questa ricerca. Si tratta prevalentemente di donne che – spesso come migranti interne e/o stagionali dalle aree rurali – alimentano la forza lavoro urbana a basso costo in settori quali fabbriche, lavoro domestico, pulizie, ristorazione, locali notturni, commercio[8].

Ho compreso le loro esperienze secondo una visione plurale di agentività, intesa come capacità degli individui di «dare significato a eventi e rappresentazioni, accogliendoli o rifiutandoli per ‘adattarsi’ e/o ‘resistere’ nel momento stesso in cui promuovono […] una propria forma di soggettività» [Fabietti, 2011, 200][9] e come «modalità molteplici in cui si abitano le norme» [Mahmood, 2005, 15][10]. In questo senso, l’agentività riproduttiva [Unnithan-Kumar, 2004] diventa una «strategia entro una configurazione sociale caratterizzata da specifiche limitazioni e possibilità» [Maffi, 2013, 183][11], in cui interrogare i «condizionamenti a cui le donne sono sottoposte, [le] le informazioni di cui sono in possesso, [gli] strumenti culturali di cui dispongono» [Ranisio, 2012, 37] proprio laddove la capacità di negoziazione e di scelta sia limitata o vincolata, oppure sia altrimenti configurata, in virtù di concezioni dell’agire e dell’esperienza che non facciano riferimento all’intenzionalità individuale[12]. Queste prospettive sono appropriate a problematizzare le politiche di SSR rivolte alle donne al centro di questa ricerca per via del contesto normativo e morale, ma anzitutto per la precarietà socio-economica e strutturale entro cui le loro esperienze prendono forma.

Ho interrogato l’opacità del concetto di SSR usato nelle politiche sanitarie e in quelle di tipo umanitario, le quali rispondono parzialmente ai bisogni, punti di vista e concrete condizioni socio-economiche, relazionali delle madri «sole». Le loro traiettorie riproduttive mostrano che le decisioni sul proprio corpo, sulla propria salute e sulla propria sessualità non sono scontate, contrariamente alle politiche di SSR che presuppongono soggetti autonomi, responsabili e liberi da condizionamenti nella rivendicazione di diritti, secondo una logica neoliberale [Morgan, Roberts , 2012; Krause, De Zordo, 2012]. La stessa presa in carico non-governativa delle madri non sposate si concentra sul comportamento e sulla responsabilità individuale puntando alla «riqualificazione» e al «re-inserimento» sociale [Capelli, 2016] attraverso inediti «regimi morali» [Morgan, Roberts, 2012, 242][13] basati su attività formative ed educative, che implicano tanto la normalizzazione della sessualità, quanto l’infantilizzazione e la valutazione delle donne.

Nota metodologica

Casablanca è stata mio terreno etnografico[14] per dieci mesi nel 2011 e nel 2012[15], durante cui ho svolto attività di osservazione partecipante a fianco delle madri e dei/delle loro figli/e, arrivando a incontrarne una cinquantina, di cui ho potuto conoscere in profondità alcune in modo particolare, e con alcune i contatti continuano negli anni. Talvolta, gli incontri avvenivano dapprima presso le ONG o associazioni[16] che le ospitavano o che loro frequentavano, poi nelle abitazioni o altrove, anche a conclusione dei loro rapporti con le associazioni. La ricostruzione delle storie spesso avveniva in diversi passaggi, grazie al rapporto di fiducia instauratosi. Ho conosciuto queste e altre donne anche partecipando assiduamente alle attività di formazione professionale e/o di educazione legale, sanitaria e «alla cittadinanza»; a momenti conviviali e feste; frequentando i dispensari medici e i nidi delle associazioni.

Sono 8 in totale le organizzazioni contattate e 7 quelle che mi hanno ammessa a svolgere la ricerca presso le loro sedi facendo interviste, osservazione e/o partecipando alle loro attività; 4 di esse (con diverse sedi[17]) si rivolgono esplicitamente alle madri non sposate. Ho comunque costruito informalmente rapporti di fiducia con interlocutrici privilegiate dell’unica struttura che non mi ha formalmente autorizzata come ricercatrice.

Alcuni servizi sanitari (centri di salute, ospedali, dispensari) pubblici o associativi, hanno costituito un importante terreno di ricerca. Sia nel settore non-governativo che sanitario ho fatto ricerca a contatto con assistenti sociali, puericultrici, formatrici, avvocate, psicologhe, medici (di medicina generale, ginecologhe/gi, pediatri), infermiere ed operatrici con mansioni flessibili[18]. Ho inoltre incontrato individualmente informatori e informatrici chiave ed esperti /e di ambito medico, legale, non-governativo.

