Recensione

Gianfranco Spitilli, Vincenzo M. Spera (a cura di), Sacer Bos I. Usi cerimoniali di bovini in Italia e nelle aree romanze occidentali, Orma - Revistă de studii etnologice și istorico-religioase, Cluj-Napoca, 22, 2014

Giovanni Kezich

Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina San Michele all’Adige, Trento, Italy

Il numero 22 di Orma, pregevole rivista rumena di studi etnologici e storico-religiosi, che ha sede nella rinomata Università “Babes-Bolyai” di Cluj-Napoca, è un corposo volume miscellaneo a tema, curato da due antropologi italiani, Gianfranco Spitilli e Vincenzo M. Spera, per conto di due centri studi di area abruzzese: “Bambun. Associazione culturale per la ricerca demoetnoantropologica” e “Centro studi don Nicola Iobbi”. Il tema, opportunamente dichiarato in testa al volume stesso, è quello dell’utilizzo cerimoniale e rituale dei bovini nell’ambito delle culture tradizionali dell’Europa sudoccidentale, sul quale si misurano una decina di autori, con altrettanti saggi ampi, ben documentati e riccamente illustrati, e pure multilingui, indifferentemente proposti in italiano, francese e spagnolo, con alcuni abstract in inglese. A questo primo volume Sacer Bos I, in onore alla casa madre rumena della rivista, ne seguirà un altro, presumibilmente di pari peso, sul quadrante orientale della medesima area romanza, che vale la pena di attendere senz’altro per il debito completamento di un’opera articolata e complessa, nonché certamente meritoria. Appare infatti lodevole, dopo quasi un secolo di più o meno ermetiche chiusure degli studi antropologici all’interno dei rispettivi orticelli nazionali, si torni come era di norma nell’anteguerra a cercare di mettere in comunicazione scuole diverse, esprimendosi in una sorta di esperanto degli studi, intorno a temi di interesse transazionale, quali quasi tutti o tutti, a ben guardare, quelli dell’etnoantropologia. Così, anche se il titolo è forse un po’ criptico (non era meglio Il sacro bue?) e la brossura non agevolissima alla lettura nel suo formato quadrotto, vale certamente la pena di inoltrarsi nel percorso proposto dai curatori all’interno dei riti bovini dell’Europa sudoccidentale che rivelano – già lo sapevamo, ma qui ne raccogliamo un’impressione approfondita molto persuasiva – una quantità di interconnessioni di portata continentale sui tre diversi piani dell’immaginario religioso, delle attività cerimoniali e ludiche, e della trasfigurazione simbolica. Un percorso, che noi vorremmo però proporre e ripercorrere scavalcando l’ordine alfabetico necessariamente piuttosto pedissequo che organizza l’indice del volume, per seguire piuttosto in questa esplorazione un ordine ideale, cronologico ovvero evolutivo.

