La ricomposizione del tessuto territoriale

Fra tradizione e dispersione

Thea Rossi

Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, Dipartimento di Scienze Giuridiche e Sociali

Table of Contents

Il valore della tradizione nella ricostruzione post-sisma. Il culto di Santa Gemma
Riorganizzazione territoriale e percorsi diasporici
Bibliografia

Abstract. The article aims to examine how following a natural disaster, in this case the 2009 earthquake in Abruzzo (Central Italy), the reconstruction can be directed towards different projects that may have as a result the reconstitution of the affected communities, or their dispersion. In the first case we will examine the importance of tradition in the reconstruction project implemented by the Goriano community in the province of L’Aquila to give meaning to the affected areas, also through witness’ interviews. In the case of L’Aquila, on the other hand, we opted for the construction of a polycentric new town, which in fact dispersed people and disrupted the social structure.

Keywords.  Abruzzo; reconstruction; tradition; symbolic equipment; diasporic routes.

Il valore della tradizione nella ricostruzione post-sisma. Il culto di Santa Gemma

Tra gli sconvolgimenti naturali che hanno colpito l’Abruzzo negli ultimi dieci anni, il terremoto dell’aprile del 2009 è senz’altro quello che ha maggiormente segnato, determinando una cesura tra un prima e un dopo, la vita degli abruzzesi anche di quelli che lo hanno solo marginalmente avvertito. La sua pervasività, l’intensità e il perdurare delle scosse, la sua forza distruttiva hanno lasciato un segno tangibile nelle macerie rimaste a testimonianza e ancor più nella percezione comune del rischio che potesse ripetersi, come di fatto è poi successo.

Il terremoto ha colpito oltre al capoluogo molti borghi e centri montani tra i più caratteristici della regione per le loro ricchezze culturali, paesaggistiche e storiche. Sono il cuore pulsante dell’Appennino che disegna inconfondibilmente il paesaggio interno della nostra regione, così come l’Adriatico traccia il profilo delle sue coste. A buon diritto l’Abruzzo può essere definito, come scrisse Ennio Flaiano all’amico Scarpitti nel 1971, «un’isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare, monumentali e libere […] il Gran Sasso e la Majella sono le nostre basiliche, che si fronteggiano in un dialogo molto riuscito e complementare» [Scarpitti 1972].

Questo intrigato connubio tra l’asprezza dei monti e la linearità piatta della marina si sposa bene con l’immagine letteraria di una terra “forte e gentile” che plasma il carattere e la sensibilità della sua gente la quale sa esprimere forza, ovvero “la semplicità e l’efficacia” e al contempo gentilezza, cioè “tutte le bellezze e le nobiltà”, secondo le parole del giornalista-diplomatico ferrarese Primo Levi che in un racconto del 1882, dal sottotitolo eloquente Impressioni di occhio e cuore, in cui descrisse il suo viaggio in Abruzzo, coniò la celebre espressione [Levi 1976 [1882].

Intorno alle “basiliche” e, alimentate proprio dal loro intimo “dialogo”, come dice Flaiano, sono cresciute comunità antiche che devono la loro sopravvivenza culturale ad un sentire condiviso permeato da forti sentimenti che attingono la loro vitalità nei ritmi di vita scanditi dai cicli naturali e da ricorrenze e festività che mantengono tuttora vivo il legame di appartenenza alla comunità.

Una di queste è insediata nel borgo di Goriano Sicoli, situato a 720 metri di altitudine nell’Alta Valle Subequana, nel Parco del Velino-Sirente. L’inconfondibile profilo della torre campanaria della Chiesa di Santa Maria Nova, al culmine della cittadella fortificata, immortalata nel 1929 dal famoso grafico olandese Maurits Cornelis Escher nella sua prima opera litografica, si staglia sui pendii dell’agglomerato medievale, la parte antica, il centro storico-culturale del paese. Il borgo è arroccato su un colle roccioso incastonato nei monti e nei boschi che rendono subito evidente il protagonismo della natura che da sempre ha influenzato la tradizione del lavoro manuale, dell’artigianato e della produzione alimentare a Goriano così come nei paesi dell’Abruzzo interno. Arrivando a Goriano, quello che si percepisce subito, già dal primo impatto, è una evidente armonia tra paesaggio naturale e paesaggio storico ed una piacevole compenetrazione tra l’uno e l’altro. Le abitazioni e gli edifici medievali seguono il declivio della collina in un groviglio di stradine ripide ed ordinate, restaurate con cura già prima del sisma, nel rispetto delle origini antiche. I nuovi spazi urbani si inseriscono nel contesto senza creare contrasti deturpanti.

È in questo paese dell’Appennino aquilano che mi sono imbattuta durante la mia ricognizione sul terremoto e che ho scelto di raccontare, attratta dalla sua ospitale accoglienza e dalla apparenza di “normalità” con la quale si mostrava se non fosse stata la presenza delle macerie e dei puntellamenti a testimoniare il recente sisma.

Ho avuto modo di visitare il paese dopo circa quattro mesi dall’evento sismico ed ho potuto osservare di persona quel che restava dei beni materiali, dalle abitazioni private al patrimonio monumentale e, grazie all’incontro con due testimoni locali[1], ho potuto ricostruire come la comunità gorianese aveva reagito all’evento sismico e alle lacerazioni delle relazioni sociali e culturali che aveva prodotto insieme alla distruzione dei beni materiali.

Obiettivo del presente lavoro è ripercorrere, partendo proprio dai contenuti di quelle interviste, come la comunità di Goriano sia riuscita a mettere in atto un proprio progetto di ricostruzione attraverso il valore della tradizione, verificando tramite interviste recenti[2] come si sia evoluta negli anni successivi la situazione rispetto all’immediatezza dell’evento sismico. Gli aspetti della ricostruzione riguarderanno anche uno dei fenomeni più importanti che intervengono a disarticolare la struttura sociale in seguito al terremoto o ad altri eventi naturali estremi, ovvero l’esodo delle persone rimaste senza tetto che si disperdono nelle varie località della regione.

Al mio arrivo a Goriano, subito dopo l’evento sismico, le ferite inferte dal terremoto appaiono subito evidenti nei congegni di puntellamento e della messa in sicurezza e nelle pesanti transenne in metallo che impediscono l’accesso proprio a quei luoghi densi di storia e di tradizione e perciò fondamentali, per la ricca simbologia che evocano, come riferimento identitario e come base del senso di appartenenza che lega i membri alla comunità. Impraticabili sono la stazione ferroviaria, le porte di accesso al borgo e tutti i luoghi di culto: la chiesa di Santa Maria Nova, costruita sui resti dell’antico castello, la chiesa di San Francesco con il campanile cinquecentesco, la chiesa di Santa Gemma, il luogo di culto più importante del paese, nonché l’edificio identificato come la casa della santa. Intatta, invece, è la monumentale fontana pubblica, con doppia fila di portici laterali di otto arcate ognuno, costruita alla fine dell’800, in un’epoca di particolare rigoglio economico-sociale del paese[3].

