Contaminazioni ambientali, alterità ecologiche, corpi ribelli

Note antropologiche

Eugenio Zito

Università degli Studi di Napoli Federico II

Table of Contents

Natura e cultura ai tempi dell’inquinamento globale: implicazioni per la salute ambientale
Corpi tossici: morte della natura e apoteosi dell’immondizia (umana)
Corpi che si ribellano e resistono, donne in prima linea per una cultura ecologista
Conclusioni
Appendice iconografica
Bibliografia

Abstract. Starting from the critic perspective of medical anthropology with reference to the problem of the environmental contamination the author reflects on the human body as a vulnerable junction of the interchange of culture and nature, a physical place of processes of social and material embodiment, and as the fulcrum of a complex interweaving of geopolitical forces and injustices. The impact of pollutants is expressed through the dynamics of transformation of human bodies into toxic bodies, ecological alterities characterized by social vulnerabilities and inequalities, and so living texts which can tell stories of contamination, disease, and oppression. Female rebelling bodies burst onto the public scene, trying, by their knowledge and practices, to realign ecology and economy. Finally it is highlighted how the relationship between environmental contamination, protection of territories and the right to health is inscribed in conflicting fields of forces where a new biological citizenship is played and fertile spaces can be open for a political ecology to which medical anthropology can obviously offer a rich contribution.

Keywords. Medical anthropology; body; environmental pollution; gender; engagement.

Natura e cultura ai tempi dell’inquinamento globale: implicazioni per la salute ambientale

La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni:

ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche,

si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro […],

estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi […].

Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica,

i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio.

(Italo Calvino, Le città invisibili, 1972, p. 110)

La città di Leonia che Calvino descrive con acuta ironia nello stralcio tratto da Le città invisibili [1972] e che ogni mattina “rifà se stessa” mentre i resti del giorno prima ingombrano le sue strade in attesa dello “spazzaturaio” rappresenta una metafora viva e incisiva di molte città contemporanee. Tali città, chiuse nei loro spasmodici circuiti consumistici, anche metafora densa di altri territori, non necessariamente urbani, ma altrettanto inquinati e “abusati”, ripropongono il delicato e più ampio tema del problematico rapporto globale tra esseri umani e ambienti [Ingold 2004]. Negli ultimi anni, oltre che nella storia contemporanea [Armiero e Barca 2004], anche nell’ambito di altri saperi come quello antropologico e in particolare nelle antropologie ambientale, applicata, medica e pubblica [Malighetti 2001; Quaranta 2001, 2006; Lanternari 2003; Pizza 2003, 2005; Hahn e Inhorn 2009; Scheper-Huges 2009], l’analisi critica dei rapporti tra le modificazioni ambientali prodotte dall’attività umana di sviluppo industriale e tecnologico e le questioni relative all’integrità e alla difesa dell’ambiente in cui convivono specie umane e non umane ha assunto gradualmente un ruolo sempre più rilevante [Breda 2010; Alliegro 2014a, 2014b; Ravenda 2014a, 2014b; Greco 2016; Raffaetà 2017; Benadusi 2018].

A ben vedere le relazioni dell’antropologia con gli studi sulla natura e sull’ambiente hanno in realtà una storia ben più lunga che va indietro sino alla costituzione della stessa disciplina antropologica, da sempre attenta a indagare proprio il complesso rapporto tra natura e cultura in tutte le sue articolazioni [Breda 2010; Lai e Breda 2011; Descola 2014]. Oggi l’antropologia dell’ambiente si estrinseca per esempio come critica culturale rivolta sia alle epistemologie occidentali, sia, talvolta, anche direttamente ad alcuni movimenti ambientalisti occidentali, prendendo in considerazione ideologie, retoriche, politiche, logiche, pratiche e linguaggi umani intorno all’ambiente [Milton 1993]. Tra i contemporanei temi di ricerca più stimolanti per l’etnografia dell’ambiente vi è scuramente quello dell’acqua, al cui dibattito l’antropologia italiana sta offrendo importanti contributi, anche attraverso una specifica attenzione data ai molteplici habitus che le società hanno elaborato per rapportarsi a questo elemento vitale, non solo per l’uomo [Mangiameli 2010; Bougleux e Breda 2017].