Ai fini di una lettura siffatta, sarà dunque bene prender le mosse dal saggio di Carlo Donà dell’Università di Messina, “Il toro, il cielo e il re. La lunga vita dei motivi mitologici taurini” (pp. 72-123), che ha dalla sua il pregio di un’esposizione entusiasta e molto dotta a partire dalle testimonianze preistoriche più antiche nella grotta Chauvet, per proseguire poi in Egitto, in Fenicia e chissà dove; continuando poi la lettura con il saggio di Laura Carnevale dell’Università di Bari e “L’episodio del toro nell’Apparitio Sancti Micaelis in Monte Gargano: notizie storiche e percorsi interpretativi” (pp. 48-71), che riguarda il difficile travaso – e siamo alla fine del V secolo – di un immaginario di probabile origine mitraica, visto il rapporto tra i due temi difficilmente conciliabili del toro e della grotta, all’interno della religione cristiana, con l’annettersi del tema mistico altrettanto apparentemente incongruo di un Arcangelo guerriero e debitamente alato. A seguire dappresso, su questo stesso piano, che è quello della cristianizzazione primaria dei simboli naturali, metteremmo il bel saggio del curatore Gianfranco Spitilli, già per proprio conto autore di studi importanti sull’argomento dei riti con bovini, “Le saint e le boeuf. Contribution a l’analyse d’un complexe rituel” (pp. 278-317), che descrive molto bene la complessa cerimonialità dell’inginocchiamento del bue di San Zopito, così come ha luogo, documentabilmente almeno dal 1711, a Loreto Aprutino nel giorno di Pentecoste. Ma i riti con i bovini sono anche l’esito specifico di una contiguità diuturna delle comunità umane con gli animali a fini prevalentemente utilitaristici, ed è su questo snodo particolare, nel momento stesso in cui l’animale lattifero diventa protagonista di spettacolo, che Jaques Coget dell’Università di Lille, con il suo “Montrer l’animal” (pp. 370-397) ci accompagna sugli alpeggi di Laguiole, un paese del Massiccio centrale in Francia, dove le consuetudini della salita all’alpe delle vacche, con le corna addobbate di frasche e di nastri festosi, appaiono perfettamente identiche a quelle alpine. Queste manipolazioni della mandria bovina, che nel contesto pastorale dell’allevamento brado o d’alta quota tende a ricostruire naturalmente la propria gerarchia naturale di ordine etologico, apre la strada alle manifestazioni più propriamente ludiche della cerimonialità bovina, con le cosiddette “batailles des reines” della Valle d’Aosta e dintorni, illustrate da Christiane Dunoyer in “Combats de vaches et virilité dans la region nord-occidentale des Alpes” (pp. 124-177), la galassia complessa delle corride e affini, che arriverebbero a ben guardare fino alle bufalate di piazza del Campo in età barocca, una galassia qui analizzata da Hector M. Medina Miranda dell’università messicana di San Luis Potosì, in “Las fiestas de toros salmantinas y sus transformaciones en el tiempo” (pp. 158-191), a partire da un osservatorio ispanico eccentrico e singolarmente ricco, quello di Salamanca; e finalmente, a completare una terna di attività ludiche molto significativa nelle sue possibili reciproche interconnessioni, le cosiddette “carresi”, le corse a rotta di collo di carri trainati dai buoi, analizzate con metodo da Katia Ballacchino e Letizia Bindi dell’Università del Molise, in “Tocca carrere. Una ricerca etnografica sulle carresi del basso Molise” (pp. 18-47), naturalmente dal punto di vista degli umani che intorno all’avventura di questi carri finiscono naturalmente per affannarsi quasi tutto l’anno.

