Recensione

Umberto Dante, Via Cascìna 20. L’Aquila, trenta ore di sisma: un diario, Carabba, Lanciano 2017

Laura Faranda

Università di Roma La Sapienza, Dipartimento di Storia Culture Religione, Roma, Italy

La letteratura antropologica sui fenomeni sismici e sui «post-disastri» nell’ultimo decennio è stata generosa: non meno accreditata e assidua di quella sociologica, ha saputo convertire gli spazi inagibili delle macerie in osservatori straordinari di rigenerazione identitaria, in varchi di rimodulazione della fantasia o della resistenza creativa dei cittadini colpiti da un sisma.

Questo libro è però altra cosa. È scritto, è vero, da uno storico sensibile alla storia sociale ed evenemenziale, la cui produzione appare per anni fedele a ceti illetterati, comunità artigiane, emigrazione, storia locale. Ma non si tratta di un libro di storia, e neppure di una restituzione etnografica della percezione sociale di un evento. Per intenderne la fibra occorre scandire il titolo: una via, via Cascìna, e un numero civico, il 20, che situano la sequenza sismica (trenta ore) a L’Aquila e la affidano alla partitura narrativa volutamente autobiografica di un diario. La scossa delle 3.32 del 6 aprile 2009 cessa così di essere soglia di sospensione del dicibile, confine assurdo di un tempo apocalittico che lascia muti i sopravvissuti e convoca alla restituzione gli osservatori. La scossa diventa anzitutto elemento sensoriale scolpito nelle sequenze minute di un corpo in solitudine (il corpo dell’autore) che tenta di decifrarne la mancanza di senso: «Nevica? Non è neve. È intonaco» [p. 23].

Il diario messo in forma da Umberto Dante inizia, non a caso, qualche ora prima del sisma devastante, per consentirci di rientrare a casa con lui, ospiti in via Cascìna 20, dopo una consueta giornata di lavoro: ecco la porta di ingresso dove il cane lo attende nervoso e impaziente, ecco l’angolo del computer sul quale indugia ancora in un lavoro incompiuto, ecco la cucina dove cerca qualcosa da mangiare e poi la sala dove consuma una cena frugale. Luoghi carichi di un tempo domestico, di un calore familiare esposto negli ultimi tempi ai sussulti della vita e a un “brivido materico” che sale dalle fondamenta. Il brivido di una prima scossa si ripete, nel corso della serata, più ruvido e profondo: ma «la gente, beata a issa, si sente sicura» [p. 17]. L’ossimoro di una città che esibisce l’insegna Immota manet risuona vagamente sinistro nella memoria dell’autore, lasciando affiorare ricordi d’infanzia, notti insonni fuori di casa in cui il terremoto finiva per diventare un daimon indecifrabile, che come un nume esigeva il sacrificio di qualche ora di addiaccio. Anche stavolta il sonno infine chiama, e la vita onirica ha la meglio finché «il sogno viene scardinato da un enorme digrignare di denti» [p. 23].

Sono le 3.33: in quel secondo in più che altera il ricordo ufficiale del tragico evento si gioca lo scarto tra una rievocazione fedele al tempo lineare e processuale del terremoto e un mondo sospeso, in cui la testimonianza autobiografica di Dante si consegna anzitutto alla folgorazione dell’attimo, all’efficacia di un tempo sincopato, al silenzio surreale e materiale, perfetto e assoluto. «Un’anziana poco vestita emerge dalla nebbia di calcina. Viva o fantasma che sia, ci chiede dove deve andare» [p. 25]. Subito dopo, voci e volti, suoni lontani e sguardi deformati dalla paura si presentificano nel tempo sospeso del disastro. E poi gli odori penetranti, le esalazioni di metano, gli odori di muri, di case cadute a faccia in avanti, di primavere violate. Sequestrato dall’impeto straniante di una scrittura che sposta su piani inconsueti la concretezza degli eventi, anche il lettore finisce per condividere la visione irrelata e indecente dell’immediatamente dopo; e si lascia irretire in un’etnografia dello spaesamento fedele al gioco prospettico di un tempo che si sottrae alla linearità del continuum e si intreccia con la poetica di un vissuto che preesiste e resiste alla catastrofe.

La co-presenza di Emiliano – il figlio fotografo che nel diario convoca incessantemente l’autore al controllo ostinato del presente – scandisce il testo pagina dopo pagina e lo satura di immagini, con la sua singolare capacità di rendere tangibile la memoria in uno scatto. Le sue foto introducono le sequenze narrative di ciascun capitolo, consegnando la scrittura a una reduplicazione dello sguardo tanto forte quanto insofferente a ogni fissità iconica convenzionale. Ci accompagnano nelle derive angoscianti di spazi, monumenti, case convertite in non-luoghi, ammassi desolanti di macerie in cui prende forma il fantasma del Male, che colpisce alle spalle e deruba della dignità memorabile la facciata di un monumento [p. 28] o della dignità narrabile i corpi abbracciati sotto una coperta di fortuna di due donne anziane sorprese in piazza Duomo il mattino del 6 aprile [p. 20].

Del diario di Umberto Dante, Valerio Petrarca restituisce nella sua densa prefazione le intermittenze e la pedagogia della memoria, le intersezioni tra cronaca e fabula, tra Bene e Male, tra continuum e discretum. E ci segnala come «tutto il testo (proprio come dice l’etimo del termine) si fa tessitura di “frammenti e schegge” di memoria. Connette elementarmente (come facciamo nel lavorio interno con cui proviamo a dare senso alla vita), i fatti piccoli e grandi, individuali e collettivi» [p. 6]. I luoghi della catastrofe si organizzano così come ricordi di un presente immanente, che si consegna a metafore inusuali e che dirotta l’ineluttabilità del dramma nella poetica della forma. A partire dai corpi segnati dal panico, non sempre decifrabili, che consegnano a una visione surreale la compagine somatica della loro apparizione: una signora in pigiama che è scappata di casa e chiede aiuto frastornata; Francesca, l’amica di Emiliano con il viso da attrice ispanica, che si scalda con qualche esercizio di ginnastica; il collega ricercatore, che dà ragguagli sulla Casa dello Studente con uno sguardo vitreo, con gli occhi dilatati e fermi; un anziano che arriva di corsa e animato da una concitazione quasi allegra sale sulle macerie, si fa male, ridiscende e va via, affiancato da una giovane che tenta di frenarlo con la stessa concitazione.

Il cammino per le vie della città distrutta diventa allora una sorta di viaggio dantesco nella teoria di corpi che consentono al protagonista di sfiorare con audacia e ironia struggente altre esistenze, di abbracciare altre solitudini, di smascherare altre sofferenze, di sintonizzarsi con il tempo intenzionale del presente, assecondando quella nostalgia di futuro che, a distanza di sette anni dal terremoto, lo autorizza oggi a sillabare un ipotetico domani. Alla ricerca di «un cammino nuovo, originale, diverso, usando la tenacia eroica della ginestra» [p. 77], il diario di Dante si chiude, non a caso, con i primi cinquantuno versi de La ginestra o il fiore del deserto di Giacomo Leopardi. L’aveva aperto Petrarca, con quattro pagine introduttive di rara finezza, non poteva che concluderlo Leopardi, evocando le “magnifiche sorti e progressive” che autorizzano L’Aquila e i suoi abitanti, scomparsi o sopravvissuti, a riconoscere anche tra le orme segrete delle rovine il desiderio struggente, poetico e vitale di un nuovo risveglio.