Sono stati messi in salvo e custoditi presso la Casa di Accoglienza per gli anziani gli arredi delle chiese, gli ex-voto e soprattutto l’urna con le spoglie di Santa Gemma e la teca con le sue reliquie che continuano ad attrarre devoti e visitatori, come è anche testimoniato dalle firme apposte sull’apposito registro.

Se il terremoto ha colpito le strutture architettoniche e i beni materiali, non ha intaccato, però, “l’equipaggiamento simbolico” degli individui – come lo definisce Anthony Cohen – che fa sì che la comunità possa vivere non già in virtù delle sue caratteristiche materiali, geografiche ed ambientali, ma proprio per i suoi codici normativi e per i valori che danno origine al senso di identità dei propri membri [Cohen 2001]. L’universo culturale tradizionale di Goriano trova la sua più intensa espressione nel culto di Santa Gemma e nel suo complesso apparato rituale che permangono molto sentiti, anche oggi, per il loro forte radicamento nel sentimento popolare, nonostante gli inevitabili cambiamenti intervenuti a modificare nel tempo la struttura socio-economica del paese. Il culto della Santa si inserisce nell’ambito di una diffusa cultualità femminile nel territorio marsicano, contiguo all’area subequana, incentrata soprattutto sul culto mariano: la Madonna dell’Oriente a Tagliacozzo, La Madonna Nera del Monte Tranquillo a Pescasseroli, la Madonna di Pietraquaria ad Avezzano sono legate ad una realtà devozionale ancora molto sentita e autentica.

Gli elementi rituali che caratterizzano il culto della santa sono molteplici, densi di significati simbolici che affondano le radici inconsapevolmente nelle «mitiche personificazioni e gli antichi fenomeni della fantasia, della meraviglia e della paura», poiché – spiega Finamore – «il contenuto della coscienza volgare non fu, e non poteva essere, trasformato appieno dal cristianesimo» [Finamore 1982 [1890], V-VI].

Innanzi tutto si fonda su un patto di fratellanza tra due paesi, poiché entrambi interessati dalla storia della giovane pastorella marsicana. Le vicende di Gemma Spera – è questo il suo nome riferito dalle cronache – si svolgono, infatti, nel medioevo tra i paesi di Goriano e San Sebastiano di Bisegna, frazione del comprensorio della Marsica, nell’Alta Valle del Giovenco, durante il dominio del conte Ruggero di Celano sotto la cui giurisdizione erano assoggettati entrambi. La leggenda di fondazione del culto fa risalire la nascita della santa a San Sebastiano, nel 1372, da dove si allontanò con i genitori «con poche pecorelle, che avevano, e con piccoli altri bestiami anco di lana» – come scrive Monsignor Corsignani nella sua Reggia Marsicana del 1738 – alla volta di Goriano, per «alleggiamento della lor povertà». Alla morte dei genitori, forse avvenuta in seguito ad un’epidemia, la sua vita continuerà a Goriano, dove verrà accolta da due coniugi e potrà, quindi, continuare a condurre al pascolo il suo gregge.

Nelle campagne circostanti avvenne l’incontro con il Conte di Celano dalle cui insidie si difese strenuamente. Secondo la tradizione, subì per vendetta del feudatario la carcerazione fino alla morte vivendo dell’elemosina dei paesani che riceveva attraverso una grata. La vita claustrale non le impedì tuttavia di aiutare il prossimo in difficoltà, ridistribuendo il cibo che riceveva in dono e dispensando anche aiuti spirituali. La tradizione popolare e le biografie scritte – a cura di M. Febonio [1678], di P. Corsignani [1738], di B. Silvestri [1891] – sono concordi nell’esaltarne la grande spiritualità che traspare nella coraggiosa difesa della verginità così come nella fedeltà alla vita ascetica e nello spirito di abnegazione, nell’essere, quindi, un modello esemplare di virtù cristiane.

Nell’intenzione di ricordare il tragitto che la giovane compì dal suo paese natale verso il paese che la ospitò fino alla morte ha origine l’annuale pellegrinaggio che l’11 maggio gli abitanti di San Sebastiano compiono verso Goriano al seguito di una giovane fanciulla del paese, la commaruccia che impersona la santa, la quale precede il corteo recando tra le braccia la toccia, un grosso cero votivo, dal peso di sette libbre, portato in dono al popolo di Goriano. Un tempo il cammino pellegrinale avveniva prima in treno per poi proseguire a piedi lungo la via tratturale e prevedeva una sosta a Ortona dei Marsi, tradizione che è tuttora praticata anche se il percorso viene fatto con le automobili e si percorrono solo 2 Km a piedi [Testimone 2018].

Al suono delle “campanelle” di Santa Gemma si muove anche il corteo di gorianesi, preceduto dal cosiddetto procuratore della festa, ovvero il personaggio su cui grava tutto il peso dell’organizzazione della festa stessa. Il momento culminante, l’incontro con la toccia (che nel linguaggio popolare indica anche la fanciulla che impersona la santa), avviene nella campagna, alla Madonnella, nei pressi di un’edicola votiva, recentemente restaurata con le offerte della comunità gorianese di Cleveland, come ha raccontato il vice-sindaco [2009]. Questo evento procura sempre molta suggestione nei presenti. Infatti, la ragazza che impersona la santa procede da sola, scalza, con indosso gli abiti delle antiche contadine, verso il popolo di Goriano, si ferma davanti ad un antico quadro raffigurante la santa, trasportato da una ragazza, e, dopo averlo baciato, si inginocchia in segno di devozione. Dopo i saluti affettuosi, densi di trasporto e commozione da entrambe le parti, i due cortei si uniscono e procedono verso il paese di Goriano per accompagnare la ragazza, dopo una breve sosta nella chiesa di Santa Gemma, nella casa della santa dove è previsto un secondo momento cerimoniale: l’incontro con la madrina, la procuratrice della festa, moglie del procuratore, quindi una donna adulta e maritata, fino ad allora sconosciuta, che si prende cura di lei come una madre, offrendole, come atto devozionale, il pane rituale e aiutandola a lavare e rinfrescare i piedi. Un tempo trascorreva con lei anche le notti fino al 13, entrambe ospitate nella casa della santa. Tra la commaruccia e la madrina si istituirà un legame speciale di comparatico, – “parentele spirituali”, come le definisce Gennaro Finamore – ricorrente nelle tradizioni popolari abruzzesi, forte quanto il vincolo di parentela, che le terrà unite per sempre.