La più recente ricerca nell’ambito dell’antropologia medica[1] evidenzia ampiamente come il rapporto tra processi di contaminazione ambientale, tutela dei territori e diritto alla salute si inscriva in articolati e conflittuali campi di forze molteplici. Tali campi sono attraversati da tensioni sociali, pressioni politiche e da istanze scientifiche e di sviluppo, tra istituzioni pubbliche, compagnie private e movimenti per la salvaguardia dell’ambiente in cui si gioca una nuova cittadinanza biologica [Petryna 2002], sia come opposizione a uno sfruttamento estensivo del territorio, sia come possibilità invece di uno sviluppo locale sostenibile e attento ai beni ambientali e culturali [Alliegro 2014b, 2016; Ravenda 2017]. Si tratta, più in generale, di temi particolarmente caldi perché vanno a toccare questioni rilevanti, in termini di valutazioni e di azioni, che attengono ai delicati e fondamentali campi della salute pubblica e del rischio sanitario, ma anche al valore reale delle vite umane oltre il principio della “biolegittimità” [Fassin 2014]. In un mondo profondamente globalizzato anche sul piano della cultura [Appadurai 2012, 2014], in cui economia e politica sono ampiamente influenzate dal mercato dei combustibili e in cui quasi due secoli di progressivi e sempre più sofisticati processi di industrializzazione su scala mondiale, spesso giustificati sulla base di ambigui progetti di sviluppo dei territori, hanno prodotto grandi trasformazioni a seguito di uno sfruttamento intensivo delle risorse naturali disponibili, i risultati sull’ambiente, sul clima e sulla salute delle persone sono estremamente problematici e negativi, con proiezioni future ancora più preoccupanti. In particolare si è assistito a una progressiva erosione dello stesso diritto alla salute, diventato sempre più spazio di conflitto e di rivendicazione fisico-politica a partire da una quantificazione del danno biologico subito dai corpi e dagli ambienti e quindi punto di partenza per nuove forme di cittadinanza e di partecipazione politica nell’elaborazione di efficaci strategie di difesa della salute collettiva [Ravenda 2016]. Come Raffaetà [2017] sottolinea in un recente dossier apparso sulla rivista Antropologia e dedicato ad approfondire etnograficamente le forme specifiche assunte dall’intersezione tra salute e ambiente con riferimento al territorio italiano [Alunni 2017; Bachis 2017; Mazzeo 2017; Ravenda 2017], l’epoca dell’Antropocene [Crutzen 2005] e del Capitalocene[2] [Moore 2017] in cui viviamo, a livello socio-culturale, segna proprio il riconoscimento della profonda commistione tra esseri umani e natura e quindi la loro interdipendenza anche nel determinare le sorti della terra [Lewis e Maslin 2015; Moore 2016]. In questa congerie parlare di “salute ambientale” significa entrare in un ambito molto complesso e dai confini incerti e articolati, dove si travalicano i concetti stessi di “corpo” e di “umano” per problematizzarli in rapporto agli ambienti di cui sono parte. Sempre Raffaetà [2017] ci ricorda che diversi lavori socio-antropologici hanno evidenziato quanto la salute sia ampiamente dipendente dall’ambiente in cui si vive, inteso quest’ultimo come un complesso assemblaggio biosociale [Ingold e Palsson 2013]. In questa prospettiva la natura smette così di essere un dato per così dire “puro”, per diventare prodotto e insieme causa di attività e interessi che s’intersecano [Petryna 2002; Mangiameli 2013; Descola 2014]. In proposito Lambert e McDonald [2009] parlano di “social bodies”, Hsu [2007] evidenzia la stretta continuità tra ciò che è dentro e ciò che è fuori i corpi umani, Ingold [2004, 2015] ri-concettualizza i corpi stessi come il prodotto delle relazioni con l’ambiente. Nell’ambito di quest’articolata complessità l’etnografia può certamente fornire quegli elementi di base da cui partire per problematizzare e meglio comprendere gli assemblaggi di natura-cultura propri dell’Antropocene, aprendo a specifiche e più opportune soluzioni dal basso [Raffaetà 2017]. In particolare i contributi etnografici apparsi nel 2017 su Antropologia e appena citati, coprendo anche geograficamente l’Italia da Nord a Sud, se da un lato mostrano la complessa rete di significati, interessi e pratiche che si condensano attorno all’esperienza di malattie prodotte dall’inquinamento ambientale, dall’altro diventano anche un’interessante e preziosa pratica di critica sociale rispetto a una limitazione del diritto di cittadinanza [Raffaetà e Duff 2013] quale può essere il sentirsi espropriati dal proprio ambiente. Inoltre tutte le etnografie presentate in questo dossier sottolineano la “tossicità” dell’intimo legame tra umani e non-umani, facendo emergere come l’inquinamento ambientale spesso non venga riconosciuto proprio perché da esso dipendono attività economiche forti [Raffaetà 2017]. Le etnografie di Alunni [2017] e Mazzeo [2017] evidenziano come per esempio in ambito biomedico sia spesso piuttosto difficile prendere in considerazione pienamente quelle che sono le complesse e pervasive interazioni tra salute umana e ambiente naturale, che non dovrebbero più essere considerati ambiti distinti e separati, come invece mostrano i discorsi e le pratiche biomediche stesse, ancora strutturati sulla base di una visione dualistica che separa nettamente esseri umani e ambienti, natura e cultura [Fortun 2014]. Sempre in questa direzione Alunni [2017] sottolinea come anche molte delle persone che vivono in luoghi esposti a forte inquinamento, pur non negando l’esistenza di specifici fattori di rischio, hanno tuttavia smesso di credere che tali fattori si possano identificare e risolvere, con il risultato di una pericolosa “anestesia politica” [Raffaetà 2017]. Mazzeo [2017] mostra le notevoli potenzialità dell’etnografia nell’analisi delle esperienze di sofferenza e delle pratiche di attivismo vissute e intraprese da attori sociali coinvolti nei disastri provocati dall’inquinamento da amianto, riflettendo proprio sulle complesse relazioni fra le esperienze dei disastri amianto-correlati e l’attivismo anti-amianto emerso da esse. Bachis [2017], con la sua etnografia sulla crisi del mondo estrattivo e industriale in Sardegna, evidenzia molto bene come nelle rivendicazioni degli ex minatori, sia la malattia, sia l’inquinamento divengono “nuove risorse” per la negoziazione di migliori condizioni di lavoro. Ravenda [2017], relativamente alla centrale a carbone da lui studiata nel brindisino, i cui effetti in termini di inquinamento ambientale e malattie appaiono rilevanti, sottolinea come agenti inquinanti e patrimoni da preservare divengano nodi complessi e articolati in cui vanno ad intersecarsi vita privata e pubblica, produzione culturale e cittadinanza.

In definitiva, come ampiamente mostrano questi preziosi esempi, l’etnografia permette di valutare a livello locale in che modo specifici fattori strutturali influenzino la vita e la salute delle persone [Farmer 2003; Quesada, Kain Hart e Burgois 2011] e quali siano le esperienze, i cambiamenti e gli aggiustamenti che gli attori sociali devono attuare di volta in volta per adattarsi a un ambiente tossico [Reno 2011]. In questa prospettiva l’approccio etnografico potrebbe certamente offrire nuova forza anche all’idea di “evidenza” [Engelke 2008], ponendosi come complemento necessario alle stesse evidenze epidemiologiche il cui valore rischia di ridursi nell’indeterminatezza degli assemblaggi natura-cultura [Raffaetà 2017].

Centrale può divenire quindi la possibilità di promuovere sempre di più lo sviluppo di un’attività di ricerca come quella etnografica, attenta alle pratiche e ai campi di forze in gioco nei mondi sociali e culturali, in grado di esplorare nella loro complessità le possibili articolazioni e gli esiti delle interconnessioni tra tutela del diritto alla salute da un lato e rischio sanitario derivato dalle modificazioni ambientali dall’altro lato, cercando di mostrare anche, con la posizione intrinsecamente critica dell’antropologia medica, i forti conflitti di interesse spesso esistenti tra ricerca scientifica, economia e politica. I singoli casi analizzati potrebbero infatti dimostrare il valore di un approccio etnografico nell’analisi di questioni quali inquinamento e malattia per comprendere e migliorare le politiche della salute e la loro incidenza a livello locale e globale e promuovere così una maggiore giustizia nel mondo a partire da una reale conoscenza del complesso interscambio natura-cultura [Zito 2018b].

Corpi tossici: morte della natura e apoteosi dell’immondizia (umana)

Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali,

contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni,

enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana […],

l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via […].

(Italo Calvino, Le città invisibili, 1972, p. 110)

In tempi di Antropocene [Crutzen 2005] e di globalizzazione generalizzata [Appadurai 2012, 2014] la condizione ibrida dei cosiddetti “ambienti naturali”, data da un ampio innesto in essi della “sporcizia” della cultura, al punto che non sembra più possibile imbattersi in luoghi realmente e pienamente incontaminati da rifiuti [Yaeger 2008], come quelli che Calvino con sarcasmo enumera in questo secondo frammento di testo da Le città invisibili [1972] in cui descrive ancora qualche dettaglio della città di Leonia, solleva a questo punto la spinosa questione delle conseguenze dell’interferenza umana sugli ecosistemi del pianeta.