In conclusione, e in un certo senso all’apogeo del nostro percorso, metterei infine il saggio di Enzo M. Spera, “La mascherata delle vacche e dei tori a Tricarico” (pp. 192-277), sapiente immersione in uno dei nostri contesti storicamente più importanti della ricerca folklorica nostrana, in cui fanno la loro comparsa quali protagonisti diretti, fra gli altri, Scotellaro, Levi e de Martino. Qui peraltro, a Tricarico, il nostro percorso attraverso i riti con bovini si esaurisce per forza perché i figuranti carnevaleschi del luogo, pur debitamente individuati come “vacche” e “tori” nell’immaginario locale, hanno completamente perduto qualsiasi connotato bovino naturale, per essere metamorfosati in una sorta di corpo mistico astratto, che di bovino non ha proprio più niente: come se del bue sacro di Loreto Aprutino fossero rimasti solo i nastri, lo specchio, i campanelli, la livrea candida, essendo invece per miracolo scomparso, come in una metamorfosi di Ovidio alla rovescia, qualsiasi caratteristica animale: situazione paradossale che inviterebbe a un’immediata archiviazione quale inspiegabile calembour etnografico, se non la trovassimo ripetuta tale e quale in val di Fassa – alcune maschere, i cosiddetti “marascóns” scampananti, sono onorate dell’incomprensibile appellativo di vaces (“le vacche”) – e anche altrove sull’arco alpino, con altri figuranti biancovestiti, con tanto di nastri, specchietti e campanelli. Lungo il percorso, ci imbattiamo quindi in almeno tre diversi livelli nella manifestazione della simbologia di ispirazione bovina: quella profonda, giocata sul piano degli archetipi dell’iconologia religiosa preistorica, pagana e poi cristiana, quella rituale, cerimoniale o ludica, che si attua con la partecipazione al rito dei bovini stessi, e quella traslata, in cui il bovino si è metamorfosato in qualcosa di altro, in un proprio avatar immateriale e ineffabile. Messi tutti insieme, questi aspetti – carresi, corride, desmontegade, batailles des reines, vaces carnevalesche scampananti e biancovestite, ma verrebbe voglia di metterci a fianco tante altre cose: il mito di Io, quello di Iside e quello d’Europa, le navi vichinghe addobbate fin dall’età del bronzo come vacche transumanti, i copricapo cornuti di celti e di germani, il toro di Mitra con i suoi indecifrabili connotati sacrificali, le vacche sacre dell’India che tanto preoccupavano Marvin Harris … – alludono a un contesto culturale comune che sottende tutti questi fatti, ispirandoli dall’interno, dalle rive dell’Ebro a quelle del Gange, passando naturalmente per Laguiole e Aosta, Loreto Aprutino, Monte Sant’Angelo e Tricarico. Per capire che cosa sia veramente questo contesto, dovremo probabilmente uscire dalle strettoie dell’ermeneutica antropologica oggi corrente, che insiste a voler giocare tutte le sue carte luogo per luogo e caso per caso, per spingerci, magari con un po’ di fantasia, in uno scenario antropologico più generale in cui la complicità cerimoniale di uomo e di bovino allude a qualche cosa di molto più profondo, a una vera e propria simbiosi che in qualche modo affratella da sempre o quasi da sempre le due specie, rendendole debitrici una all’altra non solo di contenuti alimentari e di fraseggi simbolici, ma di una prassi condivisa dello stare al mondo, che determina nel profondo il debito organizzarsi di spazi, proprietà, spostamenti, amministrazione dei foraggi, delle lattazioni, e dei prelievi in funzione specifica, e a titolo propriamente simbiotico, con le esigenze dell’“altro” animale. Il che probabilmente, se pensiamo ai bovini, non è un caso: da che mondo è mondo, l’allevamento e la cura dei bovini viene infatti a sovrapporsi a quella precedente degli ovicaprini e dei suini, proponendosi come qualcosa di più ricco, più importante, più impegnativo, più autorevole e di necessità forse anche più bellicoso. Così, defraudati dell’antico status regale dell’uro primigenio, i bovini sembrano averne cedute volentieri all’uomo le spoglie simboliche, in funzione del costrutto di una cultura che proprio grazie ad essi finisce per diventare più certa e più stabile. Qualcosa in cui è dato forse riconoscere, magari con qualche licenza poetica, un tratto comune non secondario di una qualche indistinta e vagheggiata identità indoeuropea – i semiti della Bibbia, appaiono infatti molto più legati a temi simbolici di derivazione ovicaprina mentre, per citare un altro esempio, gli sciti e gli altri popoli delle steppe lo sono di più al tema preponderante del cavallo… – in un mondo nel quale le categorie etnologiche non sono solo delle più o meno decifrabili metafore esotizzanti, ma i segni specifici di un’interazione più che concreta tra uomo e specie animali, che appartiene da sempre al nostro mondo reale, e che anche attraverso indagini etnologiche di taglio comparativo, sul genere di quelle offerte in questo pregevole Sacer Bos I, può oggi tornare ad apparire significativa per uno sguardo antropologico sul mondo.