La casa di Santa Gemma non è l’unico luogo legato al nome e alla storia della santa, ma senz’altro è uno dei più ricchi di suggestione simbolica in quanto vi svolgono particolari rituali che vedono protagoniste assolute le donne. Infatti, prima che la giornata di festa si concluda con il vespro serale, avviene il rito della distribuzione dei pani benedetti a tutte le famiglie del paese.

Il valore simbolico del pane viene ricordato nella Vita della gloriosa Santa Gemma protettrice di Goriano Sicoli [1891] del canonico di Valva Bernardino De Silvestri che afferma: «l’uso di tale pane, chiamato Pane di Santa Gemma, risale fino all’epoca della preziosa morte della Santa, ed indica l’abbondanza delle grazie, tanto spirituali, quanto corporali che ella dal cielo di continuo ottiene ai suoi protetti e devoti» [Di Giannatonio 2005, 17].

Nella tradizione contadina il pane – il cibo per eccellenza, l’alimento base per la sopravvivenza, il prodotto ultimo di una lunga fatica scandita dai momenti dell’aratura, della semina, della mietitura, della trebbiatura, praticate con la sola forza delle braccia – era simbolo di fertilità, di vita, di riscatto dalla fame, di dominio sulla natura. Ancora oggi, presente nella mensa di tutti i giorni, non è solo cibo, ma anche simbolo del cibo, ricorrente come metafora nel linguaggio comune: “guadagnarsi il pane”, “mangiare pane a tradimento” sono espressioni che sfidano il trascorrere del tempo. Sacralità del pane, ma anche del frumento, entrambi legati simbolicamente al ciclo della vita e della morte.

Nei miti e nei riti precristiani, che affondano le radici nelle arcaiche culture mediterranee, espliciti sono i riferimenti ai cicli della natura, delle stagioni, dei raccolti, in particolare al ciclo della morte, rinascita e trasformazione della vegetazione, cioè al seme che trascorre parte dell’anno sotto terra per poi rinascere come frutto: con cicliche morti e resurrezioni, “lo spirito” del grano vive in eterno. Vita e morte si intrecciano così come la luce e il buio, ma così come nella morte del seme c’è il germe della sua rinascita, anche nel buio c’è il seme della luce. Il dramma rituale di Adone, il mito frigio di Cibele e Attis, quello egizio di Iside ed Osiride rimandano ai simbolismi vegetali, così come il mito di Demetra e Persefone[4].

I riti religiosi con cui venivano celebrate tali divinità avevano scopi propiziatori, di protezione, di ringraziamento, una ragione essenzialmente “pratica”, come afferma Frazer. Sottolinea, infatti, come non fosse tanto «un vago sentimento poetico che li spingeva a salutare con gioia la rinascita della vegetazione o a lamentarne il declino», quanto piuttosto «la fame, reale o temuta», che, quindi diveniva la «molla che faceva scattare il culto» [Frazer 2006 [1890], 386].

Queste credenze ed usi antichissimi – scrive Pitrè – sono giunti fino a noi con «le teogonie della Grecia e di Roma»: è in tal modo che «incosciente il popolo, si sono conservate molte usanze pagane intimamente legate al nome di un santo o di un giorno festivo dell’anno» [Pitrè 1969, XV]. Così ancora oggi, nelle feste tradizionali, scandite dai cicli stagionali, si celebrano antichi riti come quelli dell’inizio della primavera che esaltano il risorgere della natura produttiva ed il raccolto, in cui il grano ed il pane rivestono una particolare funzione simbolica.

Il pane rituale è spesso il protagonista delle feste di culto e viene modellato in forme diverse che riassumono il significato rituale e simbolico della festa stessa. Il processo di panificazione è metafora della vita e della sua continuità: l’impasto iniziale, risultato dell’unione di acqua e farina (terra), fecondatodal fermento del lievito e portato a cottura nel forno, caldo e accogliente come un utero materno, dà vita all’alimento per eccellenza, plasmato dal sapere delle mani delle donne. Il rito della panificazionenelle feste tradizionali di un tempo si svolgeva dentro le case in cui le donne si riunivano, ed assumeva una forte valenza sociale, in quanto rinsaldava la coesione della famiglia e della comunità. Ora che il pane non viene più fatto in casa, la magia di questa tradizione sopravvive per lo più nel ricordo di alcuni testimoni.

Questo non è certo il caso di Goriano, in cui, invece, la tradizione è ancora molto sentita e si rinnova ogni anno per la festa di Santa Gemma. È senz’altro il momento centrale di tutta la festa, ricco di suggestioni e di valenze simboliche. Prima del terremoto, la notte tra il 30 aprile e il 1° maggio, alle due di notte, si rinnovava l’annuale appuntamento nella casa della santa dove ci si incontrava per quattro notti e quattro giorni consecutivi per preparare i filoni di pane che sarebbero stati distribuiti l’11, nel primo giorno di festa. L’atmosfera che si respirava era carica di emozione e una grande complicità legava le donne, consapevoli di rinnovare un rito antico di devozione alla santa. Il ricordo permane nitido nella memoria come di un evento memorabile cui si è avuta la fortuna di assistere, come traspare da una delle testimoni, le cui parole esprimono con grande trasporto l’intima gioia e l’emozione che il ricordo le procura ancora, a distanza di anni dalla sua partecipazione [Testimone 2018]. Anche l’altra testimone, nel 2009, ricostruisce quei momenti e racconta come

con maestria alcune donne mescolano nella madia la farina, l’acqua ed il lievito “madre” che un tempo, quando il pane lo si faceva in casa, veniva preparato dalle famiglie del paese, mentre oggi della sua preparazione se ne incarica una in particolare. Le altre si dispongono lungo il tavolo pronte ad accogliere la loro porzione di pasta cui daranno la forma di filoni allungati. Il rituale prevede che, prima di deporli nella madia per la lievitazione, i filoni passino attraverso le mani di tutte le donne presenti affinché ognuna possa contribuire a modellarne la forma. Il primo filone per tradizione viene riposto dalla procuratrice, dopo averlo modellato a forma di serpente [Lanfranco 2009].