Intanto può risultare utile, preliminarmente alle riflessioni che seguiranno, ricordare che il termine “ambiente”, sostantivo maschile originato dal latino ambiens ambientis, participio presente del verbo ambire, cioè “andare intorno, circondare”, significa proprio lo spazio che circonda una cosa o una persona e in cui questa si muove o vive, sottintendendo così, in qualche modo, anche l’importante e imprescindibile elemento della relazione e dell’interconnessione tra umano e non umano. L’inquinamento globale di aria, acque e terreni a cui siamo oramai assuefatti, perciò, da un lato rimanda alla relazione disfunzionale che una larga parte dell’umanità ha con il pianeta che la ospita, caratterizzata da un pervasivo e incessante sfruttamento delle sue risorse, dietro cui si intravede un pericoloso “orgoglio di specie” [Alaimo 2014], dall’altro ripropone, proprio per questo, la necessità di ripensare, complessivamente e in modo più responsabile, il rapporto stesso tra cultura e natura [Ingold 2004; Latour 2013; Descola 2014].

In molte aree della terra si assiste alla presenza di luoghi più o meno invasi, in modo spesso evidente, in altri casi pericolosamente celato, da plastica e rifiuti di ogni tipo, sostanze chimiche, amianto, scorie radioattive, petrolio, onde elettromagnetiche e così via, tali da minacciare la salute degli esseri umani e non umani che vi abitano, come è accaduto, per citare un solo esempio emblematico e recente, con il caso della “Terra dei Fuochi” tra la provincia di Napoli e quella di Caserta in Campania [Armiero 2014; Alliegro 2017].

In realtà la situazione è sicuramente molto più subdola e sottile, in quanto decisamente più ampia per complessità ed estesa per ambiti geografici di quella riferibile a casi eclatanti e mediatici come quello della “Terra dei Fuochi”, riguardando piuttosto tutte le forme viventi del pianeta e purtroppo quasi ogni suo angolo. La condizione umana in tempi di Antropocene implica, infatti, un’ampia esposizione alla poliedrica, globale e spesso invisibile contaminazione ambientale, frutto proprio del progresso e della tecnologia umani, che si traduce in un mescolamento continuo e in larga parte inconsapevole di “sporcizia” culturalmente determinata e corpi [Sullivan 2012], a cui nessun essere umano (e non umano) può pertanto sottrarsi.

A riprova della pervasiva globalizzazione in cui siamo immersi, a causa della quale non esistono praticamente più ambienti incontaminati, possono risultare significative alcune pratiche in uso presso certi gruppi umani in Africa, ancora organizzati in società tradizionali e più a contatto diretto con la natura. Mi riferisco in particolare al caso etnografico dei Daasnach, una tribù seminomade formata da circa cinquantamila persone che vivono prevalentemente nella valle del fiume Omo in prossimità del Lago Turkana in Etiopia meridionale nella parte orientale dell’Africa, ma anche in alcune zone dei vicini paesi del Kenya e del Sudan, dove sopravvivono dedicandosi prevalentemente all’agricoltura e all’allevamento di animali. Presso questo gruppo umano si è infatti diffusa una creativa pratica antropo-poietica [Remotti 2013] di ri-utilizzo dei rifiuti raccolti nei contesti a loro limitrofi, rifiuti legati tuttavia alla produzione globale di beni di consumo altrove che arrivano poi sino ad essi e che vengono trasformati in originali accessori e monili per abbellire i loro corpi e “costruirli” così culturalmente. Il fotografo Eric Lafforgue[3] ha documentato sul piano visuale la cultura e la vita quotidiana all’interno dei villaggi tradizionali abitati dai Daasnach in Etiopia, ancora in stretto legame con gli ambienti naturali che li ospitano, scattando molte foto suggestive, frutto di una lunga permanenza sul campo, divenute emblematiche. Tali foto ritraggono le loro sorprendenti creazioni di bellezza realizzate con vari rifiuti e con oggetti di scarto quali, in particolare, pezzi di plastica, metallo e tappi di bottiglia reperiti in giro (Foto n. 1-4)[4]. Questo interessante esempio etnografico, se da un lato ci mostra una soluzione culturale altamente creativa e di sicuro impatto estetico al problema del dilagare dei rifiuti del mondo globalizzato in ogni angolo della terra, anche dove meno ce li aspetteremmo per la presenza di un’organizzazione sociale ancora tradizionale e in stretto legame con l’ambiente naturale, dall’altro ci lascia riflettere ancora di più su quanto effettivamente ampio sia diventato oggi il problema dell’inquinamento in tutte le sue forme.

Le questioni appena accennate ne comportano in realtà altre ancora più complesse che vanno a declinarsi sul versante di possibili e pericolose forme di ingiustizie ambientali e sociali, di vero e proprio razzismo ambientale [Bullard e Johnson 2000] e quindi, in una parola, di radicato antropocentrismo [Oppermann 2015]. Bisogna infatti riconoscere che l’impatto delle crisi ecologiche della nostra era ha un peso maggiore su coloro che sono meno capaci di adattarsi a sopravvivere [Gaard 2011] e che quindi incorporano [Scheper-Hughes e Lock 1987; Csordas 1990, 2002] pressioni sociali, ingiustizie e violenze ambientali a cui sono esposti, come per esempio le comunità più povere[5], quelle multi-etniche, quelle che vivono in territori più fragili ed esposti ai disastri e ovviamente anche le specie non umane. D’altro canto, spesso, rifiuti tossici ed eventi catastrofici connessi alla crisi climatica sono prevalenti proprio in alcuni luoghi come quelli dei paesi del Sud del mondo. Questi ultimi, ancora in larga parte intrappolati in articolati conflitti politici, sociali ed economici e vittime di un’iniqua distribuzione mondiale delle risorse [Zito 2015], soffrono le conseguenze di una tossicità inflitta [Heise 2013], proprio a causa di complessi meccanismi di sfruttamento economico [Martínez Alier 2009] che rimandano a forme di imperialismo economico e culturale perpetuate dai cosiddetti paesi ricchi del mondo a loro danno in una vera e propria dinamica di potere neo-coloniale [Roos e Hunt 2010]. Oggi, infatti, sempre più, mentre in Occidente la salute in generale si sta inesorabilmente trasformando in un bene di consumo con pericolosi scarti sociali legati alle nuove povertà e alle dinamiche migratorie, nel cosiddetto Sud del mondo si configura come un rilevante e ampio problema, innanzitutto di giustizia sociale. Sono molteplici e diverse le forze ambientali e sociali che incidono sui corpi più vulnerabili danneggiandoli e rendendoli suscettibili di malattie durature e spesso letali, quando tali forze si materializzano in sostanze chimiche e inquinanti prodotti della tecnologia e del progresso umani. La violenza radicata nell’ambiente attraverso l’inquinamento e le contaminazioni tossiche che ne derivano non si limita tuttavia ai paesi del Sud del mondo, colpendo tutti, anche se con più ampio e significativo impatto su anziani, disabili, donne, bambini, popolazioni indigene e viventi non umani [Bullard e Johnson 2000; Nixon 2011], producendo il paradossale effetto di ricadere, indipendentemente dal luogo in cui si trovano, proprio su coloro che ne sono meno responsabili [Whitehead 2014].