Ove possibile, le interviste individuali e alcuni momenti collettivi sono stati audio registrati. Partecipare a incontri, convegni nazionali e workshop, formazioni per studenti di medicina, attivisti e operatori di ONG è stato prezioso per cogliere, nell’interazione fra diversi attori e istituzioni, la produzione di categorie, discorsi e politiche, che riscontravo o vedevo smentite nella quotidianità della presa in carico. Consolidando le relazioni con le beneficiarie delle associazioni ho potuto conoscere anche giovani donne (coinquiline, ad esempio) che non accedevano – in assoluto o in quel momento – a programmi non-governativi[19]. Questo intensivo lavoro etnografico ha richiesto la paziente negoziazione del mio ruolo di ricercatrice e l’acquisizione della fiducia delle interlocutrici, nonché di gestione degli aspetti burocratici per ottenere le necessarie autorizzazioni.

Dalla pianificazione familiare alla salute sessuale e riproduttiva

Il concetto di SSR si è imposto su quello di «pianificazione familiare» – proprio delle politiche di controllo della popolazione – sia nei servizi di salute pubblici che in varie ONG, prospettando uno slittamento dall’approccio «puramente demografico» [Rapport national sur la politique de la population, 2004, 81] ad uno basato sui «diritti e [il] benessere degli individui» [ibidem, 73][20].

L’impostazione dei centri di salute pubblici dei quartieri popolari di Casablanca illustra alcune criticità dell’applicazione del concetto di SSR. In queste strutture sanitarie di prossimità, spesso sovraffollate e sotto-finanziate, i servizi di SSR consistono nella distribuzione di contraccettivi – orali, DIU, iniezioni – da parte di medici di base, ovvero interventi di pianificazione familiare per una categoria definita implicitamente: le donne coniugate. Nonostante questi servizi siano ufficialmente rivolti a chiunque, un’adolescente o una giovane donna del quartiere non si esporrebbe a questa dimensione pubblica, per la ricerca – ad esempio – di un contraccettivo, acquistabile peraltro in farmacia in modo più anonimo, ovviamente secondo le proprie risorse economiche.

Dunque, questi centri rispondono parzialmente alla politica basata sul concetto di SSR, nonostante esso venga adottato dal Ministero della Salute, da cui essi dipendono. La creazione di spazi più inclusivi da parte di organizzazioni marocchine di pianificazione familiare – convertitesi all’approccio «SSR» – sembra aprirsi genericamente ai «giovani» e a target «vulnerabili»[21]. Esse mirano ad informarli enfatizzando la responsabilità individuale con un registro tecnico, la formazione e l’educazione fra pari, facendo raramente riferimento al contesto socio-politico, per esempio al già citato articolo 490 del Codice penale.

Come notato altrove [Tremayne 2004], ciò avviene in un contesto in cui le politiche di salute pubblica non forniscono (quasi) nessun dato ufficiale sulla salute sessuale dei/delle giovani, intesi come popolazione non coniugata[22]. Evidentemente, questo non esclude che le sessualità non normative esistano in qualsiasi contesto sociale, benché occorra ribadire le forme diseguali di legittimazione o di stigmatizzazione, basate sull’intersezione di dimensioni di genere e di classe [Bakass, Ferrand, 2013].

Dunque, la promozione e la rivendicazione dei diritti sessuali e riproduttivi, al cuore del concetto “ufficiale” di SSR, sono da comprendere in una configurazione di «governance riproduttiva» [Morgan, Roberts 2012, 243][23] ove, da un lato le sessualità e la riproduzione non normative sono sanzionate dal diritto penale e non legittimate nell’ordine sociale e dall’altro lo Stato e le ONG – adottando il concetto di SSR – forniscono un repertorio semantico, di risorse e di pratiche che implicitamente riconoscono e rendono “pensabili” nella dimensione pubblica anche forme di sessualità non-normative e che definisco «socialmente impreviste».

Gravidanze socialmente impreviste e politiche di cura: le ambiguità dell’inclusione

«Dato che non ero sicura se ero incinta o no, ho fatto il test della farmacia. Poi ho fatto una ecografia […] al sesto mese, da un medico privato. Tutti hanno paura, anch’io avevo paura di restare incinta, ma non ho fatto niente […] lo so che puoi comprare la pillola […] ma non pensi che può capitare a te. Mah sì, avevo degli amici prima […] ma ero una ragazzina. Non pensavo al matrimonio, non pensavo alla verginità […] ma non volevo restare incinta» (Hajar)[24].