In tutto l’Abruzzo la simbologia del serpente è ampiamente ricorrente nella forma di alcuni cibi rituali, come i tipici dolci a forma di “capitone” del Parco Nazionale, oppure in alcuni riti cultuali, tra i quali il più famoso è quello della festa dei serpari a Cocullo, piccolo centro ai confini tra la Valle Peligna e la Marsica. Questa tradizione si inserisce nell’ambito di comportamenti rituali e di permanenze culturali diffusi nell’ambito del territorio regionale, in alcune zone in particolare, tra le quali quelle attigue al territorio di Goriano, un’area che ha conservato attraverso i secoli una specifica sacralità relativa alla protezione dai serpenti. È proprio nel territorio marsicano che i suoi antichi abitatori, il popolo dei Marsi, divennero famosi per l’arte di incantare e catturare i serpenti e per la facoltà di possedere poteri antiofidici, concessi loro dalla dea Angizia, la dea italica fucense, domatrice di serpenti e conoscitrice delle erbe curative soprattutto come rimedio contro i loro morsi velenosi[5].

Quello del serpente è un simbolo universalmente presente in tutte le culture con una polivalenza di significati che tuttora permangono nelle tradizioni della cultura popolare. Oltre che essere polisemico è anche un simbolo caratterizzato da una forte ambivalenza. Nell’immaginario collettivo rappresenta il pericolo per eccellenza, l’immagine del male, il simbolo della maldicenza, ma è anche simbolo di fertilità, di energia vitale rigeneratrice. Infatti, come il ciclo vegetativo del grano, anche la muta del serpente ed il suo letargo invernale con il successivo risveglio primaverile evocano il ciclo della natura perennemente percorsa dalle metamorfosi stagionali del passaggio dalla morte alla resurrezione, dal buio alla luce. La forma di serpente impressa al pane durante il rito di panificazione della festa di Santa Gemma assume, quindi, un valore propiziatorio e magico-apotropaico che va a rafforzare quello già insito nella simbologia del pane.

Tornando alle donne intente nella produzione del pane rituale,

dopo la produzione dei filoni le donne attendono fino al mattino la lievitazione e successivamente la cottura nel forno del paese, dopo la quale potranno fare ritorno a casa. Nelle tre notti e nei tre giorni successivi altri gruppi di donne si avvicenderanno ripetendo lo stesso rituale […] Ultimata la produzione del pane, si preparano i dolci rituali, tra i quali le ciambelle di Santa Gemma che adorneranno le braccia della statua della santa il giorno successivo durante la processione e le pareti della sua casa. La loro ricetta è segreta, custodita dalla procuratrice di turno che la tramanderà a sua volta a quella che prenderà il suo posto l’anno successivo. Il pane prodotto, circa 1500/2000 filoni, verrà distribuito nel pomeriggio del giorno 11. […] La tradizione vuole che le ragazze indossino il costume tradizionale, osservino il digiuno rituale e che siano le rispettive madri, o in loro assenza le zie, a porre sul loro capo, come usavano anticamente le donne, i canestri riempiti con il pane sacro e a procedere al seguito del corteo che attraversa le strade del paese [Lanfranco 2009].

Tutte le famiglie riceveranno il pane di Santa Gemma attendendo l’arrivo delle ragazze sulla porta dell’uscio e, prima di portarlo dentro la casa, lo baceranno in segno di sacro rispetto. Anche i sansebastianesi ne avranno una parte che verrà distribuita loro dalla giovane che ha impersonato la santa, insieme alle ciambelle, nel pomeriggio del giorno 13, subito dopo il suo ritorno al paese. Alcuni panetti verranno conservati nella madia della casa della santa per l’anno successivo, dato che il pane di Santa Gemma ha la proprietà di non ammuffire. Ammorbidito con l’acqua e cosparso di olio, verrà offerto come cibo rituale alla commaruccia di San Sebastiano, come segno di accoglienza da parte della madrina appena conosciuta. Durante l’anno sarà offerto ai pellegrini che faranno visita alla casa della santa. Tra i pellegrini che annualmente si recavano ogni anno a Goriano nel periodo della festa con l’intento devozionale di consumare il pane rituale, in segno di ringraziamento per la grazia ricevuta

c’era un signore di Salle che aveva riacquistato l’uso delle gambe […] Alla santa veniva e viene, infatti, attribuito il patrocinio sulle malattie ossee, in particolare la tubercolosi ossea, forse per analogia con le sofferenze patite durante la sua carcerazione nei locali bui e umidi della cella. Ancora oggi, anche se in forma minore, dai paesi limitrofi della Val Pescara arrivano autobus di pellegrini per ringraziare la Santa oppure per chiedere la grazia. Attraverso la trasmissione orale tra generazioni il culto della santa si è diffuso ed è ancora mantenuto vivo [Testimone 2018][6].

La lunga giornata dell’11 maggio, scandita dai tre momenti cerimoniali descritti – l’incontro con la toccia, l’incontro con la madrina, la distribuzione del pane rituale – si conclude con il vespro serale. I momenti culminanti di questa celebrazione liturgica sono il canto dell’Inno alla santa e l’esposizione delle sue spoglie, che rimarranno visibili fino al giorno successivo, alla fine del vespro[7]. Nel forte coinvolgimento emotivo che l’evento della chiusura dell’urna provoca nei presenti, si mescolano sentimenti di abbandono e di speranza che risaltano nel testo di Paola Di Giannantonio

il dodici maggio sera, dopo il vespro, l’urna sarà chiusa e la Santa potrà essere rivista solo nella successiva festa di settembre; ora c’è il saluto struggente e le lacrime come se si assistesse ad una partenza. Il desiderio e la certezza che la santa potrà essere rivista ancora sono sentimenti molto profondi, antichi e radicati nell’anima di ogni gorianese [Di Giannantonio 2005, 89].

Il rituale prevede per il giorno successivo la processione per le strade del paese e la celebrazione della messa e del vespro, le quali si ripeteranno il giorno 13, quando insieme alla santa si festeggerà anche San Vincenzo Ferreri. L’organizzazione di questo complesso rituale si protrae per un anno ed è scandita da vari momenti che si ripetono secondo cadenze stabilite, sempre uguali. Tra questi, molto sentito, ancora oggi è

il 13 giugno successivo alla “grande festa” di maggio, in cui si designa a Goriano il procuratore, persona su cui grava l’organizzazione delle feste in onore di Santa Gemma previste per il calendario rituale. Fino agli inizi degli anni ’90 veniva sorteggiata tra le numerose famiglie che si candidavano per organizzare la festa da settembre a maggio, in seguito per tacito accordo tra le famiglie. Anche la mia famiglia fu sorteggiata […] Dopo il terremoto, invece, per motivi organizzativi, si sono verificati casi in cui nessuna famiglia ha avanzato la candidatura ed è stato necessario l’intervento del sindaco. Oggi sono soprattutto le persone di circa 60-65 anni, residenti a Goriano, in pensione, che si prendono carico dell’organizzazione [Testimone 2018].

