Recensione

Claudia Demichelis (a cura di), Padiglione 25. Autogestione in manicomio (1975-1976), Ediesse, Roma, 2017

Laura Faranda

Università di Roma La Sapienza, Dipartimento di Storia Culture Religione, Roma, Italy

Si può rencesire un libro evocando, per cominciare, i ringraziamenti della sua curatrice? Credo di sì, se in quella pagina di gratitudine affiora una cronologia di eventi, di impegno, di passione e di fiducia nei confronti di chi ha reso possibile rigenerare un frammento prezioso di storia della riforma psichiatrica, cogliendo le ragioni di un esercizio critico necessario per un futuro migliore.

Padiglione 25 rappresenta, in effetti, più che un frammento una gemma di memoria storica: tanto il libro quanto il film-documentario che lo accompagna si offrono come i due involucri, le due valve di una conchiglia che racchiude una perla rara. Consapevole della responsabilità di cui si è fatta carico, Claudia Demichelis, non a caso, chiude le sue dense pagine introduttive restituendo un nome e un cognome, una presenza storica a tutti i co-protagonisti di questa coraggiosa avventura – gli infermieri del padiglione 25 dell’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma – ai quali il libro è dedicato. Il loro diario, steso tra il 1° agosto del 1975 e il 1° agosto del 1976, rappresenta del resto il cuore del volume che ne propone una riedizione critica integrale, scandendo il ritmo e il ricordo di un evento che deporta nel presente la microfisica di un manicomio, tra istituzionalizzazione, sofferenza, vite di scarto e miseria psicologica (nella sua più fedele accezione demartiniana).

L’evento che origina il diario è dirompente. Siamo a tre anni dall’approvazione della legge 180 (del 13.5.1978) e il modello basagliano di radicale revisione dell’assistenza psichiatrica, già operativo a Gorizia, comincia a essere sperimentato in diverse raltà italiane: Napoli, Perugia, Città di Castello, Trieste. Con la legge Mariotti (n.431/1968), pur in assenza di modifiche sostanziali all’assetto generale del sistema asiliare, erano già significativamente mutati alcuni aspetti dell’assistenza psichiatrica: Regioni e Province venivano delegate alla vigilanza istituzionale a tutela dei pazienti; si poneva un limite al sovraffollamento degli ospedali; veniva abolita con l’articolo 4 l’iscrizione al casellario giudiziale dei pazienti manicomiali ammessi su richiesta volontaria. Ma soprattutto, a partire dall’inizio degli anni Settanta, muta la figura professionale e la responsabilità giuridica dell’infermiere. Sono anni in cui si inizia a reclamare un diritto alla formazione, a superare l’esclusivo ruolo di custodia per occuparsi di un processo ben più complesso di riabilitazione dei pazienti: «gli infermieri vogliono sapere chi hanno di fronte, chi stanno controllando. Vogliono capire» [p. 30].

Anche nell’ospedale romano Santa Maria della Pietà ­ – che in un primo momento sembra resistere alle ventate innovative che preludono alla riforma – si avviano le prime rivendicazioni sindacali, si promuovono momenti di confronto, assemblee di reparto nelle quali circolano parole nuove come “prevenzione” e “terapia”. Le esperienze di trasformazione di uno dei più grandi manicomi provinciali d’Italia, prevedono ad esempio nel 1974 la deospedalizzazione dei bambini: così il padiglione 90, prima destinato all’accoglienza dei minori “disadattati” (ovvero gli orfani o i figli di padre ignoto), accoglierà il primo corso di avviamento professionale per i pazienti ricoverati che non hanno conseguito la licenza media. Nel padiglione 17, su iniziativa del primario, si organizzano le prime assemblee di reparto nelle quali si introduce un tema di confronto implicitamente rivoluzionario: la relazione con il paziente e il rapporto con le famiglie d’origine, con lo scopo di favorire un’esperienza riabilitativa di reinserimento nell’ambiente di provenienza dei ricoverati [p. 36]. Persistono, ovviamente, i disagi, e persiste l’inquietudine soprattutto di quegli infermieri destinati al padiglione 22 – denominato il bisonte del manicomio – affollato di pazienti “cronici” le cui patologie complesse ed eterogenee invocano nuove strategie e nuovi momenti di formazione professionale.