In Marocco la situazione delle donne che partoriscono o affrontano la gravidanza ed eventualmente la sua interruzione senza essere sposate è esemplare delle molteplici realtà sociali che sfuggono ai dispositivi delle ONG appena citate, ovvero quelle rivolte ai «giovani», oppure ai servizi sanitari pubblici. Nei casi delle donne – spesso giovani[25] – che scoprono la gravidanza tardivamente e che partoriscono fuori dal matrimonio, l’informazione sulla contraccezione è solo una delle variabili nella «strutturazione delle relazioni sessuali» [Quaranta, 2006, 223] e non è necessariamente all’origine delle gravidanze. A giocare un ruolo sono anche la contingenza e l’impossibilità di negoziare le relazioni sessuali e/o i metodi contraccettivi, in relazioni sia precarie che stabili, laddove la dialettica fra la sfera ufficiale e quella ufficiosa [Boltanski, 2004], ovvero fra un (possibile) matrimonio e una relazione informale decide del “valore” di una gravidanza e della legittimità della filiazione (nasab).

Se, ad esempio, l’incertezza sull’evoluzione di una relazione spinge qualcuna a pensare che una gravidanza porti a un matrimonio, altre volte avviene il contrario. Bouchra, ad esempio, si diceva consapevole che non avrebbe mai sposato il ragazzo con cui da qualche anno aveva una relazione «normale» (alaqā ͨadiyya)[26]: «è [sempre] così […] sposerà una ragazza vergine scelta dalla sua famiglia!« (Bouchra). Zineb, invece, confidava che le cose andassero diversamente: «Mchaa l-darna [è stato a casa dei miei genitori] […] mi fidavo di lui, prima. Ma non ho voluto toglierlo [abortire], come voleva lui […] anche se mi ha dato i soldi e ha detto che poi mi avrebbe sposata e allora avremmo avuto altri figli» (Zineb).

L’uso del preservativo spesso non viene previsto perché le donne stesse lo associano alle relazioni sessuali multiple basate sullo scambio di denaro e sono consapevoli che questo immaginario è condiviso dai partner. La percezione del potere della pillola contraccettiva è invece ambivalente: «Ana shrabt l-fanid [bevevo la pillola][27] […] anche se solo una settimana al mese per due volte al giorno […] la compravo in farmacia, quando sapevo che avrei incontrato il mio ragazzo […] non pensavo di restare incinta […] poi [dopo aver partorito] farò l-bra [iniezione] o l-‘amaliya [legatura delle tube] per non avere altri problemi!» (Hakima). Altre donne giovani temono che i contraccettivi ormonali compromettano la fertilità e sfidano la sorte, considerando che fattori come il prolungamento del nubilato/celibato e le difficoltà economiche comunque posticipano o ostacolano la maternità socialmente legittima[28].

Dunque, anche una gravidanza in condizioni ostili, può non essere indesiderata, ma accolta come unica chance di realizzare la maternità. Altre gravidanze vengono continuate nell’impossibilità di interromperle, ad esempio in mancanza del denaro richiesto per un aborto illegale [29]: «Nella mia città tutte le ragazze lo conoscono, quel dottore […] posso dirti il nome […] ne conosco tante di ragazze che ci sono state. Ma io il mio problema non l’ho detto a nessuno. L’intervento costa tanto […] ma io non avevo più tempo e non avevo soldi» (Bouchra). Questa invece l’esperienza di Hajar: «Sono stata a casa dai miei fino a due settimane fa […] [la pancia] mabaynech bezaf [non si vedeva tanto] […] all’inizio ho pensato di toglierlo [abortire], sono stata a El Jadida, a Rabat […] ho viaggiato tanto. A Casablanca [dove abito] non conoscevo nessuno. Non è difficile trovare quei dottori, ma non puoi chiedere tanto in giro. E io avevo solo diciotto anni e non ero accompagnata da nessuno» (Hajar).

Talvolta le donne stesse cercano di interrompere la gravidanza oppure prospettano altri scenari. Halima, una donna trentatreenne, racconta: «Ho fatto una vita normale fino al nono mese. Sono andata da sola in ospedale a partorire […] una mia amica lo sapeva. Io le avevo detto “ti do mia figlia”. Io non potevo crescerla perché non sono sposata. Ma quando ho visto mia figlia ho deciso di tenerla. Lei [la mia amica] si è arrabbiata ed è andata a dire tutto alla mia famiglia. Nessuno poteva crederci! Io ci soffro da allora. Sono ancora malata» (Halima).