Come scrive Oppermann:

Nel nostro contesto socio-ambientale, il corpo è un testo locale di contesti globali, reso “altro ecologico” dalle forze del capitalismo che creano traiettorie di inquinamento ambientale estese fino ai singoli sistemi metabolici. Il corpo, allora, è il luogo in cui si incarnano le tossicità di biomi ed ecosistemi. È quindi nel corpo che l’ecologia […] trova la sua espressione [2015, 122].

Il corpo umano è dunque al centro di un complesso intreccio di forze geopolitiche, ingiustizie sociali, proiezioni simboliche, spinte culturali e trasformazioni ambientali, snodo vulnerabile del dinamico interscambio di cultura e natura, luogo fisico di articolati processi di plasmazione e di incorporazione di spinte e pressioni sociali e di elementi materiali e simbolici [Braidotti 2009; Oppermann 2015]. L’impatto degli agenti inquinanti e tossici si estrinseca attraverso complesse dinamiche di ibridazione e trasformazione naturale e culturale [Haraway 2008] nel perpetuarsi di corpi umani, spesso differenziati per sesso, genere, categorie sociali e variabilità etniche, resi alterità ecologiche [Oppermann 2015], caratterizzati da vulnerabilità e diseguaglianze sociali e colpiti da pratiche discriminatorie e malattie ambientali. Questi corpi tossici [Langston 2010] diventano testi vivi in grado di raccontare storie, su di essi inscritte, di inquinamento globale, contaminazioni, malattia, sfruttamento, oppressione, ingiustizia, conflitti sociali e medici, mostrando immaginari simbolici, pratiche culturali, decisioni politiche ed economiche, in cui la carne si mescola e si ibrida con il simbolico e con il non umano [Iovino e Oppermann 2014], subendo il potere degli altri fino a configurarsi come veri e propri ecosistemi interni [Langston 2010]. Natura e cultura confluiscono inevitabilmente nei corpi tossici, diventando permeabili e porose l’una verso l’altra e viceversa [Oppermann 2015]. È importante tuttavia ricordare che nessun corpo umano è puramente tale, nel senso che l’umano è sempre in qualche modo “contaminato” con il non umano a causa di continui interscambi trans-corporei tra corpi stessi e ambiente con le sue altre varie forme di vita, quali batteri, microbi e virus [Zito 2018a], senza omettere le sostanze xenobiotiche quali composti chimici a cui siamo esposti [Mazzeo 2017; Ravenda 2017], nonché i farmaci di cui come specie pure ci serviamo [Bennet 2010], traducendosi in un’inevitabile coesistenza, non sempre benevola, di umano e non umano [Haraway 2008]. Può risultare utile in questa direzione ricordare anche che, proprio a partire dall’approccio post-genomico, si stanno sviluppando nuovi paradigmi rispetto ai concetti di corpo e salute [Benezra, De Stefano e Gordon 2012]. Mi riferisco in particolare agli studi sul microbioma umano [Costello et al. 2012] per i quali la salute stessa non dipenderebbe più da un organo malato/sano, ma dalla biodiversità e dalle caratteristiche della comunità ecologica di batteri presenti nel corpo umano, mediatori con l’ambiente [Paxson e Helmreich 2014].

Se le culture occidentali hanno creato il mito della separazione tra nature umane e materie non umane, mito utilizzato da molte autorità regolative per giustificare alcune pratiche di aggressione e violenza sugli ambienti [Oppermann 2015], come per esempio lo sversamento di rifiuti tossici in contesti ritenuti erroneamente (o piuttosto strategicamente presentati come) “separati” dagli esseri umani, i corpi tossici con la loro porosità mettono invece in discussione la presunta distinzione categorica tra corpi stessi e ambiente [Langston 2010]. Impongono così, configurandosi come un’utile categoria critica di lettura del mondo e di un agire marcatamente antropocentrico, un ripensamento di molte forme di esercizio di potere e di conseguenti pratiche sociali sull’ambiente e sui corpi stessi più in generale [Farmer 2003]. Svelano al contempo l’inevitabile intreccio tossico tra nature umane e materie non umane. Richiedono infine una grande attenzione e una significativa responsabilizzazione collettiva e quindi nuove e più adatte strategie etiche e politiche di cui le donne, come mostrano anche la storia di genere, i cultural studies e i post-colonial studies, si sono fatte attente e attive sostenitrici e promotrici già prima degli altri [Bianchi 2012].

Corpi che si ribellano e resistono, donne in prima linea per una cultura ecologista

Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede […].

Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo,

se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo,

al di là dell’estremo crinale, immondezzai di altre città […].

I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui

i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano […].

(Italo Calvino, Le città invisibili, 1972, pp. 110-111)

In questa congerie, in diversi contesti nazionali e internazionali, diventano sempre più numerose le iniziative di gruppi di donne in prima linea nella lotta per la difesa dell’ambiente, della salute e più in generale della vita, attraverso un’ampia partecipazione sociale[6], una significativa cittadinanza attiva e un’intensa pressione istituzionale [Barca e Guidi 2013; Armiero 2014; Guidi 2018] per scongiurare per esempio l’invasione di rifiuti senza soluzione di continuità che ancora Calvino acutamente descrive in quest’ulteriore frammento di testo tratto da Le città invisibili [1972]. Lo dimostrano ampiamente i numerosi comitati di donne, intellettuali ma non solo e di mamme, sorti ovunque in Italia e nel mondo negli ultimi anni, per denunciare l’impatto sanitario di poli industriali, centrali a carbone e impianti elettromagnetici, siti di stoccaggio di rifiuti altamente tossici e talvolta impianti di depurazione.

D’altro canto, più in generale, sin dagli anni settanta del Novecento l’eco-femminismo si è configurato come una vera e propria proposta culturale e politica, particolarmente attenta, da un lato al complesso intreccio dei rapporti di forza e dominio di specie, razza[7], classe e genere, e dall’altro lato agli stessi legami di interdipendenza tra esseri umani, non umani e ambienti [Bianchi 2012; Barca e Guidi 2013]. Sono dunque le donne, storicamente lasciate ad occuparsi della sussistenza familiare e comunitaria, provvedendo al cibo e all’acqua, gestendo cura e salute, a essere in prima linea un po’ ovunque nel mondo su questo fronte, a sollevarsi per difendere la terra e risvegliare le società per renderle consapevoli della crisi ecologica generalizzata e globale, indotta da un paradigma ecologicamente cieco che minaccia la vita e la sopravvivenza di tutti, ma soprattutto dei più vulnerabili [Guidi 2018].