L’evento sismico non ha intaccato il sentimento religioso, né compromesso il patrimonio culturale tradizionale legato alla memoria, alla storia, alle feste, ai riti, ai simboli condivisi, nonostante alcuni cambiamenti necessari. Anzi, proprio per reagire al dolore e alla distruzione, la comunità di Goriano si è stretta fiduciosa intorno al culto della propria santa, sicura della sua protezione e del suo intervento soprannaturale. L’emergenza sembra aver rinsaldato, infatti, il patto di reciprocità tra la santa ed il suo popolo di devoti che, nella misura in cui offrono devozione e rispetto, si attendono protezione, «benefici e soccorso per la sopravvivenza nel mondo attuale o in dimensione ultramondana, sia a livello individuale che comunitario-collettivo» [Lantenari 2006, 115]. La consapevolezza di questo scambio traspare chiaramente dalle parole che la procuratrice pronuncia subito dopo l’offerta dei doni da parte del devoto durante la questua: «Santa Gemma te lo pozza raccresce», parole che rivelano i sentimenti di fiducia e di speranza nella generosa benevolenza della santa che accomunano tutto il popolo dei fedeli. «Lo scambio con il santo – scrive, infatti, Clara Gallini, riprendendo Marcel Mauss – che sembra avvenire a titolo individuale, viene così a costituire particolare solennizzazione di una legge di gruppo […]. Nella festa ospitalità e dono indicano la stessa cosa: un gesto di circolazione comunitaria totale» [Gallini 1971, 219].

È per questo che l’11 maggio, ad un mese circa dall’evento sismico, la drammatica situazione di emergenza non ha impedito che la festa di Santa Gemma si svolgesse nelle date stabilite, sia pure rinunciando, per ovvie ragioni, ad alcuni momenti rituali. Una festa esclusivamente religiosa, per questo più intima e raccolta senza i consueti fasti. L’incontro con i “fratelli” di San Sebastiano, l’incontro con la madrina, la distribuzione di alcune porzioni di pane, le celebrazioni liturgiche hanno scandito i momenti rituali della festa suscitando emozioni mai provate, come dicono alcuni testimoni. I luoghi non sono stati gli stessi. L’incontro con la procuratrice si è svolto nella casa di quest’ultima, le funzioni religiose si sono tenute nel tendone sociale, dove sono state collocate per l’occasione le spoglie della santa, la distribuzione del pane è avvenuta nello spazio antistante il municipio e il pane stesso non è stato preparato nella casa della santa, danneggiata dall’evento sismico.

Da allora, infatti, la panificazione avviene nella stanza della palestra, un locale annesso alla scuola, che il Comune ha messo a disposizione e la cottura del pane avviene in un forno del paese. Nonostante la casa oggi sia stata ricostruita esternamente, non può tornare ad essere il luogo destinato a tale momento rituale, in quanto è stata privata del suo focolare, il caminetto, per motivi strutturali. Una motivazione che non tutti i gorianesi hanno però accettato [Testimone 2018].

Intanto, nel segno della continuità, si è provveduto a designare il procuratore, che ha intrapreso le attività preliminari per la realizzazione della festa di settembre.

Attraverso la festa della sua santa patrona, la comunità di Goriano si è affidata all’iterazione rituale per riaffermare la propria identità, il suo “esserci”, come dice De Martino, in un momento in cui «la storicità sporge, il ritmo del divenire si manifesta con particolare evidenza», il divenire che «angoscia, soprattutto nei momenti critici dell’esistenza» [De Martino 1955, 19]. Attraverso il rito, cioè attraverso l’«iterazione dell’identico», si compie, infatti, «la cancellazione o il mascheramento della storia angosciante» e il «riscatto culturale dal rischio di non esserci», che la presenza rituale, con l’iterazione dei modelli di comportamento, rende possibile. Ogni momento critico risulta, quindi, sottratto alla “storicità”, al senso del tempo che procede irreversibilmente: è attraverso la “destorificazione religiosa” che il rito riesce a proteggere la presenza umana dal rischio di scontrarsi con situazioni che potrebbero causare la sua perdita [De Martino 1955, 19].

Anche Lanternari sottolinea come tramite

il rito il gruppo ed ogni suo componente ravvalora la sua identità, riconferma e garantisce di nuovo nel tempo la sua presenza di soggetto, digerisce e riassorbe nell’ordine culturale il dato empirico – via via – della stagione che muta, del lavoro che cambia, dell’età che passa, della nascita, della morte [Lanternari 1997, 248].

Il vice-sindaco, con grande partecipazione emotiva, ha rievocato i giorni del sisma, la reazione dignitosa e non rassegnata delle persone, l’emergenza dei senza tetto, il ritardo dei soccorsi, l’energia morale e fisica dimostrata da tutti nel fronteggiare la situazione:

con determinazione e intraprendenza i gorianesi hanno saputo coinvolgere e mobilitare soccorsi ed aiuti anche in ambito extraregionale. L’allestimento della cucina da campo e di alcune tende, reperite nel reatino, sono state le prime operazioni intraprese in soccorso dei loro compaesani più sfortunati […] Intanto veniva messa in atto una strategia di sensibilizzazione dell’opinione pubblica attraverso la rete televisiva Sky 24 che quotidianamente diramava notizie sulla situazione del paese. Di qui l’appellativo di “paese del fai da te” che Goriano si è conquistato sulle cronache dei giornali [Vice-sindaco Marganelli 2009].

Molto il paese deve anche ai suoi “figli” che l’emigrazione ha disperso, ma non per questo reso estranei, che con sollecitudine hanno raccolto le richieste di aiuto, riuscendo a coinvolgere le realtà locali in cui si sono insediati. Grazie al loro contributo la piazza ha riavuto il suo centro ricreativo per anziani e la sua biblioteca e la comunità avrebbe riavuto di lì a poco le sue scuole.