Alcune di queste donne si rivolgono a delle ONG, la cui presa in carico copre un periodo massimo dal periodo perinatale ai primi due anni di vita dei/delle figli/e.Moustafidat e bénéficiaires sono i termini arabo e francese che indicano le beneficiarie di specifici programmi non-governativi, in questo caso, per madri non sposate. Ciò si riferisce allo “status” acquisito da chi è ritenuta idonea a forme di assistenza di una o più ONG e/o a programmi di empowerment secondo criteri che rinviano sia alla vulnerabilità socio-economica che alla sfera morale [Capelli, 2016][30].

Svariate attività basate sull’apprendimento di nozioni riguardanti il corpo, la sessualità, l’igiene, la contraccezione, la prevenzione delle MST e dell’HIV mirano a renderle madri e individui responsabili, quasi a suggerire un processo di «trasformazione» [Hunt, 1999], ma allontanandosi dalla realtà locale e dalla quotidianità delle giovani donne delle classi popolari.

Gli incontri chiamati di «educazione sessuale» (in francese éducation sexuelle o in arabo al-terbiya al-jinsiya), a cui ho assistito presso due associazioni, sono esempi di questa «istruzione morale» [Stoler, 2010, 69][31]. Uno di essi consisteva nella somministrazione di informazioni sui metodi contraccettivi, che le donne accolte dall’associazione – riunite da un’infermiera – ripetevano mnemonicamente, ricordando incontri analoghi. Un’altra iniziativa di «educazione sessuale» presso una ONG dedicata alle madri nubili, era condotta da una operatrice chiamata «assistente sociale». Qui si tentava di discutere del consenso e della negoziazione dei rapporti sessuali, coinvolgendo in modo più interattivo le partecipanti a partire dalle loro esperienze.

Ciononostante, entrambe le attività miravano alla prevenzione di potenziali «recidive». Questo il modo affatto neutro per designare le potenziali seguenti gravidanze delle beneficiarie. Bargach sottolinea che il termine terbiya (educazione) rinvia al potere esercitato dalle procedure di socializzazione e dalla trasmissione di un’ideologia [Bargach, 2002, 78]. Questa definizione mi sembra pertinente per l’educazione sessuale rivolta alle giovani madri, che queste attività tendono a infantilizzare, come a mettere in secondo piano la loro sessualità, il loro desiderio e la dimensione affettiva poiché vengono solitamente supportate se riconosciute come vittime, se non di violenza sessuale, quantomeno di relazioni manipolatorie, di cui sono considerate solo parzialmente consapevoli[32].

Vengono così prodotti codici inediti di pudore che rafforzano quelli ordinari e socialmente legittimati. Infatti, queste attività di tipo pedagogico, se da un lato sembrano ignorare o celare la sessualità di queste donne, dall’altro se ne occupano, ma prescrivendo condotte e usando l’idioma del rischio [Vance, 1984] e del «pericolo sessuale» [Bakare-Yusuf, 2013, 29] e (quasi) mai del piacere[33]. Ci si occupa della loro sessualità per evitare «altri problemi», principalmente successive gravidanze. Questo approccio mina i principi ispiratori del concetto globale di SSR e la finalità ultima di promozione dei diritti sessuali e riproduttivi dei soggetti e configura un processo di normalizzazione della sessualità delle beneficiarie.

Infatti, i regolamenti di quasi tutte le associazioni prevedono che le donne rimaste incinte durante la presa in carico debbano rinunciarvi, così come chi avesse altri/e figli/e, ammesso che ciò sia risaputo. Alcune, infatti, riescono a “camuffare” dettagli biografici potenzialmente discriminatori ai fini della presa in carico, altre solo in parte o per nulla.

Il fatto di avere relazioni intime prive di una precisa definizione personale, sociale, o legale è fra gli aspetti potenzialmente critici nella narrazione biografica delle aspiranti beneficiarie, ma appartiene al vissuto di molte, anche laddove il supporto finanziario si sovrapponga alla dimensione affettiva e sessuale [Capelli, 2018]. Alcune donne sanno gestire questa potenziale ambiguità con le associazioni: «Vedo un ragazzo […] Lui sa di mio figlio. Ci vediamo, perché no? All’associazione lo sanno, sanno che abbiamo delle storie, ma a loro importa che ne vediamo uno solo e che non ci siano i soldi di mezzo« (Naïma).