È in questo clima politico che, «nel corso di un’assemblea tenutasi il 31 luglio del 1975, un gruppo di cinque infermieri – numero che successivamente salirà a quattordici – ottiene dalla direzione il permesso di occupare un reparto chiuso da qualche mese per ristrutturazione: il 25, destinato all’isolamento di pazienti con malattie infettive» [p. 38]. Sono giovani, come ricorda Tommaso Losavio nella sua postfazione, politicizzati e sindacalizzati, con pochi strumenti culturali ma con una grande insofferenza verso le pratiche coercitive e il sovraffollamento del reparto 22 dal quale provengono. I pazienti destinati alla sperimentazione (diciotto, in un primo momento, poi trenta) verranno selezionati dai medici proprio dal padiglione 22, senza troppe valutazioni o cautele preventive.

Nel padiglione 25, il 1° agosto 1975 si avvia così la straordinaria comunità autogestita che dà il titolo al volume. Dismessi i “registri di consegna”, gli infermieri iniziano a redigere un diario giornaliero che non si limita a conteggiare, in entrata e in uscita dal servizio, il numero di pazienti ricevuti in custodia. Il diario diventa uno strumento di riflessione, di comunicazione, di condivisione responsabile del lavoro quotidiano e in ultima istanza di autovalutazione per tutta l’équipe impegnata nella sperimentazione. Registra ogni episodio degno di nota: dalle prime reazioni dei pazienti agli stati d’animo degli infermieri, dai sopralluoghi presso le famiglie ai tentativi di riabilitazione sociale attraverso la ricerca di un lavoro, dalle misure di boicottaggio e di ostruzionismo al sentimento di solitudine, abbandono e sopraffazione. La solitudine non sembra tuttavia scoraggiare, «se non in alcuni momenti di particolare difficoltà, quel gruppetto d’infermieri che continua con determinazione nell’impegno a ricostruire storie, a restituire dignità, ad accompagnare a casa, a cercare un lavoro, a riallacciare rapporti con la famiglia, a riportarli a vedere il mare» [p. 197]. È ancora Losavio a restituirci questa testimonianza di prima mano, nelle ultime pagine del libro, così come nel film documentario che lo vede tra i protagonisti, tra le voci narranti di una memoria da riqualificare. Un documento, il film, che si avvale della regia lucida e appassionata di Massimiliano Carboni e che va recepito come partitura indispensabile per dare “grana” alla voce ancora oggi indignata e dirompente del diario e dei suoi attori.

Nel 1977 una prima edizione del diario degli infermieri viene pubblicata dall’editore Marsilio, a cura di Francesca Molfino: «già nella prima edizione, Francesca Molfino aveva editato il manoscritto ed era riusica a offrire, con lodevole chiarezza, una forma narrabile al diario originale. Quella che viene qui proposta è un’ulteriore rilettura del diario; rispetto all’edizione del 1977 sono state apportate integrazioni ed alcune modifiche di carattere strutturale» [p.43].

Le integrazioni proposte da Claudia Demichelis in questa nuova edizione ci restituiscono anzitutto gli esiti giudiziari della vicenda, che si interrompe tragicamente con la morte di uno dei ricoverati, colpito al capo da un altro paziente durante il riposo pomeridiano e che nella prima stesura venivano tacitati perché era in corso un processo destinato a durare cinque anni. Ci offrono inoltre accuratissime note al testo, che ne legittimano una rilettura più ampia affidata alla ricchezza della letteratura critica richiamata in bibliografia; ma soprattutto ci consentono di deportare il testo in un contesto storico che si nutre delle preziose fonti orali raccolte dalla stessa curatrice nel corso della sua esperienza di formazione dottorale. Dottore di ricerca in etnoantropologia, Claudia ha generato negli anni un archivio della memoria e della storia del Santa Maria della Pietà che ci consente di prolungare il destino etico e politico di un diario nella memoria tangibile e incarnata di tutte le voci raccolte, videoregistrate, catalogate, ordinate e consegnate – in custodia e a tutela della loro qualità scientifica – al laboratorio di antropologia delle immagini e dei suoni «Diego Carpitella» dell’Università di Roma «Sapienza». È un impegno senz’altro propedeutico sia al lavoro di curatela del libro che al riadattamento filmico di Padiglione 25; è una fatica documentaria che preserva dall’oblio altre voci, altri corpi, altre storie derubate di una dignità narrabile. Tanto più per questo le siamo grati di questa restituzione, e tanto più per questo ci sentiamo di sollecitare i lettori del libro a far rivivere le ombre in chiaroscuro di quei corpi e di quelle storie nei non-luoghi istituzionali nei quali si sperimenta, ancora oggi, l’estrema impossibilità di conciliazione col mondo e con se stessi.

Né è casuale che il bel saggio introduttivo al volume scritto da Maria Grazia Giannichedda – presidente della Fondazione Basaglia, che ha creduto e incoraggiato il progetto sin da quando era poco più che un trailer e un’idea – porti il titolo eloquente Padiglione 25, tracce di presente in una storia lontana.