Le tende sono state definitivamente evacuate e quasi tutti i 159 sfollati che le occupavano sono rientrate nelle loro abitazioni, oppure sono ospitati dai parenti a Goriano, o in appartamenti presi in affitto dall’amministrazione comunale, oppure in strutture alberghiere dei paesi vicini. Intanto sono già stati approntati 12 moduli abitativi, effettuati gli interventi alle abitazioni che non hanno subito gravi danni, approvato il progetto di ricostruzione della stazione. Tutte le attività economiche e commerciali sono riprese quasi normalmente [Vice-sindaco Margarelli 2009].

La dinamica demografica del paese registrava all’epoca rispetto al territorio circostante un andamento positivo per la presenza di coppie giovani con figli in età minore (circa 60 bambini) e di sette nuclei familiari di immigrati, macedoni, in prevalenza, rumeni e albanesi, impiegati nell’edilizia e nella pastorizia, residenti a Goriano da circa 15 anni. «Dopo il terremoto – ha evidenziato il vice-sindaco – sei nuovi nuclei familiari hanno scelto di risiedere nel paese, nel quale si è registrato anche un incremento delle presenze turistiche, che ogni anno fanno più che raddoppiare la popolazione» [Vice-sindaco Margarelli 2009]. Per il futuro ritiene indispensabile che il centro storico sia ricostruito così com’era, per salvaguardare quel patrimonio culturale e identitario sul quale i gorianesi fondano il loro legame di appartenenza ai luoghi della loro storia e della loro memoria, anche se non gli sfuggono le difficoltà oggettive che potrebbero creare dei seri ostacoli.

Oltre che alla festa religiosa, la comunità di Goriano ha affidato il suo «riavvio alla normalità» – come sottolinea Leda Lanfranco – ad iniziative conviviali e naturalistiche per rinsaldare i legami di amicizia e di solidarietà sia all’interno della comunità sia con e tra le comunità del circondario, anch’esse colpite dal terremoto (Lanfranco 2009). «L’impegno organizzativo ha rinsaldato la collaborazione tra i componenti della Pro Loco, tutti giovani, gli amministratori locali e i cittadini» (Vice-sindaco Margarelli 2009). Ancora una volta le donne, con la loro antica sapienza, sono state le protagoniste della festa preparando piatti tipici, tutti prodotti del territorio. Vito Teti sottolinea come, in queste occasioni, oltre che alla «convivialità, al piacere di stare a tavola, di conversare, conoscersi, familiarizzare è importante l’aspetto del “fare da mangiare»: l’abilità che richiede e il piacere che provoca trovano la loro maggiore realizzazione proprio nei momenti cerimoniali e rituali. Tutto ciò lo si può comprendere se si risale alla «gratificazione femminile legata alla consapevolezza di partecipare, in maniera decisiva, al sostentamento della famiglia, di dare da mangiare agli uomini e ai figli, di essere considerate “brave cuoche”» [Teti 1999: 82]. Attraverso la festa la comunità di Goriano rivive il valore della tradizione religiosa e gastronomica, un modo per affermare la propria identità e per rinvigorire la consapevolezza delle proprie radici culturali, da cui ripartire per la ricostruzione. L’esigenza di recuperare la tradizione come cultura della persistenza traspare dalle parole dei testimoni che giudicano l’impegno profuso nella organizzazione di queste manifestazioni «un modo per non far morire le tradizioni e per aiutare i giovani a tramandarle» [Vice-sindaco Margarelli 2009]. È per questo che le madri ed i padri hanno messo a disposizione delle nuove generazioni tutto il loro sapere, affinché il contatto inculturativo possa sollecitarli e permettere loro di farsene carico, nella consapevolezza che non si tratta di conservare immutabile nel tempo un mitico passato, ma di accoglierlo nel presente e tramandarlo nel futuro, rifugiando dall’idea di sfruttarne i contenuti e i simboli per assecondare le esigenze modaiole del momento e il consumismo culturale dell’epoca presente.

La continuità temporale della tradizione festiva e la ripetitività del suo sistema rituale non significano immutabilità in quanto – come scrive Laura Bonato

la festa è soggetta a cambiare, anche se impercettibilmente, nell’apparato rituale e, allo stesso tempo, si conserva, passa indenne attraverso lo scorrere del tempo; paradossalmente, però, assume significati nuovi, abbandonando parzialmente o accantonando i valori che prima la guidavano: i cambiamenti sono necessari al rito per rimanere attuale e sentito dalla comunità che lo compie [Bonato 2005, 4; 2016].

Tuttavia, nonostante la festa, come rileva Luigi M. Lombardi Satriani, insieme ad altri fenomeni culturali, abbia subito trasformazioni ed adeguamenti alle nuove situazioni socio-culturali, «resta come progetto e speranza, come luogo della socialità e dell’identità, […] è spazio che conferisce maggiore visibilità alle persone, che le restituisce qui la pienezza che la quotidianità rischia sempre di ottundere, di opacizzare almeno parzialmente» [Lombardi Satriani 1999a, 45-46].

Non solo sul patrimonio culturale tradizionale Goriano fa affidamento per la sua ricostruzione, ma anche sul vincolo solidale che lega i suoi abitanti al cospicuo patrimonio naturale. Il rassicurante profilo dei suoi monti, i sentieri che li percorrono, l’aria salubre, il bosco di faggete, le distese di fungaie costituiscono risorse di indiscusso valore per la comunità e prendersene cura rientra tra i principali obiettivi della ricostruzione, così come vengono enunciati dai testimoni intervistati.

Da allora la situazione si è evoluta verso un cambiamento che ha dovuto fare i conti anche con la crisi economica generale che inevitabilmente ha interagito ed interagisce con le conseguenze dei disastri naturali. La ricostruzione della evoluzione della situazione a Goriano è stata resa possibile grazie al racconto di un altro testimone, il signor Berardino Di Clemente, amministratore comunale, intervistato nel novembre 2018.

Ha rimarcato come

la memoria del trauma subito non abbia mai intaccato nei gorianesi la desiderabilità di futuro, spingendo in tal modo anche le autorità politiche locali ad impegnarsi concretamente nella ricostruzione. Tale impegno si è concretizzato nel reperimento di fondi per il recupero architettonico ed edilizio, che oggi interessa circa l’80% delle strutture danneggiate dal sisma [Amministratore comunale Di Clemente 2018].

Con orgoglio riferisce come la «scuola elementare è stata la prima del cratere ad essere realizzata, con un progetto che è stato premiato all’Expo 2015 per la sua sostenibilità e le soluzioni antisismiche innovative adottate» [Amministratore comunale Di Clemente 2018].