Tuttavia, se le operatrici delle ONG sospettano, sulla base di alcune domande di un questionario o di osservazioni discrezionali, che le donne incontrate – talvolta dopo il parto, in ospedale – intrattengono relazioni intime che implicano transazioni monetarie e/o diversi partner, difficilmente le ammettono a forme di assistenza. In un ospedale di un quartiere popolare di Casablanca alla domanda dell’operatrice su precedenti gravidanze e figli una donna rispondeva: «Sì … ho avuto un figlio anni fa e l’ho lasciato in ospedale, me ne sono andata», mentre l’operatrice riempiva il questionario, scuotendo la testa di continuo ed esprimendo la sua disapprovazione. Mentre la donna piangeva, l’operatrice la incalzava per capire se svolgesse attività di «prostituzione». Questo il termine sul questionario, nonostante l’operatrice usasse l’espressione «uscire» che indica forme diverse di scambio sessuo-economico [Tabet, 2004; Cheikh, 2009], indagando dove abitasse, come a collegare i due elementi: «Fin sakna? Wach katkhurji? [Dove abiti? Esci?]»[34]. Le domande, a cui la donna rispondeva in modo esitante e frammentato, si susseguivano anche per una sua amica presente, che – seppure lo negasse – l’operatrice sosteneva di aver visto dopo il recente parto e che – mi confidò poi – si manteneva anch’essa, secondo lei, con delle «uscite».

Questo episodio è emblematico del legame fra la narrazione della propria traiettoria biografica e la credibilità come soggetti meritevoli – «deserving» [Willen, 2012] – di supporto del sistema non-governativo e del fatto che, invece, una narrazione “confusa” è come tale ambigua agli occhi degli operatori. L’affermarsi di codici inediti di pudore si concretizza in questo approccio e nei criteri di eligibilità: il fatto di partorire senza essere sposate e in condizioni precarie non bastava a rendere quella donna «legittimamente vulnerabile» [Capelli, 2016] poiché risaltavano elementi biografici – un precedente figlio abbandonato, il sospetto sulle sue «uscite» – e del suo contesto sociale – la sua amica e il quartiere – non compatibili con l’ammissione all’assistenza dell’ONG. Ciò dipendeva, inoltre, da una negoziazione fra quella particolare operatrice e quella donna, affidando la sua potenziale presa in carico a una relazione individualizzata e contingente[35]. Malgrado l’operato di queste associazioni sia ormai noto anche alle donne provenienti da regioni lontane che si recano a partorire negli ospedali delle principali città, non tutte padroneggiano il registro narrativo e morale conforme all’ideale accettabile di beneficiaria[36].

Quindi, l’intento di de-criminalizzare la maternità extra-matrimoniale si intreccia alla valutazione della condotta sessuale e morale delle destinatarie generando un processo che definisco di «ri-moralizzazione», che parte dal questionario in ospedale e continua con l’educazione delle donne ammesse ai progetti.

I codici inediti di pudore si esprimono da un lato col riconoscimento della sessualità delle beneficiarie e con la simultanea prescrizione di condotte che vanno dalla sessualità, all’igiene, alla genitorialità; dall’altro nella co-costruzione fra donne e operatrici di discorsi e immaginari standardizzati sui percorsi delle madri nubili. In virtù di ciò, nelle interazioni e nei contesti in cui cercano supporto, alcune beneficiarie – o aspiranti tali – imparano ad appropriarsi di questi codici, per esempio presentandosi come giovani inesperte, naïves, ingannate o vittime di relazioni manipolatorie e/o violente[37].

Educazione, prevenzione del rischio e legittimazione delle diseguaglianze

Una volta superato il passaggio dell’ospedale e dimostrati i requisiti necessari, le neo-madri intraprendono un progetto di supporto sociale, economico (sebbene limitato), la fornitura di beni di prima necessità per i neonati, visite mediche e pediatriche effettuate da volontari, il supporto legale e psicologico, eventuali percorsi di formazione professionale, talvolta l’accoglienza abitativa temporanea. Oltre alle loro narrazioni, questo rimette al centro dell’attenzione i corpi delle beneficiarie, che devono recarsi presso ONG specializzate nella prevenzione delle infezioni sessualmente trasmissibili e dell’HIV/AIDS per sottoporsi al test dell’HIV.

Le beneficiarie devono inoltre assistere a sessioni informative rivolti a gruppi «a rischio», quali le donne definite sex workers in francese professionnelles/travailleuses du sexe, categoria che, come quella di «madre nubile» (mère célibataire) viene usata spesso in francese, non è concretamente riconosciuta al di fuori del settore non-governativo e concepisce il rischio non come un processo sociale, ma «come una variabile data e associata a particolari gruppi» [Quaranta, 2006, 224]. Infatti, vi si trovano donne di diverse età e condizione che praticano forme differenti di «scambi sessuali monetarizzati»[ Cheikh, 2009] alternati a impieghi precari e informali[38].