Shiva [1988, 1991], l’ecologista indiana che ha seguito molto da vicino l’impegno dello storico movimento delle donne Chipko[8] (Foto n. 5-7) per la protezione dell’ambiente, parla, con riferimento a esse, ma anche a quelle donne coraggiose che in altre parti dell’India e in diverse zone del mondo lottano per la difesa del pianeta, di ecowarriors. Certamente il movimento Chipko[9] dell’Himalaya Centrale costituisce uno dei fenomeni più interessanti di difesa delle foreste, caratterizzato da donne che da decenni hanno protetto e proteggono con il proprio corpo[10] gli alberi per evitare la deforestazione con i conseguenti inevitabili disastri naturali e scomparsa dell’acqua che vi si accompagnano. Le donne Chipko, ben oltre le conferme della scienza, hanno mostrato che terreno fertile, acqua e aria pura sono i veri prodotti della foresta che nel suo insieme svolge un’importante funzione ecologica per il mantenimento degli ecosistemi, avendo contribuito così a dare vita al più ampio Hug The Tree Movement. E certamente è importante sottolineare che in India, ancora più che altrove, le foreste costituiscono il simbolo potente di un’innata vitalità da proteggere. L’impegno di queste donne si fa forte a partire dagli anni settanta[11] del Novecento, si arricchisce degli insegnamenti di Gandhi rispetto alla resistenza pacifica e non violenta, si trasforma nel tempo, in parallelo ai cambiamenti sociali e culturali che sopraggiungono, perché il corpo e la sensibilità di tali donne verso le questioni ambientali sono frutto di precisi processi storici e culturali, fino ad ottenere importanti risultati negli anni ottanta con il divieto di abbattere gli alberi delle foreste dell’Himalaya, divieto tutt’oggi operativo [Shiva 1991].

Young [2003], nel riflettere sul rapporto tra ecologia, femminismo e post-colonialismo, considera il femminismo stesso come il cuore della questione post-coloniale nella sua finalità di ottenere giustizia ed eguaglianza collettive e al tempo stesso liberarsi dei condizionamenti culturali e simbolici e soprattutto economici dei paesi colonizzatori, superando l’ambivalente subordinazione culturale ed economica (anche se non direttamente politica) dei colonizzatori in quanto tali e ciò anche in merito alla questione ambientale. Dunque quella ecologista e femminista del Movimento Chipko si configura pienamente quale importante battaglia contro il dominio coloniale e post-coloniale (nonché patriarcale), contro le strutture sociali che nel tempo hanno continuato a promuovere ineguaglianze e subordinazione, come nel caso specifico dell’India, dove la nuova entità nazionale successiva alla lunga storia coloniale inglese ha raccolto una vera e propria eredità coloniale scomoda e pericolosa [Guha 2000]. Young [2003] fa notare come il nazionalismo patriarcale della nuova India avesse proseguito in qualche modo sulla stessa linea della politica coloniale di sfruttamento, rinforzando vecchie gerarchie sociali, speculando su lavoratori, donne e ambiente. Come la precedente amministrazione coloniale la nuova nazione indiana ha “colonizzato” le foreste condizionando il modo di pensare, piegato sull’altare di interessi di mercato e logiche scientifiche del tempo, con l’effetto di produrre deforestazione e desertificazione, danneggiamento delle economie locali e degli ecosistemi. Si tratta di una “colonizzazione” economica e commerciale improntata ai valori di mercato, in base alla quale si controlla la natura sacrificandola in funzione di un profitto a breve termine, riproducendo un rapporto di potere che rimanda a quello che il patriarcato ha fatto con le donne. Queste ultime, tuttavia, per la loro esperienza di coltivatrici e facilitatrici della famiglia [Signorelli 2011], anche con riferimento alle specificità sociali e culturali di genere e all’esperienza della maternità [Ranisio 1996, 2011; Héritier 1997; Busoni 2000; Ortner e Whitehead 2000], posseggono conoscenze preziose su equilibri naturali ed ecologici. Tali conoscenze, per esempio, hanno consentito loro, in India, di dare vita al movimento Chipko, sviluppando nel tempo una vera filosofia politica che ha resistito alla centralizzazione, alla corruzione e allo sfruttamento, promuovendo piuttosto giustizia, autosufficienza ed empowerment delle conoscenze locali [Young 2003].

In questo modo in India le donne più di altri hanno tentato un significativo cambio di paradigma per allineare l’economia all’ecologia, considerando che, come ci ricorda ancora Shiva [1991], la radice di entrambe le parole è comune ed è oikos, cioè casa. E in fondo le donne, come quelle indiane, da sempre sono “esperte” di economia per la loro storica attiva e principale partecipazione ai processi che forniscono sussistenza all’interno delle comunità, ma anche per la loro competenza radicata in un’esperienza incorporata relativamente al rapporto con l’ambiente e l’ecologia. In questo modo esse possono offrire un sapere unico, pratico, radicato nell’esperienza e che si contrappone a una scienza maschilista, cartesiana, baconiana e newtoniana, caratterizzata invece dal dominio di una posizione meccanicistica e riduzionistica che soggioga e schiaccia altri sistemi di conoscenza del mondo, come quelli indigeni e delle comunità di donne anche analfabete e povere, basati però sull’interconnessione stretta con la natura e su profonde e articolate relazioni sociali [Young 2003]. Shiva [2002, 2006] sottolinea in modo forte che l’allontanamento dalla Terra è ciò che causa crisi e solo il ritorno alla terra-madre[12], organismo vivente che interconnette tutti gli esseri viventi, umani e non umani, può quindi accordarsi con un modello di sviluppo alternativo, al cui centro è possibile il benessere dell’umanità e dal quale nascono prodotti di qualità e possibilità di lavoro ecocompatibili, considerando che il futuro della Terra non può che essere la terra stessa. Le donne del Movimento Chipko hanno enfatizzato la necessità di un’ecologia locale sostenibile in cui la vegetazione, il suolo e l’acqua formano un complesso ecosistema correlato, mostrando al contempo come le divisioni non sono solo tra gli estranei e gli autoctoni, ma anche, proprio nei villaggi, tra le donne e gli uomini. Le donne Chipko hanno sfidato i principi dell’intero sistema, accusando gli uomini di essere spesso ideologicamente “colonizzati” dai valori commerciali a breve termine del mercato, interessati solo a prendere il controllo della natura. La prospettiva di queste donne, basata su una solida e antica conoscenza dell’ambiente, non è stata invece guidata dal miraggio di un guadagno immediato attraverso l’impiego della scienza per dominare la natura, ma dall’obiettivo di preservare un sistema forestale di sostegno e auto-rinnovamento che a sua volta difendesse le risorse idriche e alimentari e proteggesse territori, ambienti e comunità [Young 2003]. Dagli anni settanta del Novecento in poi le lotte delle donne dei villaggi locali e tribali di Chamoli, Karnataka, Jharkhand e altrove, pur attraverso una serie di inevitabili cambiamenti storici e sociali avvenuti negli anni, hanno arrestato con successo molte pratiche e progetti di deforestazione e aggressione dei territori, oltre a sollecitare la formulazione di un’intera filosofia politica ambientale [Guha 2000].