Restituire ai senza tetto la “casa” e alla comunità gorianese i luoghi deputati alla socializzazione e al culto sono gli interventi prioritari che la politica ha messo in atto, secondo una prospettiva che rendesse possibile la ricostruzione non solo degli edifici ma anche delle relazioni sociali che danno senso a quei luoghi. Dalle testimonianze è emerso come sia il restauro conservativo che le nuove costruzioni siano stati congegnati in modo da coniugare l’innovazione tecnologica con il bisogno di “normalità” della comunità, la quale da parte sua si è sentita interpellata e ascoltata e non ha vissuto la ricostruzione come un affare solo dei tecnici e dei burocrati.

Come fenomeno indirettamente legato al sisma e ad altre catastrofi naturali, Goriano si è trovato a dover affrontare, soprattutto negli ultimi due anni, la ripresa massiccia delle migrazioni verso il Nord della nostra penisola, che allontana dal paese soprattutto i giovani per motivi di lavoro[8], i quali, tuttavia «rimangono legati al paese di origine e vi tornano in occasione delle vacanze e dei giorni di festa, tra i quali quelli dedicati al culto di Santa Gemma rimangono i più importanti e sentiti anche da questi nuovi migranti» [Amministratore comunale Di Clemente 2018]. Ciò sta a dimostrare “il legame” che comunque continua ad esistere con le proprie origini, senza che per questo diventi nostalgico ed impedisca di vivere pienamente nella nuova realtà. Tale legame è indice di come il “sentimento” dei luoghi sia attraversato costantemente dalla mobilità che lo rende appunto mutevole, complesso proprio attraverso lo scambio con l’esterno [Viti 2016].

Il forte legame al paese di origine è ribadito, infatti, anche da un’altra testimone, la quale sottolinea come

chi ha un’attività lavorativa e risiede fuori, in città, per esempio, ha mantenuto rapporti con le persone del paese […] Il ritorno è legato soprattutto al culto di Santa Gemma, molto sentito al di là della fede cattolica, perché condiviso e vissuto anche da non praticanti e protestanti. Ancora oggi continua ad esserci una partecipazione corale [Testimone 2018].

Infine, rispetto ad altri successivi eventi sismici e alle eccezionali nevicate del gennaio 2017, rimaste indelebili nell’immaginario collettivo per la tragedia di Rigopiano, «le strutture, le abitazioni non hanno subito danni, ma è il patrimonio paesaggistico, la parte naturale, in particolare il viale alberato nel paese, ad essere stato colpito e si sta procedendo al suo recupero, che lentamente si inizia a vedere» [Amministratore comunale Di Clemente 2018].

Tutto questo ha ripercussioni non solo sui luoghi ma anche sulle relazioni di reciprocità che legano i gorianesi [Ingold 2000] e sulle attività produttive e lavorative, ragione che spinge, come abbiamo visto, ad una ripresa consistente dell’emigrazione, destino che Goriano condivide con altri paesi dell’Appennino.

Riorganizzazione territoriale e percorsi diasporici

Come abbiamo potuto constatare, la comunità di Goriano Sicoli si affida nell’immediatezza al rito per appagare l’aspirazione al ritorno alla “normalità” del quotidiano. Nel racconto dei testimoni, la memoria del trauma, di ciò che è stato portato via del proprio “ambiente” si intreccia con la progettualità che, quindi, li fa propendere verso la desiderabilità di futuro.

Sono del tutto consapevoli che qualsiasi prospettiva di ricostruzione non possa prescindere dal considerare un aspetto fondamentale attraverso cui il trauma del disastro si manifesta. Innanzi tutto i disastri naturali producono “sfollati”, con il loro potere distruttivo, interrompendo di conseguenza la relazione quotidiana tra le persone e il proprio ambiente di vita. L’allontanamento dalla dimensione abitativa precedente, dal proprio “centro” si traduce in un esodo che, pur non attraversando confini, costringe allo spostamento da un luogo all’altro, da un abitare ad un altro, che comporta il dover rinegoziare nella nuova collocazione (per molti si tratta di una ricollocazione) relazioni, appartenenze, identità. L’esperienza degli sfollati si caratterizza non solo per lo sradicamento dal proprio ambiente di vita e dal tentativo di reinsediamento temporaneo o stabile a seconda delle politiche dell’abitare, ma anche dalla dispersione della comunità di origine in una molteplicità di destinazioni in base alla disponibilità delle strutture di accoglienza.

Per alcuni l’abbandono della propria casa è legato ad una esperienza temporanea che si conclude con il ritorno dopo la sua ristrutturazione, per altri l’allontanamento può essere definitivo e può esplicarsi in diverse modalità: la sistemazione in nuove unità abitative collocate in spazi limitrofi, oppure l’alloggiamento in strutture provvisorie o alberghiere reperite nell’ambito del territorio regionale, oppure in moduli abitativi collettivi. Altri, come nel caso di L’Aquila, trovano collocazione in un “nuovo altrove”, quello dei nuclei suburbani delle new town posti a distanza dalla città.Queste iniziative di gestione della crisi abitativa sottendono due prospettive riguardo l’intervento ricostruttivo, quello del «dove era e come era» che mira a ripristinare la situazione precedente al sisma e l’altro del «dove non c’era e come non era» che prevede la costruzione di impianti urbanistici nuovi [Viti 2016].

Nel caso del terremoto del 2009, si è verificato che nei piccoli centri dell’Appennino abruzzese abbia prevalso, come hanno riferito anche i testimoni intervistati, la prima soluzione mirante soprattutto al restauro dei centri storici e dei luoghi di culto, mentre nel caso di L’Aquila si è imposta, sotto la spinta dell’urgenza post-sisma e di particolari interessi politici ed economici, la logica della città nuova. Nel contempo il centro storico della città viene dichiarato zona rossa, la quale col passare degli anni si è progressivamente ridimensionata in seguito ai lavori di ricostruzione o di messa in sicurezza, senza per questo rendere il centro attrattivo o ricettivo al punto di consentire il ritorno delle famiglie sfollate. Col passare del tempo si è modificato anche il suo carattere di centro funzionale e simbolico, diventando lo spazio che viene identificato con le attività ricreative serali e notturne dei giovani universitari.

Come spesso accade nei dibattiti sulla ricostruzione, anche nel caso del restauro conservativo del centro storico aquilano confliggono diversi saperi e rappresentazioni del luogo.

Secondo Ciccozzi alla base del restauro del centro storico aquilano ci sarebbe l’esaltazione della sua “monumentalità”, la quale contribuirebbe a rappresentarlo come un organismo culturale omogeneo nella sua “medievalità” da sottoporre a stretta tutela. Nei fatti, a suo avviso, si delineerebbe una contrapposizione tra due necessità che contraddistinguono rispettivamente l’approccio architettonico e quello ingegneristico, i valori della tutela del patrimonio artistico e quelli della sicurezza strutturale [Ciccozzi 2016, 95-96].