Le operatrici me le presentavano dicendo: «Le nostre donne si vestono con la jellaba[39]!», a sottolineare che esse affrontano perlopiù questioni di sopravvivenza quotidiana e che le loro «uscite» si situano in un contesto di precarizzazione economica e sociale femminile e sovente di migrazioni motivate dal sostentamento economico delle famiglie d’origine. In questa associazione, dove ho ritrovato anche beneficiarie o ex-beneficiarie di ONG rivolte alle madri nubili, l’attenzione è diretta alla gestione e alla prevenzione dei rischi sanitari, discostandosi dal discorso “pudico” delle altre associazioni. Qui si illustrano l’utilizzo dei preservativi (distribuiti gratuitamente) anche attraverso dimostrazioni pratiche; i sintomi delle infezioni trasmesse sessualmente e le condizioni che ostacolano l’efficacia della pillola contraccettiva, inclusi gli effetti collaterali del consumo di alcol, frequente fra le donne che lavorano in bar e locali notturni.

Si parte dalle concrete condizioni di vita, di lavoro e relazionali, ovvero dal presupposto che le proprie beneficiarie spesso intrattengono relazioni sessuali in cambio di denaro e senza un partner fisso. L’obiettivo non è moralizzare le condotte, nonostante i tentativi di responsabilizzazione individuale accomunino questi dispositivi e quelli delle associazioni per madri nubili. Entrambe prevedono un soggetto distante «dal contesto di forze in cui le sue azioni vengono negoziate» [Quaranta, 2006, 224]. Come sottolinea Mahmood [2005], queste iniziative sono da comprendersi nella storia coloniale e post-coloniale, in cui la proliferazione di ONG ha un impatto pervasivo: dalle tecniche pedagogiche, alle concezioni di salute morale e fisica, alle configurazioni delle relazioni familiari ed extra-familiari [ibidem, 191].

Ad avvicinare i due tipi di organizzazioni è anche l’omogeneizzazione delle traiettorie dei soggetti, che inizia con la loro categorizzazione: le etichette fabbricate da e ad uso delle ONG divengono «astrazioni burocratiche» [Hibou, 2012] che sconfinano nell’occultamento dei processi storici e socio-economici produttori delle molteplici forme di ineguaglianza incorporate dalle loro beneficiarie [Farmer, 1999, 2004; Quaranta, 2006].

Talvolta sono le stesse donne a rivolgersi simultaneamente o consecutivamente ad organizzazioni con target diversi. In entrambi i tipi di ONG troviamo prevalentemente donne giovani, delle classi popolari o povere, immigrate da regioni periferiche e storicamente marginalizzate; migranti stagionali o donne che stabilitesi per lavoro in altre regioni, si spostano a Casablanca per partorire e vi rimangono. Altre vi arrivano proprio per partorire lontano da casa. Tutte condividono la precarietà lavorativa, abitativa, delle relazioni affettive e sociali e la permanenza non scontata dei legami familiari, che implicano per le donne che vivono sole e lontano da casa una sorta di “debito”, ovvero la necessità di inviarvi denaro, beni materiali, regali e di ritornarvi per le feste[40]. Questo processo legittima, così, che proprio queste donne vengano coinvolte in queste specifiche iniziative di prevenzione sanitaria, come soggetti – donne – che rivestono un ruolo ambiguo nell’ordine sociale.

Conclusione

Il concetto di salute sessuale e riproduttiva è messo alla prova dalla realtà sociale, sanitaria e non-governativa marocchina, particolarmente nel caso di gravidanze e nascite «socialmente impreviste». Nei centri di salute pubblica dei quartieri popolari emerge la discrepanza fra l’universalità del concetto di SSR e il fatto che essi siano accessibili per la pianificazione familiare solo alle donne sposate. Le ONG rivolte ai/alle giovani, sembrano timidamente adattarsi alla realtà socio-demografica del Marocco, senza però mettere in discussione le relazioni di genere né il contesto sociale che le plasma, quindi desocializzando il campo della SSR.

Questo processo sottende l’operato di associazioni aventi per beneficiarie le madri nubili, che, ridotte a una categoria a sé, non rientrano in quella delle donne (sposate) – la cui sessualità è socialmente legittimata, anche dal sistema sanitario – né in quella dei/delle giovani target di ONG cui obiettivo è colmare il vuoto delle politiche governative di SSR.

Le iniziative non-governative rivolte alle madri nubili mettono in luce come l’attenzione al corpo e alla sessualità delle beneficiarie si basi sulla prevenzione dei rischi e sulla responsabilizzazione individuale, innescando un processo che definisco «ri-moralizzazione». Significativamente le destinatarie di queste attività sono proprio le donne più povere, le lavoratrici e/o le migranti interne, che sono – o diventano – anche madri al di fuori delle norme sociali, legali e di genere. L’intreccio di queste condizioni le rende un gruppo «a rischio» o «vulnerabile», come tale target di misure di prevenzione ed educazione nel campo della sessualità, della salute e della riproduzione. Tuttavia, questo legittima la condizione di diseguaglianza di queste donne prive di diritti e di uno status sociale definito, trasformando una questione sociale e politica in una questione morale individuale. In questo scenario, molte donne accedono in modo «tattico» [De Certeau, 1980] e simultaneo ad ONG con target diversi, appropriandosi delle categorie da esse prodotte, apprendendone discorsi e codici.