Appare a questo punto importante ricordare che anche in Italia al giorno d’oggi tra i vari movimenti ecologisti per la giustizia sociale e ambientale proprio quelli delle donne rappresentano la principale componente sociale in forte mobilitazione. Lo evidenzia in modo appassionato lo storico dell’ambiente Marco Armiero nella sua raccolta Teresa e le altre. Storie di donne nella terra dei fuochi [2014], mostrando attraverso la loro contro-narrazione un forte protagonismo femminile nelle lotte ambientali nella già citata “Terra dei Fuochi” in Campania (Foto n. 8-9). Armiero [2014] sceglie dieci donne come protagoniste di una vicenda di difesa del territorio che ha indubbiamente visto anche la partecipazione di molti uomini. Tuttavia sono le donne le più determinate nei movimenti campani in difesa del territorio, come donne appunto, prima che come madri. Guidi [2015], rileggendo le storie di Armiero confrontate con altre testimonianze e con la sua esperienza di storica del genere e dell’ambiente, sottolinea come le motivazioni che hanno spinto tali donne all’attivismo in difesa dell’ambiente stesso siano tra le più disparate. Includono certamente un forte senso di responsabilità e protezione verso i figli, un più generale ruolo di responsabilità e un’etica della cura verso i più deboli, la consapevolezza di una particolare esposizione dell’apparato riproduttivo femminile ai fattori tossici dell’inquinamento e quindi di una conseguente sua maggiore vulnerabilità. Ne comprendono certamente tante altre ancora, molto più complesse e difficili da ricostruire e decifrare, declinate sul crinale tra pubblico e privato, cultura e natura, soggettività e identità sociale.

Anche in un’altra regione del Sud Italia come la Puglia c’è stata di recente una grande mobilitazione dall’elevato valore simbolico, nella quale le donne hanno avuto un ruolo centrale e partecipe. Mi riferisco alle proteste in difesa degli ulivi secolari di questo territorio a rischio di abbattimento e in parte già rimossi per favorire la realizzazione di una grande gasdotto proveniente dall’Est europeo (Trans Adriatic Pipeline-TAP) e quindi per consentire l’interramento dei tubi, ma anche in relazione alla spinosa e per certi aspetti interconnessa questione della diffusione del batterio xylella[13]. A partire dal 2015-2016 le comunità locali hanno manifestato attivamente contro il progetto TAP considerato come una pericolosa minaccia non solo per l’agricoltura, ma anche per il turismo e la pesca.

Tra le varie organizzazioni sorte in Italia Guardiane della terra (Figura n. 2), infine, si configura come contemporanea forte e capillare rete di donne, attiviste, madri e cittadine, in cui confluiscono varie altre realtà associative anche più specifiche e periferiche, che lanciano tutte insieme alle istituzioni locali e nazionali, con un vero e proprio manifesto programmatico, un appello pubblico. Sottopongono agli enti preposti specifiche richieste aventi come finalità la tutela integrale della salute ambientale con la conseguente piena attuazione del principio di precauzione previsto e regolato dalla normativa comunitaria, monitorando infine in maniera attiva i territori.

Conclusioni

Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura,

ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta […].

(Italo Calvino, Le città invisibili, 1972, p. 111)

Se l’emergenza ambientale costituisce uno dei segni più evidenti e preoccupanti della contemporaneità, come già nel 1972 Calvino aveva profetizzato, l’ecologia politica, quale campo di studi interdisciplinare e intersezionale, si configura sempre più come necessaria ripoliticizzazione dell’ecologia stessa attraverso cui svelare e analizzare le radici economiche, politiche e culturali della crisi in atto per promuovere una reale “giustizia ambientale” [Barca 2014a, 2014b]. Il dato di partenza è infatti quello di una distribuzione diseguale dei costi ambientali scaricati sui corpi più vulnerabili che diventano corpi tossici [Langston 2010] secondo un paradigma di potere e di profonda diseguaglianza con l’effetto di produrre come esito un inquinamento certamente non uguale per tutti [Bullard e Johnson 2000; Armiero e Barca 2004]. Tali corpi, seppure aggrediti e feriti, possono resistere, insorgere, protestare, ribellarsi, per esempio con il ricorso a potenti abbracci, concreti e simbolici, come ci mostra l’esperienza storica delle donne del Movimento Chipko in India [Shiva 1988, 1991; Young 2003] o attraverso accese manifestazioni come quelle nella “Terra dei Fuochi” in Campania [Armiero 2014; Alliegro 2017]. L’antropologia culturale e in particolare quella medica come sua specializzazione, con il suo sapere critico e il potere della sua pratica etnografica, può certamente contribuire allo sviluppo di una forte ecologia politica, perché già da tempo propone una più complessa visione della corporeità nella sua dimensione profondamente storica e quindi nel rapporto con i mondi sociali che, così configurata, può aiutare non solo a rileggere malattie e processi di cura in chiave culturale, ma può influire sul piano della pratica e dell’intervento, anche in merito alla questione ambientale, diventando pienamente politica [Zito 2018b]. Ispirato dall’opera di Antonio Gramsci e legato alla ricerca di Ernesto de Martino, Tullio Seppilli[14], fondatore dell’antropologia medica italiana e protagonista della scena antropologica italiana dal secondo dopoguerra fino alla sua recente scomparsa nel 2017, convinto assertore di un uso sociale, consapevole e critico dell’antropologia, sostiene la necessità di «un’antropologia come ricerca nel cuore stesso della società, dei suoi problemi e delle sue ingiustizie. Un’antropologia per “capire”, ma anche per “agire”, per “impegnarsi”» [Seppilli 2014, 74]. La ricerca antropologica, come insegna la lezione di Seppilli, richiede infatti, più di ogni altra, una presa di posizione rispetto al “campo” intellettuale e politico di cui si è parte, con un conseguente riconoscimento delle passioni intellettuali che hanno indirizzato la propria riflessione e un imprescindibile uso sociale di essa. Dal canto suo Fassin [2014] ci ricorda che una delle contraddizioni più radicali e pericolose del mondo contemporaneo consiste nel fatto che, mentre da un lato la vita come questione generale è oggetto di un’elevata forma di sacralizzazione traducibile con il termine “biolegittimità”, dall’altro le vite hanno un valore differente in termini di durata e per quanto attiene alle condizioni stesse dell’esistenza. Così sembrano confermare ampiamente le questioni precedentemente affrontate, con particolare riferimento alle ingiustizie nei processi di contaminazione tossica dei corpi e di induzione di malattia in rapporto all’inquinamento degli ambienti naturali. Infatti sui corpi si leggono le diseguaglianze, nei corpi si imprimono le violenze, incluse quelle ambientali, attraverso i corpi agiscono le norme e il potere [Quaranta 2006]. La malattia stessa, come accade nel caso dell’impatto dell’inquinamento sui corpi, liberata dal riduzionismo biologico, diventa una realtà culturale [Zito 2016], mostrando il modo in cui gli ordini sociale, economico e politico, con il loro intricato campo di forze, si imprimono in quello corporeo. Per Fassin [2014], a questo punto, “ripoliticizzare il mondo” significa spostare lo sguardo dalle forme della politica, alla sua stessa materia, la vita, il corpo e la morale, perché la politica è ciò che trasforma le vite, agisce sui corpi, mette in moto la morale. Così possono intensamente mostrare le storie di erosione del diritto alla salute e quelle di malattia a causa dell’inquinamento e dello sfruttamento ambientale, ma anche quelle di attivo impegno sociale come consapevole e costruttiva opposizione a tali violenze e ingiustizie [Armiero 2014] e quale concreta esperienza di resistenza e lotta come nel caso del Movimento delle donne Chipko [Shiva 1988, 1991; Young 2003] nella promozione di un cambiamento del rapporto delle comunità con i territori. Certamente, più in generale, gli atteggiamenti responsabili che andrebbero messi in atto per affrontare le sfide ambientali dell’Antropocene [Crutzen 2005] e del Capitalocene [Moore 2017] non sono certo complessivamente di facile e immediata attuazione, essendo piuttosto, necessariamente, il risultato di un processo di riflessione e cambiamento culturale graduale che dovrebbe coinvolgere tutte le individualità e le comunità nella loro quotidianità.