L’emergenza della crisi abitativa viene gestita con l’attuazione del progetto C.A.S.E. (Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili) che dà alloggio a circa 15.000 sfollati nelle sue 185 palazzine, una città diffusa costruita su un’ampia area rurale in prossimità delle frazioni. Queste aree urbanizzate, in cui vengono ricollocate le persone senza tetto, realizzano un nuovo policentrismo che sostituisce la centralità funzionale e simbolica del centro storico, frammentando il tessuto abitativo con gravi ripercussioni dal punto di vista urbanistico e paesaggistico e delle relazioni tra gli abitanti e tra questi e i luoghi stessi.

Il Progetto C.A.S.E – commenta Ciccozzi – si è rivelata «una scelta urbanisticamente catastrofica proprio per aver combinato una tipologia costruttiva a connotati urbani con un sistema di delocalizzazione degli stessi in ambiti rurali» causando, soprattutto nelle aree montane, un vero e proprio disastro paesaggistico e abitativo [Ciccozzi 2016, 95].

Queste soluzioni non dipendono dalle decisioni individuali, ma da come la crisi abitativa conseguente all’evento naturale viene gestita dai “giochi strategici” del potere, come direbbe Foucault, che non hanno tenuto in considerazione il coinvolgimento della popolazione ed il ruolo attivo che avrebbe potuto avere nello scongiurare la fortissima disgregazione del tessuto sociale che le scelte adottate hanno di fatto procurato.

La valenza della casa come spazio culturalmente costruito, come espressione dell’intimità e dell’identità individuale viene messa in risalto dai testimoni intervistati, che sottolineano come sia stato importante per le famiglie nella emergenza della crisi il passaggio dalla tendopoli ai moduli abitativi provvisori, in quanto più adeguati per poter riprodurre l’ambiente relazionale ed intimo della vecchia casa. Questo le ha aiutate a superare il senso di disagio e di insicurezza procurati dal sisma, grazie anche «alla particolare attenzione posta nell’accudimento di questi nuovi spazi domestici nell’intento di conferire loro un’impronta originale e personale» [Vice-sindaco Margarelli 2009; Lanfranco 2009], a testimonianza di quanto possa essere forte il carattere reattivo dell’essere umano, che nel post-disastro riesce a non cedere al dolore, ma prova a dare un senso al proprio trauma per superarlo. Questi percorsi di “rigenerazione” individuale e collettiva non sono scontati, ma trovano incentivo e forza nella condivisione e nel racconto della sofferenza.

La resilienza della comunità gorianese è potuta emergere grazie anche alle modalità di intervento della prima emergenza e della ricostruzione che non hanno ostacolato la partecipazione dei suoi componenti, la quale, invece, ha costituito una risorsa utile da impiegare e valorizzare.

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[1] Le interviste sono state effettuate a Goriano Sicoli nell’agosto 2009 ai testimoni Leda Lanfranco e Rodolfo Marganelli, allora vice-sindaco del paese, oggi attuale sindaco.

[2] Le recenti interviste si riferiscono al mese di novembre 2018, al signor Di Clemente Berardino, amministratore comunale e ad una gorianese di nascita ma residente fuori, che ama tornare periodicamente nel paese. Per garantire l’anonimato richiesto dall’interessata, nell’articolo si farà riferimento a lei come Testimone 2018.

[3] Infatti, sin dal secolo precedente Goriano era molto apprezzata per la perizia dei suoi artigiani della lana e della seta i cui manufatti alimentavano un cospicuo commercio con i lanari fiorentini e con i mercanti della seta veneziani.

[4] La morte di Adone, di Attis, di Osiride, il rapimento nell’Ade di Persefone alludono alla morte apparente del seme durante l’inverno, così come il loro ritorno alla vita simboleggia la rinascita primaverile del seme, ormai trasformatosi in frutto.

[5] Il toponimo Lucus Angitiae (Luco dei Marsi) e il nemus Angitiae, il bosco sacro alla dea citato da Virgilio nell’Eneide, testimoniano la diffusione del culto della dea nell’area del Lago del Fucino. Per quanto riguarda i Marsi, così si esprime su di loro Plinio: «Simile et in Italia Marsorum genus durat, quos a Circae filio orto ferunt et ideo intesse iis vim naturalem eam. Et tamen omnibus hominibus contra serpentes inest venenum: ferunt ictas saliva ut ferventis aquae contactu fugere; quod si in fauces penetraverit, etiam mori, idque maxima umani ieiuni oris» [Naturalis Historia, VII, 2].

[6] La testimone contattata nel 2018 ricorda altri episodi considerati miracoli che Santa Gemma avrebbe compiuto e che le sono stati raccontati dalla madre, in particolare quello di una ragazza che si pensava posseduta, la quale fu portata nella Chiesa della Santa e, inciampando, cadde in ginocchio e dalla sua bocca uscì una treccia di lana. Le donne del paese interpretarono l’accaduto come una liberazione da un maleficio, ottenuto grazie all’intervento della Santa.

[7] L’esposizione delle spoglie è un evento che si ripete solo per tre volte all’anno, in occasione delle celebrazioni delle festività dedicate durante l’anno alla santa. Infatti, oltre che il 12 maggio, – la festa “grande” – giorno della sua morte, Santa Gemma viene festeggiata solo con le celebrazioni liturgiche della santa messa e del vespro, – le feste “piccole” – il giorno 27 marzo, in ricordo del riconoscimento del suo culto avvenuto nel 1890 da parte di Leone XIII, e l’8 settembre, ricorrenza istituita per commemorare lo scagionamento di un sacrestano dall’accusa di furto del tesoro della santa.

[8] A riguardo, la gorianese di nascita e residente fuori riferisce nella sua intervista di come i pochi giovani rimasti si siano organizzati in gruppi di cooperative agricole, che si occupano di querce per coltivazione del tartufo oppure del recupero dei cereali in uso nella zona. Proprio per la fuga di giovani e l’assenza di altri gorianesi che risiedono fuori per motivi di lavoro, come nel suo caso, sin da prima del terremoto nel paese si è avviata una profonda trasformazione, accentuatasi con l’evento sismico. Nel corso dell’intervista la testimone ha utilizzato l’espressione “paese fantasma”, quasi disabitato, unico indizio del contrario sarebbero i comignoli fumanti dei camini accesi [Testimone 2018].