Se le iniziative non-governative rendono visibili la precarietà sociale di queste donne e dei/delle loro figli/e, le politiche di SSR rischiano di oggettivarne la vulnerabilità, naturalizzandola come dato strutturale da esse incorporato. In ragione di ciò e secondo la logica della morale umanitaria [Fassin, 2007, 2012], esse accedono gratuitamente all’assistenza sanitaria temporaneamente e a condizione di dimostrare col comportamento virtuoso e/o una efficace narrazione biografica di «meritare» [Willen, 2012] determinati «regimi di cura» [Ticktin, 2011][41], a cui non si accede senza i requisiti di appartenenza ad una categoria con precise caratteristiche. Dunque, un effetto paradossale dell’applicazione del concetto di SSR in Marocco è che soggetti privi di riconoscimento sociale e oggetto di stigma, acquisiscono legittimazione nel mondo non-governativo non in virtù del diritto alla salute, né di diritti sessuali e riproduttivi definiti dal concetto di SSR, bensì tramite la loro iscrizione in una o più categorie come persone «vulnerabili» e/o grazie alla capacità di dimostrarsi tali per accedere transitoriamente a cure, risorse e servizi.

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[1] La ricerca è stata finanziata dalla borsa di Dottorato (Università di Torino).

[2] Tranne una qui citata, si è scelto dall’inizio della disseminazione e della pubblicazione dei risultati di questa ricerca di non citare i nomi di associazioni e strutture sanitarie, ma di fornire dettagli di contesto.

[3] Surplus bodies “ [Bargach, 2002,6]; le traduzioni delle citazioni sono mie (Irene Capelli).

[4] La categoria di «madre nubile» non ha un preciso corrispettivo nella società, al di fuori del settore non-governativo, risultando quindi un «non-status» [Capelli, 2016].

[5] Articolo 490 Codice Penale. Testo del Codice Penale in lingua francese : http://adala.justice.gov.ma/FR/Legislation/textesjuridiques_penal.aspx

[6] «Moral experience» [Kleinman et al., 2007].

[7] Il prolungamento del nubilato e del celibato in Marocco è un dato demografico [Aboumalek, 2011; Bourquia, 2006; Courbage, 1995; Engelen, Puschmann, 2011; Obermeyer-Makhlouf, 2000; Rachik, 2006] ricondotto all’innalzamento dell’età matrimoniale femminile legata all’istruzione e al lavoro salariato, ai costi del matrimonio e alla precarietà economica giovanile.

[8] Alcune svolgono gli studi medio-superiori e – più raramente – frequentano l’università.

[9] Corsivo originale.

[10] «Multiple ways in which one inhabits norms» [Mahmood, 2005, 15].

[11] «Strategy within a social configuration characterised by specific constraints and possibilities» [Maffi, 2013, 183)].

[12] Qui posso solo accennare agli scenari di senso riferiti alla «volontà divina» in cui alcune donne inscrivono le loro esperienze in specifici snodi biografici.

[13] Si veda [Fassin, 2007].

[14] Questa nota metodologica dà solo alcuni accenni relativi allo svolgimento della ricerca e non può rendere conto in modo esaustivo della complessità del processo etnografico.

[15] Durante soggiorni successivi ho re-incontrato alcune di queste donne. Questo campo è stato preceduto da 6 mesi di ricerca su questioni analoghe fra le donne marocchine immigrate a Torino; in Marocco, ho svolto attività di ricerca anche a Rabat, in ospedali e incontrando attivisti/e. Già nel 2009 avevo svolto una ricerca etnografica sulla nascita nella regione orientale del Marocco.

[16] Indipendentemente dallo statuto, vengono chiamate in arabo jamaiyyat o in francese associations (associazioni). Userò «ONG» o «associazioni» nel riferirmi alle diverse organizzazioni, specificandone ove necessario caratteristiche rilevanti.

[17] In caso di sedi diverse, ho svolto la ricerca in ognuna.

[18] La lingua da me utilizzata in contesti istituzionali è prevalentemente il francese, nelle altre situazioni l’arabo dialettale marocchino.

[19] Su cui mi soffermerò.