È infine importante tenere conto in maniera più ampia delle potenzialità del concetto di “cultura” stesso secondo gli sviluppi di autorevoli voci antropologiche e filosofiche contemporanee, quali, tra le altre, quelle di Strathern [1992], Latour [2013], Descola [2014], Ingold [2015] e Viveiros de Castro [2015], su concetti come una “genealogia” di dualismi tra natura e cultura, natura e società, soggetto e oggetto, umano e non umano, individuo e società, persone e cose, mentale e materiale [Mancuso 2016]. La cosiddetta “svolta ontologica” nelle scienze umane e in particolare modo in antropologia, riferita a questi autori e sviluppatasi negli ultimi venti anni, ha tentato proprio di rispondere ai pressanti bisogni socio-politici ed ecologici con uno studio intensivo delle modalità interconnesse di identificazione e relazione tra mondo umano e non umano [Benadusi, Lutri e Sturm 2016]. Ingold [2004, 2015], in particolare, adotta un’ottica ecologica, in base alla quale l’ambiente non può essere inteso come un aspetto separato dagli organismi che vi si inscrivono, i quali diventano così parti di una complessa rete di interazioni che si articolano, strutturano e influenzano in modo reciproco e ricorsivo, come in qualche modo sembra suggerire l’etimologia stessa del termine “ambiente” già in precedenza chiarita. In questo modo, criticando le tradizionali dicotomie di mente/corpo, natura/cultura, organismo biologico/attore sociale, Ingold [2015] propone un approccio alternativo che, intersecando antropologia culturale, biologia e fenomenologia, evidenzia e valorizza complessi e articolati nessi, relazioni e concatenazioni tra esseri umani e ambienti, con importanti potenziali ricadute pratiche sulle comunità, aprendosi a un’ampia prospettiva di ecologia politica critica. È a tutt’oggi questa una grande sfida che, come antropologi, non possiamo non cogliere.

Appendice iconografica

Foto n. 1

Foto n. 2

Foto n. 3

Foto n. 4

Foto n. 1-4. I Daasnach dell’Etiopia meridionale con i loro monili prodotti riutilizzando rifiuti (Ph. © Eric Lafforgue).

Fonte: http://www.ericlafforgue.com/album/ethiopia/

Foto n. 5

Foto n. 6

Foto n. 5-6. Immagini degli anni settanta e novanta del Novecento raffiguranti le donne del Movimento Chipko in India mentre abbracciano con il loro intero corpo gli alberi da difendere.

Fonti: https://lunanuvola.wordpress.com/2014/04/04/ecoguerriere/

https://www.britannica.com/topic/Chipko-movement

Foto n. 7. Immagine recente di giovani donne del Movimento Chipko in India mentre stringono nastri colorati dal valore simbolico attorno al tronco degli alberi da proteggere.

Fonte: http://informazioneindipendente.com/da-chipko-a-oggi-si-sollevano-per-la-terra

Figura n. 1. Il quadro ritrae Amrita Devi che con il suo abbraccio, insieme ad altre donne della comunità Bishnoi nella regione del Rajasthan in India, difende gli alberi della sua terra sacrificando la vita nel 1730.

Fonte: http://www.spandanfeatures.com/role-of-women-in-environment-protection/

Foto n. 8

Foto n. 9

Foto n. 8-9. La “Terra dei Fuochi” in Campania, immagini reperite nel web e scelte per il loro valore simbolico.

Fonti: http://www.linkiesta.it/it/article/2017/12/16/terra-dei-fuochi-il-cibo-e-sano-le-persone-no/36523

http://www.iltempo.it/cronache/2017/02/09/news/terra-dei-fuochi-i-bambini-continuano-a-morire-di-tumori-1025607/

Figura n. 2. Logo di Guardiane della Terra, immagine particolarmente eloquente e incisiva per la dimensione di genere con le sue assonanze storiche.

Fonte: https://guardianedellaterra.jimdo.com

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[1] Dalla primavera del 2018 faccio parte del network internazionale di ricerca interdisciplinare “Ecologie politiche del presente”, costituitosi presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (IISF) di Napoli, quale luogo intersezionale e di convergenza per diverse discipline e istituzioni culturali con lo scopo di riflettere sulle principali posizioni espresse nel dibattito ecologico contemporaneo e co-organizzato dalla Scuola di Studi Politici dell’IISF, dall’Oficina de Ecologia e Sociedade del Centro de Estudos Sociais dell’Università di Coimbra, dall’Environmental Humanities Laboratory del KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma, dal Centro Studi Postcoloniali e di Genere dell’“Orientale” Università degli studi di Napoli, dall’Unità di Ricerca sulle Tecnoculture dell’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli, dalle riviste “La camera blu. Rivista di studi di genere” dell’Università degli Studi di Napoli Federico II (della cui redazione sono membro) ed “Effimera. Critica e sovversioni del presente”. L’articolo di revisione e sistematizzazione della letteratura che propongo in questa sede è finalizzato da un lato a offrire un primo apporto specificamente antropologico - e in particolare con riferimento alla prospettiva critica dell’antropologia medica - al dibattito ecologico all’interno del gruppo interdisciplinare “Ecologie politiche del presente”, a cui afferiscono prevalentemente storici contemporanei e studiosi di scienza politica e dell’ambiente, quali, tra gli altri, Marco Armiero, Stefania Barca, Laura Guidi, Emanuele Leonardi e Antonello Petrillo, dall’altro lato rappresenta anche un lavoro propedeutico a una futura fase di ricerca sul campo.

[2] Alla nuova narrativa globale fondata sull’Antropocene [Crutzen 2005] intesa come l’era dell’umano quale forza geologica, che propone una naturalizzazione delle diseguaglianze prodotte dalla crisi ecologica, ritenendole necessario risultato della presenza dell’uomo nel contesto terrestre, l’ecologia politica [Barca 2014a, 2014b] oppone una ripoliticizzazione dell’ecologia stessa. In quest’ottica va allora inquadrata la nuova categoria del Capitalocene [Moore 2017], intesa come l’età del capitale, dove è il capitalismo la vera forza geologica che svela le radici economiche, politiche e culturali della crisi in atto.