[20] Si veda in proposito [Lane, 1994].

[21] Associazione Marocchina di Pianificazione Familiare (AMPF) - International Planned Parenthood Federation (IPPF). Si veda Livret de plaidoyer pour les droits à la santé sexuelle et reproductive des jeunes (2015) : http://www.ampf.org.ma/index.php/acceuil/mot-de-la-presidente/87-axes/jeunes/216-services-de-ssr-amis-des-jeunes

[22] Livret de plaidoyer pour les droits à la santé sexuelle et reproductive des jeunes (2015): http://www.ampf.org.ma/images/stories/pdf/Livre%20AMPF%20NEW%202015.pdf.

[23] «Reproductive governance refers to the mechanisms through which different historical configurations of actors – such as state institutions, churches, donor agencies, and non-governmental organisations (NGOs) – use legislative controls, economic inducements, moral injunctions, direct coercion, and ethical incitements to produce, monitor and control reproductive behaviours and practices» [Morgan, Roberts, 2012, 243].

[24] Tutti i nomi propri qui usati sono pseudonimi.

[25] In questa ricerca si tratta di donne la cui età va dai 17 ai 35 anni.

[26] Così vengono chiamate le relazioni informali prive di finalità matrimoniali.

[27] Per l’assunzione della pillola contraccettiva viene usato il verbo “bere”.

[28] Ho riportato solo alcune delle condizioni all’origine di queste gravidanze.

[29] In Marocco l’aborto legale è ristretto alla salvaguardia della vita o della salute della donna (art. 453, Codice penale); pur senza dati ufficiali, associazioni locali stimano che centinaia di aborti vengano praticati quotidianamente nell’illegalità. Dal 2016 è sospeso un progetto di legge per legalizzare l’aborto in casi circoscritti.

[30] Non esistono statistiche sulle nascite extra-matrimoniali, solo delle stime [INSAF, 2010].

[31] «moral instruction» [Stoler, 2010, 69]. Una aveva per target esclusivo le madri non sposate, l’altra donne senza fissa dimora o in situazioni di precarietà abitativa, fra cui alcune erano state o sarebbero diventate beneficiarie del primo tipo di ONG.

[32] Secondo le operatrici delle ONG per madri nubili e per quelle di centri di ascolto per «donne vittime di violenza» da me interpellate, questi casi sono una minoranza fra le madri nubili. In questo tipo di ricerca, non intendo comunque stabilire delle proporzioni, ma ragionare piuttosto sui processi di presa in carico, nello specifico delle associazioni «per madri nubili» e dei servizi sanitari. Le stesse donne, peraltro, si rivolgono ad associazioni diverse fra loro in periodi e per esigenze diverse, sfuggendo a rigide categorizzazioni.

[33] «Sexual danger» [Bakare-Yusuf, 2013, 29].

[34] Il termine l-khrij (uscire) indica una relazione intima basata sulla transazione sesso-denaro [Cheikh, 2009].

[35] La missione di queste ONG in ospedale è ufficialmente contrastare il maltrattamento delle donne nubili, l’intervento della polizia derivante dal Codice penale, l’“abbandono” dei neonati e l’affido informale.

[36] È previsto che gli ospedali comunichino le nascite extra-matrimoniali alla polizia [Naamane-Guessous, Guessous, 2011]; le donne sarebbero passibili di condanna e incarcerazione per «fornicazione», traduzione dell’arabo zina che nel Corano (Sura Al-Nur, XXIV, 2) e nel diritto musulmano designa ogni relazione diversa dal matrimonio eterosessuale. Non si dispone di dati ufficiali, ma secondo le ONG i maltrattamenti e le condanne penali si sono ridotte anche grazie al loro operato degli ultimi tre decenni [INSAF, 2010].

[37] Dichiarare la scelta consapevole di relazioni sessuali e affettive non socialmente legittime può essere accettabile se le beneficiarie hanno un livello educativo medio-alto e/o dimostrano la motivazione all’autonomia economica, alla formazione professionale e rispettano le regole.

[38] «Echanges sexuels monétarisés» [Cheikh 2009]. Si vedano [Tabet, 2004] e [Cheikh, 2009].

[39] Veste lunga fino alle caviglie, con le maniche lunghe e il cappuccio.

[40] I ritorni sono spesso obbligati, ma complicati dalla presenza di figli/e, affidati a pagamento a terzi a Casablanca se la famiglia non sa della loro esistenza o se la loro presenza non deve diventare pubblica. Quando i figli nati fuori dal matrimonio vengono cresciuti dalla famiglia di origine, ciò avviene col supporto economico delle madri.

[41] «regimes of care» [Ticktin 2011].