[3] Per approfondimenti sul lavoro fotografico di Eric Lafforgue si rimanda al sito web http://www.ericlafforgue.com.

[4] Queste e le altre foto e figure riportate nel contributo hanno un valore puramente documentale ad integrazione di quanto riportato nel testo e senza alcuna pretesa sul piano della prospettiva dell’antropologia visuale, pur avendo comunque un significativo valore simbolico.

[5] A proposito di social/environmental justice, nonostante i significativi miglioramenti nella protezione ambientale degli ultimi decenni, secondo Bullard e Johnson [2000] milioni di americani continuano a vivere in condizioni ambientali non sicure e salubri, ed ovviamente quelle più esposte sono le persone di “colore” e più in generale quelle meno abbienti. Tali autori sottolineano come proprio negli ultimi anni gruppi di attivisti e ambientalisti abbiano tentato di cambiare le norme e le politiche ambientali dei governi, mostrando e denunciando pervasivi fenomeni di razzismo e di ingiustizie ambientali. Per esempio negli ultimi trent’anni circa gli attivisti hanno ottenuto significativi successi nel cambiare il modo in cui il governo federale americano tratta alcune comunità di “colore”. Gli stessi gruppi di attivisti si sono organizzati e rinforzati per intervenire e incidere in modo più rilevante rispetto alla gestione governativa delle politiche della salute e di quelle ambientali, al punto da investire l’ambientalismo di un’elevata valenza in termini di giustizia sociale e di diritti civili.

[6] A proposito di partecipazione sociale Gugg [2014], studiando i riti religiosi di emergenza e di commemorazione di catastrofi naturali come le eruzioni del Vesuvio in Campania, fa notare come rispetto al pericolo di un vulcano nuove minacce quotidiane di certo più pressanti di quelle geologiche, quali l’inquinamento dell’ecosistema con i relativi rischi per la salute, possono assurgere a rilevanti preoccupazioni sociali di cui gli stessi riti si fanno segno e proscenio. Spesso infatti, durante i recenti periodi di emergenza rifiuti in Campania, con particolare riferimento all’area napoletana e vesuviana, la sfera del sacro è stata coinvolta mediante ritualità specifiche, simili a quelle attivate storicamente nello stesso territorio in caso di catastrofi naturali, confluendo nelle attive proteste politico-sociali anti-discarica con forte partecipazione femminile soprattutto nelle località di Terzigno, San Giovannni a Teduccio, Torre Annunziata e Boscoreale (vedi in particolare l’Associazione “Mamme Vulcaniche”), dove le ex cave estrattive sono state utilizzate dal governo nazionale e dall’amministrazione regionale come immondezzai.

[7] Per approfondimenti in merito alla recente posizione unitaria degli antropologici italiani (biologici e culturali) sulla tematica delle razze e dei razzismi e al relativo appello per un’informazione scientifica contro i razzismi stessi si veda anche il sito della Società Italiana di Antropologia Culturale (S.I.A.C.) al link http://www.siacantropologia.it.

[8] Tale termine significa “aggrapparsi” e quindi “abbracciare” e rimanda alla tecnica principale di queste manifestanti, di abbracciare gli alberi con il proprio corpo (azione quest’ultima dall’altissimo valore simbolico, ma non solo) per poterli anche concretamente difendere dall’abbattimento, rifiutando di piegarsi alle logiche della speculazione commerciale. La fondazione del Movimento Chipko risale ai primi anni settanta del Novecento nel distretto di Chamoli, nell’India Nord-occidentale, quando le popolazioni locali si sono organizzate con successo per protestare contro la vendita all’asta degli alberi del loro territorio [Shiva 1988]. Il termine Chipko si richiama a un metodo utilizzato per la prima volta circa trecento anni prima in Rajasthan dalla comunità di Bishnoi (Figura n. 1), che, guidata da Amrita Devi, resistette all’abbattimento degli alberi sacri del proprio territorio abbracciandoli e morendo durante la lotta in loro difesa.

[9] Alle origini del movimento Chipko in India secondo Shiva [1991] c’è il lavoro di Mira Behn, una delle donne vicine a Gandhi, che nella seconda metà degli anni quaranta del Novecento si spostò in una fattoria nella zona dell’Himalaya. Lì si preoccupò sempre più delle devastanti inondazioni annuali che si verificavano nella regione, le cui cause, come scoprì, erano sia la deforestazione sia la semina di nuovi tipi di alberi non autoctoni. Mira Behn studiò l’ambiente locale e in particolare acquisì preziose conoscenze su di esso dalle persone del posto che lo conoscevano profondamente, ma anche ascoltando canzoni e fiabe popolari del luogo, notando in particolare numerosi riferimenti ad alberi e piante che erano più o meno scomparsi, concludendo che i problemi ecologici vissuti nell’area erano il risultato della deforestazione di alberi autoctoni. Presto altre seguaci di Gandhi come Sarala Behn e Sunderlal Bahuguna si unirono a Mira Behn nel suo lavoro [Shepard 1987].

[10] Certamente l’idea di abbracciare gli alberi rappresenta anche potentemente a livello simbolico il forte rapporto tra le persone e la natura in cui queste vivono, rimandando a una valorizzazione delle conoscenze locali e a una conseguente strenua resistenza alla corruzione e allo sfruttamento [Young 2003].

[11] Il Movimento Chipko ha un suo momento storico e simbolico di grande rilevanza il 26 marzo del 1974, quando nel villaggio di Reni in India ventisette donne analfabete e povere si opposero con i loro corpi all’abbattimento degli alberi cominciando ad abbracciarli, consapevoli che la deforestazione provoca frane, siccità e inondazioni, per insegnare in modo forte a tutti che i doni più preziosi della foresta sono aria e acqua, non certamente legnami e profitti a breve termine [Shiva 1988].

[12] Questo elemento della terra-madre ritorna in diverse culture anche in altre parti del mondo come per esempio in quelle indigene amerinde. Mi riferisco in particolare alla nozione di Pachamama che in lingua quechua significa appunto madre-terra, dea della fertilità, della terra e dell’agricoltura, divinità venerata da diversi popoli dell’altopiano andino quali Quechua, Aymara e Inca.

[13] Secondo alcuni, infatti, la diffusione di tale batterio tra gli ulivi salentini sarebbe avvenuta in modo doloso proprio per favorire il loro abbattimento e così facilitare i lavori per la realizzazione del gasdotto. Secondo altri, invece, la diffusione di tale infezione sarebbe un dato puramente casuale, tant’è che per la TAP gli ulivi eradicati vanno poi ripiantati dopo l’interramento dei tubi per il passaggio del gas.

[14] Alla sua lezione di un’autentica antropologia marxista e gramsciana è stato dedicato il Secondo Convegno Nazionale della Società Italiana di Antropologia Medica (SIAM) da lui fondata nel 1988 e appassionatamente guidata fino alla sua morte, tenutosi a Perugia nei giorni 12-14 giugno 2018 e intitolato proprio: “Un’antropologia per capire, per agire, per impegnarsi”. La lezione di Tullio Seppilli.